Cosimo Quarta (1941-2016) – L’utopia trae le sue origini da una profonda coscienza etica. La perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Platone nella Repubblica sottolinea a più riprese che il progetto da lui delineato non È impossibile, ma solo difficile da realizzare e aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano. Educare è umanizzare. Umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà.

Cosimo Quarta 007

È opportuno chiarire che qui il termine «utopia» (con tutti i suoi derivati) non è usato nel senso comune e banale di sogno, castello in aria, chimera, fantasticheria, gioco letterario; né in quello più impegnativo, ma ugualmente distorsivo, di stato ideale. Partendo dalla nuova parola coniata da Thomas More, è agevole scorgere com’essa oscilli, fin dalle origini, tra ou-topia («non luogo») ed eu-topia («buon luogo»), sicché l’utopia si configura come la «società buona» che «non c’è». Solo che questo suo «non essere» non coincide col nudo «non essere» degli eleati, ma si presenta, per dirla con Ernst Bloch, come un «non essere ancora», nel senso che ha la stessa realtà e consistenza di un progetto. L’utopia, dunque, è il progetto della società buona che non è ancora, e che proprio per questo gli uomini sono protesi a realizzare.
Ora il progetto nasce sempre da un bisogno; e il bisogno implica una carenza d’essere, esprime cioè la presa di coscienza che la realtà di fatto, il mondo in cui ci si ritrova a vivere, non soddisfa adeguatamente le profonde esigenze umane. Donde, appunto, il protendersi degli uomini verso realtà nuove e diverse, ritenute idonee a soddisfare i loro fondamentali bisogni di libertà, sicurezza, pace, giustizia, eguaglianza, fraternità, amore. Questi bisogni sono sempre stati presenti lungo la storia, anche se espressi in forme varie e molteplici. In questo senso essi sono fondamentali, ossia primordiali, radicati nella natura umana ab origine. Anzi sono proprio essi a costituire, in certo modo, l’essenza specifica dell’uomo, a farne cioè, come ho detto altrove, un homo utopicus, un essere cioè proteso a realizzare il suo dover essere, ch’è poi l’«umanità» e la società in cui vivere «umanamente»: la società giusta e fraterna.
Questa perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Ma progettando e realizzando se stesso, l’uomo, proprio perché originariamente dimensionato di socialità, progetta e realizza anche la storia. E nell’incontro-scontro di questi esseri progettanti che sono gli uomini, l’utopia s’invera e diventa il progetto della storia. Non v’è infatti generazione che non abbia tentato non solo di elaborare, ma anche di realizzare, in qualche modo, il suo progetto di umanità e di società. I modi e i criteri di tale elaborazione sono stati certo diversi sul piano della consapevolezza teorica e dell’efficacia storica (miti, favole, messaggi di salvezza, progetti filosofici, prassi politica e rivoluzionaria), ma tutti ugualmente significativi sotto il profilo antropologico.
L’utopia non nasce dunque, come generalmente si crede, da una coscienza ludica, ma trae le sue origini da una profonda coscienza etica. È l’insostenibilità delle condizioni presenti che spinge gli uomini ad elaborare un progetto o, comunque, a prefigurare uno stato di cose diverso da quello in cui essi vivono. L’utopia nasce sotto l’urgenza della prassi, ossia dietro la spinta di bisogni concreti e, in quanto tale, è ben lungi dall’essere qualcosa di «astratto», come opinano molti dei suoi detrattori. L’accusa di «astrattezza» deriva il più delle volte dal fatto di aver confuso lutopia con l’ideale. Infatti, mentre uno dei caratteri fondamentali dell’ideale è quello di essere irrealizzabile per principio, l’utopia si caratterizza invece come progetto teso alla realizzazione. Ciò che del resto era stato già chiarito da Platone quando nella Repubblica sottolineava a più riprese che il progetto da lui delineato non era impossibile, ma solo difficile da realizzare; notando al tempo stesso come le difficoltà di realizzazione derivassero fondamentalmente dallo scarto che inevitabilmente s’interpone tra teoria e prassi.
Occorre inoltre rilevare che il «meglio» o l’«ottimo» che il pensiero utopico persegue non è il «meglio» o l’«ottimo» in senso assoluto, ma solo in senso relativo; ossia è il «meglio» che gli uomini di quella determinata società e di quel determinato tempo sono riusciti o riescono a scorgere. Nell’utopia non v’è quindi alcuna chiusura, né spaziale né temporale. Essa, infatti, non si chiude in se stessa, isolandosi dalla realtà circostante, ma è aperta al mondo, a ciò che di meglio il mondo produce. La tensione verso un futuro migliore non significa negazione della tradizione, del passato-presente. L’utopia se da un lato rifiuta quanto d’ingiusto e di negativo il presente contiene, dall’altro raccoglie e sviluppa tutto quello che di positivo le generazioni passate ci hanno tramandato. Ogni generazione, come si diceva, ha il suo progetto utopico, le cui istanze però, e le relative realizzazioni, dipendono dalle condizioni storiche di fatto. Sicché, ciò che una generazione non riesce a realizzare viene ripreso e istanziato dalle successive. E in questo processo dialettico tra le generazioni o, ciò che è lo stesso, tra passato, presente e futuro, consiste la storia; la quale, almeno per quanto in essa v’è di positivo, può essere a ragione considerata come il prodotto dell’utopia.
Vista in questa luce, l’utopia si presenta come la molla dell’agire umano e, insieme, come il motore della storia. Se poi, come spesso capita, gli uomini utilizzano questo motore per tornare indietro invece che per spingersi in avanti, allora questa forza potente che muove la storia, proprio perché ha mutato segno e direzione, dev’essere chiamata con un nome diverso da quello di utopia. In tal caso, infatti, ci si trova di fronte alla distopia, ossia ad un progetto di società perversa; una forza altrettanto potente con cui l’utopia da sempre si scontra e che è causa non secondaria del lento scorrere dei processi storici, e quindi dei ritardi nella maturazione della coscienza storica. La confusione tra utopia e distopia ha indotto non pochi critici, tra cui Popper, a caratterizzare il pensiero utopico in termini di illiberalità, intolleranza, massificazione, totalitarismo, violenza ecc., generando così numerosi fraintendimenti che, com’è noto, hanno colpito anche Platone.
L’approccio utopico, ossia la rilettura in chiave storico-macrostorica dei testi platonici che questo libro propone, lungi dal ridurre la complessità e problematicità del pensiero di questo grande maestro, mira invece ad esaltarne la profondità, la lungimiranza, l’esemplarità e, ultima ma non per importanza, la perdurante e, per certi aspetti, sconcertante attualità. Platone è attuale non solo perché, come tutti i veri «classici», ha parlato e continua a parlare agli uomini di ogni tempo e luogo, ma anche perché in non pochi passaggi delle sue opere lo sentiamo come un «contemporaneo», come uno che vive in mezzo a noi ed è gravato dai nostri medesimi problemi. Basti, a dimostrazione di ciò, un solo piccolo esempio tratto dalla Lettera settima (325 cd): «Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto» (tr. il. A. Maddalena, Bari, 1971; il corsivo è mio). Un brano, questo, che s’attaglia assai bene a quel che accade oggi, soprattutto in Italia, dove disonestà, corruzione, affarismo, hanno infangato la politica, trasformandola da «attività eroica» in attività criminale. Di qui l’urgenza di ridare alla politica il suo autentico ruolo. E su questo Platone può darci ancora utili suggerimenti.

