Massimo Bontempelli – Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea

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304 ISBN

Massimo Bontempelli

Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea

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Per comprendere l’ontologia dell’essere sociale al livello della sua compiutezza ontologica, quale sede di una verità fortemente esplicativa e logicamente incontrovertibile, occorrerebbe aver dissipato i tanti equivoci dell’inconsapevolezza filosofica. Un primo equivoco riguarda la nozione filosofica di realtà. Per l’uomo mentalmente immerso nell’universo delle merci, infatti, non è reale se non ciò che appare in una figurazione omogenea a quella della merce, vale a dire in forma sensibilmente percettibile e concretamente utilizzabile. Realtà, da questo punto di vista, non è che un altro nome per l’esistenza empirica. Naturalmente si può dare alle cose i nomi che si desiderano. La denominazione in questione, però, è carica di un’ideologia dell’intrascendibilità del dato, fortemente limitatrice del pensiero, al quale toglie curiosità intellettuale e capacità di comprensione verso le forme ontologiche più alte della semplice esistenza empirica. Non è certo un caso se, nonostante precise indicazioni testuali non equivocabili da chi effettivamente le legga, la celebre formula hegeliana secondo cui ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale, sia stata comunemente intesa come una attribuzione di logicità ai nessi empirici, e come un’attribuzione di necessità concettuale alla storia. Eppure Hegel chiarisce esplicitamente come la realtà che è razionale sia non già quella empirica bensì quella ontologica, e come l’empirico esista frequentemente in forma irrazionale, ovvero ontologicamente irreale. Naturalmente senza comprendere il concetto di realtà elaborato dalla filosofia ontologica non si dispone di una mappa concettuale adatta in cui situare la nozione di libera individualità sociale. La libera individualità sociale costituisce infatti la più razionale espressione della socialità umana, e quindi la forma ontologicamente più reale del genere umano, pur avendo fino ad oggi difettato quasi completamente di esistenza empirica. La forma più matura di mentalità comunista è proprio quella che comprende il difetto dell’attuale esistenza sociale nella sua totale incapacità di dare espressione concreta alla realtà ontologica della libera individualità sociale. Un secondo grave equivoco concerne la metafisica. Essa appare per lo più come l’abusiva sostituzione di spiegazioni basate su principi assoluti trascendenti la concreta esperienza, inverificabili per definizione, ai sobri modelli esplicativi relativi ai dati empirici. In realtà, il termine metafisica si riferisce, più genericamente, a qualsiasi principio esplicativo più interno e profondo rispetto alla superficie empirica delle cose. Farsi scudo degli argomenti adducibili contro la trascendenza per giustificare l’abolizione di ogni metafisica, significa non capire quello che già Vico e Kant avevano mostrato, e cioè che senza principi metafisici risulta inesplicabile la trasformazione storica. Erano forse empirici i principi del puritanesimo che hanno ispirato la trasformazione del sistema politico dell’Inghilterra del Seicento dalla monarchia assoluta a quella costituzionale? O i principi del 1789 che hanno ispirato la rivoluzione francese? Un ulteriore equivoco riguarda la nozione di verità e la sua assolutezza. La mentalità contemporanea è portata a concepire la verità o, aristotelicamente, come adaequatio rei intellectus (declinando questa corrispondenza in senso predittivo e strumentalistico, anziché in senso essenzialista e statico come Aristotele), o, formalisticamente, come coerenza sintattica delle manipolazioni simboliche nelle trasformazioni inferenziali. La nozione di verità viene così ridotta a quella di congettura nel primo caso, e a quella di rigore nel secondo. Intendiamoci: sia le congetture che il rigore sono necessari ai processi conoscitivi. Se però essi non rappresentano momenti integrativi del pensiero veritativo, ma pretendono di esprimere tutta la conoscenza possibile all’uomo, mettendo da parte come un ferro vecchio la nozione più forte e più propria di verità, conducono inevitabilmente al nichilismo. La congettura può essere, infatti, in base alle prove che ha dato di sé come strumento di orientazione nell’esperienza, più o meno affidabile, e, in base ai dati sperimentali di controllo, più o meno corroborata. Ma la sua validità non può per definizione essere ritenuta permanente: essa, in quanto congettura, può sempre trovare un’esperienza che la smentisca. Il rigore, da parte sua, è per definizione contenutisticamente vuoto, e non può giustificare il proprio principio di coerenza. Se dunque si assumono la congettura e il rigore come unici mezzi di ragionamento, si apre nel ragionamento stesso un vuoto, quello della verità, intesa nel suo carattere di permanenza di significato, autoconvalidazione logica, pienezza di contenuto ontologico. La risposta che viene ovvia alla mentalità odierna è che è appunto di questo carattere della verità che si può e si deve fare a meno. Senonché, come ha rivelato Hegel, alla cui dimostrazione rinviamo (cfr. Scienza della logica, vol. II, sez. II, cap. III, e inoltre nella premessa a Sul concetto in generale), sussiste necessariamente una verità di cui non è misura l’esistenza, ma sulla quale anzi è l’esistenza a misurare la sua verità. Non si può cioè fare a meno di un criterio di giudizio la cui verità sia data non da qualche sua forma di correlazione con i dati empirici, ma da una sua intrinseca autoconvalida, e che consenta di valutare come veri o falsi i dati empirici. Non ne fanno a meno, infatti, neppure coloro che questo criterio negano, e riducono la verità a congettura e a rigore. La loro stessa affermazione che la verità sia congettura o rigore non rientra né nella congettura né nel rigore. E la critica negatrice dell’esistenza di una verità permanente, autoconvalidantesi e piena di contenuto ontologico, o presuppone contraddittoriamente la permanenza, l’autoconvalida e la piena realtà dell’economia di mercato, o sfocia, altrettanto contraddittoriamente, in una contestazione che deve autorelativizzarsi. Alla mentalità odierna appare comunque insensata l’idea che qualcosa di esistente possa essere falso. Se esiste, non si dice forse il vero affermandone l’esistenza? Con i fatti, si diceva una volta, non si discute. Eppure, tanto per fare un esempio, uno Stato la cui politica sia interamente determinata da interessi privati è un falso Stato, dato che appartiene al concetto di Stato il carattere di essere un’istituzione pubblica. E la ragione esiste proprio se discute i fatti alla luce della sua razionalità.


Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

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Jean Bricmont – Contro la filosofia della meccanica quantistica.

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303 ISBN

Jean Bricmont

Contro la filosofia della meccanica quantistica

Traduzione dal francese di Fabio Acerbi

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Quando ho studiato la meccanica quantistica ho imparato che l’oggetto più fondamentale di questa teoria, la funzione d’onda, non descriveva il sistema fisico in esame, bensì la conoscenza che ne avevamo. In ciò risiedevano l’originalità e la stranezza radicale della meccanica quantistica. Ma cosa significava tutto ciò? Di certo, non quello che si poteva credere ingenuamente: non si studiavano certo i processi interni al cervello umano che sono associa ti a ciò che chiamiamo ‘conoscenza’. In fin dei conti, si trattava forse di qualcosa di banale: non possiamo far altro che studiare oggetti o proprietà accessibili alla conoscenza umana; se esistono realtà radicalmente inaccessibili alla nostra percezione o alla nostra conoscenza non le studiamo per definizione. Ma allora, dove stava la novità? Capitava di spingersi più in profondità; si imparava allora che la meccanica quantistica non aveva fatto che giustificare un punto di vista filosofico precedente, risalente almeno a Kant, Hume e Mach e sviluppato dai positivisti moderni.

Strano: ecco una teoria fisica che ci costringe ad adottare una prospettiva filosofica specifica, senza la quale non è possibile comprenderla. Mermin cita una formulazione estremizzata di quest’idea: «La dottrina secondo cui il mondo è fatto di oggetti la cui esistenza è indipendente dalla coscienza umana si trova essere in conflitto con la meccanica quantistica e con fatti sperimentali ben stabiliti». Effettivamente, la scienza suppone tradizionalmente che si possa separare il ‘soggetto’ umano dall’oggetto studiato. Ma la meccanica quantistica aveva imposto una svolta: la filosofia ‘realista’ (a volte completata con la parola ‘metafisica’ o ‘ingenua’) era divenuta non più difendibile. Questa filosofia aveva avuto i suoi momenti di gloria nel XVIII e nel XIX secolo, all’apogeo del materialismo scientifico trionfante. Einstein era ancora legato a quella visione delle cose. È per questa ragione che non aveva mai potuto ammettere la meccanica quantistica. Ma quest’ultima ci era imposta dai fatti. Personalmente, neanch’io mi trovavo disposto ad accettare un tale punto di vista. Mi sembrava che ci fosse qualche cosa di profondamente sbagliato nella posizione positivista, ma per delle ragioni puramente filosofiche, e non vedevo come una teoria scientifica, ed ancor menoi ‘fatti’, potessero cambiare qualcosa in tutta la faccenda. Non solo, vedevo che Einstein, Schrödinger e qualche volta de Broglie avevano sollevato obiezioni all’interpretazione dominante della meccanica quantistica. Ma, mi si diceva, costoro appartenevano ad un’altra generazione, e non avevano mai potuto arrunettere la nuova visione del mondo e della scienza elaborata da Boru, Heisenberg e Pauli. Tuttavia, ogni teoria scientifica essendo destinata a perire, almeno così pare, non potrebbe darsi che un giorno un’altra teoria, più perfezionata, comportasse una revisione delle nostre concezioni filosofiche? Ma anche questa speranza era vana, von Neumann avendo, almeno così sembrava, dimostrato che ogni teoria ‘realista’ sarebbe entrata necessariamente in conflitto con le previsioni sperimentali. I fatti stessi imponevano dunque una visione della scienza radicalmente nuova. Eppure, Schrödinger ed il suo gatto mi sembravano aver messo in rilievo una difficoltà concettuale fondamentale della meccanica quantistica. Mi sembrava si trattasse di un problema ben più importante della tradizionale questione del determinismo, nella quale si volevano rinchiudere i ‘dissidenti’. D’altro canto, non riuscivo bene a vedere quale partito trarre dalle obiezioni di Einstein: con Podolsky e Rosen, egli aveva tentato di mostrare che la meccanica quantistica era manifestamente una descrizione incompleta della realtà. Ma tutti erano d’accordo nel ritenere che Bohr avesse fatto fronte in modo magistrale a queste obiezioni. C’era anche un certo Bohm che, sulle tracce di Louis de Broglie, aveva cercato di proporre un’‘interpretazione’ della meccanica quantistica in termini di ‘variabili nascoste’. Ma anche questo tentativo si era rivelato un fallimento. In più, un certo Bell aveva mostrato in maniera incontrovertibile che ogni tentativo d’interpretazione in termini di ‘variabili nascoste’ doveva, se non voleva contraddire le previsioni della meccanica quantistica, essere non locale, il che era chiaramente inaccettabile.

