«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono come verdi campane e si ributtano indietro e si disciolgono.
[…]
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso e insieme fisso: e svuotarmi così d’ogni lordura come tu fai che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso».[1]
Antico è ciò che, come le “ombre”, si nasconde
«tra le parole imprevedibili, mai palesate, mai scritte, mai dette per intero,
[…]
non hanno né un prima né un dopo perché sono l’essenza della memoria. Hanno una forma di sopravvivenza che non interessa la storia».[2]
***
[1] Eugenio Montale, Ossi di seppia, Mediterraneo, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, p. 58.
[2] Eugenio Montale, Satura II, Botta e risposta III, in Tutte le poesie, op. cit., p. 370.
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A Sante, alla sua capacità di esser stato, e di essere ancora, per sempre, ad un tempo, fragile e misteriosa cristalide, come gioventù ricca di speranze, di possibili metamorfosi, matrice di trasformazioni – condizione della realizzazione – e farfalla che col suo diafano e lieve battito d’ali punteggia la trama di Iride.
Carmine Fiorillo
La farfalla
Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.
Chiara è una bimba felice. Nata attrezzata per i giochi infiniti.
Chiara lo sa, con lei giocheremo tutta la vita.
Sante Notarnicola
Non c’è vita che almeno per u n attimo non sia stata immortale.
La morte è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia d’una porta invisibile. A nessuno può sottrarre il tempo raggiunto.
Wislawa Szymborska
Sante Notarnicola
[…] ci ho messo 50 anni a diventare comunista. E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E 5 anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui […] E le cariche dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro la porta per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diotrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.[1]
Poesia per comunicare in condizioni difficili. Poesia per rompere l’isolamento a cui vorrebbero costringere corpo e cervello. Poesia come difesa dall’abbrutimento della prigione. Poesia per amare ancora, per vivere ugualmente una vita complessiva.[2]
«Caro Sante, Le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis.
[3] Lettera di Primo Levi a Sante Notarnicola, in S. Notarnicola, L’anima e il muro, a cura di D. Orlandi, disegni di Marco Perroni, Odradek, Roma 2013, pp. 19-20.
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Il velo di fango che gli aveva avvolto lo spirito e l’anima quella notte si dissipava lentamente, cedendo al soffio del giorno appena spuntato, pieno di profumi dolci e rianimanti. La riva era indorata dai primi raggi del sole, e l’acqua, un po’ torbida per effetto della pioggia, rifletteva malamente il verde degli alberi. […] Ippolito camminava lungo la riva capricciosa, che formava piccoli seni verdeggianti, e scopriva ad ogni passo nuove meraviglie di bellezza. Camminava leggero, sfiorando l’acqua, sicuro di scorgere sempre qualcosa di nuovo. Esaminava attentamente tutto quanto vedeva, si fermava ad ogni piccolo seno formato dalla riva per avere il colpo d’occhio degli alberi che lo circondavano, come se cercasse la ragione della diversità tra il dettaglio dell’assieme degli alberi e quello del piccolo seno. Ad un tratto si fermò, abbagliato. Il fàscino di una visione. … la fanciulla era immersa nell’acqua sino a mezzo busto, era davanti a lui, la testa reclinata in avanti, intenta ad intrecciare i capelli che si erano sciolti. Sulle carni rosee brillavano al sole gocce di acqua come scheggie di diamanti che carezzavano le spalle, il petto e, prima di scendere nel fiume, tremolavano al sole lungamente, come se non volessero lasciare il corpo che le aveva accolte. Osservava quell’immagine come qualcosa di sacro, tanto era pura e armoniosa la bellezza di quella fanciulla nel fiore della gioventù. Si sentiva lieto e non provava altro desiderio che quello di contemplarla. […] Ma, purtroppo, quaggiù come il buono dura poco, il bello è raro … e Ippolito fu lieto solo per pochi istanti. La fanciulla alzò la testa e, mandando un grido di collera, si immerse nell’acqua fino al collo. Quel grido echeggiò nel cuore di Polkanov, che si sentì tuffato come in un mare di ghiaccio.