[…] Platone non trascurava affatto la felicità dei singoli. La sua preoccupazione era quella che lo stato diventasse uno strumento per il perseguimento della felicità dei «pochi». Infatti, egli dice, «il fine propostoci nel fondare lo stato» non è quello di far sì che una sola categoria di cittadini sia «particolarmente felice», ma quello di assicurare allintero stato il massimo possibile di felicità.[1] Come si vede, Platone è ben lungi dal negare ai cittadini del suo stato, in quanto singoli, la felicità . Ciò che egli vieta è che nessun cittadino o gruppo di cittadini goda di una felicità tutt’affatto «speciale», «straordinaria», rispetto agli altri. Se i critici di Platone non avessero sorvolato sul ruolo e significato che il termine «speciale» (diapherontos) assume per una corretta interpretazione del passo in questione, molti equivoci si sarebbero potuti evitare.
Qui Platone sottolinea che, di fronte alla felicità, tutti i cittadini sono uguali; e che nessuno, quale che sia la propria funzione nello stato, può rivendicare il diritto ad una felicità «speciale», «privilegiata». Lo stato esiste perché tutti e non solo alcuni siano il più possibile felici. Era questa una concezione dello stato talmente avanzata che nemmeno Aristotele riuscì a coglierne lo spirito, né tanto meno l’enorme portata utopica. […] Platone enuncia e sancisce proprio questo principio: il diritto di tutti alla felicità senza discriminazione veruna. I «custodi-reggitori» non saranno infelici, ma avranno la loro parte di felicità (e d’infelicità), «per quanto è possibile, nella stessa misura degli altri».[2] E di ciò si contentino. Lo «stato giusto», se vuole essere e conservarsi tale, non può permettere che i suoi «custodi-reggitori» approfittino delle funzioni che la comunità ha loro assegnato per procurarsi una felicità «speciale»; poiché così facendo il «tutto» verrebbe asservito a una sola «parte», stravolgendo l’ordine delle cose. Lo stato cesserebbe in tal modo d’essere una comunità politica e si trasformerebbe in una consorteria di privati, o meglio, in una giungla, dove i più potenti o i più furbi sottometterebbero i più deboli e onesti in vista del loro esclusivo tornaconto.
Si potrebbe a questo punto obiettare: ma questa felicità, cui tutti nello «stato giusto» hanno diritto, in che cosa propriamente consiste? E inoltre: i «custodi-reggitori», che attingono i gradi più alti del sapere, possono essere felici allo stesso modo degli altri cittadini, la cui natura non ha permesso loro di elevarsi ai fastigi della scienza? La risposta al primo quesito non presenta particolari difficoltà, dal momento che Platone ha sempre sostenuto, dai suoi primi scritti fino alle Leggi, che la vera felicità consiste nella virtù, ossia nel possesso della saggezza, della temperanza, della giustizia.[3]
[…] Platone, da un lato, riconosce nei filosofi-reggitori il più alto livello di umanità, proprio a causa della loro sapienza, che li pone in grado di conoscere «l’idea del bene», dall’altro, egli dice pure, come s’è già visto, che tale sapienza, se non è accompagnata dalla giustizia, non è affatto virtuosa. I filosofi-reggitori sono virtuosi soprattutto perché sono «giusti»; e sono «giusti» perché, obbedendo al principio del ta eautou prattein, non si limitano a contemplare il « bene» da loro speculativamente raggiunto, ma devono anche saper usare di questa loro «scienza del bene», dato che per Platone la felicità non si consegue attraverso il possesso dei «beni» […], ma mediante la capacità di usarne rettamente.[4] Ora, l’unico modo che i filosofi-reggitori hanno di usare correttamente, ossia di mettere in pratica la loro sapienza, che è appunto «scienza del bene», è quello di ridiscendere nella «caverna», ossia di impegnarsi concretamente nel governo della polis. In tal modo essi divengono «giusti», cioè virtuosi e, quindi, felici. Al pari degli altri cittadini, i quali, se vogliono essere felici, devono anch’essi usare rettamente dei beni in loro possesso, quali che siano. Se, infatti, la scienza è «lo strumento che procura il retto uso e la buona fortuna», allora, dice Platone, è necessario che «tutti gli uomini … s’impegnino … a divenire quanto più e possibile sapienti …».[5]
Tutti gli uomini, quindi, e non solo alcuni, per essere felici, devono acquisire quel grado di sapienza che consenta loro di svolgere al meglio possibile la funzione sociale per cui sono più adatti. […]
Come avrebbe potuto pensare, d’altronde, di eliminare la « personalità individuale »un autore come Platone che aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano? E qual è lo scopo ultimo della paideia se non quello di sviluppare la personalità di ciascuno? Educare è umanizzare; umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà. È vero che nella Repubblica il problema della libertà non viene affrontato in maniera organica; di tale problema infatti si parla solo per fugaci accenni. Ma come poteva Platone escludere dal suo modello «primo», dal suo stato «giusto» e «perfetto» la libertà e istanziarla invece nello «stato secondo» e «imperfetto» descritto nelle Leggi […]? […] Come avrebbe potuto Platone, acuto indagatore e profondo conoscitore dell’animo umano e del suo insopprimibile anelito di libertà, concepire uno stato che fosse in netto contrasto con quelle profonde esigenze umane per la cui crescita e soddisfazione, del resto, lo stato stesso è nato e ha senso?
La considerazione platonica dell’individuo non fa mai astrazione dalla comunità alla quale egli appartiene e in cui vive e convive. Nello stato platonico, individuo e società interagiscono in modo armonioso, senza squilibri. […] Un chiaro esempio di come Platone trattasse con pari dignità individuo e società, senza alcuna propensione a far prevalere l’una a scapito dell’altro, o viceversa, è dato da Repubblica, IV, 441 c-d, in cui, alternativamente, stato e individuo vengono considerati modelli l’uno dell’altro. Per non parlare poi di quelle profonde ed eloquenti pagine dei libri VIII e IX, dove trasformazioni costituzionali e trasformazione dei caratteri individuali procedono in perfetta sintonia, senza squilibri e sfasature.
Se dunque […] per Platone lo stato non è «tutto», nel senso che non è il «fine» assoluto cui la persona si rapporterebbe come puro «mezzo», occorre tuttavia guardarsi dal cadere nell’errore opposto; affermando cioè che nella Repubblica l’individuo è «il prius rispetto allo stato».[6] Questa ipotesi, infatti, al pari della precedente, poggia su basi alquanto labili. […] Il problema dei rapporti stato-individuo non può essere risolto ricorrendo a categorie del tipo prius-posterius. Poiché in tal modo si corre il rischio di falsare gli stessi termini del problema.
In che senso, infatti, l’individuo può essere il prius? Non certo sul piano fisico, ontologico; dov’egli si presenta chiaramente come il «risultato» della volontà o, comunque, dell’azione procreatrice dei genitori e, quindi, come posterius. L’individuo può forse considerarsi il prius sul piano etico? Anche su questo piano il problema si presenta tutt’altro che semplice. Certamente, una norma diviene etica nel momento in cui s’impone alla coscienza, o meglio, nel momento in cui la coscienza la riconosce e liberamente l’accetta come vincolo insuperabile, ossia come un «imperativo» cui si ispira la «massima» che guida il proprio «agire». In questo senso la norma etica, in quanto scaturente da un processo interiore è senz’altro un fatto individuale, anzi si rivela come il fatto individuale per eccellenza. E tuttavia rimane pur sempre, al tempo stesso, un fatto sociale, dal momento che si tratta di una libera (e perciò etica) accettazione di una norma preesistente all’individuo, nel senso ch’egli la « riconosce» (prima ancora di accettarla e farla propria) perché la «trova», per così dire, già in qualche modo operante nel contesto di società-storia in cui vive.
[…] Proprio perché sociali tali «valori» hanno la loro prima radice nella volontà delle singole persone che formano appunto la società. La norma morale, oggettiva e universale, non è un misterioso a priori, un dettame della «pura ragione» di cui si ignora la genesi, ma è un risultato storico, ossia il prodotto della convergenza di una pluralità di singole volontà verso un obiettivo comune: la salvezza e il progresso dell’umanità. Cioè dell’uomo in quanto specie, non in quanto singolo. Un patrimonio (culturale, certo, non genetico) che gli uomini di ieri hanno lasciato alle generazioni presenti le quali, a loro volta, hanno il «dovere» di trasmetterlo, migliorato, a quelle future. Poiché è in tal modo appunto che l’umanità si va costruendo.
[…] Se il problema dei rapporti stato-individuo s’imposta in termini di prius e di posterius, invece di avvicinarsi alla soluzione dello stesso ci si allontana. Stato e individuo non possono essere considerati secondo un prima e un dopo, perché essi non sono entità distinte e contrapposte. La società non è altro che l’insieme degli individui che la compongono, mentre l’individuo, a sua volta, non può essere concepito se non come membro di una società. Al di fuori di ogni rapporto sociale l’individuo umano semplicemente non sussisterebbe come tale. Affermare che l’individuo è il «prius rispetto allo stato» sarebbe come dire che l’individuo è il prius rispetto alla specie. Il che, evidentemente, sarebbe privo di senso dato che l’individuo è, per dirla con Kierkegaard, «in ogni momento … se stesso e la specie».[7]

 

Cosimo Quarta, L’utopia platonica. Il progetto politico di un grande filosofo, Edizioni Dedalo, Bari 1993, pp. 7-7, 240-247.

***

[1] Platone, Repubblica, IV, 420 b-e. Il medesimo concetto è ribadito a VII, 520 e, e anche altrove. Che Platone mirasse a rendere «veramente felice» ogni cittadino del suo «ottimo stato», lo aveva già riconosciuto un critico piuttosto severo del pensiero politico platonico come R.H. Crossman, Plalo Today, London, 1937, p. 111.

[2] Aristotele, Politica, II, 1264 b 22-24. È opportuno osservare che in altro luogo Aristotele affermerà, come Platone, che uno stato è felice non se una sola classe è felice, ma se tutti i cittadini lo sono. Cfr. Ivi, VII. 1329 a 22-24.

[3] Cfr., tra gli altri, Alcibiade primo, 134 b -135 e; Gorgia, 493 b-d; 506 d – 508 a; Repubblica, V, 621 c-d e passim; Leggi, II, 661 d – 663a; anche V, 732 d – 734 e.

[4] Eutidemo, 280 a – 282 a.