Non vedendo vie di uscita ai problemi mi sono occupato di altre cose, restando comunque insoddisfatto, come molti della mia generazione. Da qualche anno sembra però essersi risvegliato l’interesse per le questioni relative ai fondamenti della meccanica quantistica. Le differenti versioni di quella che viene chiamata “l’interpretazione di Copenhagen” sembrano raccogliere consensi sempre meno unanimi. Uno degli scopi di questo articolo è quello di spiegare come vi sia un problema effettivo nella meccanica quantistica in quanto teoria fisica. Il problema è sottile e non ha conseguenze pratiche – ma sussiste. Occorre però evitare di attribuire a questo problema un’importanza eccessiva e, in ogni caso, non precipitare nella deriva irrazionalista in cui ci si imbatte talvolta ai margini del dibattito sulla meccanica quantistica. Peraltro, intendo mostrare che il problema è stato storicamente trasfigurato pretendendo che la soluzione risiedesse nell’adozione di uno specifico punto di vista filosofico. Intendo anche spiegare perché un certo numero di idee trasmesseci, come quelle che avevo imparato quando ero studente (sul teorema di Bell, sull’impossibilità di teorie a variabili nascoste), siano erronee.

Comincerò con una breve discussione filosofica sull’opposizione tra realismo e positivismo (sezione 2). Può sembrare strano iniziare con una discussione filosofica. Mi sembra tuttavia indispensabile prendere le mosse da una chiarificazione di queste nozioni, spiegando in particolare ciò che il realismo filosofico non è, a tal punto la confusione su tale questione perverte ogni discussione sui fondamenti della meccanica quantistica. Indicherò poi quale sia esattamente il problema della meccanica quantistica (sezione 3), e cercherò di mostrare che tale problema non è legato ad una posizione filosofica specifica. Non solo, l’idea in base alla quale la soluzione del problema consista nell’adottare una posizione filosofica positivista ha reso difficile la comprensione dell’aspetto più radicalmente nuovo della meccanica quantistica, cioè il suo carattere non locale, messo in evidenza da Einstein, Podolsky, Rosen e da Bell (sezione 4). Infine, indicherò brevemente le soluzioni possibili esistenti (sezione 5). Sebbene nessuna di esse sia interamente soddisfacente, alcune sono molto più interessanti di quanto si affermi correntemente (spesso senza esaminarle in dettaglio), ed occorre certamente studiarle se si vuole arrivare un giorno ad una teoria quantistica totalmente coerente e priva di ambiguità. Devo però sottolineare che pressoché niente di ciò che si trova in quest’articolo è originale (eccetto, come si dice di solito, gli errori). In effetti, i lavori di Bell contengono, anche se spesso in maniera molto stringata, quasi tutto ciò che può essere detto oggi sui problemi della meccanica quantistica. Uno degli obiettivi principali di questo articolo è quello di incoraggiare il lettore a studiare gli scritti di Bell. Per facilitare la lettura dell’articolo ho spostato tutta la parte dell’esposizione che necessita di equazioni nelle appendici da I a III, mentre l’ultima appendice è dedicata ad alcune tracce bibliografiche.


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Valeria Biagi – La Valle Bianca. Appunti per una rilettura del romanzo di Sirio Giannini

281 ISBN

Valeria Biagi

La Valle Bianca

Appunti per una rilettura del romanzo di Sirio Giannini

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Questo saggio si concentra sul romanzo La Valle Bianca di Sirio Giannini (1925-1960), scrittore e regista originario di Corvaia, piccola frazione di Seravezza, in provincia di Lucca. L’opera, dopo aver vinto il Premio Hemingway nel 1956 ed essere stata pubblicata per la prima volta nel 1958 dalla casa milanese Mondadori, nella prestigiosa collana “La Medusa degli Italiani”, ha avuto una traduzione in tedesco, Das Weiße Tal, per la casa editrice Progress di Düsseldorf nel 1959 e una ristampa a cura dell’editore Boni di Bologna nel 1981.

Il romanzo è ambientato nella Versilia degli anni Cinquanta, in una cava fra le Alpi Apuane, dove quotidianamente i cavatori estraggono il marmo. Proprio in questo contesto di lavoro faticoso, i tre protagonisti, Stefano, Giulio e Alda, condividono la vita di ogni giorno. Nel romanzo, Giannini inserisce sia molti termini tecnici riferiti alle fasi di estrazione del blocco di marmo, alla sua lavorazione e al trasporto a valle, sia molte descrizioni paesaggistiche, che danno respiro alla narrazione. Il personaggio di Alda sarà determinante per il sorprendente e profondo finale del romanzo, che riporta il lettore alla dura realtà, fatta di sacrifici e aspro lavoro, ma anche alla speranza aperta dalle scelte morali più autentiche.

Giannini si è occupato anche di cinema, come si può vedere dal cortometraggio intitolato I cavatori, di cui fu il regista e lo sceneggiatore e con il quale vinse, post mortem, il Premio Fedic e Airone D’oro al Festival di Montecatini Terme nel 1961. Il film gli valse anche una segnalazione al Festival Internazionale di Moulhouse. In sedici minuti, il cortometraggio evidenzia, lasciando in audio i suoni originali, il pesante e pericoloso mestiere del cavatore, lavoro che oggi risulta quasi dimenticato e, per certi versi, sconosciuto alle giovani generazioni.

