Emanuele Severino – Il capitalismo compera la tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.

Emanuele Severino 01
L'identità della follia

L’identità della follia

«Sia nel capitalismo sia nella tecnica lo scopo che si vuole raggiungere è il possesso del mezzo universale, capace cioè di realizzare qualsiasi scopo. I singoli scopi che si possono realizzare col mezzo universale non sono quindi lo scopo ultimo, che è solo la capacità indefinitivamente crescente di realizzarli. Lo scopo cioè è il controllo del mezzo universale.
Mentre il denaro è il mezzo universale ma solo relativamente all’acquisizione di ciò che già esiste […] la tecnica fa crescere indefinitivamente la capacità di realizzare scopi e conduce tale capacità al di sopra della dimensione in cui la crescita del denaro si dà [ … ] Il capitalismo sa che il denaro non può comperare tutto perché non tutto ciò che vorrebbe esiste e appunto per questo il capitalismo compera la tecnica […] Il capitalismo si serve della tecnica per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. Che è costituito dall’incremento del profitto e del denaro».

Emanuele Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007, p. 150.

 


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Friedrich Nietzsche (1844-1900) – La nostra cultura europea è come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere.

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F. Nietzsche, nel 1887, introducendo l’ultima sua opera, pubblicata postuma, annunciava
l’avvento di due secoli di nichilismo:

«Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. lo descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce di decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere».

Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza. Frammenti postumi, Bompiani, Milano 1992, p. 3.

 


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ non è da noi certo invidiato. Tra costoro e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza.

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza.


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Gianmaria Testa (1958-2016) – Povero tempo nostro e poveri questi giorni di magra umanità che passa i giorni e li sfinisce, lascia che torni il vento e con il vento la tempesta, e dentro al vento la stagione di quando tutto appassirà per chi bestemmia le parole.

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Gianmaria Testa, Cover di Prezioso.

 

Povero Tempo nostro

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Povero tempo nostro
povere fatiche
povera la Terra intera
che tutte intere le patisce
povero tempo nostro
e poveri questi giorni
di magra umanità
che passa i giorni e li sfinisce

 

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lascia che torni il vento
e con il vento la tempesta
e fa che non sia per sempre
questo tempo che ci resta

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lascia che torni il vento
e dentro al vento la stagione
di quando tutto appassirà
per chi bestemmia le parole

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lascia che torni il vento
e con il vento la tempesta
e fa che non sia per sempre
il poco tempo che ci resta

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lascia che torni il vento
e dentro al vento la stagione
di quando tutto appassirà
per chi bestemmia le parole

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che tutto appassirà
a chi bestemmia le parole

 

Gianmaria Testa, Povero tempo nostro

*****
***
*

Quasi due anni dopo la morte arriva un disco di inediti di Gianmaria Testa, ‘Prezioso‘. Pensate fra le mura della casa di Castiglione Falletto o di Alba per album futuri o per altri artisti, undici nuove canzoni registrate per lo più in forma di appunti sonori per voce e chitarra, formano un racconto che si mescola a un commiato pieno di affetto.

Paola Farinetti, moglie di Gianmaria, e Roberto Barillari, ingegnere del suono, presentano questo materiale proprio come se stessimo assistendo, accanto a Gianmaria Testa, alla gestazione di un nuovo disco, come se fossimo testimoni e compagni di un lavoro meticoloso, quotidiano, intimo. A partire dal brano che apre il disco, ‘Povero tempo nostro’ i registi Silvia Luzi e Luca Bellino, autori, tra le altre cose, di ‘Il Cratere’, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2017 con grande successo, nonché molto legati a Gianmaria, hanno realizzato un cortometraggio girato al cosiddetto “cimitero delle barche” di Fiumicino che illustra, in immagini e secondo il loro linguaggio artistico, il senso della canzone.


Per ascoltare la musica e la poesia di Gianmaria Testa

Gianmaria Testa nel 2013

Gianmaria Testa nel 2013

Gianmaria Testa, Povero Tempo Nostro

L’Automobile – Paolo Fresu & Gianmaria Testa (live)

Gianmaria Testa – ‘Na stella

Gianmaria Testa – Come l’America

Gianmaria Testa Forse qualcuno domani

Gianmaria Testa – Hotel Supramonte

Gianmaria Testa, DENTRO LA TASCA DI UN QUALUNQUE MATTINO

Le traiettorie delle mongolfiere – Gianmaria Testa

Gianmaria Testa – Il valzer di un giorno

Gianmaria Testa-Lasciami Andare (Nuovo 2011)

Gianmaria Testa – Lele (ottobre 2011)

Gianmaria Testa “Ritals”

Gianmaria Testa – Gli amanti di Roma

Per Accompagnarti – Gianmaria Testa

Gianmaria Testa – Il passo e l’incanto

Gianmaria Testa – Come di pioggia

Gianmaria Testa & Gabriele Mirabassi – Polvere di gesso

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G. Testa, Il sentiero e altre filastrocche

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Gianmaria Testa

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Valerio Berruti

Gianmaria Testa, Il sentiero e altre filastrocche. Disegni di Valerio Berruti.

 

A Riotorto c’è una via così piccolina e stretta
che ci passano soltanto gatti e bimbi in bicicletta
tutti gli altri stanno fuori, morti di curiosità
che vorrebbero sapere quella strada dove va…

La sensibilità di Gianmaria Testa indaga l’assurdo di questo nostro mondo con lo sguardo puro dei bambini. Le figure di Valerio Berruti rappresentano con straordinaria delicatezza lo stupore dei più piccoli.

Tre preziose filastrocche senza età.
data pubblicazione: 1 ottobre 2015
Libri illustrati, pagine: 32. isbn: 9788861459014

Editore Gallucci

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Salvatore A. Bravo – Tempo astratto e tempo emancipato. C’è un tempo rivoluzionario in cui si diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria.

Tempo astratta e tempo emancipato
Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Salvatore A. Bravo

Tempo astratto e tempo emancipato in cui si diventa persona.

Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato

 

Il tempo del capitalismo assoluto è il tempo astratto. La percezione del tempo si fa concreta nella consapevolezza dell’aprirsi al mondo, nel tempo della partecipazione al mondo ed a se stessi: è il tempo vissuto, in cui il fluire si organizza non nella dispersione di sé, ma nel raccoglimento, nel processo di soggettivizzazione attiva. Il tempo diviene, così, dimensione della qualità dialogica e dialettica che accoglie il mondo, le rappresentazioni, i suoi stereotipi per rielaborarli nella creatività.
C’è un tempo rivoluzionario in cui il soggetto, non più individuo, atomo nel mondo al traino delle forze dei modi di produzione, diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. L’individualismo, espressione sostanziale del turbo capitalismo, si caratterizza per la temporalità generica ed astratta: il soggetto non vive il proprio tempo, ma il tempo del modo di produzione, vive al ritmo del dicitur, non osa essere libero. Gli è sconosciuta la dimensione interiore, del conflitto tra la rappresentazione del mondo e l’elaborazione personale e condivisa di un’altra modalità di vivere e rapportarsi al mondo. Il tempo fluido, martellante, fa del soggetto una parte organica del sistema, è il tempo del vuoto silenzio muto, non vi sono parole, ma solo muti silenzi vuoti di senso.
La caverna di Platone non è solo buio ed immagini, è il muto silenzio del tempo che scorre senza la dimensione del simbolico. Il tempo dei dormienti è l’invisibile forma che assume il nichilismo, avvolge, rassicura con un fluire che mentre chiede tutto, svuota il soggetto della sua capacità simbolica. Opporsi a tale modalità di potere – che entra nel corpo vissuto per svuotarlo della sua potenzialità simbolica –, non è facile perché si è portati in una dimensione che vuole ci si sottragga al conflitto, al fine di rendere la vita priva di vita. Si avvelenano le fonti della vita, prosciugandole con la distopia: le merci ed il denaro divengono le divinità tiranniche che promettono «ogni felicità», allontanano così il soggetto da se stesso, destabilizzandolo, ipostatizzando forme di dipendenza mascherate da libertà senza limiti e confini.
Il tempo è così ritagliato all’interno di categorie produttive che adescano con i loro miti. Nell’immediato, il soggetto – rassicurato dall’apparente concretezza del tempo astratto –, è teso con le sue energie verso l’immanente metafisica della merce. Il tempo nella ripetizione sempre uguale, malgrado il ritmo frenetico della produzione e del consumo, rallenta in quanto attimo segnato dalla violenza della coazione a ripetere. La comprensione dello stato presente può accadere in una pluralità di modi: talvolta la verità può delinearsi improvvisa nella lettura di un mito greco.

Il tempo dei dormienti
Aristotele con il mito dei dormienti descrive un piano della condizione umana possibile in ogni epoca:

«Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosta, a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda [secondo quanto alcuni raccontano, tois muthologouménois] dormono presso le tombe degli eroi [in realtà: presso gli eroi, parà tois erosin]: essi infatti uniscono l’”ora” precedente con quello successivo, facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di percezione [dia ten anasthesian], l’intervallo fra i due istanti. Così come, dunque, se l’”ora” non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi sia del tempo nell’intervallo tra i due. Se dunque la convinzione che non esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisibile; mentre invece, quando percepiamo l’”ora” e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è trascorso; è allora evidente che non esiste tempo senza movimento e cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è possibile senza il movimento».[1]

Nel profondo il modo di produzione del capitalismo assoluto ha lo scopo di mutare il tempo/coscienza, in modo da impedire al soggetto la percezione di essere stato determinato. La vita nel capitalismo assoluto, è un unico istante, senza differenze qualitative, vige solo il tempo della scissione individualistica, si presenta nella sua compattezza liquida, deve sottrarre al soggetto il tempo qualitativo, rivoluzionario, per renderlo simile ad un ente che opera per automatismi algoritmici.

Marx ed il comunismo: il tempo emancipato
Il tempo è la posta in gioco nel tempo attuale: la servitù, la condizione di alienazione si deve associare alla dispersione del tempo. Il capitalismo assoluto vorrebbe essere il signore del tempo, e dunque mettere in atto nella storia una nuova creazione, nella quale il tempo è negato, in questa maniera ipostatizza se stesso e pone nella condizione di famuli eterni i suoi servi fedeli e socialmente trasversali.
In Marx tale problema è sicuramente uno dei tratti del suo pensiero rivoluzionario: la scommessa futura per Marx è la possibilità data ad ogni essere umano con il comunismo di vivere il proprio tempo nel simbolico. Tempo rivoluzionario, il tempo del comunismo, perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria. Le potenzialità simboliche portano nel loro grembo la verità eterna di ogni essere umano, ovvero la comunicazione nel segno della reciprocità simbolica. Non a caso Marx, pur non avendo descritto la società comunista, ne ha teorizzato l’elemento essenziale: il tempo liberato dalla sussunzione formale e reale, dalla sottomissione al macchinismo, per essere tempo dell’emancipazione. La praxis rivoluzionaria apre la prospettiva di un orizzonte nel quale si ipotizza l’abolizione di ogni attività esclusiva, e cioè di un’organizzazione della società che

«regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».[2]

Se il tempo del capitalismo è il tempo dei dormienti, dei viventi stranieri a se stessi come alla comunità, il tempo del comunismo è il tempo che libera dalle scissioni, per rendere concreta la natura umana, le sue potenzialità espressive che non possono essere confinate in angusti limiti.

Il tempo che verrà
Il tempo è il luogo della vita, dell’unità, è il grande tema rimosso dalle “sinistre” del sistema. Naturalmente il silenzio sul tempo svela e rileva la realtà nichilistica delle “sinistre” omologate sul tempo dell’azienda. Il futuro si gioca sul senso e sugli usi del tempo: la “sinistra” senza metafisica, non può che schierarsi con il capitale, proprio perché è in assenza di una metafisica, di una visione olistica nella lettura del tempo presente e della storia.

Occorre riaprire il dibattito filosofico e politico sul problema del tempo e della vita: non è altrimenti pensabile riconfigurare il presente in una prospettiva nuova. La sfida a cui occorre rispondere la si può sintetizzare nell’aforisma di Nietzsche che giudica le macchine il mezzo più efficace per eliminare dalla storia la soggettività e formalizzare in modo sostanziale il trionfo dell’uomo mediocre ed adattato:

«La macchina come maestra. – La macchina insegna, attraverso se stessa, l’interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa fornisce il modello dell’organizzazione partitica e della condotta bellica. Non insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare il vantaggio della centralizzazione». [3]

 

La macchina può liberare il tempo dell’essere umano, come prospettato da Marx nel frammento su macchinismo, o renderlo schiavo. Tutto è ancora possibile, malgrado che il silenzio perduri su tale tema.

