Christopher Lasch (1932-1994) – Il capitalismo assoluto pone tutto sulla stessa linea d’orizzonte perché tutto dev’essere valore di scambio. La tolleranza diventa indifferenza, il pluralismo culturale, deprivato di giudizio etico, degenera in mero spettacolo estetico e rende inappropriato parlare di impegno etico in qualsiasi senso.

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La ribellione delle elites

La ribellione delle élite

Salvatore Bravo

Recensione al libro di Christopher Lasch,

La ribellione delle élite

 

 

Il capitalismo assoluto è il regno dell’astratto, il regno del rigor mortis contrapposto alla vita. La concretezza è spirito vitale, prassi, trasformazione sociale e personale. Il concreto è pratica antinichilistica, poiché la concretezza è il concrescere dell’universale e del particolare. Il nichilismo è astratto, è la pratica atomistica dell’irrilevanza. L’astratto è separazione: ogni elemento, ogni ente, ogni essere umano è assunto nella sua cesura col mondo. Non può essere altrimenti. Per poter usare, bisogna separare, per poter ridurre tutto a semplice valore di scambio, tra l’usante e l’usato non deve intercorrere relazione alcuna. La violenza ha le sue leggi. La razionalità calcolante astrae il plusvalore, riduce a plusvalore ogni tocco, ogni sguardo. L’impero del valore di scambio, ha trasformato in realtà lo stato di natura posto come ipotesi da Hobbes. L’astratto ha cognizione dell’attività, ma non della prassi, in quanto la seconda implica un processo di trasformazione qualitativa e coscienziale. Nell’astratto non vi è che la riproduzione sempre uguale dei rapporti di produzione alienati, sotto il suo imperio annichiliscono le culture, le lingue, i paesaggi: è un buco nero che pare inarrestabile e minaccioso. La paura della desertificazione, dell’estinzione della vita viva, non è insuperabile. Le parole, il logos sono con noi, dunque possono porci in una condizione di consapevolezza, di distanza domandante, mentre la condizione astratta non ha parole per decodificare le circostanze in cui si è gettati. Il nichilismo è una pratica e non una teoria, affermava Costanzo Preve. Il nichilismo avanza con le sue ideologie, con la scomparsa del mondo autentico per il virtuale. Christopher Lasch, in La ribellione delle élite, descrive il ripiegamento delle classi dirigenti su se stesse, la loro fuga dagli spazi della democrazia e dunque dalle responsabilità sociali. L’astrazione si palesa nel loro dorato isolamento che rende il mondo incomprensibile e nemico. La borghesia scompare e con essa scompare la coscienza infelice, la pratica della contraddizione, del negativo che crea e trasforma; al suo posto solo la squallida difesa ideologica del proprio orticello economico dalle dimensioni globali. Interessi ovunque, ma il cuore come la testa in nessun luogo. L’attività nichilistica ha il suo epifenomeno in una tolleranza che diventa indifferenza, nel multiculturalismo che diviene spettacolo. La discesa agli inferi è lastricata come via del denaro, dello sfruttamento camuffato, dell’assenza di limiti. Il capitalismo assoluto non vuole limiti etici ed estetici, è il regno di una brutale indifferenza che vorrebbe realizzare anche l’impossibile. Esso deve desimbolizzare tradizioni nazionali come paradigmi etici, tutto dev’essere posto sulla stessa linea d’orizzonte perché tutto dev’essere valore di scambio. Non resta dunque che un multiculturalismo da spettacolo, da esibizione in nome della tolleranza, del regno dell’indifferenza:

 

«Ma in assenza di standard comuni la tolleranza diventa indifferenza e il pluralismo culturale degenera in una specie di spettacolo estetico in cui possiamo anche assaporare con il gusto del conoscitore le curiose costumanze dei nostri vicini, ma non ci prendiamo il disturbo di esprimere un qualsiasi giudizio sui nostri vicini in sé, in quanto individui. La sospensione del giudizio etico, secondo la versione corrente del pluralismo, quale che sia, rende inappropriato parlare di impegno etico in qualsiasi senso. Tutto quanto possiamo permetterci, stanti le definizioni correnti di diversità culturale è l’apprezzamento estetico». [1]