Maksim Gor’kij, Fàscino, Casa Editrice F. Bideri, Napoli 1915, pp. 101 ss.
H. Matisse, Nudo blu.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Nell’intimità, non mi premunisco né sono sospettoso. È come dire che siamo intimi tra di noi per il fatto che abbiamo lasciato perdere calcoli e ragioni; che è sospeso il rovello dell’interesse. [… ] L’intimità è la condivisione sotterranea che non ha più bisogno di mostrarsi e di dare prova di sé. […] Perché l’intimità è uno stadio che si raggiunge non uno stato.
François. Jullien, Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’Amore, Raffello Cortina, Milano 2014, pp. 25-26.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Le prime cinque domande del Dott. Fabrizio Caruso:
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Lei è autore del libro Ricchezza edito da Unicopli e dedicato al tema della ricchezza nella filosofia antica: qual era la concezione della ricchezza nel pensiero greco antico?
Mi preme innanzitutto dire che il libro si colloca in una collana, denominata Questioni di filosofia antica, diretta dal Prof. Marcello Zanatta, in cui ho già realizzato i volumi Natura (2018) e Uomo (2019). La collana è a mio avviso intelligente in quanto analizza, sul piano insieme teorico e storico, i concetti fondamentali della filosofia antica per come variamente trattati dai diversi pensatori, da Omero fino alle soglie del Medioevo. Per questo è difficile rispondere sinteticamente alla sua domanda circa quale sia la concezione della ricchezza nel pensiero antico: questo pensiero è molto articolato, come lei stesso ha colto nelle varie domande che seguono. In una battuta, posso dire solo che la ricchezza era concepita, al contempo, come qualcosa di necessario alla vita e di pericoloso, soprattutto se posta come fine, sia sul piano individuale che sociale.
Cosa rappresentava, in ambito ellenico, il possesso della terra?
La terra per gli antichi costituiva una parte importante della loro identità. Esistono miti che riportano che gli Ateniesi – ma non solo – si ritenevano autoctoni, ossia “nati dalla propria terra”, non provenienti da altre parti del mondo. La terra era dunque per loro come una madre, che li aveva fatti nascere, li ospitava e li nutriva. Inoltre, era il luogo in cui erano sepolti gli antenati, su cui sorgevano i templi degli dèi, in cui erano conservati i ricordi, e così via. Per questo della terra, come dei genitori, occorreva, per gli antichi, avere rispetto e cura.l tema della terra risulta come detto strettamente connesso ai temi della natura, del divino e dell’umano, ossia ai contenuti che costituiscono l’intero della realtà per il mondo antico. Questi temi risultano spesso fra loro intrecciati nel primo pensiero greco, come ho scritto anche in un libro recente (Leggere i Presocratici, Morcelliana, 2020). Per ragioni di spazio accenno qui solo a un contenuto, scegliendo quello della natura: si ricorda quando qualche anno fa Papa Francesco disse in una intervista: “Se qualcuno offende la mia mamma, gli do un pugno”? Ecco: dato che la terra era, dagli antichi, paragonata ad una madre, la provocazione vale anche per loro; chi, per brama di ricchezza, non la rispetta, merita, per i Greci e i Latini, di essere adeguatamente sanzionato, non di farla franca come spesso accade oggi. Gli antichi erano lontani dalle nostre dinamiche inquinanti, ma sapevano che della terra occorre avere rispetto e cura, se si desidera che essa ci ricambi in eguale maniera.
Quale concezione aveva del lavoro il mondo greco?
