Laura Venturi – Recensione per un evento che non ha avuto luogo

Teatri chiusi per covid

Laura Venturi

Recensione per un evento che non ha avuto luogo


La serata è più silenziosa del solito, mi preparo con la radio spenta e la fantasia accesa. Prendo un vestito sobrio e particolare al tempo stesso, mi immagino indossarlo bevendo un prosecco al bar del teatro. Che anche questo fa parte della serata in fondo, penso, quasi a giustificare questa immagine. Un prosecco, il bar, le persone … stasera stranamente mi soffermo su questo tipo di dettagli, quando penso alle ore che mi aspettano. Ho un tuffo al cuore e mi manca quasi il respiro quando immagino la fila all’ingresso, quel cauto camminare cercando di controllare la voglia di entrare nella hall calda e liberarsi del peso della giacca, quel cercare di mantenere un’elegante distanza dall’ospite che ci precede, pur riuscendo ad annusare distintamente il profumo emanato dalla sua sciarpa.


Il saluto alla maschera che controlla i biglietti: gli chiederò da che parte debba dirigermi per trovare il mio posto, anche se lo so benissimo, tanta è la voglia di parlare. Di vedere mani che indicano, gesticolano, che prendono il mio biglietto tra le dita e me lo restituiscono e per spiegare ancora una cosa me lo sottraggono nuovamente per poi consegnarmelo un’ultima volta, sfiorandomi perfino il dorso della mano. Immagino poi la fila al bar, immagino di guardare con benevolenza il cameriere mentre tocca i contanti e poi tocca la mia brezel e poi di nuovo le banconote e poi ancora il cibo altrui, senza guanti e senza rimedio, con allegria e noncuranza. Qualcuno mi pesta un piede per sbaglio, tanto ci tiene al vassoio con le quattro birre che deve ritirare, si gira e si scusa, con una risata di cui sento il vento sulla guancia. Gli sorrido, inalando il suo buonumore.


Quando trovo il mio posto le luci della sala sono ancora accese. Dopo pochi secondi che mi sono seduta arrivano quattro persone che desiderano raggiungere le loro poltrone più avanti nella stessa fila. Mi sorridono, come si sorride a teatro quando si desidera raggiungere una poltrona più avanti nella stessa fila. Sorrido anche io e mi alzo, mi schiaccio contro la mia poltrona chiusa, loro si schiacciano contro la fila davanti, ma il loro fondoschiena struscia contro le mie cosce e il mio addome. Questa stessa scena avrà luogo ancora quattro, cinque volte. Poi potrò stare seduta un po’ più a lungo, prima di dovermi alzare l’ultima volta per far passare la signora che siede alla mia destra. Quella davanti a me indossa un vestito azzurro spento con uno scollo sulla schiena. Il collier argento e i capelli biondi raccolti si gonfiano e sgonfiano con ogni suo respiro, la pelle è dorata e mi sembra di percepirne la tiepida aura profumata.


Poi le luci si spegneranno, e succede che si sentono più forti i respiri, le parole, le risate, quando è buio e sta per cominciare la magia. Si sente la vicinanza, si sente l’energia della folla pronta al miracolo, si sente la sintonia dell’attesa.

Ma intanto attendo, attendo che il tassista raggiunga il teatro. Gli biascico qualche battuta ma non mi sente, la mia voce non riesce a superare la barriera di plexiglass posta tra i sedili posteriori e quelli anteriori. Allora mi ricordo di quell’altra sera, che forse dovrei chiamare mattina, erano le 4 circa, dopo la serata di tango. Salgo sul taxi e il tassista turco mi fa mille domande sulla serata, ha sentito parlare della folle milonga berlinese di Kreuzberg e vuole sentire che ne penso. Gli piace la danza, ma se ne occupa indirettamente dice lui, lui suona il saz e gli altri ballano. Se suona bene, ballano di gusto. Tu hai ballato di gusto, osserva, chiudendo il finestrino “perché sennò ti ammali, sei tutta bagnata”. E sì, ero tutta bagnata, del mio sudore e di quello delle decine e decine di persone che avevano ballato dentro l’aria tropicale della stanza dal pavimento rosso. Abbiamo riso, con quel tassista, mi ha concesso di fumare nella sua macchina, mi ha offerto una birra, ne aveva diverse lì, gli ho detto va bene, ma accosta che ce la fumiamo insieme questa sigaretta, in onore della musica e del ballo.


