Nicola Campogrande – L’etica di un musicista consiste nella propria missione estetica, nel pensare, scrivere, eseguire musica bella, forte, intensa, capace di scuotere chi l’ascolta, perché cittadini sensibili sono cittadini migliori.

Nicola Campogrande

«Gli italiani che ascoltano musica classica dal vivo rappresentano meno del 10% della popolazione. […] Il fatto nuovo è che oggi si ha voglia di capire, di approfondire, di penetrare nel cuore dell’esperienza musicale in modo non solo sensoriale. […] Non sono uno storico della musica né un musicologo. Sono un compositore […]. Oggi … siamo tornati a pensare che l’etica di un musicista consista nella propria missione estetica, nel pensare, scrivere, eseguire musica bella, forte, intensa, capace di scuotere chi l’ascolta non perché il programma di sala spiega che è stata composta in omaggio alle vittime di questa o quella strage, ma perché l’artista che la sta offrendo ha usato il proprio talento, la propria maestria, per trasformare un’idea, un sentimento, in un momento di musica. […] A scuola ci insegnano come osservare un quadro […] ma non come ascoltare una sinfonia o un’opera, quali corde possiamo mettere in vibrazione, dove è utili indirizzare la nostra attenzione; ed ecco il senso dei miei libri. Anche perché cittadini sensibili sono cittadini migliori. E vivremmo tutti meglio».

Nicola Campogrande, 100 brani di musica classica da ascoltare una volta nella vita, Rizzoli, 2018.


Descrizione

Quello della musica classica è un universo vasto e pieno di bellezza, che con la giusta guida può essere scoperto in tutta la sua meraviglia: in questo libro il grande compositore e divulgatore Nicola Campogrande indica al lettore quali sono i 100 brani che vanno ascoltati almeno una volta nella vita, spaziando dalle origini sino alla musica classica contemporanea. Ciascun brano è presentato brevemente, con un linguaggio chiaro e accattivante, con aneddoti sulla vita dell’autore e riferimenti alla nascita dell’opera. Un’introduzione semplice e appassionante alla musica classica.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Aldo Nove – Non c’è mai stato nella storia dell’uomo un momento così delicato. Così adatto per tornare a essere parte della musica del Creato.

Aldo Nove

Non c’è mai stato
nella storia dell’uomo
un momento
così
delicato. Così adatto
per tornare
a essere parte della
musica del Creato.

***

Le macerie
in cui
non
viviamo sono truccate
come puttane.

***

L’impero della mente
parla,
straparla,
non sente. L’impero della mente
non sa di noi
e di noi non gli importa
niente.

Aldo Nove, Poemetti della sera, Einaudi, Torino 2020.


Aldo Nove, pseudonimo di Antonio Centanin ( 1967), è uno scrittore e poeta italiano. Lo pseudonimo trae origine da una frase, ALDO DICE 26 X 1, presente nel telegramma diffuso dal Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia (CLNAI) nell’aprile del 1945 per comunicare il giorno (26) e l’ora (1 di notte) in cui dare inizio all’insurrezione dei partigiani a Torino nella guerra di liberazione dall’occupazione nazista. Aldo è appunto il nome presente nel messaggio mentre Nove è dato dalla somma delle tre cifre 2, 6 e 1.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Sul viso di Giulio Reggeni si è riversato tutto il male del mondo. La giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona.

Giulio Reggeni
Salvatore Bravo
Sul viso di Giulio Reggeni si è riversato tutto il male del mondo.
La giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi,
è possibile solo se si lotta per un’economia della pace,
per un’economia al servizio della persona.

La Repubblica della pace
La Repubblica e la Costituzione italiana hanno come fondamento il rifiuto della guerra quale modalità per risolvere le contese internazionali e sociali: è il risultato del processo di riflessione sui disvalori del nazifascismo e sui suoi effetti. La guerra e la violenza sono stati i paradigmi e la sostanza del fascismo. Il travaglio e la tempesta di fuoco scatenata dalla violenza fascista sono stati oggetto di processi di concettualizzazione collettiva al fine di fondare il nuovo Stato italiano dopo la seconda guerra mondiale. La Costituzione è espressione del progetto di fondazione di una nuova comunità nel segno della pace, dei diritti individuali e sociali. La violenza e la coartazione della volontà personale sono state sostituite dal rispetto della dignità della persona e dunque dalla sua autonomia decisionale. La Repubblica dovrebbe educare al logos, sostenere i processi di sviluppo della personalità (art. 3), rendere obbligatoria l’istruzione (art. 34), perché vi è pace dove vi è formazione e partecipazione. La pace è il valore della Costituzione e della Repubblica, non una pace zuccherosa, ma pace dialettica e dialogica, che fa dello scontro-incontro dialogico il fondamento della nuova Repubblica.
Di grande rilievo è l’articolo 11 ed il dibattito che l’ha preceduto. La relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini nel 1947 dichiarò, contro ogni nazionalismo, che l’Italia rinnega la guerra in nome del rispetto della pace all’interno dei rapporti internazionali, pace a cui giungere mediante rapporti di reciprocità e limitazioni eventuali della sovranità nazionale:

«Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali».

Articolo 11
L’articolo 11 è il risultato condiviso del dibattito, e dei confronti, e ribadisce in modo inoppugnabile che la Repubblica ripudia la guerra offensiva e promuove accordi che possano evitare conflitti, e a tal fine sostiene gli organismi internazionali, entro cui risolvere le tensioni internazionali:

«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

La pace non è un valore che vive nell’iperuranio, dev’essere realizzata con una economia che soddisfa i bisogni autentici delle comunità. L’adesione alla NATO (4 aprile 1949) sin da subito ha inficiato l’articolo 11. Pace e giustizia sono un binomio inscindibile, l’una sorregge l’altra. Proclamare la pace e commerciare in armi non è solo una contraddizione, ma una scissione che struttura un modello culturale fondato sulla doppia morale, sull’ipocrisia. Si occulta la verità negando di fatto la pace proclamata nella Costituzione: non vi è pace che nella verità. La Repubblica – che, come da Costituzione, è res publica, cosa pubblica, patrimonio comune – non può perseguire le esclusioni, le conventicole lobbistiche e le verità di regime e del politicamente corretto, le quali sono la negazione della pace. La nostra Repubblica è distante dalla pace e dalla Costituzione che proclama, ora, è solo oligarchia, e dunque non vi è democrazia, ma solo un teatrino ideologico senza spessore: il male è superficiale affermava la Arendt.