[5] Eutidemo, 282 a.

[6] M. Isnardi Parente, Socrate e Platone, p. 245.

[7] S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, tr. it., Firenze, 1968, p. 33.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. L’utopia è un progetto storico, nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. La coscienza utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, e proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Petite Plaisance – Per descrivere il “comunismo” Marx si rifugia spesso dietro la vaghezza del «sogno di una cosa» e banalizza la coscienza utopica che desidera il sorriso delle stelle (“de-sidera”) per l’armonia comunitaria di cui avverte la mancanza. Non dice che il comunismo è conforme alla natura umana, che è realizzabile in atto poiché è in potenza presente nella natura umana. La stella polare è nella Fondata progettualità della buona utopia per una buona vita, e Non nelle «ricette per la trattoria dell’avvenire». Eppure aveva ben chiaro il rapporto tra l’ape e l’architetto.

Petite Plaisance – L'ape e l'architetto

«Mi si rimprovera […] di essermi limitato ad una scomposizione puramente critica del dato, invece di prescrivere ricette (comtiane?) per la trattoria dell’avvenire».
K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del I Libro de Il capitale, Londra, 24 gennaio 1873.

«[…] l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. […] egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà».
K. Marx. Il capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1973. pp. 195-196.


Petite Plaisance

Per descrivere il “comunismo” Marx si rifugia spesso dietro la vaghezza
del «sogno di una cosa» e banalizza la coscienza utopica
che desidera il sorriso delle stelle (“de-sidera”) per l’armonia comunitaria
di cui avverte la mancanza.
Non dice che il comunismo è conforme alla natura umana, che è realizzabile in atto
poiché è in potenza presente nella natura umana.
La stella polare è nella fondata progettualità della buona utopia per una buona vita,
e non nelle «ricette per la trattoria dell’avvenire».
Eppure aveva ben chiaro il rapporto tra l’ape e l’architetto.

 

Marx ed Engels avevano ragione a sostenere che se il comunismo non fosse in potenza presente nella realtà capitalistica, esso non potrebbe nemmeno realizzarsi in atto. Tuttavia, affermando soltanto che esso era in potenza presente nella dialettica storica, Marx ed Engels non hanno mai esplicitamente sostenuto che così è in quanto il comunismo è conforme alla natura umana, e dunque che il comunismo è realizzabile in atto (e desiderabile) poiché è in potenza presente nella natura umana.
Non è infatti la dialettica storica, la quale è prodotta spesso da situazioni contingenti, ciò che deve rendere più o meno ottimisti circa la possibilità di realizzare il comunismo, ma è proprio la natura umana.
Il comunismo è invero costantemente ricercato dagli uomini, anche se sovente con scarsa consapevolezza, proprio in quanto esso costituisce quel mondo razionale e morale in cui gli uomini stessi desiderano vivere. Esso rappresenta il modo di produzione più adatto a creare quella armonia comunitaria in cui principalmente consiste la buona vita.
Sostenere ciò non significa affermare che il comunismo necessariamente si realizzerà in atto, come prevalentemente sostennero Marx ed il marxismo in base alla presunta «dialettica storica». La dialettica storica non può essere interamente controllata. Sostenere questo significa solo affermare che se il comunismo si realizzerà in atto, è unicamente poiché esso è presente in potenza nella natura umana.
La dura critica riservata da Marx agli utopisti nel Manifesto (ma anche in Miseria della filosofia e altrove) non fu dovuta alla loro critica delle fondamenta privatistiche e mercificate della società esistente. La pars destruens posta in essere dal pensiero utopico, per quanto poco scientifica, era sufficientemente argomentata.
Il problema era nella pars construens, che Marx ed Engels ritenevano essere completamente disancorata dalle possibilità reali offerte dalle modalità sociali.
Tuttavia, su questo punto occorre riflettere, per mostrare come una fondata progettualità comunista possa anche essere costruita sul pensiero classico antico, e non solo sul pensiero marxiano. La critica di Marx non è infatti estendibile a tutto il pensiero utopico – la Repubblica di Platone, ad esempio, è un’utopia politica molto attenta a considerare le modalità sociali presenti –, ed in più va sottolineato che il confronto fra la pars construens (sempre ad esempio) di Platone e la pars construens di Marx è innanzitutto un confronto fra qualcosa che esiste compiutamente (in Platone) e qualcosa che non esiste se non implicitamente (in Marx), e fra queste due alternative la prima è sempre preferibile alla seconda.
Quando devono descrivere il “comunismo”, Marx ed Engels si rifugiano pressoché sempre dietro la vaghezza di espressioni quali «il sogno di una cosa»,[1] o altre dello stesso tenore, oppure tendono ad affermare che il comunismo deve essere l’opposto dialettico del capitalismo, attribuendo però a quest’ultimo una importanza troppo grande e troppo aleatoria, nel ritenerlo (per quanto “in negativo”) un rife­rimento costitutivo.
Non si vuole qui sostenere che si debbano elaborare a tavolino anche i “particolari” della futura società ideale comunista. Tuttavia, almeno le linee generali della stessa dovrebbero essere elaborate in anticipo, poiché chi aspira al comunismo deve sapere non solo che ciò fa parte della sua natura di uomo, ma deve anche sapere, in linea di massima, in quale modo di produzione potrà realizzare la propria natura, per valutare se l’alternativa al tempo presente sia o meno desiderabile.

Questo è il compito principale del pensatore comunista. Limitarsi a criticare, per quanto con buone ragioni, il modo di produzione esistente senza essere in grado di pensare nemmeno ad una alternativa possibile migliore, è sterile ed inconcludente, e forse addirittura dannoso per la stessa credibilità della proposta teorica comunista. Limitarsi oggi a fare quello che suggeriva Marx, ossia ad essere gli “esecutori” delle presunte leggi della storia, anziché i “grandi architetti” di future società giuste, significa mettersi interamente nelle mani del modo di produzione capitalistico, le cui interne contraddizioni, sicuramente ben comprese da Marx, potrebbero richiedere secoli per determinarne la dissoluzione. Il tema interessante è che quando in Marx ed Engels la descrizione del comunismo assume una qualche concretezza, come appunto nel Manifesto, le linee generali di un modo di produzione comunista sono delineate in maniera universalistica, ossia attenta a princípi e fini generali, volte a creare un quadro di produzione sociale razionalmente e moralmente gestibile per la soddisfazione dei principali bisogni umani. In questo senso, la più importante indicazione di Marx ed Engels è quella della pianificazione comunitaria. Ciò è comprovato, appunto, dalle pur contingenti indicazioni del Manifesto: «espropriazione della proprietà fondiaria», «imposta fortemente progressiva», «abolizione del diritto di eredità», «accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato», «aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune», «educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli», ed in generale «accentramento di tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato». È possibile certo sostenere che anche questa idea di “comunismo”, in Marx ed Engels, fu derivata in opposizione dialettica alla idea di “capitalismo”, e pertanto non può assumere valore generale. Questo è in parte vero. Tuttavia, anche in assenza di una esplicita fondazione umanistica da parte di Marx, queste sue indicazioni progettuali paiono molto coerenti e concrete, certamente compatibili – almeno in parte – con una pianificazione comunitaria e democratica della produzione sociale. Sapere di condividere, se non la lettera, almeno lo spirito di fondo di un pensatore come Marx, sicuramente il maggiore teorico del comunismo mai vissuto consente di non consegnare Marx ai semplici sostenitori del bellicoso “comunismo-antagonismo” o del vago “comunismo-autogestione”, dannosi i primi, inconcludenti i secondi.[2]

 

Note

[1] «La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna, che l’uomo si risvegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Il nostro intero scopo non può consistere altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente. […] Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede [nel senso di custodisce, ha in sé] il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente» (K. Marx, Lettera a Ruge, settembre 1843, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, III, 1843-1844, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 156). Interessante notare – per rendersi conto di quanto queste espressioni di Marx abbiano influenzato la riflessione teorica di tanti intellettuali del Novecento – come il «giovane» P. P. Pasolini incontri il «giovane» Marx proprio quando deve scegliere il titolo del suo primo romanzo, Il sogno di una cosa (scritto nel 1949-50, ma pubblicato da Garzanti solo nel 1962). Il tema del «sogno» verrà ripreso anche da E. Bloch nel suo Karl Marx, il Mulino, Bologna 1972, pag. 57-82.


Carmine Fiorillo – Luca Grecchi

Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”

indicepresentazioneautoresintesi

[2] Cfr., su questi temi, Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 80-83.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – La «buona utopia» oggi è necessaria per l’indispensabile pianificazione comunitaria e per realizzare una umanità felice. Finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata. La «buona utopia» si oppone e guarda «oltre» il sistema privatistico e la sua ideologia, e pertanto agisce come forza dialettica all’interno del processo storico.