 

Il giudizio etico necessita di impegno, ha inevitabili implicazioni dialettiche. La fatica del negativo rende la persona partecipe e propositiva, disegna limiti e con essi pone un confine al mercato, al valore di scambio. La tolleranza che diviene indifferenza spinge invece verso il declino della cittadinanza attiva, motiva alla semplice curiosità senza coinvolgimento. Non ci si conosce che in modo fugace ed epidermico: in tal modo il pluralismo culturale diviene la giustapposizione di persone senza relazioni. L’assenza della comunità, della conoscenza dell’altro, rende lo sradicamento un’abitudine, un comportamento reso ipostasi. Il fine è rendere impossibile ogni concretezza, ogni prassi comunitaria. L’indifferenza non crea nulla, rafforza il valore di scambio, svuota le istituzioni democratiche del loro senso: il nichilismo avanza sostenuto dall’arretramento di ogni senso di civica solidarietà. Il timore di ogni valore comune, della ricerca argomentata della concretezza universale è neutralizzata con lo spauracchio del fascismo e del nazismo in assenza di essi:

 

«La nostra società è stretta dalla morsa di due grandi paure, entrambe paralizzanti: la paura del fanatismo e quella della guerra razziale. Proprio perché abbiamo scoperto in ritardo la contingenza di tutti i sistemi di credenze siamo ossessionati dai timori che nascono quando si considerano universali delle verità parziali. In un secolo dominato dal fascismo e dal comunismo, questo terrore è comprensibile, ma ormai si può sostenere, senza essere accusati compiacenza, che la minaccia totalitaria sta svanendo». [2]

 

La paura del fascismo e del nazismo è sventolata dinanzi a coloro che cercano ed affermano la possibilità dell’universale. Tacciare di intolleranza chiunque non si unisca al coro della facile indifferenza, mostruosizzandolo, è il nuovo mezzo con cui opera la censura. Si resta in una logica dicotomica, da una parte i fascisti dall’altra i buoni e giusti per i quali la condizione attuale è il migliore dei mondi possibili. Ogni dialettica si ritira dal mondo. Il logos – che per natura è comunicazione, dialogo –, nel suo tramonto allunga le ombre sulla democrazia. C. Lasch giudica la democrazia in pericolo in assenza dell’anima che dovrebbe renderla luogo di formazione e partecipazione. La borghesia sostituita dalla finanza è il veleno mortale che la democrazia beve quotidianamente. L’indifferenza diviene livellamento culturale. La finanza non produce classi dirigenti, ma solo servi fedeli. Il livellamento verso il basso rende l’elaborazione di nuovi progetti politici improbabili, il sistema si difende livellando, non chiedendo nulla ai suoi giovani, lascia che l’anomia li formi, che gli analfabeti mediatici possano lasciare ai padroni spazi di potere sempre più ampi:

 

«Ma se si concede a ogni impulso di venire pubblicamente espresso, se si afferma sfacciatamente che “è vietato vietare”, come suonava lo slogan rivoluzionario del ’68, non ci si limita a promuovere l’anarchia: si aboliscono quelle “sacre distanze” da cui dipende in definitiva, la categoria stessa di verità. Quando ogni espressione è egualmente lecita, nulla è vero. Con la creazione di opposti … ideali di verità militanti, si sanziona la terrificante capacità dell’uomo di esprimere qualsiasi cosa». [3]

 