Salvatore A. Bravo

[1] Aristotele, Fisica, IV, 11, 218 b, II. 23-33 e 219 a, II. 1-2; traduzione di Luigi Ruggiu.

[2] K. Marx, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 24.

[3] F. Nietzsche, Umano troppo Umano, volume II, aforisma 218.

 

 

 


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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


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Rossella Latempa – La scuola fabbrica di Capitale Disumano

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Rossella Latempa

La scuola fabbrica di Capitale Disumano

 

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Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano. L’individuo deve diventare puro investimento di sé, “performer obbligato” costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università – e dei loro “sacerdoti della valutazione”. Il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) è un misto di inchiesta, riflessione teorica, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano. Quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” non è un principio naturale ma un paradosso storico, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe”, nuovo fondamento della cultura contemporanea.

 

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Per introdurre il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) proviamo a partire dal suo rovescio. La metafora del rovesciamento (di senso, di condizioni, di vita) è spesso presente nelle pagine dell’autore, a cominciare dal titolo. Proprio il “capovolgimento nell’opposto” rappresenta lo stato d’animo di “scissione permanente” (p.31) dell’individuo che vive da Capitale Umano. Qualche anno fa, Piero Cipollone e Paolo Sestito, nomi noti a chi segue le vicende politiche scolastiche (ex commissari straordinari INVALSI, oltre che economisti della Banca d’Italia) scrivevano “Il capitale umano, come far fruttare i talenti” (Il Mulino, 2010).

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Un breve saggio “dedicato agli insegnanti” che racconta come debba intendersi oggi l’istruzione in circa 100 pagine, con tanto di dati, indici e grafici. La loro idea è che il sistema educativo “debba essere inteso come Fabbrica di Capitale Umano” (p. 65), essendo quest’ultimo “uno stock di competenze e conoscenze [..] producibili e accumulabili” (p.9) la cui valorizzazione è “strada maestra per avviare le necessarie trasformazioni dell’economia italiana” (p.101).
A quest’immagine – di Scuola come Fabbrica, Insegnanti come commessi e Studenti come apprendisti del Capitale Umano – Ciccarelli contrappone la sua articolata analisi: un misto di inchiesta, riflessione teorica profonda, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano, in perenne alternanza scuola-lavoro. È questa la tesi centrale del libro, il cui intento, dichiarato fin dalla copertina, è provare a rovesciare questa logica tramite una presa di coscienza e di consapevolezza collettive.
Il Capitale Umano, quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” (p. 13), non è un principio naturale ma un paradosso storico, un ossimoro, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe” (p.13), nuovo fondamento della cultura contemporanea. Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano.
Dalla scuola di Chicago, anni 50/60, la logica dell’accumulazione arriva ad inghiottire con voracità “l’essere umano, considerato un bene prodotto da un’autonoma capacità di investimento” (p. 19), fino “alle falde più microscopiche”, “a partire dal Dna” (p.21). Non solo il suo lavoro vivo – la sua forza lavoro – ma le emozioni, i sentimenti, il sonno, le angosce: tutto deve essere messo a valore. L’ individuo deve diventare puro investimento di sé, dunque “performer obbligato”, costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo “dalle istituzioni di certificazione, valutazione e coercizione” (p. 27) dell’istruzione, che devono concorrere a costruire individui all’altezza degli standard di concorrenza globali. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università prima di tutto – e dei loro “sacerdoti della valutazione” (p.29).
Il ruolo dell’educazione è descritto con una cura e una precisione che evidenziano passione e attenzione per il destino dell’istruzione- della scuola in particolare –, tratti non comuni per chi, come l’autore, non sperimenti direttamente la quotidianità e la realtà viva del rapporto insegnante-studente.
È l’istruzione che permette di interiorizzare e formalizzare “l’investimento economico di sé come idea regolatrice della vita” (p. 55). Si va a scuola per introiettare l’arte della competitività e il mito del merito, coltivare la competenza di auto-imprenditorialità fin dalle elementari, perfezionandola lungo il percorso superiore e specializzandola nell’Università. Il lavoro del capitalista umano inizia da subito e non finisce mai: imparare e far fruttare i propri talenti e aggiornare le proprie competenze è un lavorio infinito, come infinito è il life long learning, la “vita in formazione continua”(p.56) a cui allude Ciccarelli. Il ciclo di crescita del capitale è diventato tutt’uno coi cicli scolastici, che insegnano ad investire, ciascuno secondo le capacità personali di accumulazione ed estrazione, nel proprio Capitale Umano.
Un Nuovo Vangelo, oggi, recita che il proprio tornaconto – “benessere”, nella neolingua della learning society – coincide con quello della società tutta. Sebbene ciascuno sia solo, faccia a faccia col proprio destino e i propri traguardi, bisogna credere che la concorrenza – unico bagliore di socialità – assicurerà prodigiosamente la prosperità collettiva. L’intera società apprende: il “principio-scuola” è esteso a tutta la comunità dei cittadini. E per scuola si intende una vera e propria educazione morale: auto-controllo, auto-ottimizzazione, auto-valorizzazione, consolidate passo dopo passo insieme all’autostima e alla resilienza. Si tratta di sviluppare “la mentalità del governo” di se stessi, di imparare a “considerare la vita come un apprendistato”, nell’illusione che l’apprendimento sia finalizzato al bene di individuo e società, mentre nella realtà si veicolano “pratiche necessarie alla riproduzione del sistema” stesso, che rinnova e amplifica differenze e disuguaglianze, sottraendo progressivamente all’individuo “la sua qualità più preziosa: l’autonomia” (p. 62).
La costruzione di questa narrazione, che Ciccarelli definisce un’”imbracatura ortopedica” (p.63) dell’educazione è avvenuta in circa un quarto di secolo, per mano di organizzazioni internazionali come l’OCSE e l’Unione Europea, che hanno progressivamente imbrigliato l’istruzione in “una rete di poteri pubblici e privati, filantropici e medici, imprenditoriali e familiari” che concorrono a sviluppare “modelli di comportamento di individui performanti e competitivi”, “da monitorare, profilare e valutare” (p. 64) secondo quei criteri che l’”agenda delle istituzioni” ha adottato per loro, e che Scuola – prima – e Università – poi – devono assumere e promuovere affinché siano frutto di una disciplina autonomamente accettata “in nome del proprio bene” (pag. 65). Gli studenti devono imparare ad essere i motori del proprio Capitale Umano, accettando il principio della formazione continua finalizzata alla certificazione delle capacità del “saper fare”, “sapere e dover essere”, ossia delle fantomatiche competenze. Sono proprio le competenze ad offrirsi concretamente come punto di contatto – snodo essenziale tra Istruzione e Lavoro. Esse garantiscono l’equivalenza tra produzione culturale (scolastica e accademica) e risorse umane impiegate nella realtà produttiva: sono l’interfaccia porosa tra Scuola, Università, Impresa, Lavoro. Competenze significano “qualifiche”, nel recente Quadro Nazionale[1], adottato sulla scorta delle indicazioni europee: una vera e propria “mappa” che fa corrispondere alle “uscite” dal sistema di istruzione e formazione gli “ingressi” nelle varie filiere della produzione. Non a caso, l’ente addetto al monitoraggio della corrispondenza competenze/qualifiche è l’Anpal, partorito dal Jobs Act e più volte protagonista delle pagine del libro. Competenze significano “comportamenti oggettivabili” (p.143), intesi come performance, di cui “dare conto” (accountability) e da registrare nel curriculum dello studente. Con La Buona Scuola ogni studente avrà finalmente un suo “libretto delle competenze”[2] anche in formato digitale[3], in cui saranno raccolte tutte le competenze sviluppate e misurate nel percorso di istruzione.
La costruzione dell’”avatar dello studente”, della “nuova carta d’identità con cui Stato e mercato governano l’esistenza” potrebbe essere utile alle imprese per “selezionare il profilo più adatto alle loro esigenze”: un profilo “morale di cittadino responsabile e trasparente agli occhi del panottico che tutto conosce” (pag. 156). Tra i dati e le esperienze raccolte nel portfolio studentesco spiccano due tipi di competenze: quelle certificate dall’Istituto di valutazione INVALSI[4] e i percorsi di alternanza scuola lavoro.

È proprio allo strumento dell’alternanza scuola-lavoro che l’autore dedica la parte centrale del testo, analizzando da punti di osservazione differenti uno degli strumenti principali per diventare Capitale Umano:

1) punto di vista storico-sociale.
Attraverso il paragone con l’istituto delle 150 ore degli anni Settanta e in un’inchiesta che raccoglie alcune esperienze a due anni dall’inizio del grande esperimento sociale della Buona Scuola, Ciccarelli smonta il racconto ipocrita dell’alternanza come “strumento gramsciano” di uguaglianza tra borghesi e operai, dimostrando come essa non si sia rivelata altro che un amplificatore di disuguaglianze e di opportunità tra Nord a Sud, centri e periferie, licei e professionali.

2) punto di vista internazionale.
L’autore marca la differenza sostanziale sia normativa che organizzativa con l’alternanza svolta in Germania, patria del modello di apprendistato ispiratore della politica del duo Renzi- Giannini. In Germania l’apprendistato duale è un obbligo – per gli studenti che seguono particolari percorsi di istruzione – che consiste nella specializzazione di un “mestiere”, svolto per il 70% del tempo nelle aziende e dietro pagamento di un salario da “apprendista”.

3) punto di vista giuridico-normativo.
Ciccarelli sottolinea l’opacità e la pericolosità di un dispositivo (quello dell’alternanza) “ai margini del diritto esistente” in cui i giovani sono “sospesi in uno spazio extra -giuridico” (p. 114) che non li rende né pienamente studenti, avendo “il dovere di rispettare le regole di comportamento, funzionali e organizzative delle strutture ospitanti” (p. 134) né pienamente lavoratori /apprendisti in quanto ancora titolari del diritto-dovere di istruzione e formazione, oltre che privi di un contratto di lavoro e di salario.

Emerge così la natura “vera” dell’alternanza, strumento di trasformazione delle soggettività e del paesaggio educativo:

  1. dispositivo di adattamento ed educazione morale, attraverso il quale far entrare gli studenti a contatto “con le storie, le idiosincrasie, i desideri del mondo degli adulti”, nella società in cui vige il primato culturale dell’impresa: in fondo è questo” l’oggetto del loro apprendimento” (p.115);
  2. dispositivo di destrutturazione dell’organizzazione, delle metodologie didattiche e della relazione insegnante/studente. L’alternanza enfatizza ed introduce surrettiziamente un modello di didattica “ispirata a un saper fare e ad un imparare facendo, trasformando l’insegnamento in un imparare lavorando”. Un nuovo approccio al sapere e allo studio: di tipo funzionale ed operazionale-pragmatico, basato sulle qualità di “intraprendenza, capacità di lavorare in gruppo, auto-efficacia, saper prendere decisioni” (p. 136). Un “soluzionismo” chiamato in base alla moda del momento problem solving o pensiero computazionale, con cui insegnare alla futura forza lavoro a svolgere compiti “quantificabili [..]e misurabili in maniera oggettiva” (p. 144);
  3. strumento di ridefinizione dello status giuridico dell’insegnante: controllore-controllato, misuratore-misurato delle performance degli studenti, quando non tutor interno dei percorsi progettati. Una sorta di consulente-certificatore da affiancare eventualmente con tutor territoriali dell’Anpal, “professionisti esterni il cui compito è vegliare sul funzionamento e la qualità dei percorsi di studio e lavoro” (p. 159), secondo i recenti protocolli di intesa Anpal – Miur;
  4. dispositivo di allineamento (matching), ennesimo intervento di politica attiva del lavoro. L’alternanza, insieme alle varie tipologie di sussidi condizionati e strumenti di flexsicurity, concorre a mettere in corrispondenza il sistema di domanda e offerta. È “un esercizio di adeguamento all’offerta occasionale” (p.76), un’esperienza immersiva del mondo della precarietà e dell’occupabilità, ossia della capacità “di transitare da un’occupazione ad un’altra” (p.149).

Dal quadro tratteggiato dall’autore – riportato solo in parte- emerge con chiarezza che quella del Capitale Umano è ben più di una semplice teoria economica. Piuttosto si tratta di “un rapporto sociale di produzione, basato sulla subordinazione politica e morale” (p. 32): un congegno antropotecnico con cui fabbricare nuove figure sociali e ridefinire lo status della cittadinanza. L’homo competens (p.143) è cittadino solo se lavora e assolve l’obbligo di formarsi, attivarsi e ri-attivarsi perennemente, nell’attraversamento di un mercato del lavoro dissestato e destrutturato da 30 anni di interventi e riforme. Nella società-scuola della formazione continua e della “piena occupazione precaria” (pag. 73), il senso dell’istruzione pubblica, dall’infanzia all’Università, cambia: da funzione-istituzione votata all’interesse generale ad investimento del singolo, impegnato nella competizione di tutti contro tutti.

