Proponiamo un 25 Aprile  2023 di riflessione rammemorante con la lettura di alcune «Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana». Vogliamo farne memoria con queste loro “gocce di sole”. Memoria non è soltanto il riportare all’essere ciò che il tempo rende evanescente, ma è anche prefigurazione del futuro. L’esistenza concreta e temporale delle donne e degli uomini della resistenza non c’è più, ma rinasce come significato d’essere nella nostra memoria (nella lettura di queste lettere, veri ponti edidetici).

 

 

Proponiamo un 25 Aprile  2023

di riflessione rammemorante con la lettura di alcune

 

«Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana»

 

Sono passati ottant’anni da quando organizzarono le prime formazioni sulle montagne e nelle città occupate. Proponiamo qui una raccolta di frammenti dalle lettere (tratte dal libro: Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1994) che scrissero ai loro familiari prima di essere fucilati o impiccati e lo facciamo per due ragioni. La prima è che le loro parole urtano con forza contro la superficie opaca e rassegnata e nichilista del presente, parlandoci di senso del dovere e dell’onore, di fierezza e di coraggio, di dignità e di umiltà, di passione per la libertà e per l’Italia e di speranza per il futuro. La seconda è che uno di loro, un ragazzo di 23 anni, aveva chiesto alla madre di dire allo zio di scrivere qualche cosa della sua vita, in tempi migliori. Non sappiamo se lo zio esaudì poi quell’ultimo desiderio di Alessandro Teagno, ma di sicuro sappiamo che la sua vita, la loro vita rispondeva ad un principio profondamente etico, ad un principio superiore per tenere fede al quale furono pronti a sacrificarla. Sappiamo che amarono tanto la vita da decidere di rinunciare ad essa perché potesse scorrere più libera, più limpida, più degna. Vogliamo farne memoria con queste loro “gocce di sole”.

Memoria non è soltanto il riportare all’essere ciò che il tempo rende evanescente, ma è anche prefigurazione del futuro. Quanto più individui e popoli disperdono le loro memorie, tanto più il loro futuro è indeterminatezza, vuoto, puro e semplice invecchiamento. E quanto più essi rinunciano alla speranza di realizzare i valori dell’essere, impoverendo il loro futuro nell’indeterminata ripetizione del presente, tanto più sono incapaci di custodire il loro e l’altrui passato rammemorato, e perdono memoria storica. La rammemorazione non è certamente la risurrezione. Ma si può anche dire che, tramite la memoria, il passato risorge avendo chiaro che a risorgere non è la peculiare esistenza che il tempo ha, ma il suo significato.

L’esistenza concreta e temporale delle donne e degli uomini della resistenza non c’è più, ma rinasce come significato d’essere nella nostra memoria (nella lettura di queste lettere). Ciò a cui la nostra memoria è fedele, ciò che trattiene nel nostro essere, è la trama di significati di ciò che loro sono stati e di ciò che loro hanno fatto e scritto, e le immagini in cui si articola la loro memoria valgono non in quanto immagini, ma in quanto sostegni della trama di significati di cui si sostanzia.

Certo, il passato meramente temporale di queste donne e di questi uomini è dato da fatti che non sono più, ma il loro passato rammemorato è costituito dalla traccia di significato di quei fatti che continua ad essere, conservato come spirito. Il passato rammemorato è dotato di una propria identità, la storia costitutiva della sua identità: e illumina, come tale, il paesaggio del nostro presente, indicando una possibile strada per liberarsi dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno (sfociato nel mito della autointellegibilità dell’esperienza in quanto esperienza soltanto presente). Il puro presente, in realtà, è lo zero dell’intellegibilità, perché il presente, soltanto allargando la sua presenza a quella di un passato restituitogli da una storia (della loro e nella nostra storia), può rendersi comprensibile a se stesso.

Impariamo dunque che il senso profondo della cultura e della storia, della nostra storia, è da ricercare nella dialettica per cui il presente si comprende attraverso il nostro e l’altrui passato, e comprende il passato attraverso il proprio presente. Sempre, quindi, occorre la compresenza di «passato» e «presente», ovvero la presenza del passato mediante la memoria che vince il tempo, e, vincendolo, costituisce la soggettività della persona manifestandola creativamente in una identità.

La storia è soprattutto trama di significati universali; e per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata, le scelte che ha compiuto, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino. La storia di chi ha cercato di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali, e preservati in spirito, ad illuminare il nostro presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia.

Le tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”, perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione, descrivendo la particolare funzione di uno stato relazionale. Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, da un luogo ad un altro, dal passato al presente, dall’oggi al futuro. L’antropologia capitalistica ci riserva soltanto distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” come una pianura senza fine, con un paesaggio assolutamente piatto, che non necessita della presenza di ponti. Per il capitalismo mondializzato l’idea stessa di ponte è un “non senso”, ma anche un pericolo, in quanto i costruttori di ponti testimoniano un grado di differenziazione dall’onnivora omologazione e di consapevolezza del­le possibili condizioni per il movimento, per l’attraversamento, per il cambiamento, per il dialogo, ed anche per il conflitto. Impariamo dunque che il senso profondo della cultura e della storia, lo dobbiamo ritrovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato. Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive.

Tracce di significato, perché traccia è: “segno” lasciato sul terreno della storia; “vestigio” che permette di riconoscere, ricordare, rammemorare; “testimonianza” di pienezza di valore vissuta, di progettualità impegnata comunitariamente; “orma” che rinvia al “cammino” dell’uomo nella realizzazione della propria compiuta umanità; “indizio” di eventi passati che il tempo ha reso evanescenti, ma che sono possibile porta per la prefigurazione di un futuro; “cifra” di virtualità che cercano la vita nel presente; “segnacolo” di accadimenti futuri; “impronta” della possibile dialettica di comprensibilità tra passato e presente; “abbozzo” che serva da guida; “filo conduttore” di un discorso di rilevanza umanistica; “schizzo” di un progetto di ricerca sul bene e sul bello; “metafora” della fiducia critica nella memoria storica dell’uomo.

 

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La parola è, nell’ambito dell’attività cosciente, quello che […] è assolutamente impossibile per uno solo
ed è possibile per due. Essa è l’espressione più pura della storicità essenziale della coscienza umana.

La coscienza si riflette nella parola come il sole in una piccola goccia d’acqua.
La parola sta alla coscienza come un piccolo mondo a uno grande […].
Essa è il microcosmo della coscienza umana.

L. S.. Vygotsky, Pensiero e linguaggio.

 

 

C’è ancora bisogno di queste “gocce di sole” per fugare le ombre della “città degli spettri”, che sovente incombono e contrastano – nel loro addensarsi in grumi di indifferenza individualistica – il desiderabile vissuto di una “comunità solidale” e l’effettualità di una libera individualità sociale.

Gli autori ci hanno indicato una possibile strada per liberarsi dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno (sfociato nel mito della auto-intellegibilità dell’esperienza in quanto esperienza soltanto presente).

 

 

 

 

Antonio Fossati, Corpo Volontari Libertà.

Carissima Anna,

nel tuo cuore non deve esserci dolore ma l’orgoglio di un Patriota e anche ti prego di tenere per ricordo il mio nastrino tricolore che lo portai sempre sul cuore per dimostrarmi un vero Patriota. […] Mi trovo nelle mani dei Carnefici se mi vedessi Anna non mi riconosceresti più per lo stato che son ridotto molto magro grigio sembro tuo nonno tutto ciò non basta il peggio sarà domani sera senza un soccorso da te e dai miei genitori senza veder più nessuno quale dolore sarà per la mia mamma.

***

Renzo, Corpo Volontari Libertà.

Carissimi amici e parenti tutti,

muoio da eroe e non da vile, muoio per la mia cara Italia che ho sempre adorato, muoio e nel più estremo dei miei momenti di vita terrena grido vendetta per il mio sangue sparso così innocentemente.

***

Albino Albico, anni 24, operaio, 113a Brigata Garibaldi Baggio (Milano).

Carissimi mamma, papà, fratello sorella e compagni tutti

mi trovo senz’altro a breve distanza dall’esecuzione: mi sento però calmo e muoio sereno e con l’animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e la nostra cara e bella Italia.

***

Raffaele Andreoni (Tarzan), anni 20, meccanico, Brigata Garibaldi 22 bis Vallombrosa (Firenze).

