Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

Karl Marx 300

Stele funeraria di Proclo

Stele funeraria di Proclo

Πρόκλος ἐγὼ γενόμην Λύκιος γένος, ὃν Συριανὸς
ἐνθάδ’ ἀμοιβὸν ἑῆς θρέψε διδασκαλίης.
ξυνὸς δ᾽ ἀμφοτέρων ὅδε σώματα δέξατο τύμβος·
αἴθε δὲ καὶ ψυχὰς χῶρος ἕεις λελάχοι

Io, Proclo, fui Licio di stirpe, e Siriano mi formò qui per succedergli nell’insegnamento. Questa tomba comune accolse il corpo d’entrambi; oh, se un solo luogo ricevesse anche le anime!


 

Salvatore Antonio Bravo

Il mercato e l’asservimento della Scuola:
il mito dell’orientamento consapevole


Versione per la stampa

Salvatore Antonio Bravo
Il mercato e l’asservimento della Scuola- il mito dell’orientamento consapevole


Miseria della contemporaneità, miseria del capitale che si erge ad unica legge della vita di ciascuno, fino ad assumere la forma di una insostanza perversa, parcellizzante – mentre la vera sostanza rimanda all’universale, alla Koinè, e rende immensi i pensatori del passato.
Si rifletta sulla modalità con cui si effettua l’orientamento universitario nelle scuole superiori. Platone nella Repubblica (libro IV), ci consegna un criterio per la scelta, sicuramente valido anche nella contemporaneità: seguire la propria indole affinché possa esserci armonia nella vita della persona e della comunità:

013«Allora», ripresi, «ascolta se le mie parole hanno un senso. A mio parere la giustizia è ciò che abbiamo posto come dovere assoluto sin dall’inizio, quando abbiamo fondato la città, o comunque una forma di questo dovere; se ti ricordi, abbiamo stabilito e ripetuto più volte che nella città ciascuno deve svolgere una sola attività, quella a cui la sua natura è più consona».

In poche razionali battute, Platone evidenzia l’assurda irrazionalità, la violenza con cui i giovani sono indotti a scegliere la facoltà universitaria: la negazione di sé in nome di una vita anonima, in cui la qualità del vivere è associata solo alle merci, ma mai alle persone. Il capitalismo assoluto negli ultimi decenni ha sferrato il suo attacco all’istituzione, che nella prassi democratica, dovrebbe consolidare la partecipazione alla vita democratica e formare alla metariflessione: la scuola.

Le controriforme espresse come riforme irrinunciabili per il progresso della nazione sono espressione di ciò che Marx definiva ideologia, ovvero una falsa rappresentazione del reale, in cui si spaccia per universale e necessario ciò che corrisponde agli interessi particolari. L’alternanza scuola lavoro in realtà rende manifesta un’operazione ormai decennale di colonizzazione delle menti. In primis i documenti scolastici riportano, con sempre più esplicita incisività, l’educazione all’imprenditorialità di cui l’alternanza dovrebbe essere la sua concretizzazione. Tale educazione ha l’obiettivo di formare alla competizione, all’atomismo sociale, proponendo nell’insegnamento in classe quella estrema frammentarietà del sapere che non porterà mai alla formazione di una cultura. Si vorrebbe che i docenti e l’istituzione scolastica, ora azienda, fossero complici di una mutazione antropologica.

La merce è la vera protagonista e il suo sostrato è il mercato con i suoi imperativi naturalisticamente resi indiscutibili. La formazione, l’educare, il trarre in luce le potenzialità inespresse di un alunno, tutto questo è eroso dalla spinta alla competizione, alla massimizzazione dei risultati.