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La modernità (da intendersi qui come contemporaneità) è l’epoca della scienza e della tecnica, non della filosofia, che pure, occupandosi dell’intero, ne costituisce la base. La scienza e la tecnica, le quali si occupano delle parti, senza una consapevolezza filosofica sono però cieche rispetto al fine di cui sono strumenti. Tale fine, da almeno un paio di secoli, è purtroppo dettato dal modo di produzione capitalistico, e consiste dunque nella massima valorizzazione del capitale, il quale non ha nessuna cura per l’uomo e nessun rispetto per la natura.
In merito alla effettuale priorità moderna della scienza e della tecnica sulla filosofia, concordano sia la maggioritaria componente liberale della modernità, sia la minoritaria componente marxista. Per ambedue queste componenti, il pensiero filosofico-politico classico è infatti secondario in quanto “non scientifico”. Ciò, per il pensiero liberale, lo rende “pericoloso”, in quanto esso – non richiesto – effettua analisi ed emette giudizi sulla totalità sociale; ciò, per il pensiero marxista, lo rende invece “inefficace”, in quanto il pensiero filosofico-politico classico si illude soltanto di effettuare analisi ed emettere giudizi sulla totalità sociale. In sostanza, ciò che il pensiero moderno critica più duramente del pensiero filosofico-politico classico è la sua pretesa di fondazione onto-assiologica, ritenuta arbitraria, e la sua conseguente – e pertanto ancor più arbitraria – “utopia progettuale”.
Del concetto di “utopia” si sono date almeno due interpretazioni. La prima, liberale, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero totalitario e violento (un sostenitore di questa tesi fu ad esempio Karl Popper). La seconda, marxista, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero astratto ed illusorio (sostenitori di questa tesi furono anche, almeno in parte, Karl Marx e Friedrich Engels).
L’etimologia greca del termine «utopia», coniato da Tommaso Moro, in qualunque modo venga ricavata, se in alcun caso può autorizzare la interpretazione liberale, può invece autorizzare la interpretazione marxista, che considera in sostanza l’utopia come la descrizione non di un «cattivo luogo», bensì come la descrizione di un «non luogo», ovvero di qualcosa di irrealizzabile nella storia. Tuttavia, come lo stesso Moro fa ben comprendere nel suo celebre testo, l’etimologia greca più verosimile del termine, ma soprattutto la più auspicabile, è quella per cui l’utopia descrive un «buon luogo» ideale in cui vivere, un modo di produzione sociale ideale conforme alla natura umana. È questa del resto la migliore definizione possibile di “comunismo”: quella di un modo di produzione sociale in cui gli uomini possano vivere in modo armonico realizzando la propria natura razionale e morale, dunque realizzando se stessi in modo compiuto.
Contro ogni interpretazione “utopica” del comunismo (ossia contro ogni “progettazione di un buon luogo ideale in cui vivere”) si è, come accennato, schierato pressoché tutto il pensiero marxista, a cominciare da quello originario di Marx ed Engels. Questo erroneo e fuorviante approccio – la cui genesi è da ricavare nel clima scientistico-positivistico in cui si formò il pensiero marxiano e marxista – deve essere radicalmente rivisto, in quanto costituisce un regresso anche rispetto alla antica tradizione platonica. Soffermermandosi, sebbene sinteticamente, sul pensiero utopico di poco antecedente la nascita della modernità, strettamente derivato dal pensiero antico, si può dire quanto segue.
I nomi dei due principali utopisti premoderni di epoca rinascimentale sono noti a tutti: Tommaso Moro e Tommaso Campanella. Il primo si ispirò fortemente a Platone, il secondo si ispirò fortemente al primo (oltre che al pensiero cristiano), a riprova di come il pensiero filosofico-politico classico sia stato il principale ispiratore del comunismo premoderno, ossia premarxiano. Nonostante tale rapporto diretto – o forse anche a causa dello stesso – Marx ed il marxismo ritennero in linea generale il tentativo utopico-progettuale del pensiero filosofico classico, così come quelli di Moro, Campanella e degli altri socialisti di epoche successive, “utopici” nel senso di “astratti, illusori, irrealizzabili”. Marx ed il marxismo ritennero tali questi tentativi in quanto non basati, a loro avviso, sulla analisi delle condizioni storico-sociali presenti, ma solo sul concetto classico – per loro assai discutibile – di “natura umana”.
L’utopia progettuale pre-moderna fu insomma, per Marx ed il marxismo, nonostante alcuni meriti della medesima, quasi inservibile sia sul piano pratico (in quanto si basava sulla politica anziché sulla storia), sia sul piano teorico (in quanto si basava sulla filosofia anziché sulla scienza).
Questa tesi è da ritenere errata. Pur nella consapevolezzza – basti consultare le molteplici pubblicazioni edite in proposito da Petite Plaisance negli ultimi 25 anni – del valore filosofico e scientifico del materialismo storico, e dunque della importanza della analisi storico-sociale, si sottolinea però che, senza mai giungere ad una consapevole comprensione filosofica, l’analisi storico-sociale, per quanto “scientifica”, non conduca a nulla. Molte premesse marx-engelsiane che si volevano “scientifiche” si sono peraltro rivelate errate in quanto, verosimilmente, inserite all’interno di un quadro di riferimento di tipo “scientistico-fideistico” – che ne richiedeva la “certezza” ma che come tale non era in grado di garantirla –, e non all’interno di un quadro filosofico classico, in cui invece avrebbero potuto essere valutate entro un più corretto orizzonte di “potenzialità” onto-assiologica.