Il libro, che fin dalla soglia si definisce “esercizio etico di presa di distanza” è disseminato un po’ ovunque di esortazioni alla liberazione. Tuttavia, l’Orizzonte che l’autore vuole offrirci emerge nel capitolo più poetico, l’ultimo: un’ode alla “potenza degli studenti” (p. 205) e – in qualche modo – all’energia e alla vita. Essere studenti, ci ricorda Ciccarelli, significa agire e vivere sottratti dalla logica dell’utilità e della produttività. Una condizione unica nella vita dell’uomo, in cui tutto è ancora possibile, tutto è pensabile e in cui si può “realmente sperimentare la potenza di cui [tutti] disponiamo”. Questo stato di singolare bellezza, spazio vuoto dell’immaginazione, andrebbe “curato, sviluppato e celebrato”, reso comune e disponibile a chiunque non possegga “tempo liberato” (Scuola come scholè, otium) per ragioni di nascita, di censo o di ruolo. Uno stato la cui utilità sta nell’esperienza stessa della sospensione: quell’ impiego libero del tempo per buono o cattivo, produttivo o improduttivo, perso o guadagnato che sia. Un tempo al di fuori dei rapporti familiari e delle regole di condotta di provenienza, lontano dagli obblighi sociali, in cui creare e ricreare il proprio mondo. Cosa possibile “quando conoscenza e pratiche sono lasciate libere di darsi la propria regola” e quando si è “a proprio agio” (p.216) con se stessi e gli altri.

L’autore ipotizza uno strumento concreto per affermare un’idea di Scuola Nuova e una Nuova soggettività: il reddito agli studenti, individuale e incondizionato. Un mezzo a partire dal quale neutralizzare il congegno civilizzatore del Capitale Umano riconoscendo una condizione collettiva: quella di forza lavoro, potenza vitale che ha pieno diritto – dapprima – al tempo liberato in quanto studente e – poi – all’esistenza e alla dignità, in quanto uomo. Un reddito universale.

Le pagine di Ciccarelli ci consegnano un’energia e un impulso ad alzare lo sguardo e provare a vincere quello che sembra un destino inevitabile, ma che è solo frutto della Storia: non una condanna, ma presente transitorio in un futuro imponderabile (“la possibilità di un’emancipazione è immanente alla vita”, pag. 174). L’invito è a svuotare il Capitale Umano che siamo diventati, liberandolo dai nostri corpi con le loro fibre e dalle nostre menti con le loro sinapsi. Un invito a riscoprire la nostra potenza, amplificata da una condizione che riguarda tutti: studenti, insegnanti, lavoratori, abitanti di questa Terra.

 

Rossella Latempa

 

Il saggio è già stato pubblicato su «Sinistrainrete» del 24-01-2019

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Note

[1] http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/01/25/18A00411/sg .

[2] Il commissario europeo all’Educazione E. Cresson ne auspicava uno, a superamento del già allora inattuale “titolo di studio”, nel lontano Libro Bianco del 1996 definendolo “tessera personale delle competenze”, vedi http://www.mydf.it/DOC_IRASE/librobianco_Cresson.pdf pag. 11.

[3] L’autore ci ricorda che è in corso la strutturazione del Portale Unico della Scuola in cui, sotto la tutela del Garante della privacy, rendere accessibili i profili di tutti gli studenti.

[4] Matematica, italiano e inglese.


Rossella Latempa e Giovanni Carosotti | Appello per la scuola pubblica – Torino 9-10 Giugno 2018

Convegno: “Aprire le porte: creazione sociale e pedagogica del mercato”.

 L’insegnante capovolto: anatomia del suo successo

Di percorsi abbreviati, alunni competenti e insegnanti efficaci. Cosa significa educare oggi?


 

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Koinè – «Per una scuola vera e buona». La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera. La scuola pietrificata di oggi disconosce la questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento. Bene è tutto ciò che si prende cura del fondamento, cioè dell’uomo.


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Piera De Piano – Per una definizione del tempo in Aristotele. Il libro di Luigi Ruggiu «Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo»

Piera De Piano 01

Tardoantichi

Koinonia, 42, 2018

KOINΩNIA, 42, 2018

 

Coperta 283

Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino

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Recensione al libro di Luigi Ruggiu, Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2017.

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Nel 1970 Luigi Ruggiu, professore emerito di Storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dava alle stampe un’imponente monografia su Aristotele e la concezione del tempo di cui il volume qui recensito rappresenta una ristampa riveduta e corretta, con un aggiornamento bibliografico posto in appendice. A quella pubblicazione seguirono, dello stesso Ruggiu, una monografia interamente dedicata a Parmenide (1975) e, un ventennio dopo, la traduzione e il commento della Fisica di Aristotele (1995). Sono stati proprio questi studi, come dichiara l’Autore stesso, a trasformare negli anni il suo orientamento teoretico e ad allontanarlo da quella che era stata la sua «linea maestra», e cioè la prospettiva nichilista dell’interpretazione del testo aristotelico, prospettiva manifestamente dichiarata nel sottotitolo del volume ed ereditata direttamente da Emanuele Severino e dal suo saggio Ritornare a Parmenide del 1964. Tuttavia, la necessità di rendere fruibile le sue ancora stimolanti interpretazioni del testo aristotelico hanno convinto l’Autore a ristampare l’opera, diventata ormai introvabile, rinunciando ad una nuova edizione che avrebbe significato, ammette Ruggiu, riscrivere completamente la terza parte del volume e rivedere stilisticamente le prime due (pp. VII-X).

Tre, dunque, sono le parti che compongono la monografia: le prime due (La concezione del tempo e dell’istante e Coscienza e autocoscienza in relazione all’essere) sono dedicate più propriamente alle pagine aristoteliche del quarto libro della Fisica. La terza e ultima parte (Il tempo come fondamento della determinazione del senso dell’essere), invece, ha natura più speculativa e manifesta più evidentemente l’orientamento teoretico dell’autore, orientamento da subito dichiarato proprio da Emanuele Severino, che firma la prefazione al volume: il senso autentico dell’essere è quello di opporsi al nulla e quindi ogni filosofia che ammetta che l’essere possa non essere, cioè essere nulla, deve dirsi nichilistica; il primo filosofo ad aver teorizzato i tratti fondamentali della nientità dell’ente sarebbe stato – secondo Ruggiu – proprio Aristotele, affermando che è necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è (pp. 5-7). Il luogo proprio nel quale si realizzerebbe tale nientificazione dell’ente, secondo Ruggiu, è quello dell’analisi aristotelica del concetto di tempo, ed è illuminando questo snodo teorico che le quasi cinquecento pagine del volume acquistano senso e profondità.

Una difficoltà di queste pagine è legata alla scrittura dell’Autore, il quale non sempre distingue in modo chiaro la citazione del testo dall’interpretazione di esso. Sebbene l’aspetto più propriamente speculativo si sviluppi, infatti, nella terza parte del volume, fin da subito si ha l’impressione che l’esito dell’interpretazione condizioni troppo, fin dal principio, la lettura della pagina aristotelica. Considerato il valore d’indagine che conservano le prime due parti, ancora di indubbia utilità per il lettore moderno, su queste, e in particolar modo sulla prima, si concentreranno le note che seguono.

La problematicità della riflessione sul tempo proposta da Aristotele sta nel fatto che essa si inserisce pur sempre in un’ontologia «che determina il significato dell’essere sulla base della presenza, anche se quest’ultima può essere interpretata in diversi modi […]. Se il tempo viene ad essere sostanzializzato e considerato come disteso in linea retta nello spazio, passato e futuro o sono ricondotti al nulla oppure devono identificarsi con il presente» (p. 28). Se l’essere esiste solo nella presenza, e quindi nello spazio, come può esistere il tempo se esso ora è passato, ora è futuro?

Una prima soluzione dell’aporia si trova nel ricondurre l’ontologia del tempo a quella di una qualsiasi unità il cui essere è un durare. In tal senso si rende molto perspicua l’analogia tra la natura del tempo in quanto durata e la melodia: il nulla del passato e il nulla del futuro non sono un non-essere in senso assoluto; essi sono un niente di ora, dunque un «determinato nulla», non l’assoluta privazione dell’essere. Il fenomeno più facilmente percepibile in tal senso, secondo Ruggiu, è proprio quello della melodia: questa non può essere còlta semplicemente come composizione di una pluralità di suoni, ma come un tutto di cui fanno parte non solo il suono presente, ma anche quello passato; anzi senza quest’ultimo la melodia non sarebbe nemmeno più una melodia, risultando invece solo una serie di suoni irrelati l’uno rispetto all’altro (p. 30). La fisicizzazione del tempo e un’ontologia che riduce l’essere alla presenza portano a due conseguenze: o il passato e il futuro si possono pensare come frutto di semplice immaginazione, oppure il tempo si può pensare come un tutto che può legittimamente comprendere in sé parti riconducibili al non essere (p. 32).

Una seconda soluzione dell’aporia fa riferimento alla coscienza (è con questo termine che Ruggiu traduce il greco ψυχή). Ciò che si muove nel tempo, e quindi il non essere del passato e del futuro, si salva perché a esistere e non esistere non è – in questa prospettiva – il contenuto, ma la percezione del contenuto che si ha nella coscienza. Tale soluzione – si chiede però Ruggiu – riesce a tenere completamente lontano il tempo dal nulla? È a partire da questa domanda che lo studioso interroga il testo aristotelico soffermandosi sulla relazione tra tempo e movimento. Tempo e movimento sono fortemente intrecciati. La rappresentazione che ne abbiamo è che non esista tempo senza movimento né viceversa. Ma Aristotele dimostra anche come essi siano assolutamente distinti e separati. Ciò che è legato al movimento è piuttosto il tempo inteso in senso matematico, come unità di misura del prima e del dopo, ma non il tempo inteso in senso ontologico e metafisico. Ruolo importante in questa distinzione è quello rivestito, ancora una volta, dall’anima, che diventa così il ὑποκείμενον in senso primario, perché il fondamento in senso secondario è il contenuto della coscienza. Non esiste mutamento se non si ha coscienza del contenuto che muta e solo la coscienza consente di cogliere l’unità del flusso. Non esiste un tempo oggettivo. «Senza la presenza del mutamento nella coscienza, non si dà tempo, in quanto la presenza permane immutata e quindi, mancando il divenire dei contenuti della presenza, non può nemmeno esservi una percezione del tempo, che si costituisce come percezione di un flusso, cioè di un passato, dell’intervallo che intercorre tra passato e presente, del distinguersi vicendevole di questi diversi momenti» (p. 49). Tempo e movimento non s’identificano, ma non si dà tempo senza movimento (phys. 218b9 – 219a2). Il tempo è qualcosa del movimento: è quando percepiamo un ente che muta che percepiamo la successione insita nel divenire dell’ente, e quindi il tempo.

Accanto all’analisi testuale, Ruggiu non manca di discutere una ricca bibliografia critica. Sulla questione del rapporto tra tempo e movimento, per esempio, lo studioso prende le distanze tanto da Hamelin (Aristote, Physique II, traduction et commentaire, Paris 1931), che affronta sempre la questione in termini ontologici, quanto da Moreau (L’espace et le temps selon Aristote, Padova 1965), sostenitore invece di una prospettiva più precisamente psicologica, spostando invece la questione su un piano che egli definisce fenomenologico.