Naturalmente manca il coraggio di rendere esplicito, e in modo trasparente, ciò che è veramente in opera. Anzi, l’operazione è parzialmente occultata dietro la facciata del dettato costituzionale. La scuola – per la Costituzione – dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino solidale, e limitare gli effetti, non certo positivi, delle disuguaglianze sociali: scuola anche come argine al mercato. Malgrado tali principi non siano stati cancellati in modo esplicito, in questi decenni li si è svuotati di senso, rendendoli un guscio vuoto dove impiantare i germi nefasti dei peggiori principi neoliberisti. Si è cominciato col trasformare la scuola in una azienda per decreto (non discusso con i suoi operatori). Naturalmente i legislatori ben sanno che la scuola non potrà mai essere un’azienda (essa vive della relazione umana solidale), ma ciò malgrado si può depotenziare la comunità scolastica, la quale risulta trasgressiva rispetto ai processi economici e politici in corso d’opera, in modo da spezzare – letteralmente – ogni “luogo” dove sia possibile la resistenza ed il pensiero critico. Per rendere la comunità scolastica cellula del capitale si è introdotto un osceno linguaggio che per le nuove generazioni è davvero profondamente diseducativo: nei luoghi dove, al centro, dovrebbe essere la persona, nella sua irrinunciabile identità, gli alunni si esprimono con: credito, debito, offerta formativa, educazione all’imprenditorialità, flessibilità, ecc.
Le parole costruiscono mondi e relazioni umane, per cui il diffondersi della violenza nella scuola e fuori di essa è letta in astratto, ovvero come un evento accaduto a causa dell’irrefrenabile violenza naturale di taluni.
In verità un sistema competitivo è già violenza; nella competizione c’è chi perde; e chi vince, spesso, non è il migliore a vincere, ma chi ha avuto, in un mondo di diseguaglianze crescenti, maggiori opportunità rispetto ad altri. La violenza è ormai capillare: dalla violenza linguistica a quella materiale nelle nostre scuole e comunità la violenza è divenuta endemica perché il sistema è divenuto violento.
Si continua con ipocrisia a sorprendersi dinanzi ad episodi sempre più diffusi e trasversali, ma è palese che ovunque regna la legge del più forte: le aziende hanno ormai a capo i padroni che ricattano i dipendenti, in TV la parolaccia e l’insulto è d’obbligo per attrarre spettatori e quote di pubblicità, i telegiornali danno ampio spazio al lusso in un momento in cui la povertà è sempre più diffusa, il mercato entra con violenza nella vita di tutti, i consumatori sono perseguitati dalle merci. Ovunque ed in ogni contesto le persone subiscono l’offesa di essere considerati solo ed unicamente consumatori.[1] Si pensi all’orientamento scolastico con la presenza di università pubbliche e private a caccia di clienti. Le prime ricevendo pochi finanziamenti dallo Stato e sono costrette a competere con le private le cui rette sono proibitive. Entrambe utilizzano lo stesso linguaggio, inducono ad iscriversi facendo appello a numeri e statistiche. Pare che il successo formativo e lavorativo passi unicamente per taluni corsi universitari. L’università è ormai un’agenzia del lavoro, che invita ad iscriversi con la promessa di mirabilanti pseudoprospettive. La formazione ed i suoi luoghi esprimono pienamente le tragedie di un mondo di piazzisti. Le facoltà umanistiche hanno inoltre uno spazio minimale come le facoltà scientifiche che producono poco reddito e che non sono funzionali ai bisogni immediati del mercati. Si tagliano le informazioni, si determina la scelta e nel contempo i trombettieri della nuova pedagogia alzano inni alla scuola che, si dice, informa e che sarebbe di ausilio alla scelta dello studente (cliente-consumatore).
L’effetto è un clima di insopportabile manipolazione che la scuola subisce. Anche questa è violenza: negare ad una istituzione la sua identità, costringerla su binari che non le appartengono. Le nuove generazioni sono oggetto delle attenzioni sempre più precoci del mercato anche negli spazi dove dovrebbero crescere e maturare, pensando il mondo, e non subendolo. In questi anni l’orientamento avviene in tempi sempre più accelerati; anche alunni del quarto e del terzo anno della scuola secondaria superiore sono oggetto di tali particolari informazioni. Il mercato deve precocemente controllare il suo cliente, accompagnarlo «ad una scelta consapevole».

Siamo alla manipolazione più impensabile del linguaggio, belle parole che nascondono il nichilismo. Ad un semplice esame più attento, tale incultura empirista si mostra fragilissima, poiché se il mercato è globale, dinamico, veloce, le previsioni occupazionali che spesso documentano le università, per la libera scelta degli alunni, possono essere smentite dalla flessibilità e precarietà dello stesso sistema. Inoltre la linearità tra facoltà e lavoro è ormai saltata, per cui spessissimo anche laureati in facoltà scientifiche si ritrovano a vivere “una vita da precari”. La vera differenza è data dal privilegio sociale più che dal merito. I destini personali sono sempre più determinati dalla classe di appartenenza più che dal merito o dalla facoltà scelta. Vige l’eterogenesi dei fini. La scuola – per Costituzione – ha il compito di limitare tali derive. Si potrebbe allora definire incostituzionale l’attuale assetto pedagogico della scuola. Ora, un clima del genere spinge alla violenza, poiché si diffonde un senso di frustrazione nella comunità scolastica: i più fragili esprimono il loro male di vivere attraverso la violenza; dietro la cortina delle belle parole si cela una dura verità che in molti conoscono, e non pochi hanno deciso di ignorare. L’identità negata spinge ad una violenza incompresa. L’alternanza scuola lavoro è da inserire come termine finale di un lungo processo di svuotamento del fine costituzionale della formazione. È bene ricordare la Costituzione ed i suoi articoli fondamentali sulla scuola:

 

056Art. 33. L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

 

 

Art. 34. La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».