 

L’omicidio Reggeni
L’omicidio di Giulio Reggeni commesso in Egitto tra il gennaio ed il febbraio del 2016, non è un semplice caso giudiziario, ma svela la tragedia e le contraddizioni della Repubblica. Le torture della polizia egiziana tormentarono a tal punto Reggeni che la madre dichiarò di averlo riconosciuto dalla punta del naso: le sembrava che tutto il male del mondo si fosse riversato sul figlio. Nelle parole della madre si palesa la verità: il male è del mondo e nel mondo, quest’ultimo è un intreccio di relazioni spesso inconfessabili. L’Egitto, nello scacchiere mediorientale, ha una posizione strategica, può contribuire a determinare i destini della Libia destabilizzata dall’occidente (2011), per cui è oggetto degli interessi di inglesi, francesi e turchi. La Libia galleggia su gas e petrolio. Pertanto il caso Reggeni è interno a tali logiche di depistaggio con tentativi di inquinare i rapporti internazionali al fine di saccheggiare la Libia condizionando la politica egiziana. Si ipotizza che il suo assassinio possa coinvolgere i servizi segreti egiziani e non, al fine di incrinare i rapporti tra Italia ed Egitto con lo scopo di indebolire una concorrente (l’Italia) nell’area mediorientale. È solo un’ipotesi. Il caso Reggeni è un intrigo internazionale che svela la realtà del Capitalismo assoluto, e specialmente svela quanto l’economicismo abbia attaccato frontalmente la Costituzione al punto da renderla solo un documento da utilizzare per la propaganda di circostanza. L’articolo 11 afferma il dialogo internazionale come valore ed abiura la guerra. Samo abituati al linguaggio orwelliano, grazie al quale le missioni di guerra divengono missioni di pace: manipolazione della lingua, tradimento del dettato costituzionale e del popolo, si pratica la guerra, ma si proclama il valore della pace.

Dichiarare la pace, ma vendere armi
Il caso Reggeni è emblematico della messa in scena dell’oligarchia italiana. Si rassicura la famiglia ed il popolo con i proclami, per poi scoprire che l’Italia ha venduto all’Egitto due fregate Fremm (classe Bergamini di nuova generazione) per 1,2 miliardi di euro, ma è solo un anticipo, perché l’Egitto e il principale partner commerciale dell’Italia in campo militare. Si calcola che le commesse ammontino a 9-11 miliardi di euro. L’articolo 11 dichiara che l’Italia rifiuta la guerra quale mezzo per risolvere le tensioni internazionali, ma l’Italia vende armi che potrebbero essere utilizzate per le guerre internazionali. Cosa resta dell’articolo 11? Nulla, solo un proposito senza contenuto. L’Italia alimenta la guerra con la vendita delle armi e la violenza che denuncia la coinvolge direttamente. Reggeni è stato ucciso da uno Stato che l’Italia arma. Vi sono colpe giuridiche e morali, l’Italia si trova nella posizione probabilmente di averne entrambe: la violenza che alimenta è un boomerang, come qualsiasi violenza, pronto a riversarsi su coloro che la alimentano.
Quando si legge l’articolo 11 si devono ricordare le parole della madre di Giulio nella dichiarazione del 29 marzo del 2016: «Sul viso di Giulio si è riversato tutto il male del mondo». Quel male ci appartiene e giustizia vorrebbe non solo che gli assassini fossero processati, ma anche che si comprendessero le responsabilità italiane. Vendere armi significa fomentare la violenza, per cui ogniqualvolta che leggiamo l’articolo 11 dovremmo rammentare e riflettere sulla vendita delle armi, ed essere presi dall’euristica della paura come l’ha definita H. Jonas. Ovvero, ogni arma venduta espone qualsiasi essere umano al pericolo della violenza che non resta radicata in un luogo, ma si diffonde e potrebbe tornare indietro con effetti non calcolabili. Difendere la pace, volere la giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona. La fase attuale capitalismo è di tipo imperiale, un numero limitato di oligarchi alimenta la violenza internazionale e consolida il proprio potere all’interno di logiche di aggressione e di diffusione di una potenza di fuoco senza comparazione nella storia dell’umanità. La guerra è la struttura del capitalismo nella sua fase imperiale:

«Quasi tutti riconoscono che la guerra attuale è imperialista, ma i più deformano questo concetto o lo applicano unilateralmente o cercano di far credere alla possibilità che questa guerra abbia un significato borghese-progressivo di liberazione nazionale. L’imperialismo è il più alto grado di sviluppo del capitalismo, ed è stato raggiunto soltanto nel XX secolo. Per il capitalismo, sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. Il libero commercio e la concorrenza sono stati sostituiti dalla tendenza al monopolio, dall’usurpazione di terre per impiegarvi dei capitali, per esportare materie prime, ecc. Da liberatore delle nazioni quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è divenuto il maggiore oppressore delle nazioni. Da progressivo, il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive, che l’umanità deve o passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le “grandi” potenze per la conservazione artificiosa del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni nazionali di ogni specie».[1]

 

Perché vi sia giustizia bisogna riportare ogni morte violenta alla sua concretezza storica, altrimenti non potrà che esservi solo il teatrino del politicamente corretto. Abbattere statue, come in questi giorni, non produce cambiamenti di alcun genere. Le statue sono parte degli strati archeologici della storia, sono monumenti che devono indurre a riflettere sui valori delle nostre comunità. Abbattere, in assenza di progetti politici, è solo un atto disperato e nichilistico da parte di coloro che hanno rinunciato a creare nuovi concetti, a lottare contro i fondamenti su cui si basa il sistema. Vi è un malessere non concettualizzato che non preoccupa il potere, in quanto si limita ad azioni disorganiche e senza futuro, e, che anzi, confermano il presente. Se si vuole dare giustizia e pace alle vittime della violenza è necessario pensare la volenza di sistema per poterla neutralizzare.

Salvatore Bravo

 

 ***

[1] V.I. Lenin, Il socialismo e la guerra, trascritta per Internet dalla redazione “Che fare”, Aprile 2000.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antoine de Saint-Exupery (1900-1944) – Se vuoi costruire una nave prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato.