Cari miei,

lascio ora la mia vita così giovane solo per una mancanza che io non posso tradurla né in bene ne in male. Per la mia famiglia, per la mai Patria, dico però con serenità che ho amata l’una e l’altra con amore più di quegli uomini che oggi mi tolgono la vita.

***

Arnoldo Avanzi, anni 22, impiegato, 77a Brigata SAP Luzzara (Reggio Emilia).

Carissimi,

non piangetemi, sono morto per la mia idea, senza però far nulla di male alle cose ed agli uomini. Non odio nessuno e non serbo rancore per nessuno, ci rivedremo in cielo.

***

Achille Barilatti (Gilberto della Valle), anni 22, studente, comandante distaccamento di Montalto (Macerata).

Dita adorata,

la fine che prevedevo è arrivata. Muoio ammazzato per la mia Patria. Addio Dita non dimenticarmi mai e ricorda che tanto ti ho amata. […] Muoio da forte onestamente come ho vissuto.

***

Mario Batà, anni 26, studente, organizzatore delle prime formazioni partigiane del Maceratese.

Cari genitori,

Pensate che non sono morto, ma sono vivo, vivo nel mondo della verità. […] desidero che la mia stanza rimanga come è … io verrò spesso. Perdonatemi se ho preposto la Patria a voi.

***

Valerio Bavassano (Lelli), anni 21, elettromeccanico, 3a Brigata Garibaldi “Liguria”.

Mammina carissima,

Ho voluto seguire la mia idea e adesso mi domando se di fronte a te avevo il diritto di farlo. Perdonami, mammina, se ti cagiono questo grande dolore. Ti avevo pur detto che mi sembrava poco naturale restar vivo solo io fra tanti compagni morti.

***

Pietro Benedetti, anni 41, ebanista, militante del PCI dal 1921, commissario politico della 1a zona di Roma.

Ai miei cari figli,

Amate lo studio e il lavoro. Una vita onesta è il miglior ornamento di chi vive. Dell’amore per l’umanità fate una religione e siate sempre solleciti verso il bisogno e le sofferenze dei vostri simili. Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù è meglio non viverla. Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fratelli. Siate umili e disdegnate l’orgoglio; questa fu la religione che seguii nella vita.

Mia cara Enrichetta,

Vi sono nel mondo due modi di sentire la vita. Uno come attori, l’altro come spettatori. Io, senza volerlo, mi son trovato sempre fra gli attori. Sempre fra quelli cioè che conoscono più la parola dovere che quella diritto. Non per niente costruiamo i letti perché ci dormano su gli altri. Tutta la mia educazione, fin da ragazzo, mi portava a farmi comportare così.

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Quinto Bevilacqua, anni 27, operaio, socialista, organizzatore del 1° Comitato Militare Regionale Piemontese.

Carissimi genitori,

Non piangete per me perché nemmeno io piango mentre vi scrivo e vado incontro alla morte con una risolutezza che non mi sarei mai creduto, […] io ho scritto anche a Marcella [la moglie] questa mia volontà. Di rimanere nell’allog­gio che occupa ora il maggior tempo possibile della sua vita, e che non vada mai in fabbrica, ma continui a lavorare in casa. […] Le avevo promesso che avrei messo, non appena si fosse trovata la stoffa, una tenda pesante alla porta della cameretta ed un copridivano della stessa stoffa – rossa – se venisse esaudito questo mio pensiero sarei molto contento tener sempre la mia casetta in ordine come se dovessi tornare da un momento all’altro.

***

Giulio Biglieri, anni 32, bibliotecario, 1° Comitato Militare Regionale Piemontese.

Carissimo Costantino,

metti da parte le mie poesie e conservale tu: non ti chiedo di farle stampare, ma fa in modo che Albertino [il nipote] ne abbia una copia dattilografata: egli mi ricorderà meglio. Straccia le poesie che non meritano senza pietà.

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Paolo Braccini, anni 36, docente universitario, Partito d’Azione nel 1° Comitato Militare Regionale Piemontese.

Gianna, figlia mia adorata,

è la prima ed ultima lettera che ti scrivo e scrivo a te per prima, in queste ultime ore, perché so che seguito a vivere in te. Sarò fucilato all’alba per un ideale, per una fede che tu, figlia, un giorno capirai appieno. Non piangere mai per la mia mancanza, come non ho mai pianto io: il tuo Babbo non morrà mai.

***

Antonio Brancati, anni 23, studente, Comitato Militare di Grosseto.

Carissimi genitori,

sono stato condannato a morte per non essermi associato a coloro che vogliono distruggere completamente l’Italia. Vi giuro di non avere commessa nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata Patria.

Mario Brusa Romagnoli (Nando), anni 18, meccanico, Divisione Autonoma “Monferrato”.

Papà e Mamma,

è finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto nemico mi fucila; raccogliete la mia salma e ponetela vicino a mio fratello Filippo. […] Addio. W l’Italia. Mi sono perduto alle ore 12 e alle 12 e 5 non ci sarò più per salutare la Vittoria.

***

Luigi Campegi, anni 31, operaio, comandante di una Brigata Garibaldi della Val Sesia.

Cari amici,

sono stato condannato alla pena capitale, mi raccomando non fatelo sapere ai miei genitori. Non piangete per me, vado contento con dodici miei uomini, spero di scrivervi ancora.

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Domenico Cane, anni 30, artigiano, formazioni Matteotti e gappista a Torino.

Carissima mamma adorata,

se non ho saputo vivere, mamma, so morire, sono sereno perché innocente del motivo che muoio, vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato.

***

Giacomo Cappellini, anni 36, insegnante, Divisione Fiamme Verdi di Brescia.

Mia adorata Vittoria,

addio bel sogno tante volte cullato nei miei più vaghi pensieri di una vita felice. […] anche se il dolore di tale dipartita è grande, immenso, perché annulla lo scopo di un’esistenza, Vittoria adorata, sono forte e sereno. Forte, perché sono conscio di avere compiuto il mio dovere. Vittoria mia, sii forte anche tu e non lasciarti abbattere.

***

Girolamo Cavestro (Mirko), anni 18, studente, già nel 1940 fonda un bollettino antifascista, organizzatore delle prime attività partigiane nella zona di Parma.

Cari compagni,

ora tocca a noi. Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia. Voi sapete il compito che ci tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. […] Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.

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Bruno Cibrario (Nebiolo), anni 21, disegnatore, 9a Brigata SAP Torino.

Sandra carissima,

non mi sarei mai immaginato di scrivere la prima lettera ad una ragazza in queste condizioni. Perché tu sei la prima ragazza che abbia detto qualcosa al mio cuore. […] Da buon garibaldino ho combattuto, da buon garibaldino saprò morire. La nostra idea trionferà ed io avrò contribuito un poco – sono forse un presuntuoso. Sii felice, è il mio grande desiderio.

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Luigi Ciol (Resistere), anni 19, caposquadra della Brigata “Iberati” Venezia.

Carissimi famigliari, […] una idea è una idea e nessuno la rompe. A morte il fascismo e viva la libertà dei popoli. […] girare attorno di qua e di là per la prigione e a dirsi che siamo condannati a morte, ma ormai è così e viva la libertà dei popoli.

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Arrigo Craveia, anni 21, salumiere, 43a divisione Alpina Autonoma Val Sangone.

Carissimi mamma e papà,

prima della fine della mia vita vi scrivo queste due righe di conforto verso di tutti, fate dirmi una Messa, e salutate tutti i parenti e amici. E se potete a portarmi a casa mi fate il piacere. Se vi giunge questo biglietto tenetelo di ricordo sono Caro figliolo Arrigo. Ciao e baci a Lina e tutti.

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Enzo Dalai, anni 23, contadino, 77a Brigata SAP Luzzara (Reggio Emilia).

Miei cari tutti e paesani muoio per un ideale di bontà ed una pace eterna.

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Cesare Dattilo (Oscar), anni 23, meccanico, militante del P.C.I., comandante della Brigata d’Assalto “Gia­como Buranello” operante in Liguria.

Cara sorella,

Del resto tutto ciò che può accadere di me nulla ha importanza. Anche se dovessero sopprimermi sono così una pedina tanto piccola che la Storia non cesserebbe di seguire il suo brillante corso. Sai, sono anche un po’ fatalista. Dunque per me ha più importanza la mia idea che la mia vita!