Lasch dunque delinea il pericolo del vuoto creato dalle classi dirigenti, dal loro fanatico culto del nichilismo finalizzato alla sola economia. La verità vuole distanza. Ovvero, affinché la verità possa trovare le condizioni di emergenza è necessario il pensiero. Il cogitare necessita che il soggetto non sia continuamente preda del mercato, sottoposto ad una stimolazione ossessiva che lo riduce a semplice attività biologica. La democrazia esige spazi in cui il mercato non deve entrare altrimenti divora l’essenza stessa della democrazia: la parola, il logos, il pensiero. Il nichilismo avanza nella forma del mercato, non vi sono contrappesi al nuovo Leviatano. La famiglia, quale luogo formativo dove si impara la comunione dei beni e la solidarietà – dunque forma di resistenza critica alla privatizzazione – è invasa dal mercato, come accade per la scuola. In assenza di contrappesi la democrazia è in pericolo:

 

«Invece di fungere da contrappeso al mercato, in sostanza, la famiglia è stata invasa dal mercato, che ne ha minato le basi».[4]

 

Le piattaforme mediatiche non possono certo sostituire i corpi medi che formano il cittadino: la parola vuole vicinanza, concretezza, solo in tal modo la parola dinanzi allo sguardo dell’altro può assumersi la responsabilità del dialogo. Le forme alternative di comunicazione, la democrazia diretta in piattaforma, risponde allo scollamento tra parola, partecipazione e responsabilità. La distanza spaziale, la scomparsa della comunicazione viva, dei corpi viventi che si confrontano senza vie di fughe facili e comode è il volano dello svaporarsi della creatività e della resistenza. Il testo di Lasch è una difesa della democrazia contro il nichilismo che la divora, che svuota le sue istituzioni a favore del deserto che sembra avanzare inesorabile.

Salvatore Bravo

[1] C. Lasch, La ribellione delle élite, Feltrinelli, Milano, 2009, pag. 75.

[2] Ibidem, pag. 77.

[3] Ibidem, pag. 180.

[4] Ibidem, pag. 83.

 



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Jean-Claude Michéa – Una «comunità» composta esclusivamente da uomini d’affari mossi dalla cupidigia e da uomini di legge osservanti delle procedure è semplicemente invivibile

Michéa

La cultura dell'egoismo

Ricordiamo che i termini «comune», «comunità» o «comunismo» si formano a parrire dalla radice latina munus, che fra l’altro indicava gli obblighi (o gli «oneri») che derivavano tradizionalmeme dalla logica del dono e dell’onore e che da questo punto di vista costituiscono il vero zoccolo culturale e antropologico di tutte le relazioni personali o «faccia a faccia». Se, come è evidente, nulla vieta che una comunità allargata possa sviluppare, all’interno di certi limiti morali e culturali, un settore di mercato e delle istituzioni giuridiche (detto in altri termini, quei sistemi impersonali e anonimi di messa in relazione delle persone che danno forma a ciò che Alain Caillé chiama «socialità secondaria»), per contro è chiaro che tali strutture, fondate sulla mera logica del «do-ut-des» e dell’«interesse correttamente inteso», non possono in alcun modo definire (come vuole invece il dogma liberale) il fondamento primario del legame sociale quale si manifesta in maniera privilegiata nella vita quotidiana. E quindi ancor meno il principio filosofico fondante di una società decente. Una «comunità» composta esclusivamente da uomini d’affari mossi dalla cupidigia e da uomini di legge osservanti delle procedure (ovvero una comunità nella quale l’insieme dei membri applica, in rutte le sue relazioni quotidiane, la «morale» concreta di questi due tipi umani) sarebbe semplicemente invivibile. Eppure è proprio a quesro risultato che il sistema liberale tende logicamente.

Jean-Claude Michéa, L’anima umana sotto il capitalismo, in Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, La cultura dell’egoismo, elèutera, 2014, pp. 65-66.

Dissentiamo dalla possibilità proposta da Michéa («nulla vieta che una comunità allargata possa sviluppare, all’interno di certi limiti morali e culturali, un settore di mercato») proprio in quanto è illusorio porre soltanto  «limiti morali e culturali» al mercato, seppure costretto ad ambiti marginali; vanno bensì posti ben presisi «limiti costituzionali», e di legge ordinaria, in termini di impedimento al sua stessa sussitenza. La logica intrenseca al mercato e alla merce porterebbe al suo allargamento continuo, cercando di conquisrare di nuovo ogni spazio sociale.