Antoine de Saint-Exupery 01

«Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave».

Antoine de Saint-Exupery, Le Petit Prince, 1943.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Dino Formaggio (1914-2008) – Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre.

Dino Formaggio 02

Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre. Così, la storia delle diverse letture di un libro può costituire la storia della sua ricchezza. Ogni nuova lettura ne mette in luce qualche inatteso aspetto, ne riconquista qualche elemento insospettato ancora, e lo fa vivere accanto a ciò per cui già il libro viveva; quando, addirittura, non mette in ombra le sue stesse precedenti ragioni di vita.

Dino Formaggio, “Giudizio storico e teoria dell’arte (a proposito di una ristampa italiana dello Schlosser)”, in Id., L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, p. 351

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Pierpaolo De Giorgi – La questione filosofica essenziale è la totalità. Il filosofo deve essere sorretto da un grande amore per l’essere umano, la vita e la conoscenza: con un atteggiamento critico, non erudito.

Pierpaooo De Giorgi

«La questione filosofica essenziale è dunque la totalità, che deve essere osservata da tutti i punti di vista. Così l’intuizione di Nietzsche è solo l’inizio di una ricognizione approfondita … il filosofo deve essere sorretto da un grande amore per l’ essere umano, la vita e la conoscenza: con un atteggiamento critico, non erudito, pluralistico o “panteistico” potrà cogliere l’individualità più profonda e la totalità, che è superiore alle singole parti, e potrà superare la frammentazione, le parti separate e la discontinuità del mondo».

 

Pierpaolo De Giorgi, Pizzica e armonia. Dallo sguardo di Dioniso al tarantismo. Una nuova filosofia e via terapeutica, Editori Congedo, Lecce 2018, p. 168.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sergio Quinzio (1927-1996) – «Consummatum est». Sergio Quinzio critica la società del benessere, scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità. L’attività feconda del soggetto è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione. Chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla.

Sergio Quinzio 01

Salvatore Bravo

Consummatum est

Sergio Quinzio e la  critica alla società del benessere,
lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità.
L’attività feconda del soggetto,
è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione.
Chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita
è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla.

Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo.

La vera minaccia sta nel fatto che il processo tende all’insoddisfazione assoluta,
all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose,
in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà.

Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore.

La parola felicità,
che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto,
è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione.

La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica.

La morte di dio coincide con la morte della verità,
per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita
è un punto ottico di energia creativa
che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità.

Oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto.

Consumare-finire
Sergio Quinzio, filosofo e teologo di difficile collocazione, pur in una prospettiva altra rispetto alle sinistre marxiane e marxiste, analizza lo stato presente nella sua apocalittica e misera problematicità. La chiesa ha spesso cavalcato lo spirito del mondo: l’altare, associato al trono, è stato parte del processo di sussunzione e dominio. Quinzio analizza le metamorfosi delle forme di sussunzione. Nei suoi testi la religione ed i valori cristiani sono paradigmi con cui denunciare il capitalismo assoluto: la disumanità come sistema. La responsabilità umana ed il male sono parte integrante della visione cristiana di Quinzio. La responsabilità umana è l’altro volto della kenosi[1], dello svuotamento dell’onnipotenza di Dio, che permette la libertà degli esseri umani e con essa la possibilità del male.
Il giudizio sul capitalismo assoluto non conosce appello: esso è il ribaltamento del bene, imita e perverte la pienezza del bene con il feticismo delle merci. Il consumo onnivoro divora anche il vero eden-bene, lo cancella, lo assimila col fremito immaginifico dell’abbondanza delle merci. Consumare non è un atto neutro: consumare significa annichilire l’essere, fagocitarlo. Consumare significa derealizzare il mondo e la realtà fino alla realizzazione minacciosa ed integrale del nulla. L’onnipotenza del consumo divora la categoria della possibilità, della vita, al suo posto vi è l’unidirezionalità meccanica del gesto esiziale che preannuncia la sua fine:

«Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. È ancora l’idea del regno dei cieli, in un adattamento e in una trasposizione dove ogni aspetto trova il suo corrispondente. Anche il consumare. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Dagli altri vangeli queste parole non sono state tramandate: le riporta solo l’ultimo degli evangelisti, quello al quale è attribuita la rivelazione della fine dei tempi e del giorno del Signore contenuta nell’Apocalisse. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo».[2]

Disincanto
Colui che è nella trappola del consumo, dipende dalle cose, è trainato con violenza da agenti esterni, è il triste complice dell’apocalisse di un intero pianeta. L’accumulo non garantisce la felicità, anzi il consumo è inversamente proporzionale alla felicità: il consumo smodato delude sempre. Il consumatore assoluto, figura antropologica del turbocapitalismo, vive in un clima di perenne conflitto, l’atmosfera relazionale è appestata dalla sfiducia e dalla violenza dei concorrenti. Il consumatore assoluto è sul mercato della violenza, ne è parte, ma non la percepisce, consuma, ma è consumato dal disincanto che il feticismo delle merci gli comunica:

«L’americano Vance Packard proclama allarmato che la continua dilatazione dei consumi, favorita allo scopo di far crescere di pari passo la produzione, non può durare all’infinito, perché si giungerà prima o poi al limite di saturazione, e cioè a una condizione finale di blocco. Questa morte per affogamento nel proprio grasso è la previsione avanzata da insigni cultori della scienza economica e appassionatamente negata, in nome della stessa scienza, da altri esperti non meno illustri, come Walter Heller. Sia come sia, l’apocalisse è molto meno scientifica e molto più radicale. È probabile che esistano infiniti universi di beni da inventare e da produrre – dal momento che la loro utilità non è affatto in gioco – e che abbia quindi ragione la scienza ottimista e torto quella pessimista (sempre che l’ottimismo non sia destinato a ricevere qualche grosso contraccolpo dall’esterno del sistema). Ma la vera minaccia sta nel fatto che la soddisfazione, o magari la felicità, ricavata dalla fruizione dei singoli beni economici diminuisce con l’aumentare globale dei consumi, e che quindi il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà».[3]

 