Sirio Giannini ha vissuto, seppur breve, una vita intensa e piena di soddisfazioni, di premi letterari, ma anche di delusioni e amarezze. Nel corso della sua esistenza, ha intessuto rapporti e legami con alcune importanti personalità della cultura italiana novecentesca come Cesare Zavattini, Elio Vittorini, Marcello Venturi, Arnoldo e Alberto Mondadori, Arrigo Benedetti, Giuseppe De Robertis e altri.

Completamente autodidatta, l’Autore mostrava un talento raro. Purtroppo una grave malformazione al cuore gli limitava gli spostamenti lunghi, ma non gli impediva di scrivere e di lavorare anche nel campo cinematografico, le due sue passioni. Una fatale operazione al cuore lo stroncò il 26 gennaio 1960.

È morto da quasi sessant’anni. Oggi Giannini è conosciuto da pochi studiosi, ma nella sua terra natia, la Versilia, in particolare a Seravezza, la memoria dell’Autore è salda fra gli amici e la gente che lo ha conosciuto. A tal proposito, a Giannini è intitolato un Circolo Culturale, che ha svolto nel tempo una serie di iniziative per ricordarne il lavoro. Da cinque anni è pure intitolato a Giannini un Centro Internazionale di Studi Europei (CISESG), di cui chi scrive qui è attualmente Vice Presidente. Il CISESG è un centro di ricerca, che ha l’intento di svolgere l’azione più opportuna per una sempre maggiore diffusione, in Italia e all’estero, delle opere dello scrittore, oltre a promuovere gli studi sulle letterature di tutto il mondo, con particolare attenzione alla favola ed alla fiaba per gli adulti.


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Daniele Orlandi – Lettera a una madre sul primo amore

Orlandi Daniele 07

286 ISBN

Daniele Orlandi

T. Lettera ad una madre sul primo amore

Disegni di Sara Prebottoni

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La decisione era stata presa. La richiesta fu talmente accorata che non mi parve responsabile rifiutare né indagare oltre con imbarazzanti domande, del tipo: “Perché proprio a me?”. Una ragione esiste, ovviamente, ma è bene che resti privata.

Ho conosciuto Daniele alle materne e insieme abbiamo frequentato anche le scuole elementari. Avevamo entrambi il nitido ricordo del primissimo giorno, quando, attendendo timorosi e spaesati l’appello per la suddivisione delle classi, ci incontrammo nel cortile lanciandoci in uno di quei goffi abbracci tipici dei bambini. Ora che eravamo capitati nella stessa sezione, avevamo meno paura di abbandonare le mani delle nostre protettive mamme. All’inizio fummo molto uniti (siamo stati due competitivi consumatori di One O One e Kinder Cioccolato davanti a una balia di televisione). Successivamente, com’è naturale, questo legame tese a diluirsi nelle maggiori combinazioni di amicizie di una classe numerosa ma non si annacquò mai del tutto. Se parto da così lontano è anche per testimoniare della grazia di quella bambina che è qui indicata solo con la sua iniziale: per quanto non la conoscessi che di vista, T. era davvero bellissima.

Tuttavia, sebbene io abbia di quel periodo un ricordo felice, le mie memorie degli anni ’80 non raggiungono la precisione quasi patologica dell’amico Ferri (il cognome è fittizio). Lo chiamo amico, in senso lato. Come si evince da queste pagine, la nostra frequentazione era divenuta insieme occasionale e continuativa. In sostanza, il tempo ci avrebbe resi più che conoscenti e un po’ meno che amici. Ma sapevo abbastanza della sua storia familiare. Ricordo che la Pastorella ci ammoniva spesso sulla necessità di non prendere in giro i rispettivi parenti: “Non scherzate con le famiglie altrui, è un comportamento odioso! Daniele, ad esempio, ha il fratellino morto”. Conoscevo la madre, molto meno il padre ed ero al corrente anche dei suoi attacchi di panico, per quanto non così in dettaglio. Inoltre, ci legavano i medesimi studi che rappresentavano la base delle nostre chiacchierate, improvvisando lungo la via, davanti a un caffè o ai “giardinetti” di Via Giovanni Maggi, recensioni di libri amati o odiati, letti o da leggere. Magari chissà, da scrivere…

È il motivo per cui nel testo compaiono molti nomi di autori e di opere: per Ferri non erano soltanto libri ma veri e propri personaggi, avversari, bussole che lo avevano accompagnato fin da piccolo. Per agevolare il lettore, se ne dà notizia in nota esclusivamente laddove mi è parso opportuno. Questo poiché, sebbene il mio nome campeggi in copertina, l’autore di questa storia è in realtà Daniele Ferri di cui raccolsi le confidenze e una moleskine rossa a quadretti durante un tardo pomeriggio autunnale. “Non voglio farlo diventare un romanzo per due ragioni:”, diceva, “perché non ne sarei in grado e perché, come puoi immaginare, non lo è. È una lettera. In un doppio senso, se vuoi… Resta il fatto che come a scuola c’insegnavano che per un punto passano infinte rette, attraverso queste mie righe passa una e una sola lettera. Oltretutto, non sopporterei di figurare quale autore di una storia così sfacciatamente personale. Sarebbe ridicolo. Se proprio ci tieni, fammi tu da prestanome!”. E giù una secca risata ma con gli occhi che non sorridevano, com’era abitudine di Daniele. Finì che la condizione del prezioso regalo appena ricevuto fosse che avrei dovuto distruggerlo. Prima o dopo averlo letto, per lui non faceva differenza. Voleva vivere senza più l’assillo di quelle parole esistenti da qualche parte. Eppure, proprio lui che le aveva scritte per impellenza memorialistica, per terapia, per disperazione o che so io (si scrive per una spessa nube di motivi), non ne sarebbe stato capace. Non lo biasimo. Per un autore consapevole, ogni libro è un figlio destinato al ripudio e un rimorso senza termine. Ferri sapeva bene chi riesce davvero a lasciare dietro sé terra bruciata di solito agisce immediatamente o solo in punto di morte. Per questo la storia della letteratura è ingombra di agende, quaderni, fogli ritrovati per caso in cassetti, bauli, scaffali che il tempo ha custodito a tradimento. “D’accordo, Daniele, così sia”, dissi.