Il tempo non è una sostanza, cioè un τόδε τι, ma è un πάθος o una ἕξις del movimento (phys. 8, 1, 251b28; 4, 14, 223a 18). Ciò non significa però che il tempo sia una determinazione del movimento e che quindi esista in funzione di esso. Il tempo e il movimento hanno qualcosa in comune e questo qualcosa in comune è il τόδε τι, il ὑποκείμενον, il sostrato. Chiave di volta dell’interpretazione di questo nodo teorico è l’inserimento nel discorso del concetto di continuo come costitutivo di spazio, tempo e divenire. Il prima e il dopo (πρότερον καὶ ὕστερον) vengono evidentemente definiti in base a qualcosa che funge da principio, e quindi il punto nello spazio, l’istante nel tempo, il τόδε τι o τὸ κινούμενον nell’ente in movimento (cfr. Arist., met. 5, 11, 1018b 10). C’è qualcosa che ritorna ogni volta che ci si avvicina alla definizione ultima di tempo, sia quando si è dovuto ammettere che esso deve comunque in un certo qual modo sganciarsi dalla necessità di essere sempre qualcosa, sia quando ci si è avvicinati alla comprensione del divenire che è nel movimento. Questo qualcosa è la continuità esistente tra identico e differente, l’unità che esiste tra le parti e il tutto. Il tempo ha a che fare con ciò che sta a metà, che tiene unito ciò che è separato, che rende simili le cose dissimili. Ruggiu si sofferma molto su questa idea e costruisce di essa una lettura davvero stimolante, soprattutto considerando la temperie culturale in cui essa è stata formulata. Il divenire di un ente implica anche il permanere di quell’ente. Un soggetto che diviene, che muta, deve pur sempre conservare qualcosa, deve pur sempre rimanere, in relazione a qualcosa, identico a se stesso; altrimenti non ci sarebbe un divenire di quell’ente; non ci si accorgerebbe di un ente che muta, se di quell’ente che muta non permanesse qualcosa che lo rende riconoscibile in quanto «quell’ente che muta». Ecco perché il tempo è una successione, una durata, è la relazione anteriore-posteriore, πρότερον καὶ ὕστερον. Evidentemente bisogna che ci sia un principio, un punto di riferimento rispetto al quale far esistere il prima e il dopo. L’istante è il μεταξύ di questa durata, è il principio dell’anteriore e del posteriore e a questo punto riacquista la centralità del suo ruolo la coscienza: solo la coscienza può far sì che il divenire dell’ente sia percepito come tale e cioè come un permanere dell’ente che muta, che contiene in sé quel τόδε τι che lo identifica e che rimane uguale a se stesso nel mutamento. «La coscienza è la dimensione in cui l’ente nel suo passare permane, come memoria di ciò che non compare più nell’intramondano e come attesa di ciò che non è ancora fenomenologicamente comparso come ente intramondano» (p. 90). La coscienza quindi non è solo ratio cognoscendi del tempo ma anche sua ratio essendi: solo la coscienza può sapersi come identica e differente, può porre come identici e differenti i diversi contenuti della presenza.

Al di fuori della coscienza, diversità e identità sono senza significato. Prima e dopo esistono solo in quanto relazione della coscienza col contenuto fenomenologicamente presente: «è l’identità dell’autocoscienza che rivela il mutare delle determinazioni del τόδε τι e parallelamente le dimensioni del tempo in cui tale divenire si manifesta» (p. 91). A questo punto Ruggiu può arrivare alla definizione aristotelica del tempo quale:  ριθμὸς κινήσεως κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον (phys. 4, 11, 219b 1), «determinazione dell’anteriore-posteriore del divenire». Tale definizione in qualche modo compendia tutti gli elementi emersi nei due capitoli precedenti: il divenire, lo spazio incluso nel divenire, il rapporto di anteriore-posteriore, la coscienza come fondamento della determinazione (numero) del divenire nei suoi momenti costitutivi, il πρότερον e il ὕστερον.

Il terzo capitolo è allora dedicato alla concezione del tempo quale numero. Due sono le interpretazioni correnti di tale definizione: da una parte quella epistemologico-matematica, sostenuta tra gli altri da Moreau (op. cit.) e Guthrie (A History of Philosophy, 1962), che intende  ριθμός come numero puro e quindi pensa al tempo come a una determinata unità di misura; dall’altra quella ontologica, secondo la quale con il concetto di numero attribuito al tempo Aristotele intenderebbe affermare l’atto del porre in rapporto le diverse fasi del movimento, proprio dell’operare dell’anima. Se la prima, secondo Ruggiu, riduce arbitrariamente il numero a un’unità di misura astratta, la seconda, che ha in Hamelin (Le système d’Aristote, 1931) uno dei suoi principali esponenti, ha portato l’attenzione sulla natura relazionale del numero, per cui il numero è sempre numero di qualcosa, predicato di qualcosa, e sulla funzione numerante dell’anima. Una posizione intermedia è quella di Wieland (Die aristotelische Physik, 1960), autore di una interpretazione di «tipo operativo», come la definisce Ruggiu: il tempo non è un principio ontologico del reale, ma il modo o lo strumento con cui l’anima si rapporta al divenire. Nel suo rapportarsi al divenire l’anima ha bisogno di unità di misura, che individua nei moti della sfera celeste.

L’obiettivo di Ruggiu è invece mostrare come il numero svolga nell’anima la funzione teoretica di ricongiungimento del molteplice al tutto, uno e continuo che forma la realtà del tempo. Il numero non ha alcun significato matematico; esso è numero di cose e ha come oggetto un continuo successivo. Tale conclusione è ciò che più tiene legato l’Autore, per sua stessa ammissione, alle conclusioni del suo scritto di anni addietro. È proprio la considerazione del movimento in successione la chiave di volta dell’interpretazione di Ruggiu. Il numero è lo strumento con cui il molteplice viene unificato. Ciò è vero in qualsiasi numerazione degli enti; qual è però la peculiarità della numerazione rispetto al tempo? Mentre nel molteplice che coesiste nello spazio la relazione che introduce il numero non ha un senso e una direzione determinati, per cui il qui può essere pensato come il colà e viceversa, nel caso del molteplice successivo la direzione deve essere conservata nella relazione di separazione e di connessione che il numero introduce. Il numero matematico è la relazione del molteplice all’uno ma non determina se questo sia un molteplice di coesistenti o un molteplice di successivi. L’inserimento del numero nella definizione del tempo è importante perché è proprio il numero a portare con sé la presenza dell’anima: il numero per Aristotele esiste solo in relazione alle cose di cui è numero e in relazione all’anima che numera. Conoscere per l’anima è attualizzare, cioè porre ogni contenuto nell’attività della presenza della coscienza. Quando la coscienza si relaziona a un contenuto che diviene, a un ente che si offre come continuamente altro da sé, allora essa deve numerare una successione. Momento fondamentale di tale successione è l’esser-ora, l’istante, a cui Ruggiu dedica non poche interessanti riflessioni, nel quarto capitolo di questa prima parte. L’istante è privo di sostanza, non è un τόδε τι, dal momento che esso è numero ed è, come il tempo, sempre predicato di qualcosa. Vi è inoltre una stretta relazione, anzi una interdipendenza, tra tempo e istante, per cui l’uno esiste solo se esiste l’altro: Φανερὸν δὲ καὶ ὅτι εἴτε χρόνος μὴ εἴη, τὸ νῦν οὐκ ἂν εἴη, εἴτε τὸ νῦν μὴ εἴη, χρόνος οὐκ ἂν εἴη (phys. 4, 11, 219 b 33). Non è possibile considerare, alla maniera zenoniana, il tempo come una molteplicità di istanti indivisibili, configurati come unità minime di tempo. Ciò presupporrebbe una priorità ontologica dell’istante rispetto al tempo, concepito come da questo indipendente, ma anche, paradossalmente, a fondamento della concettualizzazione di esso. Ne consegue la definizione dell’istante non più come parte del tempo ma come suo limite. In quanto limite, l’istante è presente nella realtà temporale solamente in modo potenziale. «Tale potenzialità può attuarsi solo per opera dell’atto astrattivo della coscienza che, determinando l’esser ora dell’ente mosso, distingue nel tutto uno continuo della successione del mobile, un momento temporale – l’istante – che non è realtà per sé stante, ma emerge come distinto dal tempo per il tramite dell’atto di determinazione della coscienza» (p. 138). La natura dell’istante è una natura aporetica, in quanto esso è identico e diverso al tempo stesso. Rispetto al suo «esser-ora», l’istante è sempre in atto, non si altera; ciò che varia è il contenuto di cui l’«esser-ora» si predica e quindi la rappresentazione che ne ha l’anima, la quale non percepisce soltanto il variare del contenuto, ma anche il variare continuo del νῦν che si predica nella successione del prima e del dopo e quindi dei momenti-limite del mobile nel suo divenire. Nell’istante ci sono, per così dire, un momento di identità e permanenza e un momento di differenza e variazione: il molteplice della variazione, nell’istante, corrisponde al variare delle determinazioni che ineriscono al mobile nel divenire, ma i diversi modi della variazione ineriscono all’unità e permanenza dell’esser-ora: «v’è quindi un unico istante che si succede e che si manifesta come presente, passato e futuro» (p. 189). In quanto l’istante divide, cioè in quanto si determina come inizio e fine delle determinazioni dell’essere mosso, esso è sempre in potenza; in quanto esso unifica, invece, è sempre in atto.

La seconda parte del libro è interamente dedicata al tema del rapporto tra tempo e ψυχή, in realtà già protagonista nelle pagine precedenti. Qui l’analisi prende avvio dalla dichiarazione aristotelica secondo la quale dal momento che niente può numerare se non la coscienza (ψυχή), e di essa l’intelletto (νοῦς), e visto che il tempo è propriamente il numero dell’anteriore e posteriore del divenire, allora non può esistere tempo se non esiste la coscienza (cfr. phys. 223 a 25-29).

Non è possibile affrontare qui dettagliatamente tutti gli approfondimenti che Ruggiu opera sul testo aristotelico; basterà dar conto brevemente delle discussioni condotte dall’Autore sulle diverse interpretazioni critiche di τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος (cfr. phys. 223a 27), che Aristotele ammette come esistente anche indipendentemente dalla coscienza. Lo studioso dimostra come tale espressione non si riferisca a una parte del tempo, ma al sostrato del tempo, al contenuto di cui il tempo è numero e cioè al divenire, oggetto di numerazione. Ciò che Ruggiu traduce come sostrato del tempo (τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος) è dunque ciò che deve essere determinato come tempo, ma non è per sé tempo. Perché quell’indeterminato sia determinato come tempo è necessario che esso si manifesti all’anima e che quindi venga numerato; senza la coscienza, che è la sola a svolgere l’attività numerante, non c’è tempo, c’è solo divenire. Tuttavia, Aristotele ammette che questo sostrato esiste al di fuori della coscienza perché il divenire non dipende ontologicamente dalla coscienza, esiste indipendentemente da essa, da essa non è creato, sebbene allo stesso tempo dipenda da essa perché in essa si manifesta: «la coscienza è quindi manifestativa, non tetica» conclude Ruggiu a p. 219. Definite tali premesse, Ruggiu prosegue dimostrando come la coscienza temporalizzi il divenire attraverso la sensibilità, tanto da precisare la natura del tempo come struttura della sensibilità, e anzi, più potentemente, come struttura del senso comune (κοινὴ αἴσθησις: p. 258). «Non è sulla base del senso dell’essere che viene a strutturarsi il significato del tempo ma, al contrario, è in base al tempo che si delinea lo stesso essere dell’ente» (p. 285): questo l’assunto di base della terza parte del libro. L’essere per eccellenza, l’ὄντως ὄν, spiega Ruggiu, è l’essere che trascende il tempo, che si sgancia dal processo di successione e si afferma dunque come assoluta permanenza. Tuttavia l’ente in quanto presente si lega al tempo, alla necessità di essere ora e non poter non essere ora, e, relazionandosi al tempo, finisce per porsi come momento del divenire. Ciò manifesta il legame tra il tempo e il nulla, dal momento che il divenire è «passaggio dal non-essere all’essere o dall’essere al nonessere» (p. 284). Su tale posizione Ruggiu in realtà ritornava già nella seconda edizione della sua traduzione della Fisica (2007), parlando del divenire come essere e riprendendo l’analisi del significato del non essere in Aristotele. Potenza e atto rappresentano per lo studioso uno dei molteplici significati dell’essere che egli passa in rassegna nel séguito del capitolo: l’essere come categoria, l’essere come accidente, l’essere nel significato di vero e falso e l’essere, appunto, come atto e potenza. Definito il significato strutturale che il tempo riveste nella determinazione del senso dell’essere, Ruggiu si occupa dell’analisi aristotelica del concetto di «essere nel tempo» (pp. 335-352) leggendo le pagine di phys. 4, 12, 220b 32-222a 10, da cui risulta che l’essere è significante non come non-essere nulla, ma come «perdurare nella presenza»: la temporalità diventa senso dell’essere. Ciò che è degno di nota è che tale analisi pone definitivamente in crisi ogni analisi del tempo di tipo epistemologico-matematico che non metta invece in relazione la concezione aristotelica del tempo con la dimensione ontologica delle cose.