La domanda è molto interessante, e mi offre l’occasione per fornire un chiarimento. L’opinione comune ritiene che gli antichi greci odiassero il lavoro tout court. In realtà, avversavano semplicemente il lavoro eterodiretto, ossia quello per cui, a causa di una condizione di bisogno, si è costretti a porsi al servizio di altri, impiegando il limitato tempo della propria vita senza poterne realizzare al meglio le potenzialità. Gli antichi non avversavano, invece, il lavoro autodiretto, ossia quello scelto da ciascuno in quanto conforme alla propria natura, dunque ai fini della propria vita. I Greci e i Latini non consideravano male nemmeno il lavoro manuale. A partire dai poemi omerici, troviamo infatti dèi fabbri (Efesto), principesse al telaio (Penelope), re che arano la terra (Laerte), principi che intagliano il proprio talamo nuziale (Odisseo), e così via. I Greci, dunque, non odiavano il lavoro in sé, ma solo quello che non consentiva loro di realizzare compiutamente la propria esistenza. Non mi sembra una idea così strana: chi è felice di svolgere, solo per bisogno, un lavoro alienante, come è costretta a fare oggi larga parte della popolazione mondiale? Mi sembra un messaggio che soprattutto i giovani, che si trovano nella condizione di poter scegliere – naturalmente entro certi limiti – l’attività della propria vita, dovrebbero meditare bene. Ciò che si fa ogni giorno determina in larga parte, a lungo andare, ciò che si diventa, per cui davvero consiglierei di meditare sul fatto che può valere la pena rinunciare a qualcosa sul piano materiale, se si desidera realizzare nella vita un progetto buono a noi connaturato.
Quale ruolo svolge, nel mondo ellenico, il tema della proprietà?
Il tema della proprietà, per come siamo abituati noi moderni a pensarlo, ossia in termini giuridici, non viene specificamente indagato nei testi greci che ci sono rimasti; in epoca romana invece, come noto, inizia ad esserlo maggiormente. Ciò nonostante, nella forma del “possesso”, soprattutto della terra, esso risulta un tema centrale. Poter possedere, utilizzare, godere della terra e dei suoi frutti faceva la differenza, nel mondo antico, fra vivere bene, vivere male o addirittura non poter sopravvivere. Le fondazioni di nuove poleis nel Mar Nero, in Magna Grecia e in Sicilia, che presero corpo soprattutto nell’VIII secolo a.C., furono realizzate principalmente da persone che si trovavano nella impossibilità di poter sussistere, in quanto non proprietarie di terra, oltre che desiderose di realizzare un modo migliore di vita. Il fatto che la proprietà dei “mezzi della produzione sociale” – mi passi questa espressione moderna – dei beni necessari alla vita fosse pubblica, dunque di tutti, o privata, quindi solo di alcuni, faceva una enorme differenza: vi è in merito tutta una tradizione, che parte quanto meno da Solone per giungere fino alla Repubblica di Platone ed oltre, che lo testimonia. L’opposizione centrale, nel pensiero economico greco, è quella fra pubblico e privato: il pubblico era lo spazio dell’interesse generale, il privato lo spazio dell’interesse particolare; il primo, in quei tempi, era sentito come preminente, mentre oggi è sentito preminente il secondo. Con le conseguenze che abbiamo davanti agli occhi.
Come si accompagna a quello della ricchezza il tema del suo limite?
Il tema del limite è centrale per comprendere il tema della ricchezza materiale. Se la ricchezza costituisce il fine della vita, individuale e sociale, la sua produzione può solo essere massimizzata, esattamente come accade oggi nel modo di produzione capitalistico. Se la ricchezza, intesa come produzione dei beni e servizi essenziali, è considerata invece solo come un mezzo per condurre una buona vita, ovvero per realizzare in maniera compiuta la propria umanità, essa deve essere limitata, soprattutto all’interno di un mondo limitato. E’ questa la differenza, nel pensiero greco, fra ciò che, con espressione aristotelica, può definirsi “chrematistike” (i chremata erano i beni materiali, e per estensione la merce, il denaro) e la vera e propria “oikonomia”, ovvero la gestione normata dell’oikos, della casa comune, pensata idealmente come una famiglia. Tutto il pensiero greco, dalle prime espressioni sapienziali, si incentra sul tema del limite, della giusta misura: nel possesso, nei rapporti fra le persone, nel consumo dei beni, e così via. La misura giusta di ricchezza, per i Greci, è quella che consente di realizzare nella maniera migliore la propria umanità: quella, insomma, che permette di dedicare la vita al sapere ed alla politica, a sé stessi ed agli altri, senza dover perdere tempo, ed abbrutirsi, nella ricerca di denaro.