Contatto, promiscuità dell’anima, Berlino è la città perfetta, anche per quella del corpo, ma quella sera è stata così, ore di danze sfrenate, una sigaretta col tassista, poi ancora quattro chiacchiere con una che, povera anima, anche lei con il cane che doveva pisciare alle 5 del mattino. Il tassista frena e accosta, siamo arrivati davanti al teatro. Sono contenta, pago e scendo, lui riparte.


La piazza è deserta, il teatro è chiuso. Ci sono dei cartelli davanti, non descrivono la prossima produzione, bensì il funzionamento dei tamponi. Il teatro è diventato un grande mercato di tamponi rapidi. Ma a quest’ora no purtroppo, quasi penso che sarei entrata comunque, pur di entrare.


Mi sento chiusa fuori dal calore che ho immaginato. Penso alle persone che non vedrò, penso all’arte di cui non farò esperienza. Sono impalata davanti al portone chiuso, quando avverto come un alito di vento alle mie spalle. Non oso girarmi. Lo sento di nuovo, e insieme individuo come un sussurrio. Le voci si fanno gradualmente più forti. Declamano, piangono, ridono, urlano, sussurrano, scherzano. Virtuosamente modulano toni e modi dei mille personaggi che sono rimasti chiusi fuori dal teatro. Anche il vento è aumentato nel frattempo, e nella piazza deserta distinguo il frullio di piroette, salti, attese e rincorse. Alzo gli occhi e davanti dietro e intorno al teatro scopro centinaia di frammenti di scenografia, tele e pezzi dei panorami più esotici che camuffano l’edificio dentro al quale dorme il palcoscenico.

Laura Venturi


Laura Venturi – Gentian Doda in «Was bleibt». Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Laura Venturi – Gentian Doda in «Was bleibt». Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda.

Gentian Doda

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«Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda», questa la frase con la quale il coreografo Gentian Doda esprime ciò che anima la sua ultima e più coraggiosa creazione. Il suo pezzo Was bleibt (“Quello che rimane”) è andato in scena per la prima volta una settimana fa sul palco della Komische Oper di Berlino, nell’ambito di uno spettacolo tripartito che comprendeva anche un pezzo di Marco Goecke e uno di Nacho Duato, in procinto di abbandonare la sua carica di direttore artistico dello Staatsballett Berlin. È proprio sotto l’ala dell’estroso coreografo spagnolo che Doda ha avuto modo di sviluppare il suo talento di ballerino e di coreografo, in una collaborazione durata ben quindici anni ed iniziata a Madrid, quando Nacho Duato dirigeva la Compañía Nacional de Danza (C.N.D.). Tra le collaborazioni del ballerino albanese ricordiamo anche quella con Maurice Bejart, sotto il cui invito interpretò nel 2002 il ruolo principale de L’uccello di fuoco, quella con Ohad Naharin e quelle con William Forsythe, Jiří Kylián, Orjan Anderson, Mats Ek e Wim Vandekeybus. I primi lavori da coreografo risalgono al 2005.

Was bleibt, con la musica sperimentale di Joaquin Segade e la scenografia dell’artista giapponese Yoko Seyama, colpisce il pubblico già dalla prima apertura del sipario, dietro al quale si spalanca lo scenario di un palco semioscuro, dal cui soffitto pendono lunghe corde che arrivano a toccare terra e sono sistemate in modo asimmetrico. Tra le corde, come marionette perse e cadute al suolo, dieci ballerini si dimenano in gesti spezzati. Tutta la pièce esprime la tensione tra insieme e individuazione, tra la necessità di aderire al moto incessabile delle cose e quella di trovarci dentro un attimo di stasi, di vuoto. «Lo spazio che voglio raggiungere con il movimento, è il vuoto», afferma Doda.

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Foto: Fernando Marcos

 

I dieci ballerini si muovono a tratti come se fossero un corpo, un organismo unico, tutti ammassati da una parte con lo stesso respiro, poi si separano; se è soltanto un ballerino a staccarsi l’organismo cerca di riappropriarsene, e tutti i corpi si tendono all’unisono per riacquisire il pezzo esule. Altre volte però l’insieme funzionale viene distrutto e, nel caos dell’individuazione, si trova di nuovo ciò che è più fragile e umano.