È impossibile ripercorrere nel dettaglio l’intera analisi di quest’ultima parte dell’opera, che invece veniva sviscerata nella bella recensione di Enrico Berti («Una recente indagine sul rapporto tra essere e tempo in Aristotele», in Rivista di filosofia neo-scolastica, I-II, 1971, pp. 152-163), che, senza cedere a un tono troppo polemico, non esitò a confrontarsi direttamente su spinose questioni interpretative al centro del dibattito ontologico su cui lo studioso era chiamato in causa dallo stesso Autore. Considerando che molte delle conclusioni qui prospettate sono state superate da Ruggiu, come da lui stesso dichiarato fin dalla premessa, basti presentare in questa sede l’esito dell’argomentazione, che configura una dettagliata analisi del principio di non contraddizione, passaggio obbligato della riflessione ontologica, principio della scienza dell’ente in quanto ente. Esso, commenta Ruggiu, è legge dell’esperienza e in quanto tale non può essere posto in antitesi con nulla che appartenga a quella totalità, che è appunto l’orizzonte ontologico in cui quel principio vive e in relazione al quale esso ha significato. Pertanto, se la totalità entra in conflitto con l’esperienza, essa entrerà in conflitto anche con il principio, o, se il principio viene negato, entrerà in crisi anche la totalità dell’esperienza.

È così che si conclude questa voluminosa trattazione di uno degli argomenti più avvincenti della filosofia aristotelica e in generale del pensiero occidentale, qual è quello del tempo e della sua relazione con l’individuo e con le cose, che tanto rilievo assumerà poi nel pensiero tardoantico e cristiano (si pensi ad Agostino). È doveroso segnalare che, nonostante la presenza di numerosi refusi che, per la consistenza della loro frequenza, finiscono, a volte, per mettere a disagio il lettore, questa di Ruggiu è un’opera che conserva un’indiscutibile utilità e molti spunti di riflessione, soprattutto nella parte dedicata alla lettura del testo aristotelico. Notevoli sono anche la ricca bibliografia, aggiornata con testi pubblicati sull’argomento dopo il 1970, e gli indici, tematico e dei nomi, che corredano il volume. Nelle prime pagine, infine, dopo una sintetica presentazione dell’autore, si offre al lettore una riproduzione della copertina e del frontespizio del volume originario.

 

PIERA DE PIANO

 

 

 


Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele

Saggio sulle origini del nichilismo.

Prefazione di Emanuele Severino

ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170×240 mm., Euro 35

indicepresentazioneautoresintesi

 

 

Aion Ostia nuova

Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini.
Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.

 

L’attualità di un testo si riconosce dalla centralità del tema, dalla novità nell’impostazione, dalla fecondità dei risultati. Non si tratta solo della conoscenza storica dell’autore, Aristotele, ma della penetrazione di una ricerca resa nuovamente disponibile per la sua capacità di interloquire con i problemi di metodo e di merito. Anche sul versante non direttamente filosofico della scienza, in particolare della fisica moderna e contemporanea. Il tempo analizzato nella Fisica è stato indagato iuxta propria principia. È quindi capace di sprigionare tutta la forza sintetica di penetrazione di un tema così impenetrabile e sfuggente.

«La parte del testo relativa alla trattazione del tempo si presenta come lo svolgimento sistematico più profondo ed articolato della tesi per cui il tempo viene costituito dall’anima attraverso l’atto di numerazione che esercita in rapporto al divenire, ed è quindi necessariamente relato ad essa. Questa grande sintesi operata da Ruggiu, che ricomprende tutti i contributi precedenti sulla definizione del tempo secondo Aristotele costituisce, sia per il rigore dell’argomentare che per la consistenza dell’impianto teoretico che assume come presupposto un confronto critico indispensabile per ogni interpretazione che da essa si differenzia; in questo senso rappresenta, insieme al testo di Conen, l’interpretazione attuale più interessante della dottrina aristotelica del tempo» (A. Giordani).

Il filo nascosto della indagine aristotelica è costituito dal ruolo che l’anima dell’uomo riveste nella physis. Attraverso una magistrale fenomenologia della coscienza del tempo, nella quale si mostra l’unità inscindibile di tempo e movimento, Aristotele mostra l’irriducibilità del tempo al movimento, ma anche la necessità del suo rapporto. Il “numero” che quindi compare nella definizione del tempo, non è il numero astratto, il numero matematico, ma il numero concreto, il numero numerato. Attraverso un’analisi penetrante dell’ora (νῦν) lo Stagirita mostra la necessità dell’identità e permanenza e insieme la struttura del differenza che è propria dell’istante e quindi del tempo. È l’istante che costituisce l’unità e la continuità del tempo, ma insieme anche la sua distinzione. Il tempo non si dà senza l’anima, cioè senza la chiamata in causa della memoria, della presenza e dell’attesa.

Nella contemporaneità, a lungo questa problematica è parsa monopolio della fisica, con le sue esplorazioni nel mondo dell’infinitamente piccolo e della fisica dei quanti. Ma qui il tempo con i suoi caratteri di irreversibilità e di ekstaticità scompare. La fisica conclude infine che il tempo è nulla, il prodotto di una semplice illusione, come ebbe a dire Einstein in una celebre lettera inviata ai familiari del suo amico Michele Besso: «Per tutti coloro che credono nella fisica, la divisione tra presente, passato e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione».

Oggi tuttavia assistiamo ad un ribaltamento di queste tesi. «La sintesi fra il tempo di Aristotele e quello di Newton è il gioiello dei pensieri di Einstein» (C. Rovelli). Se al livello più fondamentale “non c’è variabile tempo” e quindi non esiste differenza tra passato e futuro, esiste anche un movimento di ritorno (Nostos!) per comprendere come da questo mondo senza tempo possa emergere il tempo a noi familiare. Alla nostra scala, esiste anche la variabile tempo. Con una espressione alla Borges, si conclude che «il tempo siamo noi».

Ma quale Aristotele e soprattutto: quale tempo?

A questo interrogativo, il volume di Ruggiu fornisce una risposta convincente. Perciò oggi viene qui riproposto nella sua piena attualità.



Luigi Ruggiu è professore emerito di storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Già consigliere di amministrazione della Biennale di Venezia (1978-1986) e direttore della rivista di cultura e politica Il Progetto (1982-1992), a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia. Nel 2000 è stato insignito della medaglia d’oro del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dei “Benemeriti della scienza e della cultura”.

Le principali linee della sua ricerca sono:

I.

La problematica della temporalità nella storia della filosofia

Tempo Coscienza Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichi-lismo, Brescia 1970; Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, a cura di L. Ruggiu, Guerini e Associati editore, Milano 1997; Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori Editore, Milano 1998; Tempo della fisica e tempo dell’uomo: Parmenide, Aristotele, Agostino, Editrice Cafoscarina, Venezia 2006. Aristotele, Fisica. Testo greco a fronte. Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di L. Ruggiu, nuova edizione, Mimesis, Milano 2007; Tempo delle scienze, tempo della filosofia, in Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia, a cura di U. Curi, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 101-135; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013; Parmenide e il tempo, in Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 455-512.

II.

Il problema dell’agire pratico e poietico

Teoria e prassi in Aristotele, Napoli 1973; La scienza ricercata. Economia politica e filosofia. Studi su Aristotele e Marx, Treviso 1978.

III.

Filosofia e economia

Genesi dello spazio economico. Il labirinto della ragione sociale: filosofia societá e autonomia dell’economia, Guida, Napoli 1982.

IV.

Parmenide e la genesi dell’ontologia

Parmenide, Venezia-Padova 1975; Parmenide, Il Poema sulla natura, introd., traduzione di G. Reale; saggio introduttivo e commento di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991; Parmenide di Elea, in Le radici del pensiero filosofico. I – La filosofia greca: dai presocratici ad Aristotele, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1993; Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014.

V.

La filosofia di Hegel

L. Ruggiu – I. Testa (a cura), Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, Guerini e Associati, Milano 2003; L. Ruggiu – J. M. Cordon (cura), La crisi dell’ontologia. Dall’idealismo tedesco alla filosofia contemporanea, Guerini e Associati, Milano 2004; L’assoluto come nulla e la ragione come negare: Hegel a Jena, in Hegel e il nichilismo, a cura di F. Michelini e R. Morani, Franco Angeli editore, Milano 2003, pp. 21-40; Intersoggettività e universale della comunicazione, in L’Universale ermeneutico, a cura di G. Nicolacci e L. Samonà, Biblioteca del Giornale di Metafisica, Tilgher, Genova 2003, pp. 13-28; Spirito assoluto, intersoggettività, socialità della ragione, «Giornale di Metafisica», nuova serie, XXV (2003), pp. 393-418; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013.

VI.

Questioni di storia della storiografia

Il presente del passato. La ripresa del pensiero classico nella filosofia contemporanea, in L’oggetto della storia della filosofia. Storia della filosofia e filosofie contemporanee, a cura di R. Racinaro, La Città del Sole Editore, Napoli 1998, pp. 173-222; La ripresa dell’antico in Giordano Bruno, in Giordano Bruno: destino e verità, a cura di D. Goldoni – L. Ruggiu, Marsilio, Venezia 2002, pp. 185-224.


Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

 

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Genesi dello spazio economico

Genesi dello spazio economico

 

Il tempo in questione occidentale Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

Il tempo in questione. Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

 

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

 

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

 

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

 

Parmenide. Nostos. L'essere degli enti

Parmenide. Nostos. L’essere degli enti

 

Parmenide. Poema sulla Natura

Parmenide. Poema sulla Natura

 

Parmenide

Parmenide

 

Tempo della fisica e tempo dell'uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

Tempo della fisica e tempo dell’uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

 

Teoria e prassi in Aristotele

Teoria e prassi in Aristotele

 

 


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Horacio Cerutti Guldberg – L’utopico, essenza dell’utopia, si configura come la stessa fonte della capacità critica. Se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare, perché la dimensione utopica rimanda ad un «bisogno della ragione», un protendersi verso il futuro come possibile presente.

Horacio Cerutti Guldberg 01
De varia utòpica. (Ensayos De Utopìa III)

De varia utópica. (Ensayos De Utopía III)

 

 

America Latina. Democracia, Pensamiento y Accion. Reflexiones de Utopia

America Latina. Democracia, Pensamiento y Accion. Reflexiones de Utopia

 

«L’utopico, essenza, dell’utopia, si configura come la stessa fonte della capacità critica. Se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare, perché la dimensione utopica rimanda ad un “bisogno della ragione”, un protendersi verso il futuro come possibile presente».

Horacio Cerutti Guldberg, De varia utópica. Ensayos De Utopía, III, UAEM, Toluca, 1989, p. 9.

Cfr.: Stefano Santasilia, “El no-lugar del hombre. L’u-topia nella riflessione di Horacio Cerutti Guldberg“, «Rocinante», 7, 2012-2013, pp. 133-141.

 

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesi, 2017.

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesis, 2017.

 

 

Scrive Stefano Santasilia: «U-topico perché non avente una collocazione topo-grafica, ma pur sempre presente perché correlato all’attualità in maniera ineludibile. Cerutti, infatti, ricorda la duplice etimologia del termine “utopia”: ou-topos, non-luogo, luogo che non c’è, ma, allo stesso tempo, anche eu-topos, mondo felice, luogo massimamente desiderabile. Per il filosofo argentino, al di là della possibile interpretazione, l’utopia rimanda sempre alle dimensioni dell’immaginario e del simbolico. Immaginario e simbolico, però, sono pertinenti all’ambito del sociale solo se esso viene considerato nella sua capacità di svilupparsi e modificarsi. Per tale ragione, essi rimandano alla relazione con il futuro della società, il futuro di ogni singolo uomo, inteso come capacità di relazione con gli altri uomini. La dimensione temporale che, dunque, ricopre il ruolo di protagonista nella “dinamica utopica” è quella futura, non però come ciò che non è ancora ed è quindi indefinibile, ma nel suo ineludibile legame col presente, “nel” e “grazie al” quale si origina e al quale dona vita. Nella riflessione di Cerutti, il “momento utopico” si delinea come il momento stesso della possibilità futura, intesa come possibilità di modifica dell’attuale in base alla capacità di “criticare” il presente. L’utopico, essenza dell’utopia, si configura, perciò, come la stessa fonte della capacità critica, non allontanamento dalla realtà, bensì capacità di porsi a distanza da essa per evidenziarne le componenti destinate a venir meno. L’utopico costituirebbe, in tal caso, la prospettiva che apre all’alternativo; prospettiva che radica il suo nascere nell’immaginario e nel simbolico. Solo attraverso uno spazio immaginario (non-luogo), che differisca il nostro essere sociale rispetto alla stessa società in cui questo si esplica, è possibile lo sviluppo di una capacità critica a partire dalla stessa storicità, connotazione chiave dell’umana esistenza. Tale distanza, in fondo, è lo spazio della filosofia in quanto possibilità di un atteggiamento critico. Per questa ragione, Cerutti può affermare: “se il concetto di utopia viene rimosso, tutta l’impalcatura del pensiero filosofico rischia di crollare». Cerutti parla della filosofia latinoamericana intesa come critica dello stato di dipendenza. La filosofia latinoamericana è, allora, costitutivamente pensiero utopico perché autentico pensiero critico. Nella riflessione di Cerutti, dunque, l’utopia viene intesa come un “concetto operativo”, un esercizio razionale che si basa su due momenti: la realtà concreta e il mondo morale verso il quale la realtà va orientata. Il praticare la riflessione utopica avrà, allora, sempre due momenti: quello negativo, inteso come critica rispetto alla realtà, e quello positivo, ossia l’impegno di lottare per la libertà e per l’autonomia».