La merce come sostanza prima
La società del consumo ha la sua sostanza prima e perversa: la merce. Ogni ente è posto sulla linea della merce da consumare. La merce è il mitico modello di fondazione a cui tutto eguagliare: gli esseri umani non sono che merce tra le merci, il pianeta è merce da consumare, il globo terrestre è solo un ampio mercato senza significato, tutto procede fatalmente; avendo il sistema fatalmente disperso ogni teleologia e logos, si autoriproduce secondo un perverso movimento:

«Come conseguenza dell’identificazione degli oggetti fra loro – privati di significato e ridotti tutti al minimo denominatore comune dell’essere oggetti – c’è il sussistere di istituti, concetti, prassi, tradizioni, formule che hanno esaurito da molto tempo il loro senso e il loro valore: in quanto liberati dalla necessità di adempiere ad altra funzione che non sia tutta nell’essere oggetti, continuano a vivere, o piuttosto a restare, dal momento che gli oggetti non vivono. Questa insperata salvezza nella comune dannazione è sopraggiunta, per esempio, sulla chiesa cattolica, e i luoghi di culto cristiani – proprio quando il culto è solo per gli oggetti – sono tornati a riempirsi. Perché dove la realtà è consumata non esiste più una possibilità di offrire oggetti senza che vengano automaticamente consumati. Tra queste sopravvivenze, o piuttosto permanenze, di cose svuotate di valore ci sono i princìpi sui quali si regge la società civile, gli ordinamenti e le leggi: poiché la diffusione del benessere e l’avvento della società opulenta discendono in modo quasi esclusivo dall’incremento della produttività determinato dallo sviluppo delle scienze e delle tecniche, e cioè dalla messianica possibilità di far tendere la produzione all’infinito e contemporaneamente i costi a zero, princìpi, ordinamenti e leggi sono in realtà impotenti a dirigerne o a mutarne o a modificarne il corso, scongiurandone la minaccia finale». [4]

 

Assimilazione regressiva
La felicità promessa vive nell’illusione di un tempo a venire, nella ripetizione di un ciclo cosmico e pagano, in cui l’attimo presente è pregno della frustrazione di domani, della speranza irriflessa nella magia della merce. Il consumismo integrale con la sua circolarità temporale è una forma di paganesimo, la vita degli esseri umani diviene organica al tempo circolare, diviene parte dei cicli naturali. Il progetto esistenziale e collettivo è sostituito dall’assimilazione regressiva ai cicli temporali. Il consumo produce solo altro consumo, in un circuito di dipendenza senza scampo: i dannati degli ipermercati sono infecondi, perché la felicità è osmosi con il mondo, è relazione biunivoca, mentre la felicità delle merci è sterile, è ripetizione di un atto servile, è impotenza generalizzata venata di violenza acquisitiva:

«È strano che, in una società dinamica come la nostra, l’ideale inseguito sia statico: il benessere, lo star bene, la sazietà soddisfatta e conclusa. Mentre le antiche civiltà statiche proponevano l’ideale aperto della felicità, parola che con femina, fenus, fecundus, fetus deriva da felare (poppare, succhiare), con significato di fecondo, fertile. Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Sembra che gli uomini del benessere subiscano l’imposizione di una identificazione obbligatoria: in qualche oscuro modo la felicità la vogliono, e tutto quello che viene offerto è invece il benessere, che non è una macchina più o meno adatta a produrre la felicità, ma una macchina che sta al posto della felicità, in sua vece. Un uomo che credesse ancora davvero nella possibilità di essere felice non riuscirebbe a concepire neanche l’idea del benessere, la parola stessa non avrebbe per lui nessun senso. Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore». [5]

Le parole e l’ordine del discorso sono un perenne luogo di battaglia. Per avanzare il capitale assoluto deve ridistribuire le parole, modificarne il significato, sottrarre significati per impedire che le parole possano essere veicolo di alternative. La storia e la filosofia sono anch’esse ridimensionate e disposte nell’ottica del trionfo del liberalismo e della fine della storia: oltre il presente non vi è nulla, la gabbia d’acciaio è totalità sostanziale. La religione è tollerata solo come servizio di assistenza. La parola felicità (dal latino “femina”), che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione, con la tracotanza dell’avere che costruisce barriere, atomizza, isola e rende il capitalismo assoluto fonte di verità e di affermazione indiscussa. Il postulato del consumare non è mai messo in discussione, è il dogma a cui ci si inchina a prescindere dalla posizione che si occupa nel modo di produzione. Si è così avvinti da forze che non lasciano scampo e che esigono il continuo olocausto di sé (holòkaustos, “bruciato interamente”), del mondo, in un bruciare che non è sono metaforico:

«La società del benessere non ha niente in comune con una società che si proponga di migliorare le condizioni materiali di vita degli uomini, è tutt’altra cosa. Nasce dal postulato che non esista altra realtà al di fuori della produzione e del consumo, che non esista altro significato al di fuori del disporre di moltissimi oggetti. Importanti sono gli oggetti in sé e per sé, in quanto feticci: gli stessi bisogni cadono quindi nell’ombra e non si sa neppure più cosa siano. Al benessere non si può sovrapporre la moralità, perché le idee non sono comunque sovrapponibili e reciprocamente penetrabili. La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica, e che ubbidisce quindi alla sua logica interna deducendone automaticamente una sua morale, l’unica che non la contraddica: la morale dell’efficienza e del suo successo messa in luce da Max Weber. Non si può fondere il bisogno di felicità naturale dei secoli pagani, la morale cristiana, il moderno stato di diritto, le tecniche produttivistiche contemporanee, e risolvere così un problema di scelta scegliendo tutto insieme. Di veramente caratteristico, nell’attuale società, c’è infatti il rifiuto delle scelte, che è stato battezzato civiltà pluralistica o del dialogo o, precisamente, del benessere. Questo tipo di società sceglie, di fatto, il benessere; ma è una strana scelta, perché il benessere implica l’accettazione indifferenziata di tutte le cose e di tutte le idee. Il presupposto implicito è che, non valendo nessun criterio di preferenza, il risultato auspicabile e necessario può aversi solo mediante l’incremento quantitativo». [6]

 