Tornnando in ogni caso, per un momento, a Platone, occorre rilevare che, ispirandosi al suo pensiero, anche Moro e buona parte degli utopisti partirono dalla analisi critica e dalla valutazione negativa del proprio contesto storico-sociale, per delineare un modo di produzione sociale ideale storicamente realizzabile. Può essere interessante, per comprendere – in continuità col precedente pensiero greco e cristiano, ed in anticipazione del successivo pensiero moderno di Spinoza, Fichte, Hegel e Marx – il contenuto umanistico ed anticrematistico del pensiero utopico rinascimentale, riportare alcuni brani tratti proprio dall’Utopia di Moro che, se si escludono alcuni pensatori stoici, fu colui che per primo recuperò la grande progettualità ideale platonica.
Moro, che scrisse Utopia nel 1516, analizzò in maniera lucida la realtà del proprio tempo, ed individuò sin da allora nella proprietà privata dei mezzi della produzione sociale, e nella conseguente centralità della merce e del denaro, la radice principale dei maggiori mali sociali. Contrariamente, infatti, a tutti coloro che considerano Moro e gli utopisti come pensatori astratti e fantasiosi, la lettura di qualche brano dell’Utopia potrà confermare che Moro aveva idee molto concrete e chiare. A suo avviso, in effetti, è letteralmente impossibile ben governare e far fiorire una buona comunità laddove tutto si misuri sulla ricchezza privata.
Moro fu d’accordo con Platone su questo punto, e dunque ritenne che il solo modo per perseguire il benessere della comunità consiste nell’applicare in ogni campo il principio di uguaglianza; ma tale principio, sia per Platone che per Moro, non può essere rispettato nel momento in cui si tollera la proprietà privata. Secondo Moro, finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata dall’inevitabile fardello della povertà e della miseria.
Egli peraltro non si limitò alla ricerca delle cause della disarmonia sociale ma, coerentemente, propose anche delle soluzioni che, a suo avviso, avrebbero dovuto essere accettate dai governanti per ricostituire un minimo di giustizia e di armonia sociale. In maniera analoga a Marx ed Engels – ma anche, ancora una volta, a Solone e Platone – Moro propose infatti di porre un limite ai terreni che ognuno può possedere, e al denaro che ciascuno può accumulare. Egli fu però consapevole che, senza la realizzazione di un modo di produzione compiutamente comunitario, con simili riforme potevano solo essere mitigati i mali cui accennava, un po’ come assidue e continue cure possono solo lenire le sofferenze di un corpo prossimo alla morte. Di curarlo a fondo non se ne parla nemmeno, finché esiste la proprietà privata.
Non fosse che per queste parole, Moro risulta essere assai più radicale di molti “intellettuali di sinistra” che pure oggi vanno per la maggiore, i quali o si rifiutano di fare proposte, o fanno proposte “riformistiche” spacciandole per rivoluzionarie, o ipotizzano inverosimili “salti in avanti”. Moro invece, consapevole che «dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso, a servizio soltanto del lusso e del capriccio», riteneva che fossero completamente da rivoluzionare le finalità e le modalità della produzione, ma che ciò non potesse essere fatto senza un preliminare rivoluzionamento delle forme della proprietà. Se infatti la proprietà dei mezzi della produzione fosse comune, anche il lavoro potrebbe essere comune e pertanto l’attività da svolgere potrebbe essere distribuita nelle occupazioni necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari, occupando un tempo assai minore, ma sufficiente per produrre tutto ciò che serve per vivere felici. In effetti, per Moro, tutto il tempo che non è strettamente necessario per i bisogni primari dovrebbe essere meglio impiegato dai cittadini, dedicandosi alle attività dello spirito e della cultura. In rapporto alle scarne affermazioni di Marx su come dovrebbe essere il comunismo, Moro – che pure non utilizza mai questo termine – sembra avere le idee molto più chiare, sottolineando innanzitutto la necessità di una pianificazione della produzione e della distribuzione: i prodotti del lavoro devono essere portati in determinati edifici, per essere divisi a seconda del genere; da questi magazzini si deve prendere solo ciò di cui si  ha bisogno, senza dare in cambio denaro né prestazioni particolari. E, d’altronde, perché si dovrebbe prendere più di quanto risulti bastante, sapendo che non verrà mai a mancare nulla? In questo modo, scrive Moro, l’intero paese sarà come un’unica famiglia, in cui i comportamenti non comunitari saranno socialmente condannati.
Per Moro, gli abitanti dell’isola di Utopia, ossia i futuri uomini di una società comunista, saranno felici in quanto non subiranno più il dominio della economia, ma lasceranno primeggiare la politica o, meglio ancora, la filosofia. «La questione fondamentale che costoro si pongono è in che cosa consiste la felicità dell’uomo», ed essa consiste nel «vivere secondo natura». La natura, a sua volta, «invita a vivere gioiosamente sostenendosi a vicenda». Privarsi di qualcosa per darla ad un altro è segno di umanità e gentilezza, ed è soprattutto motivo di arricchimento spirituale. Questa la struttura comunitaria che fu propria, in seguito, di varie utopie. Tutte o quasi queste utopie, da Moro in avanti (almeno fino al XIX secolo), hanno in effetti non solo stigmatizzato la proprietà privata ed il mercato, ma anche lo sfruttamento, la alienazione ed i lunghi orari di lavoro.
Chiunque ritenga ogni fondato modello di totalità sociale come un qualcosa che si connoterebbe soltanto come statico ed astratto, non comprende il carattere insieme dinamico e concreto delle utopie. Tale carattere è stato in effetti messo in evidenza da pochi studiosi, fra cui sicuramente Luigi Firpo, secondo cui l’utopia si oppone sempre ad un determinato sistema ed alla sua ideologia, e pertanto agisce appunto come forza dialettica all’interno del processo storico. Un altro autore che si è espresso in tal senso – esperto, non a caso, di utopie antiche – è stato Lucio Bertelli, per il quale «il rapporto fra utopia e realtà è dialettico, nel senso che lo stesso insegnamento delle condizioni date e rifiutate si presenta come un’operazione di rettifica globale, che affonda le sue radici in una analisi radicale della realtà stessa».
Da un lato il liberalismo, e dall’altro il marxismo, hanno attaccato il concetto di utopia (pur diversamente inteso). Tuttavia, l’utopia intesa come «buon luogo» ideale, come «paradigma in cielo» (lo scriveva Platone nella Repubblica, 592 B), rimane un elemento insostituibile per il pensiero umano, poiché per favorire la realizzazione di una totalità sociale migliore non vi è modo più appropriato che pensarla prima nelle sue strutture essenziali, valutando teoreticamente appunto prima se essa possa reggere alla prova dei fatti ed essere desiderabile, così da porsi poi come modello realizzabile. Nonostante, infatti, le due discutibili concezioni dell’utopia prodotte dal liberalismo e dal marxismo, essa rimane sostanzialmente un progetto al contempo di critica radicale del proprio contesto storico-sociale, e di costruzione teorica di un modo di produzione sociale alternativo.
In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza nei confronti del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossia nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la «buona utopia» vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare non descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i princípi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso (e non una singola classe). L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili. Poiché le cause di sofferenza umana (su vari piani) determinate dalle modalità sociali capitalistiche sono evitabili, è necessario pensare ad una nuova progettualità comunista, semplicemente per coerenza verso ciò che l’umanità richiede per realizzare compiutamente se stessa. Facciamo però un passo alla volta.
Circa la tesi della possibilità di delineare in anticipo i tratti generali di un modo di produzione sociale alternativo, va detto che anche i critici del capitalismo più vicini alla filosofia tendono a diffidarne. Costoro ritengono in effetti che, così come si possono conoscere – data la limitatezza della condizione umana – solo poche facce di quel prisma poliedrico che è la storia dell’uomo, allo stesso modo si possono conoscere solo poche facce di quel prisma poliedrico che è l’uomo. L’uomo insomma, essendo – come molti filosofi nel corso del tempo hanno scritto – un ente troppo complesso per poter essere definito, sarebbe a loro avviso un ente che non possiede una natura stabile, bensì una natura mutevole nei diversi contesti storico-sociali. Per questo motivo non sarebbe pensabile alcuno stabile progetto di modo di produzione sociale ideale alternativo.
Non dobbiamo stupirci della forza di questa tesi, che anche Marx, come ricordato, ha sostenuto in ampi passaggi della sua opera. Non dobbiamo stupircene poiché sostenere che una natura umana esiste, che può essere definita e che la sua struttura è razionale e morale (ossia che essa, per realizzarsi e rendere l’umanità felice, deve operare per la verità e per il bene), vincola, impegna, impone di realizzare nella vita, in ogni momento, i comportamenti migliori, quelli umanamente più rispettosi e fraterni, che certamente sono inizialmente i più difficili da porre in essere nell’attuale contesto storico-sociale. Non si tratta, sostenendo la tesi della esistenza e della definibilità della natura umana, di essere vittime del mito della “trasparenza totale” dell’uomo, che ci farebbe ritenere capaci di conoscere ogni lato di quel famoso prisma cui si accennava in precedenza. Si tratta solo di comprendere che l’uomo, come ogni ente facente parte dell’essere, possiede necessariamente una essenza, una sostanza, un contenuto stabile al di là delle sue empiriche molteplici determinazioni (anche il prisma, del resto, pur avendo molteplici facce, rimane pur sempre sostanzialmente un prisma), e che tale contenuto può dall’Uomo essere compreso.
La «buona utopia» oggi è necessaria poiché, nella attuale devastazione materiale e spirituale della vita posta in essere dal modo di produzione capitalistico, per rapportarsi al futuro ci si deve affidare alla dimensione del “progetto”, ossia ad una visione d’insieme di ciò che gli uomini sono e di ciò che devono essere per realizzare una umanità felice.



Koinè – Il nostro invito augurale: A COSA SIAMO CHIAMATI ? La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.

Koinè - Resistenza culturale - Fiorillo Carmine

indicepresentazioneautoresintesi

Il nostro invito augurale:
A COSA SIAMO CHIAMATI ?

L’alternativa del futuro è  quella tra una società diventata libera comunità senza capitalismo, e una società capitalistica senza più alcuna comunità.

Il valore della libera comunità è il principio costitutivo della verità delle cose umane e del giudizio morale su di esse.

L’unico modello in rapporto al quale è umanamente sensato capire cosa vada accettato, e cosa respinto, di un sistema economico, è la libera comunità.
Il sistema economico contemporaneo è la negazione speculare della libera comunità, in quanto produce una collettività disgregata, despiritualizzata, coattivamente e ossessivamente comandata dalla ricerca del profitto e dalle procedure della tecnica. Esso prefigura perciò la morte dell’umanità dell’uomo, proprio in quanto è al di fuori di ogni giustizia e di ogni amore. Un sistema economico, come quello oggi vigente su scala planetaria, che ha come suo elemento motore e come suo fine intrinseco il profitto monetario privato, e che si sviluppa senza più alcun condizionamento di princípi non economici, è la materializzazione stessa dell’ingiustizia.
Chi vive tranquillo sotto un simile sistema, non trovando nulla di riprovevole nell’attività delle banche, delle società finanziarie e delle imprese volte al profitto, dando il proprio voto ai politici che legittimano questo stato di cose, evitando di condannare pubblicamente i detentori del potere, accettando entusiasticamente tutte le innovazioni tecniche, è perciò un operatore di ingiustizia.
Le esperienze di resistenza a questo sistema sociale (esperienze di agire comunitario non mercantile, esperienze di rifiuto dei comportamenti tecnicizzati, esperienze di autentica comunicazione culturale al di fuori dei ruoli imposti dai poteri dominanti, esperienze di contrasto dei poteri economici e politici, ecc.), se sono vissute in maniera spiritualmente sana come esperienze d’amore per l’umanità dell’uomo e di libera comunità, non possono non essere avvertite come gratificanti e realizzanti di per se stesse nel loro presente, indipendentemente dall’esito storico dei loro risultati nel loro presente e futuro temporale.
Se si ha capacità di amare e di progettare un mondo diverso, si resiste alla logica di questo sistema sociale semplicemente perché si vuol vivere bene e nella verità.

A COSA SIAMO CHIAMATI ?

La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.

