Salvatore Bravo – Il mito del progresso e Pasolini. Il simulacro (capitalismo) non nasconde la verità, ma non ha verità e teme di svelare il nulla che è.

Pier Paolo Pasolini 52
Salvatore Bravo

Il mito del progresso e Pasolini

 

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) nei suoi scritti letterari analizza la metamorfosi storica che sta coinvolgendo e travolgendo la società a lui coeva. I suoi scritti attraversano il tempo, poiché il suo sguardo intelligente[1] ha pensato e vissuto la radicalità delle mutazioni antropologiche e culturali avvenute in Italia nel secondo dopoguerra. Si può accostare Pasolini a Costanzo Preve, a Gramsci, in quanto ha vissuto come loro l’esperienza della solitudine. Non si è omologato all’opinione ricorrente, ma ha avuto il coraggio della verità, della resistenza civile e della coerenza. Pasolini ha letto – dietro il postulato del progresso – la distruzione della cultura del molteplice, delle espressioni vitali e linguistiche in nome dell’omologazione del consumo. Costanzo Preve la definirà “irrilevanza”. In Gramsci il “cretinismo specialistico” è la concretizzazione della morte della verità e del pensiero plurale e polivoco.
Pasolini nei suoi scritti diviene cantore della verità contro la superstizione del progresso ad ogni costo, contro il semplicismo in base al quale il domani è sempre migliore dell’oggi e del passato. Non si tratta di passatismo, ma di analisi critica e consapevole della complessità ideologica del mito del progresso. Il mito serve a passivizzare i popoli, ad inibire la domanda e la partecipazione collettiva. Dietro la bandiera progresso non vi sono i popoli che si emancipano, che rompono le catene che li imprigionano nella caverna, ma interessi lobbistici e di classe. Lo stupro dell’ambiente e delle culture popolari in nome della felicità che verrà, in nome del consumo, ha la sua verità nei potentati capitalistici i quali hanno l’obiettivo di mutare non solo una cultura, ma la natura umana, la quale deve specializzarsi nel consumo, nella

A “scuola” di consumo
Il nichilismo è la verità del capitalismo, delle folle addestrate a desiderare con il consumo la morte di dio e di ogni idea del sacro e di socialità. Il potere non vive racchiuso nella sua turris eburnea, ma circola, è veicolo di trasformazione, entra nel corpo vissuto per reificarlo. La diffusione della cultura del consumo non può che avvenire attraverso le istituzioni ed i mezzi di comunicazione. Pasolini si spinge fino alla provocazione estrema: abolire la scuola dell’obbligo e la televisione, perché esse non sono al servizio del cittadino, ma al servizio del capitale. Nella scuola il genocidio culturale delle masse si realizza in modo compiuto e subdolo. La scuola, che dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino, in realtà forma il funzionario del mercato, l’uomo dei soli fatti e consumi. La scuola è il luogo dove le catene dell’infelicità vengono forgiate mediante la negazione delle identità popolari e dei soggetti. In essa si educa a frammentare la comunità ed il soggetto per renderlo suddito del capitale. Il vero nemico non è il fascismo, non è il mondo clericale, ma il capitalismo nelle sue forme assolute. L’infelicità generale causa dipendenze compensatorie utili al sistema capitale. Sudditi infelici sono facilmente governabili e manipolabili.