Produttivismo indifferenziato
La critica di Sergio Quinzio si fa rilevante, coglie nelle alternative apparse nella storia del Novecento lo stesso male: la produzione senza misura. La storia non è stata maestra di vita, ha riprodotto lo stesso schema in contesti diversi: il produttivismo, il saccheggio, la sussunzione dei dominatori che in gioco di cambi di maschere ideologiche sono la riproposizione dello stesso tragico problema, ovvero il tentativo programmatico di negare il limite, la misura per l’onnipotenza della produzione. L’economicismo è dunque la cifra della modernità, l’alternativa non può che iniziare dal mettere il discussione la sacralità dell’economia. Marx, con il Capitale, ha teorizzato l’uscita dal paradigma dell’economia; il Vangelo ha parole lapalissiane verso la proprietà privata e la cattiva distribuzione dei beni, al punto che la Chiesa è stata l’istituzione che ne ha impedito la lettura rivoluzionaria:

«Ma il tragico è che non si vede che cosa si debba o si possa scegliere al di fuori del benessere che occupa tutto l’orizzonte, che sembra assorbire tutta la realtà. Il benessere, per esempio, ha deglutito tutto il movimento operaio, declassandolo da fatto capovolgente a fatto correttivo. Il guasto più profondo sta nell’incapacità di concepire scelte veramente alternative. Dal vangelo alla rivoluzione francese, dal socialismo alla società opulenta, dai testi eruditi ai fumetti c’è ormai un unico schieramento che incarna per definizione la civiltà e il progresso, la cui compattezza, essendo fondata sul benessere, è garantita dalla rinuncia a qualsiasi verità e insidiata soltanto dai conflitti di interessi istituzionalizzati. Di quanto si è allargata spazialmente la libertà formale, di tanto è diventata pesante e paralizzante l’illibertà sostanziale, coincidente con la preclusione di qualunque alternativa e speranza. L’accettazione del sistema è obbligata, e diventa perciò inutile qualunque riserva, qualunque protesta, qualunque accusa». [7]

La poietica (dal gr. poiētikós, der. di póiēsis “produzione”) è il nuovo fascismo della quantità: l’io desiderante è solo l’epifenomeno del mercato, che attraverso il condizionamento dei mezzi mediatici sostituisce l’io con una finzione dello stesso, con l’io minimo organico al mercato. Individualismo astratto che idolatra i consumi personali per astrarsi ed estraniarsi dalla cura del mondo.

 

Verità e tolleranza
Consumare significa finire: il fine è sostituire la verità con l’indifferenza e rappresentare quest’ultima per tolleranza ed inclusione. Senza verità, il soggetto non ha più bisogni profondi, non parla con se stesso, è straniero a se stesso, il nulla avanza e rende l’io disabitato:

«Un altro infine, che funzionava spaventosamente bene ancora ieri, è già quasi del tutto seccato: convogliava l’intransigenza e l’intolleranza, il poco e il corrotto, cioè, che era rimasto della fede nella verità assoluta. L’indifferenza per la verità ha prodotto la tolleranza. Resta ancora qualche sedimento d’intolleranza, defluito dal piano delle fedi e poi delle idee a quello degli interessi personali contingenti, ma stiamo per diventare tutti opulenti e presto non avremo più né bisogni né interessi. Allora, nel nulla, non ci saranno attriti». [8]

Conclusione
L’analisi di Sergio Quinzio è un appello all’agire e alla responsabilità umana che devono emanciparsi dal male, dall’eccedenza della sofferenza. L’essere umano non si salva da solo, ma è vocato alla responsabilità storica nel suo tendere verso la fine dei tempi. Il cristianesimo di Quinzio è una forma di umanesimo, poiché la fede non deresponsabilizza, e dinanzi allo svuotamento di Dio, al male che irrompe nella storia con l’inquietante consumo dell’essere e dell’esserci, l’umanità deve testimoniare che un altro modo di vivere è possibile.

La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità. La comune critica da posizioni diverse contribuisce a chiarire la condizione storica presente. La fatica del concetto vive nella relazione tra identità, differenze. La critica è il lievito della prassi, la prepara, ne affina la consapevolezza. La complessità della globalizzazione necessita di più voci per essere compresa e per rispondere alle contraddizioni che la attraversano fatalmente. Il capitalismo contemporaneo si struttura e consolida nell’esproprio non solo dei beni comuni, ma, specialmente, nel rendere – mediante la pratica del consumo – gli esseri umani infantili, persone che non pongono il problema del senso e del limite. Pertanto oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto, per poterle dominare:

«Più semplicemente: il capitale oggi non mira tanto ad alienare/estraniare cercando di imporre uno specifico modo, una determinata forma di vita, ma impedendo ogni cristallizzazione di un modo, ogni strutturazione di una forma di vita. Mira a lasciarci infanti, a non farci mai crescere, non vuole narrare una storia o impedirne la narrazione ma gettarci in un’apocalisse permanente. Non serve più distruggere un mondo, una storia, una cultura, una tradizione, se riesci a far sì che non possa mai costruirsene una, che il tempo non riesca mai a solidificarsi, che la tendenza non riesca mai a istituirsi, mettendo le mani sulla capacità di costruire, sulla facoltà di solidificare, sulla potenzialità di istituire. A che serve intaccare una qualche realizzazione e configurazione di “famiglia”, “stato”, “nazione”, “comunità”, “personalità”, “felicità”, se riesci a impedire che possa mai emergere un qualsiasi coagulo? A che serve radere al suolo tutto ciò che è stato edificato se riesci a impedire che possa più edificarsi qualcosa andando a distruggere giorno per giorno il cantiere aperto per riaprirne uno subito dopo? A che serve cucirti addosso una nicchia o una gabbia (fosse anche dorata), quando basta renderti un migrante senza fissa dimora? A che serve impedirti di fare questo o costringerti a fare quest’altro quando basta bombardarti di stimoli, di possibilità e di informazioni impedendoti così di strutturare qualsiasi atto, di articolare qualsiasi risposta, di tradurli in una qualche azione? Per tenerti fermo è più facile sollecitarti in infiniti modi che non impedirti un qualche movimento o richiedertene qualche altro». [9]

 

Dinanzi alla tragedia del presente è necessario l’ascolto di tutte le voci dissenzienti per rimettere in cammino le comunità.

Salvatore Bravo

***

[1] Kenosi parola greca da κένωσις, kénōsis, in italiano “kenosi” o “chenosi”, che deriva dall’aggettivo κενός, kenós, che significa “vuoto”.
[2] Sergio Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi eBook, 2014.
[3] Ibidem, p. 12.
[4] Ibidem, p. 13.
[5] Ibidem, p. 14.
[6] Ibidem, pp. 15-16.
[7] Ibidem, p. 16.
[8] Ibidem, p. 24.
[9] Giacomo Pezzano, Tractatus Philosophico-Anthropologicus. Natura umana e capitale, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 87.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto.