L’alternanza scuola lavoro – vero ossimoro, perché la scuola è luogo di formazione e non di lavoro – è il cavallo di Troia da cui i guerrieri del mercato escono per l’assalto del nemico già indebolito dalle riforme. Educa al lavoro coatto senza retribuzione, ma specialmente ha il fine di erodere il tempo della formazione e di educare al “fare” e mai al “pensare”. È la scuola del “fare”, in cui i clienti tra alternanza, certificazioni in lingua inglese, progetti, pause didattiche sono formati alla stimolazione, al movimento decerebrato, poiché il mercato necessita di lavoratori disponibili allo sradicamento non solo geografico, ma specialmente da se stessi. Lo sradicamento geografico, la vita consumata come una monade alla ricerca delle opportunità del mercato, non è il soggetto ma l’oggetto di una conseguenza: l’io sempre più vuoto, più colonizzato dallo stimolo continuo, ormai disabitato di affetti, di appartenenze e da se stesso, insegue ogni qualsivoglia accattivante stimolazione, e si rende disponibile al mercato. Contribuisce a ciò il ridimensionamento della lingua italiana, sempre più minacciata dall’inglese commerciale. Le circolari ministeriali spesso riportano titoli in lingua inglese. Pare che il vocabolario della nostra lingua sia davvero minimale se dobbiamo utilizzare lingue altre per esprimere concetti che nella nostra lingua potrebbero essere perfettamente espressi e chiari negli intenti.
La società dove tutto dev’essere mostrato, fino alla pornografica mostra di sé, non ama la chiarezza concettuale, e sembra vergognarsi delle sue finalità al punto che deve occultare dietro la fumisteria della lingua inglese, a scuola come nella politica, le intenzioni esiziali e controriformistiche. Togliere ad una comunità l’uso della sua lingua significa togliere “la patria”, la comune d’origine. La distruzione della lingua nazionale serve allo sradicamento, a tagliare ogni senso di appartenenza, per creare l’uomo astratto, appartenente al mercato globale.

È l’epoca dei cosmopoliti delle mercificazioni. Dev’essere uomo astratto senza comunità, uomo astratto senza famiglia. L’istituzione scolastica è attaccata anche dalla “mostruosizzazione” dei docenti “molestatori”: singoli casi sono amplificati e, iperpresenti sui media, occupano spazi pruriginosi. Dovremmo domandarci se tutto ciò contribuisce a chiarire, a capire o se vi sono altre finalità: vendere un nuovo prodotto e delegittimare un’istituzione che malgrado le sue debolezze e contraddizioni in grandissima parte resiste e non condivide la strumentalizzazione della scuola, la sua riduzione a serva del mercato.

La scuola è rimasta sola, e comunque la percezione che hanno i docenti è di essere soli: i genitori hanno abbracciato in modo frettoloso e dogmatico il modernismo. Progresso coincide con l’innovazione tecnologica e con la destrutturazione del gruppo classe: fin quando tali dogmi saranno religione suffragata da liturgie lessicali, non si riuscirà a porre il tema della scuola a cui è legata la comunità tutta in modo profondo e serio. Dobbiamo uscire dal linguaggio economicistico aziendale per ritrovarci. Vorrei concludere citando Karl Marx (Capitale, libro primo, cap. VIII):

«Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari: fronzoli puri e semplici! Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo».

La formazione e soprattutto l’educazione sono dunque divenute «fronzoli», mentre il capitale si sta prendendo tutto: sonno, pensiero, vita.

Siamo chiamati a porci il problema.

 

Salvatore Antonio Bravo

[1] «Persone oltre le cose», recita lo slogan Conad. quando i clienti Conad vanno al supermercato, trovano ad attenderli un cartello con su scritto: «Siamo persone autentiche e disponibili, persone capaci di dare un senso a ciò che si vende e a ciò che non ha prezzo».

 

 


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