Ma non più tardi di un mese dopo l’impensabile era già accaduto e l’impegno di conservare quel taccuino senza aprirlo sfociò immantinente in una lettura tutta d’un fiato. Se taccio della sorpresa, dei rammarichi e di ogni altro sentimentalismo è perché non aggiungerebbero nulla al progetto di una pubblicazione senza scopo di lucro ma unicamente quale dono ai pochi intimi che, sapevo, avrebbero apprezzato con triste gioia. “Le due donne per cui ho estratto queste pagine dalla cava di marmo della memoria non le leggeranno mai”, scrive Ferri sul finale del libro. Mi rimorde, Daniele, non aver potuto nulla in tal senso. L’editore si disse favorevole, del resto, non temevamo nulla. Daniele stesso ci era venuto in soccorso: se si escludono gli elementi storico-geografici che fanno da cornice ai fatti narrati, questa – come si usa dire – è un’opera di fantasia dove ogni riferimento a persone realmente esistite è da considerarsi puro frutto del caso.

Io, dunque, sono soltanto il curatore di un manoscritto che si presentava datato 16 luglio 2016 e non più aggiornato ma i punti di discontinuità fra i temi trattati, l’incostanza grafica e stilistica, e le alternanze di biro blu e nera denunciavano una stesura rapsodica, bisognosa di assemblaggi, raccordi e fusioni. Finché ho potuto, non ho modificato una virgola del testo originale. Quando con frecce rimandanti al margine, Ferri appunta multiple opzioni lessicali o grammaticali si è proceduto cercando di snellire il più possibile ridondanze e indigeste ripetizioni. Laddove è stato opportuno intervenire per collegare due parti o dirimere un nodo della narrazione, ho fatto del mio meglio per mimare lo stile non invitante dell’autore. Redazionale è anche il sottotitolo: Lettera a una madre sul primo amore. Comprendo che non brilli in originalità ma l’ho scelto in quanto mi sembrava che realizzasse le intenzioni dell’autore: una lettera nella sua doppia accezione di missiva e d’iniziale, oltretutto inserendo quella di Ferri nel novero delle epistole che affollano la letteratura di ogni tempo e paese. Nondimeno confesso che non mi sarebbe affatto dispiaciuto chiamare questo libro Controsaggio sugli attacchi di panico o qualcosa di simile. L’impasto di saggistica e narrativa dello stile usato da Ferri mi ha infatti spesso ricordato l’ibridismo di alcune pagine di Jean Améry, di Primo Levi o di José Saramago, tra gli autori preferiti di Daniele e miei.

Nella tasca interna della moleskine ho rinvenuto un foglio a quadretti contenente un’annotazione autografa di Ferri. Ho ritenuto di riprodurla a mo’ di appendice fotografica in quanto suppongo che Daniele non avesse intenzione di inserirla nell’ambito narrativo eppure è proprio avulsa dal contesto che acquista il suo peso. Questo è stato, dunque, il mio lavoro nell’ultimo anno e mezzo. Se il lettore pensasse ad un’appropriazione indebita, avrebbe in parte ragione. Tuttavia, con i dovuti distinguo, daremmo del ladro a Max Brod che, contrariamente alle ultime volontà dell’amico Franz Kafka, nel 1925 curò l’edizione postuma di Il processo, regalando all’umanità uno dei capolavori della letteratura mondiale?

Vorrei infine aggiungere che se questo volume non fosse stato pubblicato la promessa fatta a T. dal protagonista nelle ultime righe del racconto non potrebbe dirsi del tutto onorata.

Adesso sì.

Questo “taccuino di un vecchio” non fa sconti al lettore. Non si lascia avvicinare facilmente e presuppone una minima conoscenza pregressa dei problemi che affronta. Ferri lo sapeva molto bene e aveva ragione a definirla una “scrittura privata”, come del resto può esserlo una lettera indirizzata a un interlocutore che ci conosce e che quindi avrà gli strumenti per farsene interprete (A quelli che sanno, avrebbe potuto essere una terza dedica all’inizio del volume). Per questo, laddove mi è parso che il testo avesse bisogno di un po’ di respiro ho comunque preferito non intervenire.

Il lavoro è stato lento ma estremamente istruttivo. Durante l’intera trascrizione ho molto ragionato su questioni che conoscevo solo marginalmente. Come il tema dell’agorafobia, ad esempio, le sue molteplici sfumature e complicanze, e della paura contraria ma sorella: la claustrofobia. Più volte mi sono chiesto dove mai l’agorafobico Ferri avesse trovato la forza di resistere nella ressa dei personaggi da lui evocati e come sia potuto accadere che una persona in grado di salire sull’ermetico montacarichi del passato per scendere a -1, -2, -3 e via via fino ai più bui sotterranei del dolore, possa portarsi dietro per così tanto tempo il terrore di prendere un comune ascensore. Resta per me un insopportabile paradosso.