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Amerigo Duò, anni 21, meccanico, comandante di un distaccamento GL in Piemonte.

Amici cari,

il mio ultimo desiderio che vi esprimo è di farvi coraggio e di non piangere; se voi mi vedeste in questo momento sembra che io vada ad uno sposalizio. Dunque, su coraggio, combattete per un’idea sola, Italia libera. Ricordate che io non muoio da delinquente ma da Patriota e io muoio per la Patria e il benessere di tutti, dunque chi si sente continui la mia lotta, la lotta per la comunità.

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Costanzo Ebat, anni 33, tenente colonnello, Banda “Napoli” operante a Roma e nel Lazio.

Mia adorata e tanto buona,

non devi piangere per me: io sono lieto e felice del mio destino e ad esso sorrido senza batter ciglio. Non ho mai avuto paura della morte come non ho mai avuto paura della vita.

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Pedro Ferreira (Pedro), anni 23, ufficiale, formazione G.L. Italia Libera Cuneo.

Carissimi [ai compagni del Partito d’Azione],

In questo poco tempo che ancora mi separa dalla morte mi sento una calma ed una lucidità di mente che mi sorprendo­no. Vedo tutto il mio passato, remoto e recente; con uno straordinario spirito analitico e critico. […] Poche ore prima di morire formulo a voi tutti appartenenti al partito cui pure io appartengo, i migliori auguri affinché possiate appor­tare alla nuova Italia di domani quelle masse di energie sane e libere, tanto necessarie per la rigenerazione del Paese.

***

Walter Fillak (Martin), anni 24, studente, militante comunista, vicecommissario politico della 3a Brigata Garibaldi “Liguria”.

Mio caro papà,

per disgraziate circostanze sono caduto prigioniero dei tedeschi. Quasi sicuramente sarò fucilato. Sono tranquillo e sereno perché pienamente consapevole d’aver fatto tutto il mio dovere d’italiano e di comunista. Ho amato sopra tutto i miei ideali, pienamente cosciente che avrei dovuto tutto dare, anche la vita; e questa mia decisa volontà fa sì che io affronti la morte con la calma dei forti. Non so che altro dire. Il mio ultimo abbraccio.

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Umberto Fogognolo (Bianchi), anni 32, ingegnere, rappresentante del PSI nel CLN di Sesto S. Giovanni.

Nadina mia,

in questi giorni ho vissuto ore febbrili ed ho giocato il tutto per tutto. La più grande carta della mia vita è stata giocata e non è più possibile tornare indietro. Per i nostri figli e per il tuo avvenire è bene che tu sia al corrente di tutto, anche perché a te io ricorro nei momenti più tragici e difficili della mia vita. Qui io ho organizzato la massa operaia verso un fine che io credo santo e giusto.

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Bruno Frittaion (Attilio), anni 19, studente, militante comunista, Brigata Tagliamento.

Edda,

muoio, muoio senza alcun rimpianto, anzi sono orgoglioso di sacrificare la mia vita per una causa, per una giusta causa e spero che il mio sacrificio non sia vano sia di aiuto nella grande lotta. Di quella causa che fino ad oggi ho ser­vito senza nulla chiedere e sempre sperando che un giorno ogni sacrificio abbia il suo ricompenso. Per me la migliore ricompensa era quella di vedere fiorire l’idea che purtroppo poco ho servito, ma sempre fedelmente.

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Tancredi Galimberti (Duccio), anni 38, avvocato, comandante delle formazioni GL del Piemontese.

Ho agito a fin di bene e per un’idea. Per questo sono sereno e dovrete esserlo anche voi.

***

Paola Garelli (Mirka), anni 28, pettinatrice, Brigata SAP Savona.

Mimma cara,

la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia ed ubbidisci sempre gli zii che t’allevano, amali come fossi io. Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio.

***

Giono e Ugo Genre (Gino e Ugo), anni 20 e 18, fratelli, operai, Va Divisione Alpina GL Val Pellice.

Cari genitori,

ricevete questa nostra ultima lettera prima di morire, ma non abbattetevi tanto perché, cosa volete, è il nostro destino, e da questo non si scappa. Moriremo con la testa alta. Cara mamma, cerca di farti forza perché hai ancora due figli in terra da allevare e da istruire nella giusta via e abbiamo ancora un fratello che spero ritornerà e allora saprete che cosa dirgli di noi.

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Enrico Giachino (Eric), anni 28, studente, Brigate Matteotti Piemonte.

Cari papà e mamma,

non ho la mente ferma stasera per scrivervi, ma il coraggio non mi manca e non deve, non deve mancare a voi. Sarò sempre presente fra voi e vi dovete figurare solo che io sia partito per un lungo viaggio dal quale un giorno ritorne­rò. […] Ho ancora un desiderio da esprimere: rimetti il mio pianoforte in camera mia e sopra mettici sempre il mio ritratto ed un fascio di rose.

***

Eusebio Giambone (Franco), anni 40, linotipista, militante comunista, 1° Comando Militare Regionale Piemontese.

Cara Gisella,

quando leggerai queste righe il tuo papà non sarà più. Il tuo papà che ti ha tanto amata malgrado i suoi bruschi modi e la sua grossa voce che in verità non ti ha mai spaventata. Il tuo papà è stato condannato a morte per le sue idee di Giustizia e di Eguaglianza. Oggi sei troppo piccola per comprendere perfettamente queste cose, ma quando sarai più grande sarai orgogliosa di tuo padre e lo amerai ancora di più, se lo puoi, perché so già che lo ami molto. […] Per me la vita è finita, per te incomincia, la vita vale di essere vissuta quando si ha un ideale, quando si vive onestamente, quando si ha l’ambizione di essere non solo utili a se stessi ma a tutta l’Umanità.

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Alfonso Gindro (Mirk), anni 22, meccanico, GAP “Dante di Nanni”, Torino.

Mamma adorata,

sii fiera di tuo figlio che diede la vita per un giusto ideale e per una santa causa che sta combattendo e che presto splenderà alla luce di una grande vittoria. Non posso rimpiangere la mia esistenza così fulmineamente troncata per il volere di gente che non è sazia dei loro nefandi delitti. Penso a te, mamma adorata, penso al tuo straziante dolore, ma sii forte e coraggiosa avanti a tutto.

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Romolo Iacopini, anni 45, operaio, militante comunista, organizzatore di una formazione nella zona romana.

Cara madre,

ho pensato spesso in questi giorni alla mia vita, a tutta la mia vita. Forse sbaglio, ma sono convinto che la mia Patria, la mia vera Patria non possa rimproverarmi nulla. La mia vera Patria, quella per cui ho combattuto nell’altra guer­ra, quella che ora mi ha spinto ad agire contro la Patria falsificata dai fascisti, mi sarà sempre benigna come al figlio prediletto. […] Sai quanto ho amato i compagni. Quelli pronti con me ogni momento alla difesa di altri sventurati, tutti sognavano di stare sullo stesso piano senza che l’uno sorpassasse l’altro. Una società così, sarebbe stata, bella, mamma!

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Guglielmo Jervis (Willy), anni 42, ingegnere, commissario delle formazioni GL in Val Pellice.

[Parole scritte con la punta di uno spillo sulla copertina di una Bibbia ritrovata nei pressi del luogo della fucilazione]

Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea.

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Stefano Manina (Sten), anni 26, macellaio, IXa Divisione Garibaldi Langhe.

Carissima mamma, Gioacchino, Letizia, Rosa, Luigi e Elmicia cari,

il mio destino era di fare una vita felice e io non lo volli e so affrontare qualunque cosa mi sia concessa. E come pure voi dovete sapere vincere questo dolore pensando che il destino era questo e doveva andare così. Siate forti e pensate che io sia distante a lavorare come se dovessi ancora tornare.

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Irma Marchiani, anni 33, casalinga, staffetta sull’Appennino modenese, partecipa ai combattimenti di Montefiorino.

Carissimo Piero, mio adorato fratello,

ti chiedo una cosa sola: non pensarmi come una sorellina cattiva. Sono una creatura d’azione, ma il mio spirito ha bisogno di spaziare, ma sono tutti ideali alti e belli. Tu sai benissimo, caro fratello, certo sotto la mia espressione calma, quieta forse, si cela un’anima desiderosa di raggiungere qualcosa, l’immobilità non è fatta per me, se i lunghi anni trascorsi mi immobilizzarono il fisico, ma la volontà non si è mai assopita. Dio ha voluto che fossi più che mai pronta oggi.