Stefano Santasilia, Introduzione alla filosofia latinoamericana, Mimesis, 2017, pp. 192-193.


 

Horacio Cerutti Guldberg

è professore di Storia delle idee e Filosofia politica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Universidad Nacional Autónoma de Mexico e Direttore di «Pensares y Quehaceres. Revista de Políticas de la Filosofía». Tra le sue recenti pubblicazioni: Hacia una metodología de la historia de las ideas (filosóficas) en América Latina (México 1997); Filosofar desde Nuestra América. Ensayo problematizador de su modus operandi (México 2000); Experiencias en el tiempo (Morelia 2001); Historia de las ideas latinoamericanas (et al., México 2003); Configuraciones de un filosofar sureador (Veracruz 2005); Democracia e integración en Nuestra América (Mendoza 2008).

 

 

Altri libri di
Horacio Cerutti Guldberg

Doscientos anos de pensiamento filòsofico Nuetroamericano

Doscientos anos de pensiamento filósofico Nuetroamericano

 

Filosofando y con el mazo dando

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Filosofar desde nuestra America. Ensayo problematizador de su modus operandi

Filosofar desde nuestra America. Ensayo problematizador de su modus operandi

Filosofia de la liberaciòn Latinoamericana

Filosofia de la liberación Latinoamericana

Historia de las ideas latinoamericanas. discopina fenecida

Historia de las ideas latinoamericanas: ¿discopina fenecida?

Ideologia y pensamiento utopico libertario en America Latina

Ideologia y pensamiento utopico libertario en America Latina

Posibilitar otra vida trans-capitalista

Posibilitar otra vida trans-capitalista

Presagio y topica del descubrimiento, 1992

Presagio y topica del descubrimiento, 1992

Resistencia popular y ciudadanìa restringida

Resistencia popular y ciudadanìa restringida

Resistencia, democracia y actores sociales en América latina

Resistencia, democracia y actores sociales en América latina

Y seguimos filosofando

Y seguimos filosofando


Piezas-24 – Entrevista Horacio Cerruti

Horacio Cerutti Guldberg, filósofo de la liberación (Argentina)

Horacio Cerutti: ¿Qué significa filosofar desde Nuestra Amércia?


Filosofía de la Liberación Latinoamericana

A tres décadas del surgimiento de la filosofía de la liberación, las constataciones cotidianas muestran el aumento exponencial de las desigualdades e injusticias sociales que le dieron origen. Por si hubiera dudas, allí están los datos duros de las estadísticas para mostrar, sin ir más lejos, que la “copa de champagne” no sólo no se derrama, sino que tiene cada vez bases más delgadas. Esta progresión geométrica de la explotación pareciera justificar por sí sola una insistencia creciente en la necesidad de liberación.Junto con estas constataciones también se cierne abrumadoramente la sensación de caminos cerrados, de imposibilidades que se presentan como cuasi insuperables, las cuales mitigan la esperanza y enardecen los ánimos, colocando no ya a la vida, sino a la mera sobrevivencia de las grandes mayorías de la humanidad en primerísimo plano.Con todo, parece atisbarse, si se quiere en espasmódicas manifestaciones, un renovado ciclo de organización de la resistencia de grandes segmentos de población a nivel regional y mundial. Representana aquellos que no están dispuestos a someterse y pugnan por mantener viva la esperanza, alimentan su rebeldía y trabajan en la construcción de otro mundo posible y deseable.Esta compleja y abigarrada situación sobreexige a la labor intelectual, y particularmente a la filosófica, para que esté a la altura de lascircunstancias y se ponga en condiciones de hacer un aporte que coadyuve al avance exitoso del proceso de liberación o, cuando menos, colabore en su desempantanamiento y participe en (re)impulsarlo creativamente.

Urge Filosofar desde Nuestra América

Pensar la realidad a partir de la propia historia crítica y creativamente para transformarla. Este enunciado parece condensar una respuesta mínima, y seguramente todavía insuficiente, a la inquietante pregunta acerca de cómo es posible filosofar desde Nuestra América para el mundo, por supuesto. Pregunta y respuesta constituyen la primera y muy provisional manifestación de un modo sugerente de enfocar estas enigmáticas cuestiones, casi siempre trivializadas en consideraciones sin trama epistemológica y el cual, poco a poco, va patentizando su fecundidad teórica.La recuperación de la expresión martiana Nuestra América no se realiza, por cierto, sin precisar alcances. Como mínimo cabe señalar que nuestra alude a las grandes mayorías apartadas progresiva y crecientemente de los beneficios de la vida colectiva o que nunca los han disfrutado. Mucho menos han podido sentirse participantes integrados a procesos comunes o a conjuntos de ciudadanos responsables con capacidad de decisión en aquello que les concierne de modo directo. La expresión conlleva fuertes connotaciones utópicas en su referencia a una Nuestra América que, en rigor, todavía no es nuestra en plenitud. Tiene, por ello, la virtud de explicitar cabalmente la tensión no resuelta entre una realidad cotidianamente experimentada como indeseable (no es éste el mejor de los mundos posibles, ni siquiera uno medianamente bueno o aceptable) con ideales largamente acariciados, organizados en un horizonte axiológico de realizaciones difícilmente apreciables en su posibilidad de concreción, aunque por de pronto valiosos en cuanto objetivos anhelados que brindan mucho a acciones e imaginarios individuales y colectivos.La realidad a pensar –y desde la que se piensa– se constata como constitutivamente compleja, fragmentante, diversificada, heterogeneizante y, sobre toda otra consideración, atravesada o estructurada por una conflictividad social creciente. Y es que la peyorativamente descalificada como decimonónica cuestión social, ya no parece invisibilizable fácilmente. Ya no reclama siquiera ser objeto de un existencialista compromiso para intelectuales, como a mediados del siglo pasado. Constituye un fenómeno ineludible –con compromiso o sin él–, envolvente, asfixiante. Tampoco comporta ningún mérito político o humanista aceptar que se parta de esa constatación. Crece día a día y no resta más que tomar posición frente a su inexorabilidad.Por ello, cabe renovar esfuerzos para no reaccionar sólo con simplismos trivializando el fenómeno o procurando neutralizarlo con salidas mecanicistas o maniqueísmos esterilizantes. Está invitando a un gran esfuerzo intelectual, a renovar el ingenio, a redoblar enfoques probables, a incrementar la calidad y vigor de las aproximaciones reiteradas.Está en juego –nada menos– la supervivencia de la especie y del planeta e, incluso, de todo aquello que merezca el nombre de vida. No es exagerar para nada y cuanto antes se admita, más rápido y eficazmente se pondrán en marcha energías creativas suficientes. Se está contra reloj. Por otra parte, conviene enfatizar que no hay tarea compartible más mundial, global, universalizable que ésta.En este contexto (escenario y tarea) la filosofía (el filosofar activo, propositivo, riguroso y pertinente) reencuentra rumbos clásicos y novedades sin cuento. Articular saberes –con visión epistemológica abierta y amplia, controlada racionalmente– se presenta como un procedimiento fecundo y pasible de rectificación continua para ejercer creativamente la crítica a situaciones indeseables y activar grietas de desarrollos alternativos, los cuales hagan efectivas las transformaciones anheladas. No basta con constatar que todo cambia, para romper inercias y pasividades cómplices. La recreación de lenguajes, estilos, procedimientos, enfoques y aproximaciones forma parte de un generalizado proceso de reconceptualización y de readecuación de la percepción, para afinar capacidades humanas compartibles y acumular fuerzas sugerentes y propositivas. Una renovada consideración analítica de los modos en que se ha ejercido la filosofía en muy diversos marcos institucionales socioculturales, permitiría atisbar funciones y tareas complementarias pendientes o vislumbradas, no sólo en los espacios académicos, insoslayables, sino también en otros ámbitos de la vida colectiva plenos de sugerencias, virtualidades y, aunque parezca difícil de aceptar, saberes. Es el caso de la renovada atención que se está prestando a la vigencia del pensamiento de los pueblos originarios a nivel mundial, con aprecio por la energía creativa que de ellos mismos surge al confrontar cosmovisiones aparentemente congeladas.Es el caso de la revolución epistémica insoslayable que ha aportado la insistencia de reconocimiento de las diferencias enriquecedoras específicas por parte de colectivos de mujeres desde muy diversas situaciones a lo largo de historias y geografías diversas.Quizá así, enfrentando la cuestión axial del poder, el quehacer filosófico (el filosofar) alcanzará cotas de excelencia y sintonizará (¿al fin?) con esfuerzos muy apreciables que se impulsan desde otras latitudes con entusiasmo contagioso. Con sus preguntas y esbozos de respuesta un filosofar renovado y accesible se requerirá y apreciará por más amplios conjuntos de jóvenes; aportará, quizá, con mayor pertinencia a los procesos de investigación en curso dentro de las instituciones académicas y justificará su presencia y extensión creciente como parte de la formación cultural amplia exigible a nivel de la enseñanza media superior y también de los medios masivos de comunicación.En una coyuntura internacional que semeja la hollywoodense deformación caricaturesca del Far West puede que apostar por ingeniosas políticas de la filosofía acerque al obstinado ideal de una democracia radical en la calle, en la casa y en la cama, tal como es anhelada crecientemente a nivel mundial.

 

 

 

Mis Libros

  • 2005 Configuraciones de un filosofar sureador, México, Ayuntamiento de Orizaba, Veracruz, 210 pp.
  • 2003 En coautoría con Mario Magallón Anaya, Historia de las ideas latinoamericanas ¿disciplina fenecida?. México, Universidad de la Ciudad de México / Casa Juan Pablos, 181 pp.
  • 2001 Experiencias en el tiempo. (Colección Fragmentario), Morelia, Jitanjáfora, 109 pp.
  • 2000 Filosofar desde Nuestra América. Ensayo problematizador de su modus operandi. Prólogo Arturo Andrés Roig, (Colección Filo-sofía de Nuestra América), México, Miguel Ángel Porrúa/ CCYDEL, CRIM, UNAM, 202 pp.
  • 1997 Filosofías para la liberación ¿liberación del filosofar? Pró-logo Ar-turo Rico Bovio, Toluca, Universidad Autónoma del Estado de México, 221 pp.
  • 1996 Memoria comprometida. Prólogo Eduardo Saxe-Fernández, (Cua-dernos Prometeo, 16), Heredia, Costa Rica, Universidad Nacio-nal, 170 pp
  • 1996 Lecturas críticas. (Cuadernos del Instituto Michoacano de Ciencias de la Educación, 13), Morelia, IMCED, 165 pp.
  • 1991 Presagio y tópica del descubrimiento. (Colección 500 Años Des-pués, 4), México, UNAM, 156 pp.
  • 1989 De varia utópica (Ensayos de utopía III). Presentación Luis Enrique Orozco, (Pensamiento Latinoamericano, ICELAC, 7), Bogotá, Universidad Central, 239 pp.
  • 1989 Ensayos de utopía (I y II). Toluca, Universidad Autónoma del Estado de México, 150 pp.
  • 1986 Hacia una metodología de la historia de las ideas (filosóficas) en América Latina. (Colección Ensayos Latinoamericanos, 1), Gua-dalajara, Universidad de Guadalajara, 174 pp.
  • 1983 Filosofía de la liberación latinoamericana. Presentación Leo-poldo Zea, (Colección Tierra Firme), México, Fondo de Cul-tura Eco-nómica.
  • 1981 Pensamiento idealista ecuatoriano. Estudio introductorio, se-lec-ción de textos, (Biblioteca Básica del Pensamiento Ecuato-riano, 8), Quito, Banco Central del Ecuador y Corporación Editora Nacio-nal, 553 pp.

Enlaces


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Siti Amicali – Amicizia è il luogo dove non si persegue altro che la piena realizzazione, è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.