 


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Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto – SINISTRA E IDEOLOGIA DEL PROGRESSO

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate,

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate, 1884.

Questo saggio è già stato pubblicato

sulla rivista «Indipendenza»

Logo_Indipendenza_modificatoN. 38, novembre/dicembre 2015

Per oltre un secolo la sinistra si è pensata come lo spazio politico che per eccellenza incarnava l’idea di progresso e gli interessi del popolo. Il matrimonio tra una sinistra rivoluzionaria o riformista e l’ideologia del progresso è durato così a lungo perché si fondava su una particolare interpretazione della storia e del presente. Quali erano i suoi assunti? In un’epoca dominata da mutamenti senza precedenti, da una nuova concezione dell’individuo, del lavoro e della società stessa, il binomio progresso-emancipazione appariva solido e la lotta tra forze della conservazione e forze del progresso strutturava il dibattito politico e culturale. Nella misura in cui i nemici del “progresso” erano interessati non solo a ostacolare questi mutamenti ma anche a mantenere le classi popolari in uno stato di ignoranza e di miseria, l’esistenza di un “partito del progresso e del popolo” sembrava perfettamente legittima. La nostra tesi è che tale equazione, assai discutibile già in partenza, oggi sia totalmente insostenibile, e tra la causa della lotta contro l’oppressione e l’ideologia del progresso si sia scavato un fossato incolmabile, di cui bisogna prendere atto.

In questa occasione non ci interessa dare una definizione di “progresso”. Desideriamo solo offrire qualche spunto di riflessione per rendere la complessità di un concetto contraddittorio e scivoloso. Tuttavia, se dare una definizione “obiettiva” del concetto di progresso è una impresa forse impossibile, molto più fecondo è un esame della sua genesi storica. Ricostruzioni di questo tipo sono di solito appannaggio dei critici dell’ideologia del progresso, dal momento che per i suoi sostenitori l’immagine di un cammino che procede gradatamente dall’oscurità dell’ignoranza e del passato alla luce della ragione è più un dato di fatto che qualcosa da decostruire. Le interpretazioni più diffuse sono sostanzialmente due, anche se spesso si presentano mescolate e con numerose “variazioni sul tema”. La prima pone l’accento sulla tecno-scienza[1], e collega l’ideologia del progresso con la capacità sempre maggiore dell’uomo di manipolare la natura, con un aumento prodigioso della produzione di beni, nonché della soddisfazione (e creazione) di una gamma sempre più vasta di bisogni. In un contesto simile, che corrisponde grossomodo alla rivoluzione industriale, si può comprendere la nascita di una vera e propria fede nel miglioramento ineluttabile delle condizioni di vita dell’umanità, che però negli ultimi decenni si scontra con i limiti oggettivi dell’ecosistema terrestre, rendendola quantomeno discutibile. La seconda si concentra sulla cosiddetta secolarizzazione dell’escatologia cristiana e sulla sua visione della storia, che progredisce secondo un disegno divino dalla caduta del peccato originale alla gloria del Regno di Dio. Una volta perso il suo riferimento trascendente la tradizione escatologica avrebbe dato vita all’utopismo moderno (comunismo in testa) e al suo sogno di un “lieto fine” pre-determinato della storia, nei confronti del quale ogni epoca rappresenterebbe un gradino ascendente. Entrambe le interpretazioni sono a nostro avviso insoddisfacenti. La prima critica una visione meccanica e determinista del progresso industriale, stabilendo però un nesso causale altrettanto meccanico e determinista tra lo sviluppo tecnologico e la capacità dell’umanità di padroneggiarlo e di neutralizzarne gli aspetti distruttivi. Questo tipo di argomentazione spesso sembra accettare, rovesciandolo, proprio lo scenario che desidera negare, ovvero quello di una determinazione della storia ad opera delle forze impersonali della tecnica, di fronte alla quale l’uomo non è che un burattino inerme. Ciò non toglie, ovviamente, che oggi i rischi di una catastrofe ambientale siano reali e non immaginari; non si spiega però quale sia il nesso necessario tra l’ideologia del progresso, che nasce in un contesto storico preciso, e la natura sempre potenzialmente “ecofaga” e distruttiva dell’uomo[2]. Allo stesso modo la seconda non mostra in che modo un’unica dottrina religiosa, quella cristiana, non più “escatologica” di molte altre (da importanti branche del buddismo all’Islam, soprattutto sh’ita, all’ebraismo), abbia portato allo sviluppo dell’ideologia del progresso dopo quasi duemila anni, un arco di tempo così vasto da indebolire qualsiasi ricostruzione di “catene” causali. Senza contare che l’escatologia cristiana prevede non un miglioramento indefinito dello status morale dell’umanità, ma un suo graduale deterioramento, che rende necessario l’intervento divino diretto e il Giudizio finale.