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Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Attenzione a chi cade, attenzione al sole che nasce e che muore, attenzione ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. […] Il mondo ha bisogno di essere amato e accudito, prima di essere pianificato o portato chissà dove. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.
Franco Arminio, Per tornare assieme nella casa del mondo. Manifesto per il nuovo anno, Anima mundi edizioni, Otranto 2018, pp. 10-12.
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Ho inseguito la verità dell’intelletto nella curva veloce degli anni e ancora non so quale sia la lingua del cuore ancora mi è ignota a patria vera degli esuli.
Daniele Serafini, Heimat.
Vengono da vecchi album questi fremiti di vita virati seppia volti fieri di donne senza ansia di esistere – eleganti e silenziose ferme nella loro forza queste donne antiche dagli sguardi severi [. ..] tornano a salutarci queste donne antiche con la fragranza di un fiore che non si rassegna al tempo né al nostro troppo facile oblio.
Daniele Serafini, Antiche donne, in Tra le radici e l’altrove. Poesie 1986-2016, L’arcolaio, Forlinpopoli (FC) 2016, p. 184.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario. La storia non giustifica e non deplora, la storia non è intrinseca perché è fuori. La storia non somministra carezze o colpi di frusta. La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Il presente non è tutto Nei tempi bui in cui tutto sembra procedere nel rumore cadenzato e stridulo dei cingolati del , la poesia appare come libertà, breccia nella plumbea cappa dei nostri giorni senza speranza e senza prospettiva. Montale nella poesia La Storia ci induce a riflettere sull’andamento della storia per poter riprendere il cammino che pare già segnato, ma in realtà è un campo di possibilità che si snoda davanti a noi. Il capitalismo ha in odio la storia, poiché essa testimonia che ogni potere è nel tempo, vorrebbe dissolverla in modo che si pensasse che il presente ha in sé la pienezza senza trascendenza, che oltre il tempo presente con la sua visione unidirezionale non vi è nulla. Il capitale nella sua fase apicale ha divorato anche il nulla, non ammette antitesi di nessun genere, si presenta come l’essere univoco parmenideo, deve eliminare ogni orizzonte temporale per erigere prigioni globali. Montale ci rammenta che la storia non è prevedibile, è attività creatrice, ha improvvise deviazioni, nessuno la possiede, ma appartiene a tutti, e dunque con l’aiuto delle circostanze l’impossibile può diventare reale. La storia ideale costruisce eroi ed ipostasi quali artefici della storia, ma la verità è che la storia è il frutto di una pluralità di soggetti che muoiono anonimi, eppure partecipano vivamente al suo procedere, sono il sale della vita che crea nuove possibilità. La loro gioia è nella partecipazione silenziosa che non verrà segnalata da nessuno storico. Ciò malgrado, dietro i rumori dei grandi vi è la storia dei piccoli, dei resistenti, che con la loro piccola vita possono deviare il corso fatale della stessa. Coloro che vogliono ridurre la storia ad un teorema con definizioni e corollari predeterminati hanno già perso, perché si pongono fuori del cammino della storia vivente:
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario.