Carissimo Daniele, dolce omonimo compagno, se solo tu avessi avuto nel vivere la vita il dieci per cento della determinazione mostrata nel raccontarla, oggi saresti un uomo risolto ed io non dovrei fare a meno delle nostre casuali e stimolanti passeggiate. Con quest’amarezza insolubile congedo la tua storia e il mio rimpianto.

Questo libro esiste grazie a tutti coloro che ne hanno supportato e sopportato il pigro parto. Concludo quindi ringraziando in particolare Sara Prebottoni, Sante Notarnicola, Carmine Fiorillo, Andrea Grottini, Sara Bolletta, Simone Nebbia, Paola Randazzo, Katia Gibertini e Elio Feliciani. Grazie a Luigi Orlandi, mio padre, che ha accettato di verificare i suoi ricordi sulle mie pressanti domande.

 

DANIELE ORLANDI

Roma, 25 novembre 2017

 


Daniele Orlandi – Costanzo Preve sulla «zona grigia» di Primo Levi
Daniele Orlandi – Nostalgie semiserie di un medievista senza Eco
Daniele Orlandi – Quell’amore di Dino Buzzati
Daniele Orlandi – Attraverso il prisma dostoevskijano, Camilla Migliori ci invita a considerare l’espressione artistica come un mezzo d’elevazione dell’uomo al di sopra dei suoi limiti.
Daniele Orlandi – Il Medioevo di Camilla Migliori. Invito alla lettura di «Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante».

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Massimo Bontempelli (1946-2011) – Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini.

Massimo Bontempelli_Gesù

284 ISBN

Massimo Bontempelli

Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero

Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello

indicepresentazioneautoresintesi

***

«La ricerca della verità, anche storica, non procede mai sui binari del potere, religioso o civile, e neppure dell’accademia ad essi legata. È cosa, questa, ben nota, per cui non meraviglia che un insegnante di liceo del nostro tempo, ingiustamente rimasto ai margini della ribalta culturale, offra un significativo contributo a quella ricerca cui, quasi tre secoli fa, dette inizio un altro insegnante liceale: l’amburghese Hermann Samuel Reimarus.

Il libro di Bontempelli si situa infatti legittimamente in quella linea di indagine scientifica sulla “vita di Gesù”, iniziata appunto con Reimarus […] che ha avuto nel corso del ventesimo secolo ulteriori importanti sviluppi e che non è affatto terminata.

Identica è, infatti, l’impostazione critica e la metodologia: esaminare le fonti con la maggiore imparzialità possibile, esercitando la ragione senza tesi preconcette. Il libro dichiara esplicitamente fin dall’inizio questo programma e ad esso si attiene scrupolosamente, restando così equidistante tanto dalla letteratura devozionale quanto dal positivismo più rozzo».

Marco Vannini

 

Indice

Prefazione di Marco Vannini

Dal Gesù della tradizione cristiana al Gesù della storia

L’incontro con Gesù dopo la sua morte

Gli inizi di Gesù con Giovanni Battista

Gli anni oscuri di Gesù

L’anno luminoso di Gesù

Gesù nell’orizzonte di Gerusalemme

La tragica sconfitta di Gesù a Gerusalemme

Gesù nella storia e oltre la storia

 

 

Postfazione di Giancarlo Paciello

 

 


Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

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Salvatore Bravo – Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto

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Coperta 292

Salvatore Bravo

Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto è onnivoro, ha smarrito la strada del bene e del male, è solo interno al visibile, alla merce ed alle sue immagini che ne colonizzano la carne privandola della sensibilità della comunicazione. Vive nell’immediatezza, consuma ogni prodotto nell’irrilevanza critica ed etica: ha fatto dell’attimo consumante l’ontologia della consolazione. Il mercato è il fondamento ontologico che si rispecchia nel suo pensiero. È l’automa cartesiano realizzato, privo di anima ma pronto all’azione imitativa. Vive l’imperio del caos, insegue i flussi dell’economia diventandone parte fino ad esserne parte indifferenziata, non pensa il suo tempo, lo insegue, lo annusa in cerca di selvaggina: la merce.

La vita allora si disfa in una temporalità segnata dal tempo liturgico del consumo senza limiti, e la chiamata al consumo non conosce soste. Vive l’incontro solo come occasione per soddisfare i suoi biologici interessi, divora l’altro.

Con questo saggio l’autore vuole contribuire a pensare l’epoca presente, a porre delle domande sul dominio del nulla sull’essere, sempre più incombente, sull’avanzare del deserto spirituale, nel dolore silenzioso dei tanti senza voce, senza destino. E chiama in causa la necessità di elaborare una filosofia capace di progettualità sociale e comunitaria.

 

Indice

Il cacciatore onnivoro

Il soggetto debole, ovvero il cacciatore

Il tempo della quantificazione: la vita oltre la vita

Gli abitanti della società liquida

Nella mente del cacciatore

L’uomo modulare

L’irrilevantocrazia

L’io nuvola

L’angoscia autentica

Il bisogno ontologico

La caverna del cacciatore

Il trascendentale dei cacciatori

La domanda nel tempo del neorealismo

La trasparenza dell’indifferenziato

Che fare?

