Salvatore Bravo – Come alberi, è necessario attingere alle sorgenti di linfa rimaste vive; un nuovo germoglio, più basso, un nuovo germoglio sordamente perfora la dura scorza, un germoglio venuto dall’interno e dal profondo, dall’interno durevole dell’albero, emissario segreto.
Le immagini e le metafore della filosofia ci accompagnano nel nostro cammino accidentato nel quale la speranza è la prassi da cui germogliano la resistenza e le idee per un nuovo mondo che potrebbe venire a noi, se distogliamo l’attenzione dall’indifferenza dei nostri giorni e dalle macchinazioni delle logiche di dominio.
Il potere, nella forma del dominio produce servi; questi ultimi affinano la loro azione nella ricerca di schiavi da sottomettere. I servi sono alla ricerca di schiavi per sopportare la condizione di sterili adulatori. La mortificazione che ne consegue, per tutti a tale vista, è uno scoramento che si infrange contro la dura realtà del niente. In un periodo storico in cui i giochi del dominio sembrano prevalere sulla speranza e sul logos, le immagini e le metafore possono indicarci il movimento razionale ed emotivo da tenere, mentre tutto sembra accadere fatalmente, al punto da sembrarci che non vi è bivio alcuno.
Dove vi è speranza vi è scelta, si è sempre ad un bivio, il quale non è semplice condizione spaziale, ma postura della coscienza che si spazializza in agire e prassi. L’agire, nel rispetto etimologico del termine “agere”, è libertà, è un nuovo inizio. Il novus che si presenta a noi non è mai senza storia, ma è la linfa dell’esperienza storica divenuta concetto. La forza plastica e creatrice del logos ripensano il già stato, per portarlo a noi in forma di concetto. Non si tratta di semplice attività finalizzata a duplicare il già stato, ma dalla profondità della linfa storica il discernimento consente di abbandonare possibilità regressive per ricreare in forme nuove il già stato, in tal modo si è ad un bivio: è necessario scegliere tra forme regressive che inducono e conducono all’indifferenza e la responsabilità del nuovo che si associa al timore del rischio. Non vi sono percorsi posti per sempre in sicurezza, ma solo il cammino responsabile può evitare tragedie e sclerotizzazioni nefaste.
Il percorso è arduo, l’attimo più difficile ed esteso consta della capacità di scendere nella profondità della storia dello spirito per ritrovare il senso smarrito. Sono processi in cui il singolo non riscopre semplicemente la sua storia, ma sente il suo esserci al mondo come “comunitario”, in lui vive e germina una storia più grande che spontaneamente dona ed indica la scelta, sta a lui ascoltarla. Nulla è più difficile e grande che l’ascolto. L’Umanesimo è pensiero che si riorienta nell’ascolto che trascende i limitati orizzonti individualistici per nuove prospettive comunitarie.
Charles Péguy ci dona una metafora eterna, oggi più vera che mai, poiché nei periodi storici in cui il tatticismo becero e l’adulazione più volgare sembrano prevalere sulla verità e l’ateismo sembra trionfare, tale metafora è più fortemente vera. L’ateismo è disperazione che si ribalta in indifferenza, se non vi è verità, tutte le prospettive sembrano eguali e non si può che naufragare nell’indifferenza e nella violenza del politicamente corretto con i suoi applausi bugiardi. Dinanzi all’ateismo che mostra ancora una volta il suo volto nichilistico nel quale le parole e i volti sembrano oscurarsi nell’omologazione per lasciarci in una cupa disperazione limitrofa all’indifferenza Charles Péguy ci offre una metafora su cui meditare e che ci può essere di ausilio per far emergere la speranza quale prassi viva del pensiero:
“Quando in un albero, generalmente in un vegetale arbusto o arborescente, per una ragione qualunque, gelata, colpo di gelo, colpo di vento, colpo di sole, trauma, siccità, un germoglio abortisce, […] essa abbandona al suo destino di sterilità la cima agonizzante; essa fa una sussunzione, una profonda esaltazione, una assunzione, una ripresa; essa riprende più in profondità: un nuovo germoglio nasce sotto il primo, spesso molto più sotto, spesso tanto sotto al primo quanto gli è necessario per attingere alle sorgenti di linfa rimaste vive; un nuovo germoglio, più basso, un nuovo germoglio sordamente perfora la dura scorza, un germoglio venuto dall’interno e dal profondo, dall’interno durevole dell’albero, emissario segreto[1]”.
Come alberi nella tempesta dobbiamo scendere nella profondità di noi stessi e ritrovare la linfa duratura con la quale creare il nuovo. Senza fondamenta profonde non vi è comunità, ma non vi è neanche l’individuo il quale si disperde nelle contingenze e nelle funzioni burocratiche.
Prospettive
Viviamo in pieno nichilismo e dimenticanza. Ma malgrado la desertificazione della vita e delle idee, come in un deserto che attende pioggia per germogliare sotto lo strato di sabbia del presente, radici profonde continuano a vivere e ad attendere ascolto e parole. Il chiasso dell’adulazione rende sterili, in quanto l’ascolto si oscura per la sola parola servile disponibile a vivere in superficie e a lasciarsi esiccare dalle contingenze. La profondità è olistica, insegna a mirare il mondo nello stupore delle prospettive che si completano. Fuori della caverna muschiosa le prospettive sono l’humus per il pensiero libero da clericalismi di ogni genere. Alla disperazione della prospettiva unica che diviene caverna e tomba a camera senza uscita, bisogna opporre la profondità che tocca la terra per innalzarsi al cielo delle possibilità malgrado resistenze e ramificate sconfitte, solo nella pluralità delle prospettive capaci di ritrovare il comune fondamento è possibile uscire dalle prigioni del politicamente corretto e dalla ridda degli opportunismi senza futuro e pensiero:
“La realtà non è proprio fatta in prospettiva né esaurita da una prospettiva, tanto quanto un paesaggio non è fatto in prospettiva né esaurito da una prospettiva. Qui come là, e giustamente perché il paesaggio stesso è una realtà, un frammento della realtà, una sorta di realtà, una parte integrante della realtà, qui come là è necessaria almeno, in prima battuta, un’infinità di prospettive; e è necessario inoltre uscire da là, è necessario in seconda battuta uscire da tutta(e) la(e) prospettiva(e), uscire dall’ordine stesso della prospettiva e delle prospettive, provare a contemplare con un tutt’altro sguardo[2]”.
Prima di riprendere la lotta impariamo a vivere l’ispirazione di paesaggi che abbiamo smesso di guardare per la cappa depressiva della logica crematistica dei banchieri che infettano i pensieri comunitari e l’impegno oblativo, cioè (come si può anche semplicemente leggere in un vocabolario della lingua italiana) del livello più alto dello sviluppo affettivo, contraddistinto dalla capacità di amare e di offrire liberamente senza contropartite.
[1] Ch. Péguy, Brunetière, Edizioni Milella, Lecce 1988,in OPC II, pag. 583
[2] Ch. Péguy, À nos amis, à nos abbonés, in OPC II, p. 1294
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