Piani di passaggio La storia ci sembra, ora, in questi decenni omogenea: un piano liscio su cui scorrono merci e chiacchiere. L’impero del valore di scambio sembra non lasciare scampo, assimila ogni differenza, espelle dal suo grembo maligno ogni alterità. L’omogeneità si ripiega su se stessa, non lascia varchi, brecce da cui ri-dialetizzare il presente. Montale ci invoca a guardare fortemente la storia e a cogliere sul piano liscio improvvise “buche” che consentono il passaggio verso nuovi mondi. Il piano grigio e compatto della globalizzazione, apparentemente invincibile, è puntellato di resistenti che non si lasciano divorare dalla chiacchera, ma conservano la loro umanità, la loro razionalità critica che trasforma il presente in attività divergente. La storia non è conclusa, il potere vive l’illusione del controllo totale, si bea della sua tracotanza, ma la vita con le sue buche gli sfugge. Le buche possono trasformarsi in voragini tali da deviare il corso degli eventi, da mutare la geografia dei significati che il potere vorrebbe eternizzare:
La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli.
Fuori dalle reti Per poter comprendere la storia, se mai questo sia possibile, dobbiamo guardare fuori la rete che ci rassicura, distribuisce i ruoli, tira una linea tra vincitori e vinti. La storia vera e viva è fuori della rete. Solo chi è fuori della rete può comprendere la verità della storia. Chi è tagliato fuori dalla storia, svela le illusioni di coloro che sono nella rete, chi sfugge alla rete per volontà o per un caso trova un varco, è l’attore di un nuovo inizio. Gli infelici che sono “fuori” non sono da compiangere, perché in loro riposa la possibilità di un nuovo percorso, perché dal loro “fuori” vedono la verità della rete con i suoi disincanti. Il loro sguardo penetra nella notte oscura per incontrare l’inizio di un nuovo giorno, la tragedia si sposa con la speranza:
C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Non dobbiamo temere di essere degli invisibili, dei pesci piccoli che nuotano alla periferia della rete, coloro che non sono nella rete non appaiono, ma sono la sostanza del mondo, e la storia vive delle loro inconfessabili libertà. La teoria del caos (James Yorks) ci insegna che un battito d’ali può causare effetti che non possiamo prevedere. Dobbiamo continuare a battere le nostre ali. I nostri pensieri, il nostro impegno sono le ali della storia. La storia viva è indecifrabile, insondabile e non si ripete mai in modo eguale, pertanto anche nella disperazione può fiorire la speranza, perché la storia è molto più di ciò che appare, leggiamo e viviamo. La storia incombe, se ci arrestiamo davanti alla sua grandezza, ma se entriamo in essa e ci doniamo senza la presunzione del risultato tutto può ancora essere ed esserci. Non dobbiamo allevare barbari dal calcolo facile e dal cuore lento, ma guerrieri gentili dalle cui parole può rifiorire un mondo.
Salvatore Bravo
[1] Eugenio Montale, La Storia, in Satura, Mondadori, Milano 1971).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Dopo settant’anni di intima dimestichezza con opere d’arte d’ogni specie, d’ogni clima e d’ogni tempo, sono tentato di concludere che a lungo andare le creazioni più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute, senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto. Se qualcosa esprimono è carattere, essenza, piuttosto che sentimenti [. .. ]. La loro semplice esistenza ci appaga. Applicherei l’epiteto di esistenziale alle opere d’arte che ho in mente.
Bernard Berenson, Piero della Francesca o l’arte del non eloquente (1950), a cura di L. Vertova, tr. it. Abscondita, Milano 2007, p. 16.
Bernard Berenson, nato in Lituania, si laurea in Letteratura nel 1887 all’Università di Harvard, prima di trasferirsi in Europa grazie a una borsa di studio. Qui matura la sua vocazione per la critica e la storia dell’arte, visitando e familiarizzando con le collezioni più importanti e affermandosi tra i maggiori studiosi della pittura italiana. Tra le sue opere ricordiamo: I pittori italiani del Rinascimento (1936), Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva (1948), Echi e riflessioni. Diario 1941-1944 (1950), Lotto (1954).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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