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Attilio Martinetto, anni 23, finanziere, Gruppo di Resistenza dell’Astigiano.

Amore mio diletto,

quante volte nei momenti felici ho pensato ad un momento simile! Ricordavo proprio stasera di aver letto L’ultimo giorno di un condannato di Victor Hugo […] Tante volte basandomi su esso ho pensato al momento di morire. Quan­to ero sciocco! Solo ora lo comprendo. Sai Anna Maria cosa rimane all’ultimo di tutto? Solo quello che è santo e puro della vita. L’affetto dei genitori (in essi tua madre), l’affetto di quanti mi vollero bene e che ora avvalori sotto un’altra luce; la luce che ti proviene dall’affetto per Dio.

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Giovanni Mecca Ferroglia, anni 18, elettricista, 80a Brigata Garibaldi Canavese.

Caro amico,

spero ti ricorderai quando eravamo a scuola insieme e quando eravamo in montagna. Ora ci siamo rivisti in inferme­ria, prigionieri tutti e due. Quando ho saputo del tuo cambio sono rimasto molto contento: così almeno tu sei salvo e potrai così vendicarmi. […] Muoio contento di aver servito la mia causa fino all’ultimo. Vuol dire che quello che non faccio più io, lo faranno gli altri.

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Luigi Ernesto Monnet, anni 24, operaio, Va Divisione alpina GL Val Pellice.

Cara mia amata moglie,

mi hanno letto ieri la sentenza di morte ho riflesso a lungo e ho anche pregato e mi sono pienamente rassegnato al volere di Dio. Dio mi ha chiamato ad agire così e ho agito; adesso mi chiama alla morte e vado alla morte tranquillo come sono partito da casa.

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Domenico Moriani (Pastissu), anni 18, impiegato, IIa Divisione “F. Cascione” Imperia.

Cara nonna,

non piangere, sono condannato a morte, tu non devi farci caso, fatti coraggio. Io vado a trovare mia madre che è tanto tempo che non vedo. Quello che ho potuto fare ho fatto.

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Giuseppe Pelosi (Peppino), anni 24, studente, organizzatore delle prime formazioni nel Bresciano.

Mamma, papà, sorelline adorate,

non ho rimpianti nel lasciare questa mia vita perché coscientemente l’ho offerta per questa terra che immensamente ho amato, e anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo, e soprattutto per la mia diletta Patria, alla quale auguro figli più degni e un avvenire splendente.

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Stefano Peluffo (Mario), anni 18, impiegato, militante comunista, Brigata SAP Savona.

Carissimi genitori e fratelli,

vi scrivo in questi ultimi istanti della mia vita muoio contento di aver fatto il mio dovere.

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Giuseppe Perotti, anni 48, generale, CNL Piemonte.

Renza mia adorata,

Il destino ha voluto così e il destino è imperscrutabile. Bisogna accettarlo. Io mi considero morto in guerra, perché guerra è stata la nostra. Ed in guerra la morte è un rischio comune. Non discuto se chi me la darà ha colpito giusto o meno: si muore in tanti ogni giorno e i più innocentemente; io almeno ho combattuto.

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Pietro Pinetti (Boris), anni 20, meccanico, militante comunista, vice comandante della 175a Brigata Gari­baldi SAP Genova.

Carissima mamma,

ciò che ho fatto è dovuto al mio fermo carattere di seguire un’idea e per questo pago così la vita, come già pagarono in modo ancora più orrendo ed atroce migliaia di seguaci di Cristo la loro fede. Io ho creduto in questo sia giusto o sbagliato ed ho combattuto per questo sino alla fine, non negandolo a nessuno.

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Umberto Ricci (Napoleone), anni 22, studente, militante comunista, 28a Brigata GAP “Mario Gordini” Ravenna.

Ai miei genitori ed amici,

un’altra cosa che mi sorprende è la mia forte costituzione fisica. Nonostante la mia malattia in corso ho resistito eroicamente. Ora mi pongono qui perché si rimargino e si sgonfiano tutte le mie ferite che ho per il corpo. Indi mi pre­senteranno al pubblico appeso ad un pezzo di corda. […] Vorrei pure che nel marmo del mio tombino fossero incluse queste parole:”Qui soltanto il corpo, non l’anima ma l’idea vive.”

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Roberto Ricotti, anni 22, meccanico, commissario politico della 124a Brigata Garibaldi SAP Milano.

Parenti cari consolatevi, muoio per una grande idea di giustizia … Il Comunismo!!

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Francesco Rossi (Folgore), anni 27, elettrotecnico, 46a Brigata “Baratta” Val di Susa.

Cara Linuccia mia, cara mamma, fratelli, sorelle e nipoti cari,

ti dissi sempre che è meglio morire per uno scopo che starsene invegeti. […] Ho sempre voluto la felicità degli altri perché la mia credevo non avesse importanza. Fatela voi la felicità di tutti i poveri e che non soffrano più.

***

Vito Salmi (Nino), anni 19, tornitore, 142a Brigata d’Assalto Garibaldi Parma.

Carissime sorelle e zii,

ho fatto di mia spontanea volontà, perciò non dovete piangere. Un grande bacione alla nonna e fate il possibile che non sappia mai niente. Per lutto portate un garofano rosso. Ancora pochi minuti poi tutto è finito. Viva la libertà.

***

Aldo Sbriz (Leo), anni 34, falegname, militante comunista, Divisione d’Assalto Garibaldi “Natisone” Gorizia.

Pina cara, figli miei, madre e tutti i miei cari,

e tu, Giuliana mia piccola, come sei? Io l’immagino il tuo lieto visino sorridente. Aspettavo la tua nascita con gioia grandissima, ma la mia grande scontentezza sta nel fatto che la fatalità non mi ha permesso ch’io ti vedessi solo con la mia fantasia. Non ho potuto darti nemmeno un bacino sulla tua fresca guancetta. Ora io ti saluto e ti bacio cara­mente. Un giorno mi conoscerai.

***

Renzo Scognamiglio (Gualtiero), anni 23, insegnante, VIa Divisione Alpina Canavesana GL.

Mammina mia cara,

a te sola chiedo perdono ma assicurati che il tuo figliolo muore innocente e da partigiano, Ho amato tanto questa Italia martoriata e divisa ed anche se apparentemente oggi pare di no, cado per il mio Paese.

***

Remo Sottili, anni 33, vice-brigadiere, Brigata Garibaldi 22bis Vallombrosa (Firenze)

Reverendo,

in seguito direte a mia moglie che cerchi di educare i due bimbi meglio che può e che ella si faccia coraggio, che io la veglierò dall’alto dei cieli. Le dirà pure che per quanto le sarà possibile, non cerchi di fare dei bimbi dei militari o militaristi, questo ripeto se le sarà possibile, poiché non intendo darle alcuna disposizione in merito e faccia lei che sa fare bene.

***

Giuseppe Sporchia, anni 36, operaio, Brigata Matteotti Bergamo.

Mia adorata Pierina,

quale terribile momento sia per me questo non te lo posso dire; non trovo espressione per dirti! Ti lascio senza niente, in balia di chissà quali asperità: quale ingiustizia si è abbattuta sopra la nostra sorte!

***

Alessandro Teagno, anni 23, perito agronomo, inviato dal PCI clandestino in Tunisia in missione politico-militare nel Nord-Italia.

Carissimo papà,

non mi serbare rancore. Ho avuto una fede diversa dalla tua, ecco tutto. E muoio tranquillo, sorridendo, con un ideale puro.

***

Attilio Tempa, anni 22, operaio, 76a Brigata Garibaldi Valle d’Aosta.

Miei cari genitori e fratello Nino,

queste sono forse le ultime mie righe, vi prego solo di farvi coraggio, perché questo è il destino; se devo morire io forse ne salverò molti altri.

***

Giuseppe Testa, anni 19, impiegato, Partito d’Azione Roma.

Caro professore,

io, come sai, sono sempre forte come sono state forti le mie idee. Spero che il mio sacrificio valga per coloro i quali hanno lottato per le stesse idee e che un giorno possa essere il vanto e la gloria della mia famiglia, del mio Paese e degli amici miei.