Una terza vulgata ha elaborato una soluzione radicalmente diversa al problema. Ben lungi dall’essere l’inevitabile portato nefasto della tecno-scienza o della teologia cristiana, l’ideologia del progresso affonda le sue radici in un contesto storico ben preciso, quello della borghesia europea del Settecento, la classe che per prima volle emanciparsi dagli “errori” delle precedenti generazioni e soprattutto dai loro pregiudizi. Le tradizioni classica, cristiana e umanistico-repubblicana, per il resto così diverse, condividevano una concezione tragica della storia, dominata dalla consapevolezza della decadenza che attende ogni civiltà e dal prezzo che ogni miglioramento inevitabilmente richiede. «L’idea di progresso non ha mai fatto perno sulla promessa di una società ideale»[3] sostiene Christopher Lasch, che al tema ha dedicato un’importante opera, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica. La sua autentica cifra sarebbe piuttosto “l’aspettativa di un miglioramento indefinito e illimitato”, secondo la quale tutto è incerto, tranne la certezza che il futuro sarà in qualche modo migliore del passato. La fiducia nel futuro rende obsoleta l’enfasi tradizionalmente posta dalla cultura europea (e non solo) sull’autocontrollo, sul senso del limite, sulla dignità della cultura e sull’arte, intese come luoghi privilegiati della riflessione sui problemi ultimi dell’esistenza e non come passatempi o divertimenti. «Il suo fascino originale e la sua duratura credibilità derivano dallo specifico assunto che gli appetiti insaziabili, in precedenza condannati come fonte di instabilità sociale e di infelicità personale, potessero trainare la macchina economica»[4]. Il capolavoro di Georges Sorel Le illusioni del progresso si concentra proprio sul passaggio dalla cultura “alta” del Seicento francese dei giansenisti, di Bossuet e di Pascal, dominata in modo ossessivo dal senso del peccato ma anche dal senso di serietà dell’attività letteraria e scientifica, alla società neo-aristocratica del Settecento, desiderosa soprattutto di svagarsi senza dover riconoscere la propria responsabilità nei confronti delle generazioni passate e di quelle future. Sorel affronta l’enigma del progresso partendo da un incipit apparentemente astruso, cioè “la disputa degli antichi e dei moderni”, un dibattito occorso nei primi decenni del XVII tra gli eruditi sostenitori della tradizione classica e chi invece propugnava la superiorità della letteratura moderna su quella antica. Secondo Sorel, originale interprete del metodo di Marx, dietro questa relativamente oscura diatriba si nasconde l’ascesa dell’assolutismo reale francese e il notevole miglioramento delle condizioni generali della società francese dell’epoca. I francesi dell’epoca «erano soprattutto colpiti dal vedere fino a che punto la maestà regale aveva potuto elevarsi al di sopra degli eventi contingenti» (p. 455) e si erano convinti che tale progressivo miglioramento non sarebbe mai finito, dispensando gli uomini e le donne dal pagare un tributo simbolico al passato. Per la prima volta si afferma l’idea che era legittimo «abbandonarsi alla felicità senza cercare di giustificare la propria condotta». Idea che per Sorel non avrebbe più abbandonato la cultura occidentale nei secoli successivi alla Querelle des Ancientes et des Modernes, insieme con la certezza della superiorità del futuro sul passato e l’insofferenza verso qualsiasi limite posto all’arbitrio individuale.