Ciascuno di noi è chiamato, come uomo morale, a questa resistenza:

– è chiamato a considerare gli oligarchi dell’economia sempre avidi di sfruttare il lavoro, il territorio, i mercati, e i tecnoscienziati intenti a manipolare le specie viventi, per quello che in realtà sono: gli artefici consapevoli della distruzione dell’umanità dell’uomo;

– è chiamato a sottrarsi, nei limiti del possibile, alle logiche disumanizzanti;

– è chiamato a sperimentare le forme oggi possibili di agire comunitario;

– è chiamato a dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica;

– è chiamato a pensare concettualmente e criticamente anche riguardo al funzionamento della propria personalità.

Quando la resistenza degli esseri umani, guidati dalla loro capacità di amare, dal loro spirito di giustizia, e dalla loro comprensione intelligente di se stessi e della società, avrà spezzato in qualche punto della presente vita coattivamente “associata” l’attuale logica sistemica, e quando le carenze e le disfunzioni derivanti da tali rotture saranno affrontate con una logica nuova, in vista di soluzioni ispirate al vincolo solidale e comunitario che deve legare tutti gli esseri umani, allora saremo usciti dal sentiero della notte.

Associazione culturale Petite Plaisance

 

La contraddizione
Amici
Amore
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fulvia De Luise – Un «Paradigma in cielo» di Mario Vegetti. Platone ci insegna a vedere nell’uso del paradigma una forma di educazione del pensiero che taglia i legami collusivi con l’esistente, liberando la capacità di progettare un mondo nuovo.

De Luise Fulvia 01

Una storia degli effetti dei testi platonici, sia pure «soltanto» del Platone politico, è impresa che deve apparire epica a ogni modesto argonauta contemporaneo dei dialoghi, erede di una così imponente, complessa e contraddittoria tradizione interpretativa. Mario Vegetti ne fa un viaggio appassionante nella storia della nostra cultura filosofica e politica.
Il libro, Un paradigma in cielo. Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci, 2009, pp. 181) consegna al lettore una guida efficace, ricostruendo non solo gli assi portanti di un’intricata ramificazione di modelli e metodi ermeneutici, ma le ragioni di un conflitto delle interpretazioni che vede in Platone lo specchio, o la pietra dello scandalo, della coscienza politica dell’Occidente.
Il «paradigma in cielo» del titolo è una citazione dal libro IX della Repubblica, una formula che è forse la più densa e suggestiva indicazione auto-ermeneutica estraibile dal testo platonico, precisamente dal luogo in cui si conclude il lavoro di costruzione della città ideale. È Socrate a proporre in quel punto ai suoi interlocutori nel dialogo, partecipi dell’impresa di fondazione, di porsi davanti agli occhi quel modello edificato a parole (en logois), trattandolo come un paradeigma posto in cielo. Il suggerimento (e qui andiamo alla fonte di molte ambiguità) è di andarci ad abitare subito, per chi si sente filosofo, senza aspettare i tempi, o verificare i modi della sua difficile realizzazione pratica
Ma che cosa vuol dire andarci ad abitare (nella traduzione di Vegetti del passo 592 b 2, «insediarvi se stesso»)? A quali operazioni sarà spinto, a quali si sentirà autorizzato chi si riconosce in un simile progetto di esercizio rigoroso del pensiero? La metafora apre, come si vede, il dibattito su una duplice posta in gioco: la decifrazione delle intenzioni con cui Platone ha delineato il modello della sua politeia ideale; la produttività filosofica (declinata nelle divergenti letture etiche o politiche) di un modo di pensare che si avvale di un paradigma per accampare pretese di perfezione normativa. Al verbo che esprime il concetto di insediamento (katoikizein), Vegetti dedica un paragrafo chiarificatore nel terzultimo capitolo, fornendo, insieme alle indicazioni d’uso per la filologia del testo platonico, gli strumenti per intenderne la forza teorica e la provocatoria attualità. Sperando di non forzare troppo le intenzioni dell’autore, direi che qui troviamo la chiave di una «seconda navigazione» di Vegetti attraverso i flutti del conflitto interpretativo. Che culmina nella guerra dei platonismi del Novecento.
Il libro ci guida a rintracciare l’origine del canone della critica politica a Platone in Aristotele, la matrice di una «ermeneutica della spoliticizzazione» in Proclo, a sua volta auctoritas remota di una tradizione eticizzante e spiritualizzante, che culmina nel Neoplatonismo rinascimentale di Marsilio Ficino. Mette poi a fuoco (con mossa volutamente selettiva, che taglia fuori una parte pur importante di letture platoniche) i grandi paradigmi interpretativi della modernità, facenti capo a Kant e a Hegel, i contributi fondativi degli storici della filosofia (Zeller, Grote, Gomperz, ma anche i teorici del Platone socialista Pölhmann e Natorp). Vegetti si dà comunque l’obiettivo di ricostruire le linee interpretative seguite all’interno delle grandi tradizioni europee, in funzione del dibattito novecentesco sul Platone politico, nel suo intreccio con le drammatiche vicende storiche del secolo, per giungere all’oggi e ai dilemmi dell’approccio teorico alla politica nel nostro tempo.
In questa prospettiva, Vegetti segue dall’interno la costruzione delle differenti immagini novecentesche del filosofo, compresa l’inquietante e surreale deriva (non priva però di agganci filologici e contestuali) del Platone nazista e profeta del Terzo Reich, dando spazio e rilievo ai due principali schieramenti opposti, tutt’ora in qualche modo attivi: quello «popperiano» degli accusatori di Platone anti-democratico e tirannico in peccare; quello «straussiano» dei difensori, impegnati a mostrare il carattere fittizio dell’idea platonica del potere, incompatibile con le convinzioni e i valori del pensiero liberal-democratico. Un ramo autonomo, particolarmente vigoroso, di questa strategia interpretativa, che ha tra i suoi principali esponenti Julia Annas, persegue esplicitamente una depoliticizzazione del pensiero platonico della Repubblica, sostenendo che il fine del dialogo è puramente morale e consiste nell’affermazione dell’autosufficienza della virtù per la felicità, con una netta presa di distanza dalla politica. In ogni caso, sottolinea Vegetti, benché ogni interprete colga e dia rilievo ad aspetti significativi emergenti dai testi, sembrano all’opera «potenti strategie di assimilazione, intese a fare del Platone politico una auctaritas da investire nella legittimazione delle diverse opzioni teoriche ed etiche» (p. 171). Un «eccesso ermeneutico» che favorisce l’uso di Platone nell’attualità, ma ha il costo di depotenziare la ricchezza del metodo di lavoro rappresentato nei dialoghi, l’apertura sperimentale alle diverse facce del reale nell’indagine seria del presente, che Vegetti intende valorizzare come la più produttiva delle eredità platoniche.
Molte cose possiamo ancora trovare nel Platone della Repubblica. La questione dell’utopia chiama a discutere. Con Finley, Vegetti esclude che possiamo pensare il paradigma in cielo come un castello in aria, un rifugio dell’immaginazione in cui ritirarsi quando la realtà fa male. I riscontri testuali non lasciano dubbi sull’intenzione platonica di sottrarsi alla fama di acchiappanuvole. Ma c’è di più. Platone ci insegna a vedere nell’uso del paradigma una forma di educazione del pensiero che taglia i legami collusivi con l’esistente, liberando la capacità di progettare un mondo nuovo. Un’utopia progettuale e normativa, dunque, che vuole avere presa sulla realtà ed è costretta a misurarsi con essa, a partire dalla radicalità della critica, per finire con la valutazione spregiudicata di ogni fattore che potrebbe garantire efficacia all’intenzione costruttiva. Troviamo ancora una critica alla democrazia che tocca punti nevralgici della sua struttura concettuale, procedurale e valoriale; ma anche una critica altrettanto radicale alle forme occulte o palesi di governo delle élites, qualora esse siano prive di legittimazione sul piano della competenza intellettuale e morale.
Che cosa resta, dunque? Negli ultimi due capitoli del suo libro, Vegetti offre i risultati della sua navigazione a ritroso nei conflitti dell’ermeneutica platonica, mostrando che cosa potrebbe ancora significare pensare con Platone, ma alla dovuta distanza da lui. Evitando in ogni modo di riproporre forme attualizzanti di neoplatonismo politico, Platone resta ancora il maestro di un modo radicale di pensare la politica come «sapere regale», che non è un sapere “del monarca”, ma di chi è in grado di governare; «un pensiero della grande politica», traduce Vegetti, che si muova rispetto alla realtà con tensione progettuale e responsabilità verso il futuro, assumendo come referente l’intera comunità politica e combattendo apertamente contro la «resistenza antropologica» di forme di vita scadenti, ancorché assai diffuse. Chi potrebbe oggi raccogliereun simile impegno?

 

Fulvia De Luise, Un «Paradigma in cielo» di Mario Vegetti, già ubblicato su “Alias” n. 23, il manifesto, 6 giugno 2009, p. 23.