***

Walter Ulanowsky (Josef), anni 20, studente, 3a Brigata Garibaldi “Liguria”.

(Nota di diario)

Sono stato scelto, prescelto per morire. Sacrifico la mia vita per l’ideale più puro, più nobile: la libertà umana. […] Ho la faccia rossa di sangue, la saliva è rossa. Sono sconvolto internamente. Vedo la morte che mi invita a seguirla. […] Mi sembra d’impazzire. A volte il cervello si calma. Perché sono qui? Perché domattina mi fucileranno? Per la libertà!

***

Ferruccio Valobra, anni 46, perito industriale, militante repubblicano, comandante di formazione autono­ma di Carmagnola (Torino).

Mie adorate Silvia e Mirella,

ed ora ritorno a voi mie dilette per rinnovarvi la preghiera di essere serene di fronte a tanta avversità. Spero che il mio sacrificio come quello dei miei compagni serva a darvi un migliore domani, in un’Italia più bella quale io e voi abbiamo sempre agognato nel più profondo del nostro animo.

***

Paolo Vasario (Diano), anni 33, medico, 105a Brigata Garibaldi Torino.

Diana cara,

la vita che doveva cominciare è terminata per me anzitempo. Ma durerà nel ricordo. Ti amo, Diana. Il tuo compagno se ne va. Se ne va dopo avere amato libertà, giustizia. […] Ma tu devi vivere. Devi vivere perché questo è il mio ultimo desiderio. Devi vivere e il mio ricordo deve essere un incitamento nella vita. Non bisogna che tu ne sfugga. Ti sarò comunque vicino, lo so e lo sento. […] Muoio in piedi. Sappilo e ricordami così. Ti amo tanto.

***

Fabrizio Vassalli (Franco Valenti), anni 35, commercialista, gruppo “ Vassalli”, Roma.

Carissimi papone e mammina,

perdonatemi il dolore che vi reco che è veramente una angoscia per me. Pensate che tanti sono morti per la Patria ed io sono uno di quelli. La mia coscienza è a posto: ho fatto tutto il mio dovere e ne sono fiero. Questo deve essere per voi vero conforto.

***

Erasmo Venusti, (Firpo), anni 22, bracciante, 12a Brigata Garibaldi Bardi (Parma).

Cara mamma,

in questo momento penso a tutto quello che tu mi dissi, mamma questa cosa tu non hai colpa ma tu non devi pensare che io ti odi, no questo era il mio pensiero di fare nascere una Italia libera. Sono orgoglioso di morire per la mia idea ora mi uccidono ma sono innocente.

***

Lorenzo Viale, anni 27, ingegnere, formazioni del Canavesano.

Carissimi,

di una cosa sono certo: potrete sempre camminare a testa alta perché non ho compiuto niente di disonorevole né di obbrobrioso. Ho semplicemente lottato per una causa che ho ritenuta santa: quelli che rimarranno si ricordino di me che ho combattuto per preparare la via ad una Italia libera e nuova.

***

Ignazio Vian (Azio), anni 27, insegnante, Formazioni Autonome “Mauri”, Cuneo.

(parole scritte col sangue sul muro della cella)

MEGLIO MORIRE CHE TRADIRE

***

Giovanni Battista Vighenzi (Sandro Biloni), anni 36, segretario comunale, CLN Rovato (Brescia).

Liana amatissima, mia gioia, mia vita,

vieni soltanto di tempo in tempo sulla mia tomba a portarvi uno di quei mazzettini di fiori campestri che tu sapevi così bene combinare. […] Muoio contento per essermi sacrificato per un’idea di libertà che ho sempre tanto auspicata.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Monica Quirico – Resistenza, Anpi e intellettuali minuscoli: dieci spunti di riflessione

Molta gente
prende la parola
per non dire niente.

[…]

E c’è chi rifiuta la parola
agli altri (non a sé)
per timore che gli altri vedano
dentro la sua che cosa c’è.

Franco Antonicelli



Monica Quirico

Resistenza, Anpi e intellettuali (minuscoli):

dieci spunti di riflessione

 

I. Nemico pubblico numero unoII. Maiuscole e minuscoleIII. Solidarietà a senso unicoIV. Quale Resistenza?

V. Strategie complementari di manipolazione della storia  – VI. La resa degli intellettuali

VII. Acribia filologica a corrente alternata – VIII. Il capro espiatorio – IX. L’Anpi, la Costituzione e la democrazia

X. La Resistenza come promessa

I. Nemico pubblico numero uno. Il linciaggio, personale oltre che politico, cui è sottoposto da settimane il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ha pochi precedenti nella storia repubblicana; che a compierlo siano per lo più giornalisti, intellettuali e politici “progressisti” (alcuni con trascorsi rivoluzionari), a cui la destra ben volentieri delega il lavoro sporco, rende la vicenda paradigmatica dell’imbarbarimento del sistema mediatico e dell’irreversibile declino di un intero ceto intellettuale.

II. Maiuscole e minuscole. La nostra Resistenza (ma anche quella francese, norvegese, jugoslava…) si fregia dell’iniziale maiuscola perché costituisce uno specifico fenomeno storico (la guerra partigiana contro l’occupazione nazifascista); allo stesso modo, si scrive Rinascimento per distinguere, nella storia della cultura, una determinata epoca da usi generici, talvolta impropri, del termine – come ad esempio il luminoso avvenire che Renzi preconizza per l’Arabia Saudita. Che le altre resistenze, a partire da quella ucraina, si scrivano con la minuscola non comporta una loro deminutio capitis, ma semplicemente il riconoscimento di diverse condizioni storiche.

III. Solidarietà a senso unico. Giornalisti e intellettuali con l’elmetto (indossato sulla poltrona) vedono nell’invio di armi all’Ucraina un discrimine morale: la solidarietà (dei veri democratici) contro l’inerzia (delle anime belle). Vano sarebbe cercare, nei loro interventi passati, tracce di un appoggio altrettanto incondizionato ad altre resistenze, che pure ci sono state, negli ultimi decenni: quella irachena (non riducibile ai sostenitori di Saddam Hussein), quella afghana (non identificabile coi soli talebani), per tacere di quella curda (scomoda, con il suo confederalismo democratico) e, ça va sans dire, quella palestinese. Tutti popoli che hanno subito l’aggressione di uno o più paesi stranieri (dagli Stati Uniti alla Turchia) e che però, anche quando non sono mancate espressioni di condanna dell’occupante, non sono stati considerati meritevoli, da parte del “Corriere” o di “Repubblica” o di “Micromega”, di un sostegno armato da parte dell’Occidente e dell’Italia. Forse perché gli aggressori erano gli Stati Uniti o qualche loro irrinunciabile (per quanto impresentabile) alleato. E meno che mai si è rispolverata la nostra Resistenza. Quanto ai civili siriani bombardati implacabilmente dalla Russia, hanno agonizzato nell’indifferenza generale. Certo non hanno chiesto di inviare armi a movimenti per cui pure simpatizzano (come quello curdo o palestinese) l’Anpi o altre organizzazioni pacifiste, ritenendo che in qualsiasi caso rispondere alla guerra con più guerra conduca solo alla catastrofe, come ha ben visto Emergency in questi anni. Piuttosto, hanno insistito per una soluzione diplomatica dei conflitti. Inascoltati, come oggi. Chi è di parte, dunque? Chi è “passivo”?

IV. Quale Resistenza? Polemizzando con Luigi Salvatorelli, che equiparava la lotta partigiana a quella dei caduti del Grappa e del Piave, Franco Antonicelli, fulgido intellettuale che per fare il suo dovere aveva assunto la presidenza del CLN Piemonte, puntualizzava: “Il definire meglio le due «resistenze» non significa opporle fra loro per farne risultare vincitrice una: significa fare una più perspicua opera di storia e trarne le naturali conseguenze. Nasce il sospetto che nell’equiparazione si voglia a bella posta togliere i caratteri distintivi, annullarli in una superiore ma arbitraria identità”. In alcuni paesi, tra cui il nostro, la Resistenza fu, certo, una lotta di liberazione nazionale (dall’invasore nazista), ma anche una guerra civile (contro il fascismo come regime e contro i fascisti che quel regime incarnavano) e, per una parte del movimento partigiano, una guerra di classe (contro il padronato agricolo e industriale, che aveva appoggiato Mussolini come “soluzione” della crisi sociale). Quest’ultima dimensione costituisce uno dei maggiori rimossi della nostra storia, non secondariamente per la scelta del PCI di oscurarla, con la svolta di Salerno, per accreditarsi come partito dell’unità nazionale. Della Resistenza invocata oggi come “patentino” della legittimità della resistenza ucraina si recupera ovviamente solo la componente di liberazione nazionale nella sua dimensione armata, con buona pace del contributo della resistenza non violenta.