Maria Zambrano 033

«Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?».

María  Zambrano, «Il freudismo, testimone dell’uomo contemporaneo», in: Id., Verso un sapere dell’anima, trad. it. di E.
Nobili, a cura di R. Prezzo, Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 123.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.
María Zambrano (1904-1991) – L’esperienza precede ogni metodo. Ma il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura.
María Zambrano (1904-1991) – La vera musica non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo.
María Zambrano (1904-1991) – La finalità si sveglia, e quando arriva così è un tipico risveglio: da uno stato di abulia o dal lasciarsi vivere, ci svegliamo facendoci sentire che dobbiamo agire.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.

Ivan Illich - Elogio della bicicletta

El socialismo puede llegar solo en bicicleta

José Antonio Viera-Gallo
sottosegretario alla Giustizia nel governo di Salvador Allende


«Una politica di bassi consumi di energia permette un’ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste» (p. 8).

«La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale» (p. 10).

«La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta» (p. 20).

«La liberazione dal monopolio radicale dell’industria del trasporto è possibile solo istituendo un processo politico che demistifichi e detronizzi la velocità» (p. 69).

Ivan Illich, Elogio della bicicletta, a cura di Franco la Cecla, Bollati Boringhieri, Torino 2006.


Descrizione

Una apologia della bicicletta: della sua bellezza e saggezza, della sua alternativa energetica alla crescente carenza di energia e al soffocante inquinamento. Illich nota che la bicicletta e il veicolo a motore sono stati inventati dalla stessa generazione. Ma sono i simboli di due opposti modi di usare il progresso moderno. La bicicletta permette a ognuno di controllare la propria energia metabolica (il trasporto di ogni grammo del proprio corpo su un chilometro percorso in dieci minuti costa all’uomo 0,75 calorie). Il veicolo a motore entra invece in concorrenza con tale energia.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alberto Jori – Il pane tra sacro e profano. Metafore dell’alimentazione nel mondo mediterraneo.

Alberto Jori - pane
INTRODUZIONE

Il tema di quest’opera è la nozione del pane come mixis, ovvero come mescolanza di elementi, o di “proprietà”, dissimili. Tale nozione verrà qui indagata in alcune delle sue più rilevanti implicazioni simboliche, in una prospettiva di storia delle idee e di filosofia della cultura: più specificamente, di filosofia dell’alimentazione. Con quest’ultima espressione intendiamo uno studio filosofico dell’alimentazione umana, considerata quale momento essenziale dell’attività di conferimento di senso con cui l’uomo, animal symbolicum per eccellenza, investe tutti gli aspetti e le componenti del proprio ambiente vitale.

Nella presente indagine, ci concentreremo sull’Antichità e, più in particolare, sul mondo mediterraneo, senza peraltro alcuna pretesa di fornire un quadro esauriente di tutte le formulazioni del concetto in esame storicamente emerse in tale contesto. Una ricerca di tal genere richiederebbe, infatti, spazi ben più ampi di quelli qui disponibili.

In relazione ai singoli momenti della storia del pensiero, oppure agli episodi storici (veri o presunti), che verranno presi in considerazione, inoltre, il nostro intento non sarà quello di vagliare con rigore filologico le testimonianze pertinenti, e neppure di ricostruire meticolosamente i relativi quadri storici.

Cercheremo invece, di volta in volta, di utilizzare quei dati che parranno maggiormente significativi per decifrare il significato delle utilizzazioni – filosofiche, teologiche, liturgiche – della nozione del pane nei vari contesti storico-culturali, in funzione del progetto ispiratore della presente indagine.

Nel contempo, ci studieremo sia di accertare un’eventuale permanenza nel tempo, ossia una relativa invarianza, di talune strutture concettuale-metaforiche associate alla nozione del pane come mixis, sia di verificare il “tasso di commensurabilità” esistente fra le diverse produzioni ideative, correlate appunto a questo alimento, attraverso il cui filtro differenti popoli e culture del mondo mediterraneo hanno dato espressione, in distinte fasi storiche, ai loro problemi strutturali e alle relative proposte di soluzione (a volte non del tutto dissimili fra loro).

Se fino a pochi decenni fa una ricerca come quella qui intrapresa si sarebbe inevitabilmente scontrata in aspre critiche, innanzitutto di carattere metodologico, avanzate dai più arcigni difensori dei vari settori disciplinari coinvolti, da loro considerati come dotati di confini sacri e invalicabili, oggi il quadro è cambiato, fortunatamente, in modo sostanziale: si è fatto assai più aperto alla ricezione e alla valorizzazione dei contributi scaturenti da esplorazioni interdisciplinari di questo tipo, non più condannate a priori quali meri “vagabondaggi” intellettuali. Nelle teorie di filosofia della cultura e di storia delle idee che nel frattempo si sono diffuse e sono anzi divenute classiche – si pensi, tra gli altri, a Geoffrey E.R. Lloyd, a Yehuda Elkana, a Paul U. Unschuld e, in Italia, a Mario Vegetti – si è infatti imparato a “leggere” l’agire simbolico dell’uomo anche nella forma del permanere e del mutare, secondo regole precise, di specifiche produzioni concettuali, da decodificare sullo sfondo dei dilemmi-chiave, di natura insieme teorica e funzionale, che si pongono alle singole società umane.

Che il pane abbia acquisito un ruolo simbolico di prim’ordine in ambiti del mondo mediterraneo pur fortemente differenziati sotto il profilo sociale, economico, religioso, giuridico, etc., non deve sorprendere. In tale vastissima area esso infatti costituisce sin da tempi remoti l’emblema e la sintesi di quel che è indispensabile all’uomo per vivere («dacci il nostro pane quotidiano», recita il Padre nostro), e rappresenta nel contempo il paradigma delle risorse che l’uomo stesso si è dovuto approntare, attraverso una sapiente manipolazione e ricomposizione dei fattori naturali, per soddisfare le proprie esigenze. Il pane, dunque, come modello di risposta culturale a bisogni scaturenti dalla natura umana.