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Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
 
ADDIO A MARIO VEGETTI
Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca

Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia

 Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa

Mario Vegetti,  filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera
Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .
Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.
Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.
Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).
E. Berti, L. Canfora, B. Centrone, F. Ferrari, F. Fronterotta, S. Gastaldi – «La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti». Introduzione di G. Casertano e L. Palumbo
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antonio Fiocco – Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

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Antonio Fiocco

Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

Petite Plaisance, 2019, pp. 80



Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e, invece di una reale progettualità comunitaria, si preferisce l’immediatezza della contingenza. Dunque, a quel se, di fatto, si oppone un no. La post-modernità (cioè la fase flessibile a tutti i livelli della modernità) per l’Autore non elabora spontaneamente una sua idea di comunismo, perciò si rende imprescindibile la progettualità. Per essere scoperte, utilizzate e verificate, le possibilità devono essere prima di tutto inventate. In questo senso, ogni uomo è progetto, creatore, poiché inventa ciò che è già a partire da ciò che non è ancora.



Indice

Incipit contingente-empirico

Gesù di Nazareth

Paolo di Tarso e la figura teologica del Cristo risorto

Giovanni l’evangelista e la nascita del Cristo-Dio

L’anti-pensiero di Max Weber

Hegel: il legame fra elaborazione del pensiero e prassi materiale

Lettori di Hege

Lenin non era un vero hegeliano

Pensando a Lenin, in cammino con György Lukàcs

Sartre e la sua svalutazione dell’essenza

L’uomo è essenzialmente progetto


Antonio Fiocco, nella più profonda indignazione per le ingiustizie e le falsità geo-politiche che devastano il mondo, e di cui sono piene le cronache e la storia del Novecento, con spirito dialogico-socratico si è impegnato fin dagli anni giovanili in studi filosofici e politici. Ma, proprio per non fare dello studio della filosofia una normale, ordinaria e rituale professione, a suo tempo si risolse a scegliere una facoltà scientifica. L’amore per le scienze dello spirito ha continuato ad animare la sua ricerca accre­scendo l’interesse anche per le discipline estetiche, la musica, la letteratura (le sue passioni: Shakespeare e Proust) e l’arte figurativa.



Incipit contingente-empirico

Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Ci si sforzerà di indicare che questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e a quel se, di fatto oppone un no, sia chiamando in aiuto esempi materiali che ricorrendo alle elaborazioni di alcuni grandi pensatori che hanno fatto la storia della religione e della filosofia. Impiegando concetti hegeliani, ci si propone di operare una contrapposizione fra sapere immediato e ragione filosofica.

In sintesi, indipendentemente dalle condizioni strutturali, una elaborazione teorica carente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti. Certo si tratta di una tesi non nuova,1 ma che è sempre utile corroborare. Si sono scelti alcuni nomi e argomenti, ma l’intendimento qui svolto è estensibile all’intera storia della filosofia, e con la convinzione che occorre non essere innovativi (chi ha cercato di esserlo in epoca recente, secondo chi scrive, ha fallito), bensì sia necessario cercare di ben interpretare quanto in essa filosofia è stato già elaborato.

Cominciamo da esempi concreti. Il giornalista e scrittore Giulietto Chiesa da una parte chiede il rispetto della Costituzione del 1948, ma poi propone improbabili soluzioni economiche compatibili con il sistema, senza porsi la questione del capitalismo e vorrebbe non uscire dall’Europa dell’euro, ma “cambiarne le regole”, ignorando che questa “Europa” è nata proprio per la volontà di imporre le sue regole iugulatorie. In altre parole, si vuole conciliare l’inconciliabile: indipendenza e subordinazione al tempo stesso. Per inciso ciò è plasticamente e schizofrenicamente espresso nella moneta da 2 euro coniata per commemorare la nostra Costituzione, che ne è la negazione assoluta! Comunque, non c’è niente da negoziare, niente da ridiscutere e non deve importare nulla di competere “capitalisticamente” con Cina o Giappone, quando il problema è il capitalismo in quanto tale. Anche se le proposte di Chiesa venissero praticate, si perpetuerebbero l’estrazione di plus-valore e il “sovrasensibile” balletto fra le merci nel mentre si usano gli esseri umani come strumenti per il loro spettrale dialogo. Qui comincia già a lampeggiare una carenza filosofica di fondo, una trascuratezza degli scomodi principi comunitari di Platone, Aristotele, Hegel. Del resto, è sufficiente leggere i libri di autori come Roberto Flamigni, Stefania Limiti, Paolo Cucchiarelli, e altri, per rendersi conto che l’infernale governo-ombra di “questi” U.S.A., con tutte le sue ragnatele mondiali, se si rimane all’interno dell’attuale sistema geo-strategico, non permetterà mai alcuna reale politica contraria ai propri interessi di preteso centro dominante e coordinatore del capitalismo globale. Nobili personalità che hanno cercato di fare gli interessi della nazione ne abbiamo avute, da Enrico Mattei ad Aldo Moro, e sappiamo quale destino sia stato loro riservato. Non è un paradosso pensare sia meno utopica una rottura radicale con l’intero attuale modo di produzione. Illusione? Ma qui ci viene in aiuto il precedente storico incancellabile della Rivoluzione d’Ottobre, ovviamente e sapientemente vittima di una damnatio memoriae.

Abbiamo un pullulare di movimenti, associazioni, piccoli partiti (dal destino “ultra-minoritario”, direbbe Costanzo Preve), che si prefiggono l’uscita dal sistema-euro e il ripristino delle prerogative dello stato nazionale, nonché, concetto inespresso, ma sottinteso, il ritorno, dunque, a un capitalismo “regolato”, con le zanne limate. Ma questa fase economica, con il welfare, ecc., è storicamente esaurita, come spiega Massimo Bontempelli nei suoi testi,2 e questi minimalisti anti-euro ricordano quanti, in altra epoca, all’alba tragica della “dittatura della borghesia”, ebbero nostalgia del vecchio ordine feudale, certamente meno disumano. Atteggiamento che Karl Marx si guardò bene dal con­dividere, poiché egli guardava avanti, alle prospettive future di socializzazione aperte dal nuovo modo di produzione, per quanto non iscritte necessariamente nella storia. Per cui, forzando l’estensione di una categoria temporale heideggeriana dalla analitica dell’esserci agli eventi storici, non sono da considerare “ad-venienti” le leggi e gli ordinamenti sociali, pur venerabili e mai abbastanza rimpianti, dei “trent’anni gloriosi 1945-1975”, bensì, più in profondo, il senso della comunità, ora estinto, che, sia pure in forme parziali, organicistiche, spesso coercitive, caratterizzò le epoche trascorse, prima del trionfo del modo di produzione capitalistico. Finalmente un senso comunitario da realizzare integralmente, secondo l’indicazione hegeliana, come frutto di libera scelta della libera individualità.

D’altra parte, quei movimenti e associazioni di cui sopra, anche quando non sono in aperto contrasto fra di loro, sembra non riescano comunque a coagularsi in una forza unica, tale da riunire le scarse disponibilità. Ciò ricorda irresistibilmente la frammentazione rivaleggiante dei gruppi extra-parlamentari di sinistra figli del Sessantotto, che pure, in linea di principio, sembravano tutti rifarsi agli stessi intendimenti generali. A questo proposito Costanzo Preve ci ricorda come questo fenomeno fosse dovuto (oltre che al narcisismo già individualistico-capitalistico di capi e capetti) alla debolezza della teoria di fondo, cioè il “marxismo” comune sia a ortodossi che a eretici, il quale, oltre alla inconsistenza degenerativa della fondazione kautskyano-engelsiana, pativa, ancora più a monte, anche una mancata elaborazione filosofica esplicita nel pensiero di Karl Marx. Per inciso, come ben sanno i lettori del compianto Costanzo Preve, egli ha evidenziato in Marx una matrice idealistica implicita, con argomenti difficilmente contestabili e che va ben oltre il semplice impiego del cosidetto metodo dialettico da parte dell’estensore del Capitale.

Ma permettiamoci una digressione. Martin Heidegger, nelle lezioni universitarie del 1925-1926,3 studiando Aristotele, dice (enigmaticamente?): “Il mettere insieme che fa vedere quel che è sempre separato deve allora necessariamente coprire; esso fa vedere qualcosa […] che non può mai essere in quel modo. Qui la simulazione è fondata necessariamente […] nel senso dell’impossibilità della composizione di quel che è sempre separato”. A cosa potremmo tranquillamente riferire questo criptico concetto, apparentemente banale? Per es., nella pubblicità abbiamo l’accostamento stridente (e offensivo per l’intelligenza) fra Amore, Amicizia, Libertà, Tradizione, Natura, Rivoluzione e … la forma merce. Ma, per rimanere nel nostro tema, abbiamo dei rimedi riformistici da sempre e per sempre separati dalla vera soluzione. Basterebbe questo per comprendere come la filosofia sia negletta e disprezzata, in quanto, se presa sul serio costituisce un tribunale inesorabile per il mondo capitalista e la debordiana società della spettacolo. Un altro esempio di cose che non possono stare insieme è costituito da una parte dalla dichiarata intenzione di pensare altrimenti e dall’altra dalla esposizione alla pubblicità mediatica e pseudo-politica, benevolmente e astutamente consentita dal sistema.