V. Strategie complementari di manipolazione della storia. La memoria pubblica funziona ormai come Amazon: chiunque può cliccare sull’articolo (il personaggio o il fenomeno) che più gli conviene in quel momento, senza curarsi né della filiera, né della destinazione e dell’impatto. La strumentalizzazione della storia, una piaga non solo italiana, si presenta sotto due volti. Il più rozzo, che nel nostro paese produce effetti particolarmente mefitici, è quello dell’appiattimento di processi ed eventi sul paradigma vittimario: nell’indistinzione dei morti, si compie l’assoluzione dei vivi (i fascisti e gli esponenti del potere istituzionale ed economico), mentre il giudizio della Storia condanna all’infamia i “rossi”. Il volto più raffinato, per così dire, consiste nell’appropriazione di personaggi e processi “eccentrici”, non prima di averli depurati delle loro componenti disturbanti: così il socialdemocratico Olof Palme, odiato dalla destra in vita, da morto viene canonizzato, ma in quanto campione del liberalismo; analogamente, Antonio Gramsci diventa icona di italianità, ma per la sua indiscutibile (?) ispirazione liberale. Nel caso della Resistenza, si è passati con la massima disinvoltura dalla criminalizzazione degli ultimi decenni a una repentina (e verosimilmente assai transitoria) beatificazione. L’arroganza intellettuale e morale della classe dirigente ha passato ogni limite.

VI. La resa degli intellettuali. Scomparse le organizzazioni di massa (se non quelle di destra) che assicuravano loro un ruolo sociale, gli intellettuali “progressisti” (il maschile è intenzionale) si sono adeguati alle modalità comunicative di un sistema mediatico ibrido, in cui la logica binaria dei social avvelena anche i media tradizionali; non vi è posto per l’argomentare razionale e il confronto civile tanto cari ai liberaldemocratici, ma solo per la rissa. Ecco allora che, anziché contribuire al dibattito pubblico mettendo a fuoco le aporie del diritto internazionale (dalle ambiguità del principio di autodeterminazione dei popoli all’impotenza dell’Onu di fronte al militarismo), i nostri intellettuali democratici hanno sfoderato, in occasione dell’aggressione russa all’Ucraina, una logica binaria amico-nemico, alleato-traditore, degna delle peggiori fasi della Guerra fredda e per giunta incattivita da una comunicazione urlata e diretta alla delegittimazione dell’interlocutore. Pochi vi si sono sottratti; tra loro, Michele Serra, che, pur dichiarandosi a favore dell’invio di armi all’Ucraina, si è rifiutato di partecipare al derby fra le opposte tifoserie, confessando anzi il suo tormento interiore. Ma, appunto, si tratta di casi isolati. Lo “stile” del dibattito è stato dettato piuttosto da chi, come Paolo Flores d’Arcais, ha definito “oscena” la posizione di Pagliarulo, salvo poi invitarlo a un confronto pubblico (prima ti demolisco, poi parliamo, insomma).

VII. Acribia filologica a corrente alternata. Mediocri pennivendoli con l’elmetto si sono presi la briga (sottraendo tempo a cause più nobili) di andare a spulciare i post sul Donbass scritti da Pagliarulo a partire dal 2014, per dimostrarne in modo inequivocabile il “putinismo”. Dunque, commenti di sette-otto anni fa, su cui si può essere più o meno in accordo, sono usati per squalificare le dichiarazioni di oggi, e con esse la persona tout-court; un procedimento metodologicamente assai discutibile, considerando che Pagliarulo, e l’Anpi, hanno immediatamente e ripetutamente condannato l’aggressione russa. Ancora più strumentale appare poi una pubblicazione dei post di Pagliarulo completamente avulsa dalle contemporanee prese di posizione di organismi transnazionali al di sopra di ogni sospetto, che constatavano nella regione contesa gravi violazioni dei diritti umani da entrambe le parti: i nazionalisti filorussi come l’esercito e le formazioni paramilitari ucraine (si veda, tra gli altri, il rapporto del 2017 dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, https://www.ohchr.org/sites/default/files/Documents/Countries/UA/UAReport19th_EN.pdf). La stessa sorte è toccata del resto al comunicato di Pagliarulo sul massacro di Bucha. Il presidente dell’ANPI ha chiesto una commissione d’inchiesta indipendente per accertare le effettive responsabilità: esattamente quello che ha sollecitato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per la semplice ragione che è ciò che prevede il diritto internazionale. Ma questo particolare deve essere sembrato ininfluente, ai guerrafondai nostrani, che lo hanno per lo più taciuto.

VIII. Il capro espiatorio. Per gli avversari dell’Anpi e del movimento pacifista, Pagliarulo rappresenta un bersaglio perfetto: ha un passato comunista (una colpa da cui non ci si redime, in Italia, se non rincorrendo la destra fino ad autoliquidarsi) e non può contare sull’appoggio di organizzazioni di massa. Il PD, che di massa non è più, si pone anzi come uno dei suoi più accaniti detrattori. Attribuendo a Pagliarulo posizioni “vergognose”, si vende all’opinione pubblica una narrazione rovesciata, in cui a essere faziosi (perché “putiniani”) e inerti (perché complici) sono i pacifisti. In questo modo, si devia l’attenzione da chi è davvero compromesso con Putin così come da chi si preoccupa soltanto di vendere armi, non di perseguire la pace per via negoziale. Così, mentre i sinceri democratici chiedono le dimissioni di Pagliarulo, Salvini, i cui rapporti con Mosca sono noti a tutt@, se l’è cavata con la passeggera umiliazione patita in Polonia. Anche in questo caso sono stati rispolverati vecchi post, che hanno, sì, dato adito a sarcasmo, ma non alla richiesta di dimissioni della Lega dal governo. Mentre Pagliarulo viene additato al pubblico ludibrio come traditore della patria e della democrazia, chi sacrifica i diritti sociali delle classi popolari, imponendo, dopo due anni di pandemia, l’aumento delle spese militari e le ricadute energetiche di una guerra che in alcun modo tenta di arrestare, riceve il plauso di un apparato mediatico nelle mani di un oligopolio (i cui azionisti controllano anche buona parte dell’industria bellica: si pensi a Gedi/Exor). Infine, mentre si infierisce su Pagliarulo, nessuno chiede lo scioglimento di Forza Nuova, che ha legami ideologici nonché militari con la Russia di Putin.

IX. L’Anpi, la Costituzione e la democrazia. Perché l’Anpi oggi è ancora, anzi, più che mai, necessaria? Dovrebbe bastare un semplice dato, per chiudere la questione: l’Associazione dei partigiani conta 120.000 iscritti; Fratelli d’Italia 130.000. In un paese in cui, stando ai sondaggi, il 40% dell’elettorato voterebbe per due partiti di estrema destra, l’Anpi, con tutti i limiti che può avere, è uno dei pochi presidi di democrazia rimasti. Ed è proprio per questo che la si vorrebbe liquidare, con argomenti pretestuosi, come la sua obsolescenza (come se non si fosse rinnovata, nelle finalità e nel corpo militante, già da diversi anni) o la sua “faziosità”: celebri pure il 25 aprile, ma non si impicci di politica (una logica introiettata, purtroppo, anche da non pochi dei suoi iscritti). Delegittimando l’Anpi, si vuole archiviare definitivamente l’antifascismo come DNA della cultura politica nazionale e, con esso, quella Costituzione che, nata dalla Resistenza, ne raccoglie la triplice eredità di lotta di liberazione, guerra antifascista e lotta di classe: un circolo virtuoso che risulta intollerabile, nell’epoca di irreggimentazione permanente che sempre più ci imprigiona.