Succede che l’organismo diventi marziale, aggressivo e rigido, per poi sgonfiarsi un attimo dopo in un momento di decontrazione, un espirare che tradisce la paura. Si sentono poi suoni che richiamano degli spari, il gruppo, sempre unito, avanza verso l’angolo posteriore del palcoscenico, un faro si accende e, dopo un verticalissimo anelito di speranza verso la fonte della luce, i ballerini collassano l’uno addosso all’altro, come un gruppo di cadaveri. Ecco il vuoto, forse. Però no, la musica riparte ritmica, i corpi si alzano come marionette, non è possibile neanche morire con dignità. L’incedere diventa marziale, si trasforma in una marcia serrata con le facce ridicolmente tese verso il soffitto, una marcia il cui motore sta in quell’altrove che gli occhi fissano in alto, senza più vedere gli altri ballerini o la terra sulla quale camminano. Una meravigliosa metafora dell’alienazione della violenza. La musica sparisce, ma la marcia continua, con lo stesso tempo, come un programma inserito e inevitabile. Poi torna il ritmo, quel ritmo del procedere delle cose dal quale pare non esserci scampo nel pezzo di Doda.

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Foto: Fernando Marcos

 

Il gruppo continua a comporsi e scomporsi, tutto oscilla tra l’organizzazione e il suo precipitare in uno spasmodico informe. La marcia diventa poi una corsa, una corsa in cerchio, dalla quale uno per uno i ballerini fuggono via, mentre i restanti sembrano non accorgersene. Ne restano soltanto due, continuano a correre con braccia di marcia e testa bassa. Una si ferma e pare rendersi conto di tutto, resta sola e pietrificata a fissare l’ultimo uomo che continua a correre, sola e pietrificata a fissare l’assurdità del trambusto umano. Lui continua a correrle intorno, lei a fissarlo immobile, e quell’angusto angolo di palcoscenico si trasforma nello spazio immenso dell’incomunicabilità umana.

Poi, il virtuoso assolo di un ballerino, che pare esplorare ogni forma di staccato e legato tra gli angoli del suo corpo, durante il quale il gruppo si muove sullo sfondo in un andirivieni incerto tra l’abbandono e il desiderio dell’individuo fuggito per la performance. E le corde pendenti dal soffitto vengono per la prima volta spostate. Percorse dalla luce e tirate verso destra non ricordano più i fili delle marionette, quanto delle funi di salvataggio lanciate dal cielo, funi di collegamento con una realtà superiore. Ed è verso l’alto che si tendono i corpi, distesi, ma con le braccia che ondeggiano come per cercare di acchiappare una di quelle funi, forse un ideale ancora in grado di essere salvifico. Ma anche la natura di questo anelito non può restare a lungo umana e, mentre i ballerini si alzano, si fa di nuovo meccanica, robotica, negando perfino la spontaneità del desiderio di miglioramento.

La luce scende lungo le corde tutte tese da una parte e ricorda i raggi di sole quando penetrano un anfratto, l’anfratto delle tensioni umane. Intanto, nella parte oscura del palco, finalmente un abbraccio, morbido, naturale. Poi l’oscurità. E un faro, da sinistra, orizzontale e alto. È dentro quella luce che il pubblico vedrà volare, rapidissimo, un uomo, retto sulle spalle di un altro, forse un’anima che è riuscita a salvarsi e librarsi in direzione di un altrove migliore.

Di nuovo buio, e corpi striscianti, la solitudine si ricompone nella sua forma perfetta per il finale. Cala dal soffitto il telaio del sipario senza più sipario, solo lo scheletro. La presenza, l’assenza e la messinscena sono ormai disarticolati, rotti nel loro significato, così come l’individuo. Ma il suo anelito non muore, e la creazione di Gentian Doda si chiude con la luce puntata sulle braccia di un ballerino, lanciate al cielo e subito dopo precipitate al suolo.

Un’opera coraggiosa e molto attuale, che tocca e fa riflettere mettendo lo spettatore di fronte alle grandi assurdità umane e politiche alle quali assistiamo ogni giorno, un’opera forte nel suo significato umano e sociologico.

«Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda».

 

Laura Venturi



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