La televisione abbonda infatti di spot pubblicitari che invitano a finanziare la lotta contro le malattie rare, a contribuire economicamente a favore dei figli dei poveri e dei disoccupati, o per combattere la povertà in Africa, ecc., colpevolizzando l’uomo della strada e deresponsabilizzando le potenze sociali autrici dei mali in questione, facendone così un problema di beneficenza e generosità in­dividuale e proponendo iniziative “aventi le apparenze della pietà, ma prive di quanto ne forma l’essenza”.4 Oltretutto c’è il fondato sospetto che il Capitale osservi l’entità di queste contribuzioni, al fine di studiare l’eventualità di ulteriori riduzioni al salario globale della classe lavoratrice. E questo si può considerare anche un interessante esempio di quel “dono omeopatico”, a piccolissime dosi, emerso in una bella trasmissione radiofonica,5 quale antidoto del capitalismo per esorcizzare l’autentico Dono Gratuito, il quale, se appunto generalizzato, distruggerebbe l’intero sistema. In particolare, per quanto riguarda la disoccupazione – a parte la questione primaria, strutturale, dell’esercito industriale di riserva, necessario per concetto al modo di produzione capitalistico –, basti pensare alla partecipazione italiana alle sanzioni economiche contro la Russia per via della crisi ucraina, la quale, per chi voglia davvero informarsi, risulta di totale responsabilità occidentale. Queste sanzioni, imposte dagli U.S.A. ai Quisling nostrani, hanno comportato un danno enorme all’economia italiana con proporzionale perdita di posti di lavoro. Ma, e rientro nel tema, c’è la certez­za che qualunque forma di capitalismo, anche se “sovrano” e “indipendente”, porti a queste storture e sia inemendabile rimanendo al suo interno.

Scorrendo le immagini de Il trionfo della volontà – film documentario della grande cineasta tedesca Leni Riefenstahl sul congresso del partito nazista a Norimberga del settembre 1934 –, si osserva che ormai tali immagini hanno fortunatamente perso la loro immediata attualità. Infatti il nazismo storico si estingue nel 1945 (per quanto ne pensino in contrario i ragazzi dei centri sociali e altri meno ingenui, ma interessati a una legittimazione ideologica per la linea e l’esistenza stessa di partiti e sindacati che ormai hanno perso il loro originario ruolo storico), e non solo perché sconfitto militarmente, bensì perché non sussistono più le condizioni che lo fecero sorgere e prosperare. Ebbene …, la televisione italiana (più precisamente RAI 4), domenica 30 luglio 2017 manda in onda tale Tomorrowland (e già l’uso di un termine inglese la dice lunga), trasmissione diretta di un concerto rock di molte ore, con folla oceanica di giovani dall’entusiasmo fanatico simile a quello dei giovani in uniforme di Norimber­ga, con l’immagine di migliaia di volti stereotipati in una ininterrotta estasi, sublimata nell’adorazione di una personificazione-individuazione musicale della forma-merce, con annessa ideologia consumistica nell’illusorio individualismo di massa. Nel 1934 la Germania era reduce dalla faida interna al partito nazista della Notte dei lunghi coltelli e nel campo di Dachau erano imprigionati migliaia di comunisti dopo l’incendio del Reichstag: l’uniformità di massa era conseguente a una coercizione diretta. Invece il conformismo del falso anticonformismo “rock” è frutto di catene interiori e dunque infinitamente più efficace e pericoloso: è l’immagine-simbolo di un nuovo nazismo che non si lascia sconfiggere militarmente. In questo contesto, come la guerra di posizione politico-culturale dei decenni scorsi è paragonata da Costanzo Preve alla linea Maginot crollata in pochi giorni, non resta che pensare, quale principio gramsciano sempre valido, l’ottimismo della volontà, sebbene non abbia nulla di teorico. Ma se si pensa che la bruttezza e pericolosità sociale della musica rock siano qui esagerate, vale la pena riportare qualche parola del grande G. Anders a proposito della musica jazz, ma estensibile perfettamente al rock, anche se si dovrebbe leggere l’intero capitolo: “L’estasi è genuina, i ballerini, invece di essere se stessi, sono realmente ‘fuori di sé’, ma non già per sentirsi tutt’uno con le potenze ctonie, bensì con il dio della macchina: culto del Dioniso industriale […] ciò che il ballerino balla è una pantomima entusiasta della propria totale sconfitta […] che questo rito abbia l’effetto di ‘liquidare ‘realmente i ballerini e di far loro smarrire del tutto il loro ‘io’ è documentato da un fenomeno impressionante: cioè dal fatto che durante l’orgia perdono la loro faccia […] già più o meno stereotipa […] e non ci sarebbe nemmeno da meravigliarsi se durante l’orgia nascesse una nuova varietà di vergogna: la vergogna della faccia, la vergogna del ballerino di possedere una faccia in sé e per sé: di essere ancora sempre condannato a portare in giro con sé questo stigma della egoità quale dotazione coatta (corsivi di Anders)”.6

In queste tristi condizioni, lo scopo minimo immediato è l’assumere un ruolo storico simile a quello degli antichi conventi benedettini, quali isole di preziosa e futuribile civiltà in un contesto di circostante barbarie e tenendo presente, parafrasando Hegel, che nella situazione attuale la pianticella della filosofia (a dettare la prassi) si può innestare solo su singoli individui. A scanso di fraintendimenti, Domenico Losurdo ci ricorda che “l’atteggiamento del filosofo (Hegel) non si può certo dire elitario; è costante la sua tendenza a misurare la validità delle idee, non sulla base della loro astratta eccellenza interna, ma sulla base della loro capacità di informare di sé il reale, quindi anche di penetrare nella massa del popolo; ciò caratterizza Hegel in tutto l’arco della sua evoluzione”.7 Per inciso, ciò funge da risposta anche a quanti pensano che il grande filosofo abbia sostituito un mondo immaginario alla realtà, in linea con la distruzione della ragione idealistica imperversante dopo la morte di Hegel.

Conclusa questa parte introduttiva di critica “contingente-empirica” si inizia a corroborare la tesi centrale di queste pagine. Ogni evoluzione o frattura nella storia è stata preceduta o accompagnata da una giustificazione teorica. Ogni progetto di pensiero non cade dal cielo, ma è necessariamente calato nella realtà. Del resto, è facile trovare immediatamente un elemento d’aiuto per questa tesi nella imponente bibliografia del grande storico delle idee Domenico Losurdo, recentemente scomparso. Ci si propone di indicare alcuni esempi di questa apparente ovvietà, che tuttavia, a quanto pare, non è tenuta nel debito conto.

 

Antonio Fiocco

 

1 Basti pensare a C. Preve, Il convitato di pietra, Vangelista, 1991.

2 M. Badiale – M. Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, 2005; M. Badiale – M. Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari, 2007; M. Bontempelli – F. Bentivoglio, Capitalismo globalizzato e scuola, ed. Labonia-Indipendenza, 2016.

3 M. Heidegger, Logica, il problema della verità, Mursia, 2015, p. 124.

4 IIa Lettera a Timoteo.

5 Oikonomia. Meditazioni sul capitalismo e il sacro, uomini e profeti, di Luigino Bruni, 17 marzo 2019.

6 G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 84-86.

7 D. Losurdo, Hegel e la Germania, Guerini e Associati, 1997, pp. 365-366.



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Irvin D. Yalom – Non scegliere il progetto della propria vita significa fare della propria esistenza un accidente. Per combattere il nichilismo dobbiamo formulare un progetto che dia significato alla vita per sostenere la vita stessa.

Irvin D. Yalom 01

« Per evitare il nichilismo, spiegavo che dovevamo farci carico di un compito duplice. In primo luogo formulare un progetto che dia significato alla vita per sostenere la vita stessa. In seguito fare in modo di dimenticare quest’atto di invenzione e convincerci che non abbiamo inventato, bensì scoperto il progetto che dà significato alla vita, ovvero che esso ha un’esistenza indipendente “là fuori”».

Irvin D. YalomIl senso della vita , Neri Pozza, Venezia 2016.

«Non scegliere il progetto della propria vita significa fare della propria esistenza un accidente».

Irvin D. Yalom, Diventare se stessi, Neri Pozza, Venezia 2018.

Irvin D. Yalom insegna psichiatria alla Stanford University e vive e svolge il suo lavoro di psichiatra a Palo Alto, in California. Neri Pozza ha pubblicato molti dei suoi bestseller: La cura di Schopenauer (2005), Le lacrime di Nietzsche (2006), Il problema Spinoza (2012), Il dono della terapia (2014), Sul lettino di Freud (2015), Creature di un giorno (2015), Il senso della vita (2016) e Fissando il sole (2017).