X. La Resistenza come promessa. “Come non illudersi che il nuovo Stato italiano avrebbe preso atto di tutto quello che la lotta partigiana significava: la forza di un popolo quando gli comanda la coscienza morale; l’intuito giusto della salvezza e libertà nazionali; la distruzione dei vecchi sistemi statali a base militaristica; la possibilità di un’esperienza di autogoverno? Come non ritenere inevitabile che la Resistenza, che oggi osava affrontare armata il fascismo e lo sconfiggeva, avrebbe distrutto tutto quanto il fascismo aveva rappresentato nella storia italiana e non soltanto italiana: la boria nazionalistica, lo spirito di divisione dell’Europa e del mondo intero, l’ossessione imperialistica, il bruto attivismo, lo stato etico, il capitalismo cieco? La «liberazione» doveva diventare «tutta la libertà»”. In queste parole, pronunciate da Antonicelli nel 1949, sono scolpiti i fondamenti dell’antifascismo italiano, quello rinnovatore, nato ben prima dell’8 settembre 1943 e non esauritosi con il 25 aprile 1945; a noi, fuori e dentro l’Anpi, il compito di inverare la promessa di redenzione dal nazionalismo, dal militarismo e dall’ingiustizia che esso ha dischiuso.

Franco Antonicelli (1902-1974) – Molta gente prende la parola per non dire niente. E c’è chi rifiuta la parola agli altri (non a sé) per timore che gli altri vedano dentro la sua che cosa c’è.


Monica Quirico, Franco Antonicelli. L’inquietudine della libertà, Castelvecchi, 2022.

Partigiano, letterato, poeta, giornalista, editore, senatore: tutto questo è stato Franco Antonicelli, una figura di spicco del Novecento italiano. Consapevole della parabola discendente della memoria della Resistenza, dai primi anni del dopoguerra, e per tutta la sua vita, Antonicelli ha fatto dell’antifascismo non mera testimonianza, ma un impegno da rinnovare di continuo per la trasformazione della società, un compito cui si è dedicato con inesausta energia nell’attività politico-culturale – fino ad approdare alla battaglia nelle istituzioni come indipendente nelle liste del Pci. In questa prima biografia documentata – intellettuale e politica – Monica Quirico ci restituisce il ritratto di un uomo che, a distanza di quasi cinquant’anni dalla morte, continua a impressionare per la vastità di interessi e la perenne lotta per la libertà e la giustizia che portava avanti animato dal costante bisogno di fare il proprio dovere.


Alcuni libri di Monica Quirico

Collettivismo e totalitarismo. F. A. von Hayek e Michael Polanyi (1930-1950), Franco Angeli, 2004.

La differenza della fede. Singolarità e storicità della forma cristiana nella ricerca di Michel de Certeau, Effatà, 2005.

Il socialismo davanti alla realtà. Il modello svedese (1990-2006), Editori Riuniti Press, 2007.

L’ Unione culturale di Torino. Antifascismo, utopia e avanguardie nella città-laboratorio (1945-2005), Donzelli, 2010.

Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo, Rosenberg & Sellier, 2018.

Guardare, Cittadella 2020.

Franco Antonicelli. L’inquietudine della libertà, Castelvecchi, 2022

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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25 Aprile 2022 – Una nuova resistenza sotto la bandiera del bene e della verità.

Anna Magnani in una celebre sequenza di “Roma città aperta”, di Roberto Rossellini.
Salvatore Bravo

Una nuova Resistenza sotto la bandiera del bene e della verità

Esodo per una nuova cultura della Resistenza

Resistenza e riduzionismo

 

 

Il 25 Aprile è il giorno in cui la democrazia sociale afferma i propri valori sconfiggendo le forze oscure del nazifascismo. Nella liturgia annuale della ricorrenza però si tende da più parti ad occultare che il sistema capitalistico – già vigente in tutto il Novecento  (prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale) e oggi globalizzatosi –, non è così antitetico al nazifascismo come sovente ama dipingersi: il nazifascismo è parte sostanziale della ormai lunga storia del capitalismo.

 

La multinazionale capitalistica della IBM, al servizio di Mussolini e di Hitler

In un articolo pubblicato il 14-02-2001 su “il manifesto” si poteva leggere a proposito di un libro di Edwin Black (La IBM e l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, Rizzoli, Milano 2001):

«[…] uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dal libro di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è persino trasfigurato in una istituzione “morale”, fonte dei valori che contano […]. Sul versante della casa madre IBM il libro mette in luce l’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare […]. Le schede perforate della IBM grondano di sangue […]. I manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocifio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”. […] Thomas Watson [si vedano immagini cliccando qui], presidente della IBM, sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, e fu ricevuto dal Führer con tutti gli onori a Berlino nel 1937 [Si vedano le foto cliccando qui]. Ancora nel marzo del 1941 un manager IBM telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”. […] Dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 i rapporti con la filiale svizzera della IBM non si interruppero, e per questo tramite […] forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data».[1]

 

Mettere a nudo la realtà capitalistica del presente

La vittoria del 25 Aprile e le sue celebrazioni ritrovano il proprio autentico significato se davvero riescono ad individuare le forze che oggi operano (in vario modo) nel controllare, soggiogare, silenziare ogni istanza comunitaria alternativa: è questo l’unico modo per resistere e non lasciarsi avvolgere e stritolare dai tentacoli del capitale. Se ci si limita ad una monumentale celebrazione del passato, e specialmente, se la giornata del 25 Aprile è usata ideologicamente dalle attuali forze capitalistiche per autocelebrarsi, la ricorrenza è svuotata del suo significato etico e politico. Costoro dicono che il nemico è stato sconfitto nel passato e affermano che ora regna il miglior sistema sociale e politico possibile, che bisogna “solo gestire” l’ordinario costituito dai bombardamenti etici e dalla flessibilità (sfruttamento) sul lavoro in nome della libertà del capitale. Resistere significa, invece, far emergere “il nemico” della democrazia e della libertà.

 

L’inganno del riduzionismo

La contemporaneità ha nel riduzionismo e nel capitalismo (nella sua forma globale) i nemici da combattere. La bestia selvatica del mercato, come l’ebbe a definire Hegel, produce riduzionismi in campo culturale, in modo da congelare le coscienze individuali e comunitarie condannate a ipostatizzarsi.
Il feticismo dei mercati sta divorando le libertà mediante l’inganno del riduzionismo: si elimina ogni discorso sul bene e sulla verità per sfuggire allo sguardo critico e non svelare le dinamiche dei processi di accumulo e profitto.

 

Accogliere solo chi testimonia dialetticamente la verità

In tale clima infausto bisogna leggere e pensare autori che testimoniano dialetticamente la verità. Senza la ricerca veritativa il sistema capitale non si palesa nella sua miseria culturale, la quale si traduce in nichilismo e squallore antropologico. Il dialogo tra Carmelo Vigna e Luca Grechi dona uno sguardo critico e fuori dal coro accademico che consente di comprendere le dinamiche in atto. Si resiste al presente, se si introduce il parametro della qualità e del bene con cui giudicare e pensare la totalità.
Il riduzionismo è il velo di Maya con il quale il capitale neutralizza il pensiero dialettico e la prassi. I riduzionismi devono essere letti nella loro valenza storica e ideologica per poterli smascherare nella loro verità strutturale e ideologica:

«Vigna: […] Questo riduzionismo si associa ad altre forme di riduzionismo: naturalistico, psicologico ecc. L’epistemologia è, comunque, sul piano filosofico, la fonte (e la forma) maggiore di questi riduzionismi, specie se coltivata senza la consapevolezza ch’essa è solo riflessione su un frammento dell’esperienza, e non sul senso della esperienza nella sua totalità».[2]

 

Adattarsi passivamente oppure agire criticamente dall’interno?

Resistere significa scegliere. Gli uomini e le donne che hanno resistito al nemico nazifascista hanno scelto la libertà, non sono stati “idioti” nel significato greco del termine. Gli idioti erano coloro che si occupavano solo degli affari privati e non avevano nessun senso del pubblico.