Per tale motivo, e in siffatta prospettiva, esso è stato (ed è tuttora) una sorta di “universale” e ha potuto fornire la materia, il sostrato, a un’architettura pressoché inesauribile di elaborazioni concettuali e strutture ideative, in cui le più varie compagini istituzionali si sono di volta in volta storicamente contemplate nella propria realtà e hanno espresso, nel contempo, le proprie aspirazioni e finalità. E proprio considerando il pane in tale sua eminente funzionalità a tradurre iconicamente forme differenziate – ma non prive di parallelismi – di autocoscienza associativo-istituzionale, è possibile, a nostro avviso, tracciare un suggestivo itinerario di storia delle idee, utilizzabile anche in riferimento ad altre nozioni e ad altri contesti.

Il presente studio si articola in due parti. Nella prima, dopo un sintetico quadro di carattere storico-descrittivo, analizzeremo la nozione e il simbolismo del pane come mixis partendo dall’ antica Grecia. Nel mondo greco, il concetto in questione viene tematizzato per la prima volta, per quel che ne sappiamo, nella riflessione di Anassagora. Esso viene in seguito approfondito, caricandosi di una sorprendente ricchezza di spunti e associazioni, all’interno del Corpus Hippocraticum, ossia nel quadro del pensiero medico. In tale contesto, pur esibendo una valenza prioritariamente naturalistico-terapeutica, giunge a dispiegare suggestive correlazioni con un universo concettuale – la sfera della riflessione e della prassi politiche – apparentemente assai lontano dall’ambito cui sembrerebbe fare riferimento in termini più immediati.

Anche in virtù di tale suo referente politico, sotterraneo, ma non per questo meno incisivo, il tema del pane come mixis finisce col delineare un piano di tangenza tra la prospettiva ippocratica e quella, assai più tarda, di san Cipriano. In effetti, il Padre cartaginese, nella sua riflessione sul pane eucaristico quale realtà posta sotto il segno di un’assoluta unità, propone preoccupazioni e tensioni ideologiche non del tutto dissimili da quelle che erano sottese, in tutt’altro contesto storico, agli scritti ippocratici. Nel contempo, peraltro, egli – da uomo di fede – opera un significativo mutamento di visuale, con un correlativo spostamento della costellazione simbolica.

Prima, però, di soffermarci su san Cipriano e sulla sua nozione del pane eucaristico, faremo una tappa nell’antico Israele: in tale occasione, analizzeremo le complesse valenze simboliche e rituali associate a un pane di tipo particolare, il “pane della proposizione”, con riferimento, soprattutto, a un singolare episodio raccontato nel I Libro di Samuele.

Nella seconda parte del presente studio approfondiremo due aspetti di notevole rilievo emersi nella prima, e che sono sembrati meritevoli di un’analisi più puntuale. Nel primo capitolo di questa parte riprenderemo in esame, così, quello che ci si è rivelato come uno dei momenti centrali e, anzi, fondanti della concettualizzazione della realtà nel mondo antico, ossia il pensiero ippocratico. In tale quadro, indagheremo il tema dell’alimentazione e in particolare della consumazione del pane come aspetto dell’autopoiesi umana, quale affiora nel trattato L’antica medicina. Nel capitolo successivo proporremo invece un’indagine di taglio diacronico su due componenti tradizionalmente considerate quasi indisgiungibili dell’alimentazione mediterranea: il pane e il vino.

Infine, vengono le Appendici. Nella prima, si troverà la trattazione che il grande medico Claudio Galeno ha riservato ai cereali e ai prodotti da essi derivati (tra cui la farina e il pane) nel suo ampio trattato Le proprietà degli alimenti, vera e propria summa del sapere filosofico e scientifico dell’Antichità non solo sui cibi e le bevande, ma anche sulle loro relazioni con l’organismo umano. Nella seconda Appendice illustreremo invece in modo sintetico, anche con l’ausilio di alcune immagini, le tecniche e gli strumenti utilizzati nell’Antichità – dalle civiltà più antiche alla fase tarda dell’Impero Romano – per il trattamento dei cereali e la cottura del pane.

Il nostro auspicio – in conclusione – è di aver posto con questo volume la prima pietra di un’indagine comparativa delle concettualizzazioni del cibo che possa essere proseguita e approfondita in futuro, anche in relazione a epoche a noi più vicine.

 

Sia consentito a chi scrive di ringraziare di cuore in primo luogo il dottor Claudio Mazza, della Casa Editrice Nuova Ipsa, per l’entusiasmo con cui ha accolto la proposta di pubblicare questo saggio di filosofia della cultura e per la pazienza con cui ne ha atteso la stesura definitiva.

Profonda gratitudine provo pure per Monsignor Roberto Brunelli, sempre prodigo di suggerimenti di valore impagabile.

Un ringraziamento sentito va anche ai cari amici dottor Maurizio Poltronieri, dottor Raffaele Ghirardi e dottor Vittorio Robiati Bendaud, nonché ai colleghi, ai dottorandi e agli studenti delle università di Tübingen, Bonn e Ferrara, per le acute osservazioni e i preziosi consigli con cui hanno contribuito allo sviluppo e al completamento dell’opera.

Alberto Jori, Il pane tra sacro e profano. Metafore dell’alimentazione nel mondo mediterraneo, Saggio di filosofia della cultura, Nuova IPSA Editore, Palermo 2016, pp. 7-9.


 


Descrizione
L’opera si accosta con un approccio originalissimo di ermeneutica semantica all’alimentazione mediterranea, e in particolare a uno dei suoi cardini: il pane.
L’autore esplora innanzitutto i significati che in vari contesti del mondo antico sono stati attribuiti al pane, allo scopo di individuarne non solo le differenze, ma anche gli eventuali punti di tangenza reciproci. In questo esperimento ermeneutico, condotto con l’ausilio dei più raffinati strumenti interpretativi, emerge, pur nel variare dei quadri culturali indagati, un valore simbolico unitario. Il pane si configura – sia all’interno di discorsi ‘laici’, come quelli svolti dai filosofi presocratici e dagli autori della Collezione Ippocratica – sia in discorsi ispirati invece da preoccupazioni eminentemente religiose e teologiche – come emblema e archetipo dell’unità, intesa quale feconda armonizzazione di una preesistente molteplicità conflittuale. Questa valenza simbolica costituisce a sua volta la spia di un dominante interesse di carattere politico. Su tale base, nella seconda parte dell’opera viene ricostruita la filosofia della cultura di uno dei pensatori più arditi e profondi della Grecia antica: si tratta dell’autore del trattato ippocratico Sull’antica medicina. L’esame di questo trattato permette di riscoprire una proposta speculativa di sorprendente modernità, alla luce della quale la pratica gastronomica, vista come una forma di proto-medicina, si configura quale processo storico di autopoiesi dell’uomo. In tal modo, l’antico trattato può offrire stimoli preziosi anche alla riflessione attuale sui rapporti tra uomo e ambiente e tra uomo e alimentazione.