Antiporta 02bis

Amicizia è il luogo dove non si persegue altro che la piena realizzazione, è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.

Claudia Baracchi

Numeri amicali

αἱρετικός parola greca, connessa ad haìresis, ad hairè, “afferrare”, “prendere” ma anche “scegliere” o “eleggere”: in origine  colui che sceglie, colui che è in grado di valutare più opzioni prima di posarsi su una di esse. E, d’altronde, si diceva anche presso i pitagorici che far parte di una scuola filosofica era una airesis tou biou, una scelta di vita, e perciò, prima del cristianesimo, eresia indicava una libera e legittima scelta dell’individuo.

Giamblico, nel capitolo 29 della Vita Pitagorica scrive, con riferimento alla scuola di Crotone e a Pitagora:

«In virtù di queste pratiche di vita accadde che tutta l’Italia si riempì di filosofi; e mentre prima quella regione non aveva goduto di nessuna considerazione, più tardi grazie a Pitagora ricevette il nome di Magna Grecia e vi nacquero in gran numero filosofi, poeti e legislatori. Le arti della retorica, l’oratoria e la legislazione scritta passarono da lì in Grecia».

Avvenimenti  confermati da Porfirio, al capitolo 20 della sua Vita di Pitagora.

Sembra sia stato Pitagora ad introdurre nell’uso comune la parola “amicizia”: forse ha derivato il vocabo dagli studi matematici.

Infatti, sosteneva che un amico è «colui che è l’altro me stesso, come accade ai numeri 220 e 284».

Cosa intendeva dire? Sembra che i matematici greci dessero una certa importanza ai due numeri e li consideravano “amici”, o “amicabili”, o “amicali”, perchè ognuno di essi è la somma dei divisori dell’altro (esclusi i numeri stessi).I divisori di 220 sono 1, 2, 4, 5, 10, 11, 20, 22, 44, 55, 110 . Se li sommiamo otteniamo 284. I divisori di 284 sono 1, 2, 4, 71, 142 . Se li sommiamo otteniamo 220.

 


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Anticitera. Lontano dai luoghi comuni – Il principale obiettivo che ci poniamo è quello di contribuire alla riattivazione del pensiero critico.

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ANTICITERA

Lontano dai luoghi comuni

 

 

Contenuti

 

A. Rodin, Il pensatore.

A. Rodin, Il pensatore.

PERCHÉ QUESTO SITO

 

Siamo arrivati al punto da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione «pro» o «contro» un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi la confutino o la supportino.

Con queste parole Simone Weil descriveva, poco prima di morire, la condizione di chi, entrando a far parte di un “partito”, accetta posizioni che perlopiù ignora o quantomeno non ha esaminato razionalmente. In altre parole di chi si colloca nella confortevole posizione di non dover pensare.
L’estensione di tale condizione alla gran parte degli ambiti della vita è a nostro avviso un aspetto importante della grave crisi culturale che stiamo attraversando, che si traduce non solo in un generale impoverimento intellettuale, a tutti i livelli sociali, ma, in modo interdipendente, anche in una sorta di anestesia che imbriglia il pensiero in una rete di luoghi comuni di cui sembra sempre più difficile acquisire consapevolezza critica, non fosse che per l’enorme velocità con la quale l’omologazione veicolata dalle nuove tecnologie sopravanza la produzione di idee e di cultura nuova.
Collocarsi lontano dai luoghi comuni costa fatica, nella misura in cui comporta la riattivazione del pensiero vivo e della razionalità.
Usando il termine «razionalità» non intendiamo qui riferirci a un dato biologico, magari espresso da qualche modulo cerebrale prodotto dal processo di adattamento cognitivo della specie umana alle condizioni di vita risalenti all’Età della pietra. Intendiamo invece riferirci ad un particolare aspetto culturale che ha le proprie radici nella civiltà greca e che prende le mosse dall’assunzione consapevole della dimensione relazionale della natura umana. E più specificamente a quel metodo, formatosi con lo sviluppo dell’antica retorica, che a partire dal “discorso” (logos) ha generato prima l’argomentazione filosofica e poi la dimostrazione scientifica. Vale sottolineare, per altro, che solo intendendo “razionalità” in questa accezione si può comprendere che gli strumenti della scienza e della tecnica, pur essendo un suo prodotto, non possono fondarla né garantirla. Detto altrimenti, l’esercizio della razionalità non è affatto assicurato dall’impiego automatico di alcuni suoi derivati e può essere abbandonato, come è accaduto più volte e come sembra accadere in larga misura anche oggi, quando l’argomentazione razionale appare relegata all’interno di alcune delle mille schegge in cui si trova frammentato il sapere specialistico, mentre invece nel contesto della cultura di massa si preferisce adottare una gamma di tecniche alternative maggiormente adattabili alla comunicazione mediatica: dalla propaganda affabulatoria, basata sulla libera associazione d’idee, fino al “marketing cognitivo” e al “neuromarketing”, che rovesciano la tradizione dell’antica retorica usando raffinate conoscenze scientifiche per ottimizzare l’efficacia di tecniche di persuasione in cui è assente l’argomentazione razionale. Inoltre, l’uso della razionalità viene sempre più spesso contestato in modo aperto: ad esempio da parte di coloro che vedono in essa un inutile ostacolo all’accoglimento del “nuovo che avanza” con l’istantaneità che esso richiede.
A nostro parere, l’esercizio della razionalità è semplicemente irrinunciabile per capire davvero il mondo in cui viviamo. In modo particolare di fronte alla vistosa contraddizione tra l’immagine del “progresso” e i fenomeni di degenerazione culturale cui assistiamo quotidianamente, resi opachi dal fatto che la nostra cultura tende a rendere automatiche non solo le attività sterili e servili, ma anche, e in misura sempre crescente, anche quelle creative e “liberali”.
È solo un apparente paradosso, ad esempio, che pur trovandosi sempre più immersi in un ambiente plasmato dagli esiti dell’attività tecnico-scientifica, si è persa la capacità di giudicare il valore della scienza, in vari sensi e a diversi livelli.
Da un lato, i dispositivi tecnologici che condizionano in modo sempre più potente la nostra esperienza individuale e sociale sono vissuti perlopiù come potenze magiche, e ciò non soltanto per la progressiva semplificazione dei loro protocolli di utilizzo ma soprattutto per la crescente estraneità della quasi totalità della popolazione alla razionalità scientifica che ha prodotto i principi del loro funzionamento. La perdita del controllo intellettuale e materiale su quanto ci circonda favorisce inoltre il diffondersi dell’idea, riduttiva e fuorviante, che l’alfabetismo scientifico consista nel sapere chi sono gli esperti e come ottenere i loro responsi. Sono facce della stessa medaglia. Gli stessi risultati scientifici, o meglio la loro banalizzazione giornalistica, vengono somministrati con profusione crescente come vettori di stupefazione acritica, e ciò non solo ad uso e consumo di quella poltiglia indistinta a cui è ridotta oggi la cultura popolare, ma anche, e in forme sempre più penetranti, nei luoghi dell’educazione e della formazione, determinando una crescente assuefazione all’accettazione passiva di una pseudo-cultura impossibile da capire e quindi solo da consumare.
È importante peraltro sottolineare che una battaglia culturale per rivitalizzare l’esercizio della razionalità, anche al fine di poter giudicare criticamente il valore dei suoi stessi derivati, trova nel campo avverso numerosi esponenti nello stesso mondo scientifico. La parcellizzazione del sapere in innumerevoli “saperi” tra loro non comunicanti e coltivati da distinte consorterie di specialisti, ciascuna pronta a legittimare tutte le altre pur di evitare interferenze nel proprio settore, produce infatti un abbassamento drammatico delle barriere in grado di arginare il dilagare dell’irrazionalismo, anche tra gli stessi scienziati. Il lavoro del “ricercatore” è divenuto una specializzazione professionale come le altre, operante in un campo generalmente molto ristretto di specialisti, reso omogeneo dalle riviste sulle quali pubblica, dai protocolli standardizzati, dai linguaggi e dai software adottati. In altre parole, il ricercatore non è più, generalmente, un intellettuale, e non appena esce dal suo microsettore di competenza, egli è preda dell’affabulazione mediatica precisamente come l’uomo della strada.
In senso generale, la “cultura” sta dunque perdendo la capacità di giudicare la società e proporre strumenti di sintesi e interpretazione del mondo, per divenire un settore compartimentato e amministrato da regole comunicative interne: un territorio al tempo stesso privilegiato e inoffensivo.
La battaglia culturale che vorremmo promuovere comprende la possibilità di cogliere la situazione finora esposta in una dimensione storicamente sensata. Un effetto particolarmente preoccupante dell’omologazione culturale in cui siamo immersi consiste infatti nella perdita della dimensione del tempo storico, che induce l’azzeramento della stessa intuizione che ci possa essere qualcosa da sottoporre a giudizio in termini razionali.
Così, ad esempio, ciò di cui abbiamo davvero bisogno per riattivare un serio dibattito sul significato e l’utilità della cultura scientifica è innanzitutto una riflessione critica sul metodo che ha reso possibili le acquisizioni della scienza medesima. In questa prospettiva una disciplina come la storia della scienza, uscendo dal suo residuale alveo specialistico, può acquisire una rilevanza di primo piano come banco di prova delle diverse concezioni della scienza oggi in circolazione e come bussola per orientarsi nelle scelte attuali. E non solo questo. Poiché il metodo scientifico è uno dei frutti più nutrienti prodotti dalla civiltà classica, la sua indagine in chiave storico-critica fornisce un viatico naturale per il superamento della tradizionale divisione tra le “due culture”, lungo il quale la nostra stessa cultura classica può uscire dal suo attuale ruolo di anticaglia inutile per tornare ad essere un patrimonio vivo cui attingere creativamente. Ci sembra che su questo terreno si possa incontrare più di un’occasione per ripensare l’unità, e dunque la sopravvivenza, della cultura e riportare in tal modo il dibattito su istituzioni come scuola e università sul piano culturale loro proprio, sottraendolo agli specialisti del nulla che troppo spesso se ne sono occupati.

Anticitera prende le mosse dalle considerazioni precedenti. I suoi contenuti si articolano in cinque categorie principali: cultura, società, istruzione, ricerca, lingua italiana. Oltre a brevi saggi, recensioni e interviste scritti specificamente per Anticitera, vorremo offrire al lettore una raccolta di testi anche non recenti di vari autori, inclusi gli scriventi, che reputiamo interessanti ma di non banale reperibilità. Con tutto ciò vorremmo provare a dare un contributo alla riflessione pubblica su questioni ampiamente dibattute, o in altri casi richiamare l’attenzione su temi a nostro parere ingiustamente trascurati o dimenticati, nella convinzione che se c’è qualcosa che non si dovrebbe temere è proprio di non essere “attuali”.
In tutti i casi, il principale obiettivo che ci poniamo è quello di contribuire, almeno in piccola misura, alla riattivazione del pensiero critico. Siamo coscienti che si tratta di un tipo d’impegno culturale che deve procedere attraverso una comunicazione intensa, senza fretta, che talora può apparire faticosa, ma che comunque privilegia la cosa da comunicare rispetto alla potenza del canale di comunicazione, l’esigenza di fornire una rappresentazione critica della realtà rispetto all’obiettivo di modificarla. Nel contesto storico in cui ci troviamo, mantenere una distinzione tra gli strumenti e le visioni del pensiero e la loro possibilità di imporsi nella concreta vita sociale non ci appare necessariamente un segno d’irresolutezza, quanto piuttosto un sano antidoto contro la confusione attivistica.

Gli autori

Alessandro Della Corte – alexdc1979@libero.it

Stefano Isola – stefano.isola@gmail.com

Lucio Russo – lucio.russo@tiscali.it


Raccolte di testi

In questa sezione sono raccolti testi che riteniamo utili sia come strumenti di riflessione generale che come pietre di paragone per giudicare la nostra stessa cultura. Comprende testi di varia natura: oltre ad alcuni scritti inediti o di difficile reperibilità degli stessi artefici di questo sito, una serie di testi che riteniamo importanti ma la cui esistenza è spesso segnalata solo nelle bibliografie.


La macchina di Anticitera
Il frammento principale della macchina di Anticitera-Museo archeologico nazionale di Atene

Il frammento principale della macchina di Anticitera. Museo archeologico nazionale di Atene.


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Sergio Arecco – Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale

Sergio Arecco 002

“Ben oui si on filme pas c’est pas du cinéma.”
“Des conneries! Le cinéma c’est bien avant qu’on filme.
Là cette bouteille elle a pas besoin d’être filmée
pour être du cinéma” .