Nel regno della monocultura feudale
L’analisi di Pasolini sulla scuola ci riporta alla verità della monocultura contemporanea anglofona e mercantile, nella quale gli alunni imparano che essere precari e sradicati è una forma di progresso. Si può ipotizzare che la pubblica avversione verso il latino celi il desiderio di occultare la verità che diventa palese nell’etimologia delle parole. La parola precario deriva dal latino prex-precis “preghiera”. Nelle scuole si insegna il neofeudalesimo, si impara ad essere precari, a dipendere dal favore e dal capriccio del capitale. Il nuovo signore e padrone ha la forma del capitale che rende servo chiunque dipenda dal suo potere. Ci si rimette al suo capriccio, alle leggi della finanza come un tempo ci si rimetteva nelle mani di Dio ed alla provvidenza. Per sopravvivere le scelte devono essere a misura di capitale/capitalista. Ogni cultura identitaria e collettiva è spazzata via, non resta che il narcisismo di massa con i miti superstiziosi del consumo.
Pasolini intravide nella scuola un luogo di allevamento e non di educazione. La televisione in tale contesto è il mezzo che con le sue immagini patinate, con i suoi modelli sociali entra in ogni salotto, accomuna nella separazione degli individui. La scuola ed i mezzi mediatici, oggi plurali, agiscono in una comunione di obiettivi che rende saldo il potere del capitale, ogni essenza generica “Gattungswessen” è negata per produrre consumatori con la forma mentis del solo calcolo personale e dell’utile. Lo scandalo che muove i suoi scritti sono un’invocazione alla resistenza civile, ad uscire dal semplicismo del dogmatismo superstizioso con i suoi automatismi che si trasforma in violenza, in delinquenza relazionale, poiché i modelli proposti sono fonte di frustrazione, in quanto irraggiungibili, e specialmente minano l’equilibrio delle nuove generazioni. L’illimitato consumo e narcisismo proposto da televisione e scuola ha l’effetto di destabilizzare la psiche, il carattere ed i talenti delle nuove generazioni. L’alienazione (Entfremdung) e la violenza che ne consegue è così resa normale prassi del quotidiano:

«Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Cioè che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro mondo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione della masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa).
Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere.
1) Abolire immediatamente la scuola media dell’obbligo.
2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.
La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una “educazione sessuale”, magari così come la intende lo stesso “Paese Sera”), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E’ questo il nodo della questione).
Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: cioè che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un “esempio”: i “modelli” cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? E’ stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).
Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo – come di qualsiasi altro “luogo culturale” – col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e “l’Unità”: e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tenendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita».[2]

 

Genocidio culturale
Si concretizza nelle scuole e nei mezzi di comunicazione ad un nuovo tipo di genocidio: non si eliminano gli esseri umani, ma la loro diversità, la storia stratificata di generazioni veicolata mediante linguaggi, gestualità e parametri valoriali differenti. Dinanzi al quotidiano genocidio delle identità collettive ed individuali, Pasolini non ha arretrato, ne ha denunciato le storture e le complicità consapevoli ed inconsapevoli constatando che la violenza è divenuta la legge della società a dimensione capitale e che i delitti devono essere letti in modo concreto, riportandoli al contesto strutturale e sovrastrutturale in cui accadono, altrimenti si cade in astrazioni irrazionali:

«Ma se la seconda rivoluzione industriale – attraverso le nuove immense possibilità che si è data – producesse da ora in poi dei “rapporti sociali “immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia.
Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo), sia, com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.
In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all’utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova».[3]

Il senso del “politico”
Pasolini ci insegna ad avere la chiarezza sul nemico. La lotta è possibile quando si ha la chiarezza del nemico, che non è più il mondo clerico-fascista, ma il capitalismo assoluto dei nostri giorni. Senza la chiarezza sul nemico non vi può essere alternativa, ma solo complicità inconsapevole con le strutture di potere. L’impegno primario dev’essere, così, svelare il volto del nemico: in tal modo si reintroduce nel reale storico e sociale il principio di realtà, senza il quale è impossibile organizzare ogni resistenza individuale e collettiva. L’articolo pubblicato da Il Corriere della Sera è stato scritto poche settimane prima del suo omicidio, è il suo testamento spirituale, e specialmente indica il percorso da intraprendere per uscire dalla caverna scuola-televisione. Il suo messaggio oggi è più vero che mai. La scuola azienda attuale ha rinunciato a leggere il presente per diventare parte del sistema mediatico, cellula della germinazione del capitalismo, della seduzione e della menzogna. Il politico deve svelare che il simulacro (capitalismo) come si afferma nel Qoelet non nasconde la verità, ma non ha verità, è nichilismo ideologico che teme di svelare il nulla che è.

Salvatore Bravo

[1] Intelligenza, dal latino intus = dentro ed al verbo latino legere = leggere, comprendere.

[2] Pier Paolo Pasolini, “Aboliamo la TV e la scuola dell’obbligo”, Il Corriere della Sera, 18 Ottobre 1975.

[3] Pier Paolo Pasolini, “Il mondo”, intervento al congresso del Partito radicale, Novembre 1975.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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