L’ipotesi capitalista non è che una delle molteplici varianti della metafisica del Progresso, così come sopra delineata. Alla stregua delle altre varianti, pretende anch’essa che la Storia abbia un senso e che il percorso prescritto agli uomini li porti inesorabilmente – per usare il vocabolario di Saint-Simon e di Comte – dallo stato teologico-militare allo stato scientifico-industriale. Quel che costituisce la differenza specifica dell’ipotesi capitalista è unicamente l’idea che il principio determinante della Storia sia, in ultima istanza, la dinamica dell’economia e, di conseguenza, il progresso tecnologico, in quanto condizione materiale fondamentale di tale dinamica.
Tutto ciò che intralcia la spinta in avanti di una società attraverso il movimento modernizzatore dell’economia, deve inevitabilmente essere percepito come un arcaismo inaccettabile, al quale ci si può aggrappare solo se si ha la sfortuna di essere uno spirito “conservatore”, o peggio ancora, “reazionario” (nel linguaggio saint-simonista, “retrogrado”).

A differenza dei liberali, i primi socialisti non avevano alcuna intenzione di abolire tutte le forme di solidarietà popolare tradizionale, né di attaccare le fondamenta del “legame sociale”. Il progetto socialista è infatti orientato, fin dalla nascita, dal desiderio che hanno i primi lavoratori moderni di proteggere – contro gli effetti disegualitari e disumanizzanti del liberalismo industriale – un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuiscono essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome.

Possiamo farci un’idea di un simile stato d’animo leggendo il monumentale studio di E. P. Thompson “Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra”. Secondo lo storico inglese, all’alba della rivoluzione industriale, i lavoratori manuali «avevano il senso di una posizione sociale perduta, correlata al perdurare di ricordi della “età dell’oro” [pre-industriale, nota mia]» (p. 297). Lunghi dall’essere assimilato con una visione reazionaria, esso era caratterizzato da un «profondo senso di egualitarismo» legato a «nozioni elementari di condotta umana e di solidarietà cameratesca». Il ricordo del “tempo perduto” della “Vecchia Inghilterra” (senza dubbio almeno in parte idealizzata) in cui era possibile guadagnarsi tranquillamente da vivere con il sudore della fronte, senza passare attraverso le tortuose mediazioni del capitale e la disciplina di fabbrica, conviveva però con un grande interesse per la cultura moderna. Thompson documenta con efficace e a tratti commovente dovizia di particolari la cultura parallela delle classi operaie, dove accanto al lavoro al telaio fiorivano lo studio delle scienze della natura, della matematica, della meccanica, oltre che dell’attualità politica. Questa convivenza di nostalgia – o perlomeno di rivendicazione – del passato e di passione per il presente minaccia al cuore il teorema del progressismo, basato sulla contrapposizione rigida tra passato e futuro.

Nel 1833 compare per la prima volta la parola «socialismo» in un articolo intitolato De l’individualisme et du socialisme, in cui il teorico socialista Pierre Leroux precisa: «…ci si è abituati a chiamare socialisti tutti i pensatori che si occupano di riforme sociali, tutti coloro che criticano e disapprovano l’individualismo, tutti quelli che parlano, in diversi termini, di provvidenza sociale e di solidarietà che riunisce non solo i membri di uno Stato ma l’intera Specie umana». Leroux afferma non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».

Se questi pensatori si oppongono all’ideologia liberale, è soprattutto perché quest’ultima si fonda su una concezione della libertà individuale che conduce necessariamente, ai loro occhi, a dissolvere l’idea di una “vita comune”[5].

Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto l’internazionalismo o il senso dell’universale. I primi socialisti erano perfettamente coscienti che è sempre a partire da una tradizione culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali e che l’universale non può mai essere costruito sulla rovina dei radicamenti particolari. Per dirla con lo scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l’universale è il locale, meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente legato alla sua comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità», scrive a riguardo Jean-Claude Michéa, «possiamo concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista».

Il socialismo operaio si configura pertanto fin dall’origine come un rapporto eminentemente critico verso la modernità e soprattutto verso il suo individualismo devastante e rappresenta prima di tutto la traduzione in idee filosofiche delle prime proteste popolari contro i disastrosi effetti sugli uomini e sulla natura della modernizzazione liberale. Esso, così come il comunismo, non coincide dunque con la cultura della sinistra progressista, anche se storicamente ci sono state sovrapposizioni e convergenze a livello sia di dottrina politica che di blocchi sociali impegnati nella contesa politica. Lo studio di questo filone sotterraneo della storia europea (e non) può essere un prezioso antidoto non solo verso l’ideologia del progresso, ma anche verso interpretazioni che rovesciano il teorema progressista e idealizzano in blocco il passato, irrigidendolo in una sorta di utopia retrospettiva, senza peraltro chiarire a quale dei molti “passati” al plurale ci si debba conformare. La nostra proposta è radicalmente diversa. Essa parte non dall’idealizzazione di un passato veramente “tradizionale”, cui sarebbe doveroso tornare, contrapposto agli ultimi secoli di “modernità”. Come Lasch argomenta correttamente, il giusto approccio al passato non è quello della convenzione tradizionalistica, che si circonda di una «quieta atmosfera di venerazione», bensì quella della memoria, che «si circonda di oratoria, di dialettica, di dispute» (p. 121). Per noi si tratta quindi di mettere al centro la nozione di vita comune e le virtù (nel senso elementare e non moralistico di “capacità”) che la rendono possibile. In una simile ottica il passato non è un calderone indistinto da respingere o da accettare in blocco, ma una posta in gioco, un serbatoio di esperienze, di intuizioni e di forme di vita potenzialmente universali, germi di autentica “vita comune”. Significa anche essere coscienti che questi germi, lungi dall’essersi realizzati compiutamente nel passato o di essere scomparsi in epoca “moderna”, al contrario hanno continuato a svilupparsi, pur in mezzo a mille contraddizioni. Nel bellissimo 45° pensiero dei Minima moralia Adorno nota come nella dialettica di Hegel sopravvivesse qualcosa del «sano spirito di contraddizione» e «della testardaggine del contadino che ha appreso per secoli a resistere alla caccia e ai tributi dei potenti feudatari». Allo stesso modo noi riteniamo che molti degli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza degli ultimi secoli siano debitori di quel passato che per l’ideologia del progresso non è altro che oscurità e ignoranza.

 

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto

 

 

Note

[1]   Evitiamo di usare il termine “tecnica”, filosoficamente più denso.

[2]  Ricordiamo che numerose catastrofi ambientali sono state causate dall’uomo molto prima della rivoluzione industriale. Ad esempio l’arrivo degli antenati degli attuali abitanti della Polinesia 8.000 anni fa sembra abbia portato all’estinzione di circa metà delle specie indigene. Allo stesso modo le popolazioni mesoamericane ricorrevano a pratiche agricole talmente impattanti da minare la sopravvivenza stessa delle loro civiltà. Chiaramente gli sviluppi tecnologici successivi mettono nelle nostre mani strumenti più potenti e quindi più pericolosi di quelli a disposizione dei nostri predecessori.

[3]  C. Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Feltrinelli 1992, p. 42.

[4]  Ibidem, p. 46.

[5] Questo perché per un liberale «tutte le forme di appartenenza o d’identità che non sono state liberamente scelte da un soggetto, sono potenzialmente oppressive e discriminanti» (Benjamin Constant); così anche la nozione di famiglia, di lingua materna o di paese d’origine.