François Bégaudeau, La blessure la vraie, 14 (2011)

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317 ISBNSergio Arecco

Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale

ISBN 978-88-7588-253-2, 2019, pp. 224, Euro 20
Collana “il pensiero e il suo schermo”

indicepresentazioneautoresintesi

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«Nulla può darsi in qualunque situazione bellica senza l’esatta conoscenza dell’elemento di fondo: l’uomo e la sua morale». È quanto scrive lo stratega Ardant du Picq, morto in battaglia (Longeville-lès-Metz, guerra franco-prussiana), nell’incompiuto Études sur le combat, noto come  Battle Studies, ancora oggi testo di riferimento per chiunque intenda misurarsi con il tema del combattimento in pace o in guerra. Sì, anche in pace. Non sempre, infatti, si tratta di guerra guerreggiata, tra opposti eserciti. Leggendo, nel corso del volume, i capitoli su Napoli o Boston o Parigi, alternati con quelli sulla Grande Guerra o il Vietnam o la Cecenia, il lettore viene infatti chiamato a condividere una visuale complessiva – tipica del cinema, che del tema ha fatto uno dei suoi punti di forza – della nozione etica di conflitto in senso lato. Perché la qualità del grande cinema sta appunto nel suo innalzare, in virtù dell’immagine-movimento, un evento fisico come la battaglia a evento metafisico, a proprietà estetica, tale da esaltarne i principi della metafora e della metonimia, del latente e del manifesto, del connubio tra reale e immaginario. In Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale, l’Autore percorre, attraverso l’analisi di film di ogni epoca, da Charlot soldato a Dunkirk, l’evoluzione di un topos narrativo che ha nutrito la storia della settima arte.

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Indice

Nota di percorso

Antoine o la guerra degli ultimi
Napoli o la guerra dei vicoli
Westfront o la guerra delle ombre
Dunkirk/Dunkerque o la guerra degli idiomi
London (blitz) o la guerra dei bambini
Northern o la guerra delle identità
Vietnam o la guerra dei mondi
Boston o la guerra dei sobborghi
Caucaso o la guerra dei paesaggi
Cartoonia o la guerra dei simboli
Parigi o la guerra dei simulacri
Pier Paolo o la guerra delle figure

 Appendice:
Alain/Ingmar/Theo/Jean-Luc/Elisabetta/Marco o la guerra delle fedi

 Indice dei nomi e delle opere

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Sergio Arecco, insegnante e studioso di cinema, collaboratore delle principali riviste del settore, può vantare nel suo curriculum una decina di monografie su registi o attori tra i più diversi – da Pasolini, di cui è stato il primo esegeta, a Oshima, da Cassavetes a Lucas, da Markopoulos a Bergman, su cui ha discusso la tesi di laurea nel 1968, da Resnais e Bresson a Dietrich e Brando, per editori come Il Castoro, Le Mani o Bulzoni – e una nutrita serie di volumi a tema: da Il paesaggio del cinema, vincitore del premio “Maurizio Grande”, a Anche tempo sogna. Quando il cinema racconta la storia, vincitore del premio “Umberto Barbaro”, da Le città del cinema a Il vampiro nascosto, perlopiù pubblicati da Le Mani. Ha inoltre collaborato al Dizionario critico dei film Treccani e al Dizionario dei registi del cinema mondiale Einaudi. Da ultimo ha pubblicato, per la Cineteca di Bologna, un ampio repertorio del corto sonoro: Il cinema breve. Da Walt Disney a David Bowie. Dizionario del cortometraggio 1928-2015, con la prefazione di Goffredo Fofi.

 


 

Il cinema breve

Il cinema breve

Sergio Arecco

Il cinema breve.
Da Walt Disney a David Bowie.
Dizionario del cortometraggio (1928-2015)

Editore Cineteca di Bologna, 2016

Oltre duecento corto e mediometraggi esemplari, selezionati e analizzati dalla perizia critica di Sergio Arecco, compongono nelle pagine di questo libro un’autentica storia parallela del cinema. Una storia che parte dalle origini del sonoro e senza soluzione di continuità arriva fino a noi, una corrente continua di multiformi invenzioni che ci conduce dallo Steamboat Willie di Walt Disney al Blackstar di David Bowie. Film d’avanguardia, film narrativo, film d’animazione, autobiografia, provocazione intellettuale, opera prima e pezzo unico, esordio ed epitaffio, contaminazione estrema e cinema puro. Concentrazione, divagazione, episodio, appunto, colpo d’occhio. Truffaut e Warhol, Antonioni e Park Chan-wook, D.A. Pennebaker e Björk, Shirley Clarke e Dino Risi, Buñuel e Tex Avery, Pasolini e Justin Lin, Mishima e Scorsese, Beckett e Monicelli, Lynch e Miyazaki. Certo, il cinema breve vive spesso di vita segreta. Compaiono nel repertorio anche nomi poco frequentati, titoli misteriosi, e sta forse qui il più forte richiamo di questo dizionario: nel suo proporsi come miniera di scoperte, di film così ben raccontati che avremo voglia di cercarli e di vederli, e che entreranno a far parte del nostro bagaglio cinefilo, della nostra storia personale.


1972_Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

 

Sergio Arecco

Pier Paolo Pasolini

Partisan Edizioni , 1972

Dedicato alle opere di Pier Paolo Pasolini. Pubblicato nel 1972 dalla casa editrice romana «Partisan» in una collana che ospitava, tra l’altro, un saggio di Bordiga su Lenin, un libello di Cabral intitolato Guerriglia: il potere delle armi, una monografia su Godard di Moscariello e Dibattito su Rossellini a cura di Gianni Menon. Il volume comprende una Conversazione con Pier Paolo Pasolini a cura di Sergio Arecco.

Indice

In limine
Staticità dei contenuti: un mondo a metà?
La cultura e la sua rivalsa estetica
Vita come pretestualità della morte: la tecnica fondante e globale
«Tutto il mio folle amore…»: l’io epico
La cronaca ideologica e quella filmica
Biofilmografia


Thodoros Anghelopulos0

Thodoros Anghelopulos

Sergio Arecco

Thodoros Anghelopulos

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1978

Storia e mitologia, metafora ed emozione si fondono nell’opera di un grande regista dallo stile rigoroso: La recita (1975), Il volo (1986) e il Leone d’argento Paesaggio nella nebbia (1988).


Nagisa Oshima

Nagisa Oshima

Sergio Arecco

Nagisa Ōshima

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1979

Regista scomodo, non solo in patria, per il radicalismo ideologico ed espressivo. Dei suoi film duri e violenti, i più noti sono La cerimonia (1971) ed Ecco l’impero dei sensi (1976).


John Cassavetes

John Cassavetes

Sergio Arecco

John Cassavetes

Il Castoro Cinema, La Nuova Italia , 1981

John Cassavetes (New York, 1929 – Los Angeles, 1989) ha “inventato” l’idea stessa di cinema indipendente. La sua produzione, così coerente e refrattaria a ogni compromesso, ha rappresentato un’inesauribile fonte d’ispirazione per cineasti di tutto il mondo. Il suo stile asciutto, diretto e nervoso gli ha permesso di scavare meglio di chiunque altro tra le emozioni e i turbamenti dei suoi personaggi.
Tra i suoi film: Ombre (1959), Volti (1968), Una moglie (1975), La sera della prima (1977), Gloria – Una notte d’estate (1980).

 

John Cassavetes

John Cassavetes

Sergio Arecco

John Cassavetes

Il Castoro Cinema, 2009

 


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George Lucas

Sergio Arecco

George Lucas

Il Castoro Cinema, 1995

Nasce a Modesto, California, nel 1944. Regista e produttore di genio. Ha dato vita a una scuola di effetti speciali, divenuta centro di produzione: la Industrial Light and Magic. Con le sue Guerre stellari (1977-1983) la fantascienza ha scoperto nuovi confini.

1995_George Lucas

George Lucas


1997_Alain Resnais

Alain Resnais

Sergio Arecco

Alain Resnais o la persistenza della memoria

Le Mani-Microart’S, 1997, 2014


1998_Rober Bresson

Robert Bresson

Sergio Arecco

Robert Bresson. L’anima e la forma

Le Mani-Microart’S, 1998


2000_Igmar Bergman. Segreti e magie

Igmar Bergman

Sergio Arecco

Igmar Bergman. Segreti e magie

Le Mani-Microart’S, 2000


2002_Il paesaggio del cinema

Il paesaggio del cinema

Sergio Arecco

Il paesaggio del cinema. Dieci studi da Ford ad Almodovar

Le Mani-Microart’S, 2002


2003_Il vampiro nascosto

Il vampiro nascosto

Sergio Arecco

Il vampiro nascosto. Suggestioni e dipendenza nel cinema

Le Mani-Microart’S, 2003, 2014


2004_Anche il tempo sogna

Anche il tempo sogna

Sergio Arecco

Anche il tempo sogna. Quando il cinema racconta la storia

ETS, 2004

Trenta film considerati esemplari del rapporto tra cinema e storia. Dai primi capolavori di Griffith – “Nascita di una nazione” – Ejzenstejn – “Ottobre” o Chaplin – “Il grande dittatore” – il volume traccia un itinerario completo, dal cinema classico al cinema contemporaneo, passando per esperienze anche eccentriche come “Hitler” di Syberberg o “Heimat” di Reitz. L’autore studia le forme e le modalità di realizzazione dei primi kolossal, le loro dinamiche interne, il loro impatto sul pubblico e le loro possibili valenze propagandistiche.


2005_Marlene Dietrich

Marlene Dietrich

Sergio Arecco

Marlene Dietrich. I piaceri dipinti

Le Mani-Microart’S, 2005


2007_Marlon Brando

Marlon Brando

Sergio Arecco

Marlon Brando. Il delitto di invecchiare

Le Mani-Microart’S, 2007


2009_Cinema e paesaggio

Cinema e paesaggio

Sergio Arecco

Cinema e paesaggio. Dizionario critico da “Accattone” a “Volver”

Le Mani-Microart’S, 2009, 2014

Dizionario critico in cento film, dalla A alla Z; dalle origini del cinema a oggi; da Il dottor Mabuse (Fritz Lang, 1922-23) a Gomorra (Matteo Garrone, 2008), passando per Via col vento (Victor Fleming, 1939) o Hiroshima, mon amour (Alain Resnais, 1959). Il filo conduttore del libro è il paesaggio del cinema che non è mai sfondo o contorno illustrativo, ma presenza viva, interlocutore privilegiato e speculare ai personaggi, complemento insostituibile alla loro articolazione narrativa e alla loro storia. Il paesaggio con i suoi punti fermi e i suoi punti di fuga, i suoi margini e i suoi sconfinamenti. Il suo filo più segreto e più intimo, è quello delle frontiere del visibile che si spostano, dei confini che non si lasciano definire, che fanno avanzare sempre un po’ di più i loro margini e le loro soglie. In una parola, è quello dello sconfinamento. Un concetto che, pur traendo ispirazione dal cinema di paesaggio, investe il cinema in sé, la sua dinamica, la sua grammatica e la sua sintassi: il paesaggio come una componente intrinseca, peculiare, del cinema, comparabile, per la sua funzione essenziale, alla recitazione degli attori o alla costruzione delle sequenze o alla dinamica del montaggio, vale a dire a quei fondamentali che fanno, materialmente e idealmente, un film. Qualcosa di più, dunque, di una nozione estetica. Quasi una filosofia (se la parola non fosse troppo grossa). Qualcosa che ha a che fare con la vita, con il suo perenne divenire.


2010_Le città del cinema

Le città del cinema

Sergio Arecco

Le città del cinema. Da Metropolis a Hong Kong

L’Epos, 2010

Metropolis e Hong Kong: due città, due icone, una vera e una immaginaria, che solo il cinema ha reso effettivamente reali; paradigmi del moderno e di sé stesse, reinventate dalla mitologia cinematografica e riplasmate come metropoli “assolute”; città virtualmente invisibili o inesistenti chiamate a vivere e a essere sé stesse solo dall’occhio della telecamera che ne legittima l’esistenza e concede loro uno statuto di visibilità.


2013_Le anatomie dell'invisibile

Le anatomie dell’invisibile

Sergio Arecco

Le anatomie dell’invisibile. Il cinema raccontato con il cinema

Città del silenzio, 2013

Sullo sfondo di un cinema che riflette su se stesso – attraverso i generi, gli interpreti o i registri espressivi – l’autore prende in esame alcuni temi, ricomposti in una struttura unitaria e omogenea: la voce fuori campo, il sogno, la favola, la dimensione urbana contrapposta a quella extraurbana, la sessualità. Con una nota di René de Ceccatty.




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