Conclusioni


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Antonio Vigilante – Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore

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coperta 293

Antonio Vigilante

Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore

indicepresentazioneautoresintesi

 

Tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento si assiste al repentino passaggio dalla fiducia incondizionata nei mezzi della scienza e della tecnica all’inquieta consapevolezza delle crisi della civiltà. Lev Tolstoj, Albert Schweitzer e Rabindranath Tagore, pur osservando la crisi da punti di vista diversi, concordano nel denunciare la violenza, il fanatismo identitario, l’alienazione della macchina, l’eclissi dello spirito. Ma non si limitano alla denuncia, né si chiudono in un rifiuto sdegnoso del mondo moderno. In opere dimenticate come Della vita e Il Regno di Dio è dentro di voi, il grande scrittore russo indica la via di un amore radicale e rivoluzionario, che attacca l’ordine costituito con la forza della sola persuasione morale. In Africa Albert Schweitzer, filosofo, teologo e medico missionario, ha l’intuizione del rispetto per la vita, una nuova visione morale che supera i confini di specie ed afferma il valore e il diritto al rispetto di ogni essere vivente. In Bengala Tagore, pur rivendicando l’identità culturale del suo popolo aggredito dal colonialismo, cerca una nuova civiltà mondiale, nata dal dialogo e dalla sintesi tra il pensiero scientifico occidentale e la spiritualità indiana.

Tre pensatori che in forme diverse, ma anche con singolari convergenze, combattono le chiusure fanatiche ed i nazionalismi che tante tragedie causeranno nel Novecento. Alla base di questa apertura interculturale c’è un atto esistenziale radicale: l’attraversamento del proprio ego, dell’identità con le sue consolazioni ed i suoi attaccamenti, e la conquista di una visione transpersonale che porta nella società la luce di una razionalità etica alternativa alla ratio dell’economicismo capitalistico.

 

 

 


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Alberto Manguel – La mia biblioteca è una sorta di autobiografia. Nel proliferare degli scaffali vi è un libro per ogni istante della mia vita. Segnano i miei anni come le pietre bianche che indicano la strada di un pellegrino.

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Il libro degli elogi

Il libro degli elogi

 

 

La mia biblioteca è una sorta di autobiografia. Nel proliferare degli scaffali vi è un libro per ogni istante della mia vita, per ogni amicizia, per ogni delusione, per ogni cambiamento. Segnano i miei anni come le pietre bianche che indicano la strada di un pellegrino.
Un’annotazione sul margine, una macchia di caffè, un biglietto del tram dimenticato servono a segnalare antichi anniversari.

 Alberto Manguel, Elogio del piacere

Elogio del piacere

 

La mia biblioteca è una sorta di autobiografia. Nel proliferare degli scaffali vi è un libro per ogni istante della mia vita, per ogni amicizia, per ogni delusione, per ogni cambiamento. Segnano i miei anni come le pietre bianche che indicano la strada di un pellegrino. Un’annotazione sul margine, una macchia di caffè, un biglietto del tram dimenticato servono a segnalare antichi anniversari. La mia copia del Don Chisciotte (in due volumi, curato da Isaías Lerner e Celina S. de Cortàzar, con illustrazioni di Roberto Páez, pubblicato dall’amata e compianta Eudeba, vittima come tante buone cose della dittatura militare) mi riporta al mio Colegio Nacional di Buenos Aires, alle affascinanti lezioni di letteratura spagnola in cui lo stesso Lerner, brillante erudito, ci comunicava la sua passione per la lettura lenta, insegnandoci a indugiare su un testo fino a conoscere a memoria la sua accogliente geografia. Lerner ci ha insegnato a diventare amici dei classici, a sentirli intimi senza lasciarci intimidire. La cronaca di quegli anni è tracciata nel mio Garcilaso, nella mia Celestina, nel mio Gonzalo de Berceo, nel mio Arcipreste de Hita. La mia amicizia con loro data da quelle lezioni.
Il mio piacere della lettura è ancora più antico. Racconti, leggende, avventure, le vite ricche e rischiose del Capitano Nemo, di Sherlock Holmes, di Renart la volpe e del Gatto con gli stivali, di Robinson Crusoe, di Pinocchio, di Narizinho, e di tanti altri che ho conosciuto tra le pagine di un libro, sono stati miei fin da prestissimo. Due aspetti della lettura mi davano piacere soprattutto: conoscere la conclusione dei loro viaggi e poterla dimenticare quando riaprivo il libro ancora una volta. Una delle meraviglie della lettura, comune nei bambini e nei lettori di una certa età, è la ripetizione. I teologi hanno decretato che neppure Dio può ripercorrere il passato; tale potere negato a qualsiasi Autore appartiene tuttavia a ogni lettore disposto a ritornare alla prima pagina di un racconto.
Piacere del dialogo con antichi illuminati, piacere dell’avventura straordinaria. Ancora, e non minore, piacere dell’esperienza indiretta, vissuta da un altro soltanto per noi. Vivere nell’Inghilterra di Dickens, nella Madrid di Galdós, nella Sicilia di Pirandello; assistere alle scoperte di Fabre e di Plinio; sentire la passione di Medea, la desolazione di Törless, la ribellione di Montag, la tristezza di Pel di carota – essere, per un momento, quel che hanno sognato di essere quelle creature soavemente immortali. Vivere l’impossibile: perdermi nell’oscuro piacere degli incubi di Bioy Casares, di Stevenson, di Wells, di Silvina Ocampo, di Cortázar, di Tibor Déry, di Kobo Abe.
A volte, la funzione dei miei libri è rivelatrice. Leggere per la prima volta Benjamin, sir Thomas Browne, Chesterton, Calasso, Vila-Matas ed essere guidato attraverso un luminoso labirinto di idee che sembra costruito per aiutarmi a pensare, diventa per me un’esperienza equivalente all’illuminazione di cui parlano i sapienti. In quelle sere epifaniche il piacere è puramente e profondamente intellettuale, un atto di cui le nostre società oggi disprezzano il valore.