Sommario

PRIMA PARTE

CAPITOLO PRIMO

Il pane nei dibattiti filosofici e scientifici della Grecia del V sec. a.C.

  1. Quadro storico: il pane degli antichi Greci

1.1. Il pane di frumento

1.2. Forni e tecniche di cottura

1.3. Un alimento ” interclassista”?

  1. 2. Il pane anassagoreo e le omeomerie
  2. 3. Pane e eguaglianza degli uomini in Antifonte

CAPITOLO SECONDO

Il pane nel trattato ippocratico Lantica medicina

  1. Le esigenze alimentari dell’uomo
  2. 2. La scoperta del regime
  3. 3. Dal grano al pane
  4. 4. Tecniche di temperamento delle dynameis
  5. Il pane come obiezione alla medicina dei “postulati”
  6. 6. L’alimentazione come strategia terapeutica

CAPITOLO TERZO

Il pane dei medici

  1. Grano e pane nel trattato Sul regime
  2. 2. li pane nel Corpus Hippocraticum

2.1. Dalla “natura” alle “nature”

2.2. Echi e approfondimenti platonici: la relazionalità dell’essere

  1. Il pane come alimento appropriato all’uomo
  2. L’influenza di Alcmeone e il paradigma politico
  3. Metafora di una concordia discors

CAPITOLO QUARTO

Il mondo ebraico: il pane della proposizione” nellamico Israele

  1. 1. Significato del pane azzimo nella cultura ebraica
  2. 2. Prescrizioni e proibizioni rituali
  3. 3. Il “pane della proposizione”

3.1. La tesi anfizionica: elementi a favore

3.2. Critiche

  1. Un pane dalla funzione unificante
  2. 5. Un episodio singolare
  3. Aspetti di rilievo dell’episodio
  4. Significato della sosta di Davide a Nob

CAPITOLO QUINTO

Dal pane dei Romani al pane eucaristico di san Cipriano

  1. Dalla polta alla focaccia e al pane

1.1. Farro e frumento

1.2. I diversi tipi di pane

1.3. Una categoria rispettata: i pistores

  1. 2. Dal pane di Pésach al pane dei Cristiani

2.1. Il pane sacramentale

2.2. Il nuovo ruolo delle comunità cristiane

  1. Cipriano e il problema dell’unità della Chiesa
  2. La Lettera LXIII
  3. 5. Ex pluribus unum: un messaggio di unità

Conclusioni

 

SECONDA PARTE

 

CAPITOLO PRIMO

Pane, alimentazione e antropogenesi nel trattato Sullantica medicina

  1. Il modello essenzialista
  2. Il modello “costruttivo”

2.1. Il tempo in Mb

2.2. Ritornare alle origini?

2.3. Autopoiesi e coscienza

  1. Una scienza in divenire
  2. 4. Natura e cultura: dal frumento al pane
  3. 5. Techne e società politica
  4. Dal sapere ontologico alla scienza funzionale

CAPITOLO SECONDO

Pane e vino: un binomio indissolubile

  1. Il pane quotidiano

1.1. Un primato millenario

1.2. Dalla focaccia al pane lievitato

1.3. I primi veri maestri della panificazione: i Greci

1.4. I Romani si aprono all’influenza ellenica

1.5. Un capitolo a sé: i dolci

  1. I vini nel mondo antico

2.1. Origini della viticoltura

2.2. Nel segno di Dioniso: il vino nel mondo greco

2.3. I Romani e la nascita della degustazione privata del vino

2.4. Il vino come base per manipolazioni e sperimentazioni

APPENDICI

APPENDICE I

Galeno di Pergamo

Le proprietà degli alimenti

Introduzione

Testo

APPENDICE II

Tecniche di frantumazione dei cereali e di cottura del pane nell’Antichità

  1. L’Egitto, la Mesopotamia e la Palestina

1.1. La tipologia dei forni

1.2. Pestelli e mortai

1.3. Le tecniche della stacciatura

1.4. Metodi per la fermentazione: dal pane alla birra

  1. I cereali in Grecia e a Roma

2.1. Gli attrezzi del mugnaio

2.2. Tecniche di frantumazione

2.3. Tecniche di cottura

Bibliografia

Indice dei nomi

Indice dei concetti


Alberto Jori – La responsabilità ecologica. Con la «colonizzazione» concettuale e tecnologica della natura, la cultura moderna ha perduto la capacità di apprendere i limiti.
Alberto Jori – Il pensiero di Aristotele acquista una straordinaria carica di attualità proprio nella misura in cui si presenta come una “sfida” alla nostra visione della realtà, e propone modelli alternativi, a volte probabilmente più validi, di comprensione dell’esperienza.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Alberto Jori …

Aristotele, Il Cielo

Aristotele, Il Cielo

 

La responsabilità ecologica

La responsabilità ecologica

Lessing, Gli ebrei

Lessing, Gli ebrei

 

Medicina e medici nell'antica Grecia

Medicina e medici nell’antica Grecia

 

Nelle edizioni della

Andra moi ennepe, Mousa. L’avventura dell’uomo nella letteratura greca
Dal mito al logos. Venti lezioni di filosofia antica
Fede Ebraica e Cultura Ellenistica.
Il dialogo ippocratico. La comunicazione medica nell’antica Grecia, con alcune proposte per migliorare il linguaggio attuale
Il pane tra sacro e profano. Metafose dell’alimentazione nel mondo mediterraneo
Panem et circenses. Cibo, cultura e societá nella Roma antica
Pecunia non olet. Potere e ideologia del denaro nell’antica Roma
Principi di Roboetica. Filosofia Pratica e Intelligenza Artificiale, 2019

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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