Alberto Manguel, Il libro degli elogi, Archinto, Milano 2009, p. 57.

 

 


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Lev Nicolaevič Tolstoj (1828-1910) – Che cos’è l’arte: L’arte incomincia là, dove incomincia l’appena appena

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Tolstoj

 

Che cosa è l'arte

Che cosa è l’arte

«Ho già citato altra volta una profonda massima del pittore russo Brjullov sull’arte, ma non posso fare a meno di citarla di nuovo, giacché non si potrebbe meglio indicare quel che è possibile e quel che è impossibile insegnare nelle scuole. Nel correggere lo studio d’un allievo, Brjullov lo ritoccò appena qua e là, e quel brutto, morto disegno d’improvviso prese vita. “Come, lo avete ritoccato appena appena, e tutto è cambiato?” disse uno degli allievi. “Larte incomincia là, dove incomincia l’appena appena”, disse Brjullov, esprimendo con queste parole il connotato più caratteristico dell’arte. È un rilievo giusto per tutte le arti, ma se ne può riscontrare la giustezza soprattutto quando si esegue della musica … Prendiamo le tre condizioni principali: l’altezza, il tempo e la forza del suono. L’esecuzione musicale diviene arte, e contagia gli ascoltatori, quando il suono non è né più alto né più basso di quanto dev’essere, cioè quando si sarà preso quel punto centrale, infinitamente piccolo, di quella tal nota che ci vuole, e quando si sarà tenuta questa nota tanto a lungo quanto esattamente occorre, e quando l’intensità del suono non sarà né maggiore né minore del necessario. Il minimo scarto nell’altezza del suono in un senso o nell’altro, la minima amplificazione o diminuzione del tempo, e il minimo rafforzamento o indebolimento del suono rispetto al dovuto, distruggono completamente l’esecuzione e, quindi, la potenza di contagio dell’opera. Sicché, questa contagiosità dell’arte, della musica, che parrebbe tanto semplice e facile da provocare, la si ottiene in realtà solo quando l’esecutore sa trovare quei momenti infinitamente piccoli, che sono necessari alla perfezione della musica. Lo stesso avviene in tutte le altre arti. Se appena appena è più chiaro, appena appena più scuro, appena appena più in alto, più in basso, più a destra, più a sinistra – in pittura; se appena appena è smorzata o rinforzata l’intonazione in arte drammatica, o eseguita appena appena più presto, appena appena più tardi; se appena appena non è detto a sufficienza, o detto con troppa abbondanza, o esagerato – in poesia: ecco che quel contagio non si ha più. Il contagio si ottiene solo quando e nella misura in cui l’artista sappia trovare i momenti infinitamente piccoli che compongono l’opera d’arte».

 

Lev Tolstoj, Che cos’è l’arte, Mimesis, 2010.

 


Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Tutti i grandi cambiamenti cominciano e si compiono nel pensiero

Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …

Lev Tolstoj – Che cos’è l’arte: L’arte incomincia là, dove incomincia l’appena appena

Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – In una società dove esiste, sotto qualunque forma, lo sfruttamento o la violenza, il denaro non può assolutamente rappresentare il lavoro. La semplicità è la principale condizione della bellezza morale.

Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso.

Lev Nicolaevič Tolstoj (1828-1910) – Non appena ho compreso l’essenza della ricchezza e del denaro, mi si è chiarito quanto in realtà sapevo già da molto.

Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) – «Se lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?». Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità. La sua è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Il termine «mio» poggia unicamente su un basso, animalesco istinto degli uomini, istinto che alcuni chiamano «sentimento» di proprietà, o diritto di proprietà. Le parole che essi ritengono assai importanti sono: mio, mia, miei.


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Simone Weil (1909-1943) – Il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione. La bellezza del mondo non è distinta dalla realtà del mondo.

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Quaderni, Vol IV

Quaderni, Vol. IV

«Tutte le volte che si riflette sul bello, si è arrestati da un muro. Tutto ciò che è stato scritto al riguardo è miserabilmente ed evidentemente insufficiente […].

Il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione. La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio.

La bellezza del mondo non è distinta dalla realtà del mondo».

Simone Weil, Quaderni, Volume quarto, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 371.


Simone Weil (1909-1943) – Silenzi che educano l’intelligenza
Simone Weil, «Oppressione e libertà», Orthotes Editrice, 2015
Simone Weill (1909-1943) – Trovare uomini che amino la verità
Simone Weil (1909-1943) – Il desiderio di luce produce luce: un tesoro che nulla al mondo ci può sottrarre.
Simone Weil (1909-1943) – Un regime inumano, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi.
Simone Weil (1909-1943) – Dove il pensiero non ha posto, non ne hanno né la giustizia né la prudenza. Le nostre idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta di vita, ormai hanno solo un impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri soltanto davanti alla materia. I Greci furono geometri innanzitutto nell’apprendimento della virtù.
Simone Weil (1909-1943) – L’amicizia non ammette di essere disgiunta dalla realtà, non più che il bello. È puro quel che è sottratto alla forza.
Simone Weil (1909-1943) – La nozione di valore è al centro della filosofia.

 



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