Resistere implica avere il senso etico del pubblico che si costruisce attraverso lo sguardo olistico con il quale si giudica il valore qualitativo della totalità, in cui siamo implicati:

«Vigna: […] La massa può solo fare i conti col proprio “starci dentro” quotidiano, cioè dentro la vita quotidiana. E, in questo quotidiano, si può vivere sostanzialmente in due modi: adattandosi passivamente oppure agendo criticamente dall’interno».[3]

 

Resistenza e flessibilità

La mercificazione totale dell’essere umano e della vita è il vero nemico. Il male è tra di noi e con noi, ogni tentativo di occultarne la verità va combattuto e denunciato. Bisogna tenere la posizione, non cedere all’adattamento che in questo caso è già assimilazione. Le gioie e le promesse del grande tentatore, il capitalismo, si stanno rilevando nella loro effettualità: gli esseri umani con le loro relazioni sono merce di scambio. Il dialogo ha ceduto il posto al solo calcolo utilitario, per cui si è tutti in pericolo e minacciati dal valore di scambio e dai processi di alienazione che producono l’infelicità generale e le guerre nel privato, nel pubblico e tra gli Stati nazionali:

«Grecchi: […] Tutto, nel modo di produzione capitalistico, diventa inevitabilmente merce: non più solo il lavoro, la natura, la moneta (come sottolineava K. Polany), ma anche tutte le relazioni umane, e in un certo senso perfino le strutture della personalità, che il capitale tende a produrre appunto come merci, funzionalmente al proprio valore processo di valorizzazione complessiva».[4]

  

Resistenza significa cambiarne i processi produttivi

Il nucleo del problema resta la produzione. Resistenza significa cambiarne i processi produttivi. Nela produzione capitalistica gerarchizzata i soggetti imparano la normalità del dominio, assimilano e riportano nel loro privato la logica dello sfruttamento e della negazione dell’altro. La produzione forma soggettività passive pur nella loro aggressività competitiva.
Resistere, oggi, significa trasgredire gli inutili specialismi astratti per una critica argomentata al sistema capitale non scissa dalla prassi. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita è la violenza legalizzata col sistema capitalistico.
Bisogna spostare l’attenzione sul problema essenziale, il quale, non è la distribuzione, ma la produzione che si esplica con la gerarchizzazione e con la sussunzione. La produzione con la divisione tra dominatori e dominati addomestica ed insegna la passività. La genesi della passività è nella produzione la quale forma coscienze che ipostatizzano la gerarchizzazione produttiva con cui si nega l’attività politica. La produzione passivizzante vuole formare alla normalità della pratica del dominio. Resistere e sperare significa storicizzare i sistemi produttivi per emanciparli dalla normalità della violenza globale:

«Grecchi: […] Engels ha chiarito bene che la ridistribuzione della ricchezza dipende dalla forma (privatistica e sociale) della sua produzione, e oggi la forma produttiva è quella capitalistica privata dei gruppi transnazionali…».[5]

 

La fioritura della nostra umanità

Resistere significa coltivare nella lotta la speranza di una nuova fioritura nella vita e nella storia:

«Vigna: […] La fioritura della nostra umanità è sempre inizialmente un sogno, ed è un sogno che vuole (e che deve anche) farsi reale. Perciò è necessario coltivare cose come l’audacia e la speranza, fin da quando si è giovani».[6]

Il primo esodo per una nuova cultura della Resistenza è capire i significati delle nuove liturgie del sistema con il suo linguaggio falsamente libertario e orwelliano. La speranza è prassi critica e consapevolezza teorica del luogo-mondo in cui siamo. Bisogna trovare le ragioni per resistere e sperare, non vi è resistenza senza speranza. Gli adulti devono testimoniare non la flessibilità-adattamento al sistema capitale, ma la speranza critica in opposizione alla crematistica alienante e violenta. La speranza e la resistenza hanno la loro genealogia nella testimonianza critica a cui le nuove generazioni guardano per orientarsi in una realtà depressiva che li vuole perennemente flessibili e adattabili agli ordini del capitale.

 

Note

[1] Un test statistico chiamato Shoah

il manifesto 14/02/01

La Ibm e l’Olocausto Il ramo tedesco del gigante informatico Usa fornì a Hitler il know how dello sterminio. Un libro lo svela, cinque scampati chiedono i danni GUIDO AMBROSINO – BERLINO

Che la macchina di sterminio nazista si fosse avvalsa della tecnologia meccanografica della Ibm, il gigante americano dell’informatica, non è una novità.

In Germania se ne discusse già nel 1983, quando un inedito movimento di protesta riuscì a far saltare il censimento progettato dal governo federale. Incombeva allora lo spettro del “grande fratello” che tutto controlla, come nel romanzo 1984 di George Orwell. Le stesse “iniziative civiche” che si battevano contro le centrali nucleari e i missili atomici a medio raggio temevano un salto di qualità nella schedatura elettronica dei cittadini, già sperimentata in grande scala dalla polizia durante la caccia ai guerriglieri della Rote Armee Fraktion. La corte costituzionale finì col dare loro ragione, proclamando il diritto dei cittadini “all’autodeterminazione informatica”, cioè al controllo sui dati che li riguardano. I Länder tedeschi e lo stato federale dovettero istituire dei garanti per la tutela dei dati personali. Solo molti anni più tardi queste tematiche vennero riprese anche in Italia.

Uno degli argomenti che favorì in Germania il successo della protesta contro il censimento del 1983 fu proprio la scoperta che le premesse “informatiche” per lo sterminio degli ebrei erano state fornite dall’Ufficio statistico del Reich e dalla filiale tedesca della Ibm, la società Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), con i censimenti del 1933 e del 1939, i cui dati erano stati elaborati con il sistema delle schede perforate. Due storici della nuova sinistra, Karl Heinz Roth e Götz Aly, riversarono le loro ricerche nel libro Schedatura totale. Censimenti, controlli d’identità e selezione nel nazionalsocialismo (Berlino, 1984).

Un libro importante, che fece perdere l’innocenza alle tecniche di controllo statistico della popolazione. Ma le sue rivelazioni, più che sfociare in una denuncia delle responsabilità passate della casa madre americana, servirono a rafforzare un movimento per i diritti civili nella società contemporanea. Del resto la storiografia di sinistra aveva già tanto insistito sulla compromissione del capitale – anche di quello internazionale – nel nazismo, che il ruolo giocato allora dalla Ibm ne sembrava un corollario quasi scontato. Come che sia il libro di Roth e Aly è finito sulle bancarelle dell’antiquariato, senza fare né caldo né freddo ai manager della Ibm nella centrale di Armonk, vicino a New York.

Non andrà così col nuovo libro del pubblicista americano Edwin Black, La Ibm e l’Olocausto, pubblicato in contemporanea il 12 febbraio in otto paesi, con anticipazioni in esclusiva su settimanali e quotidiani. L’impatto è enorme, e non solo perché Black ha aggiunto molti nuovi dettagli alle ricerche di Roth e Aly, soprattutto sul versante americano della casa madre Ibm, e sull’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare.

Paradossalmente uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dalla pubblicazione di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è perfino trasfigurato in un’istituzione “morale”, fonte dei valori che contano, come innovazione e spirito d’impresa. Riscoprire dopo tanta apologia che le schede perforate della Ibm grondano sangue ha l’effetto di uno shock.

Ma è soprattutto l’esperienza organizzativa e giuridica accumulata negli ultimi anni in America dai sopravvissuti allo sterminio con le cause collettive di risarcimento a rendere esplosivo il libro di Edwin Black. Grazie alle class action la storiografia esce dagli scaffali delle biblioteche universitarie e piomba nelle aule dei tribunali. Ed ecco che il gigante Ibm trema: non tanto perché ferito nell’onore, ma perché minacciato nel portafoglio. Sono in gioco indennizzi per miliardi di dollari.

Sabato scorso cinque ebrei scampati ai Lager, due cecoslovacchi, un ucraino e due cittadini statunitensi hanno presentato una denuncia contro la Ibm accusandola di “complicità nell’Olocausto”, a nome dei circa centomila sopravvissuti. Il loro avvocato Michael Hausfeld vuole innanzitutto che i giudici costringano la Ibm a rendere accessibile tutta la documementazione conservata nei suoi archivi. Ma già adesso – sulla scorta dei libro di Edwin Black – ritiene di poter dimostrare che i manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocidio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”.

Era stato Hermann Hollerith, un ingegnere americano di origine tedesca, a inventare le schede perforate che portano il suo nome, le antenate dei moderni computer. E grazie al possesso di questo brevetto la Ibm ha costruito le sue fortune. I dati, con delle punzonatrici, vengono tradotti in fori su delle schede di cartoncino. Le schede possono poi venire lette con degli aghi di metallo. Quando passano attraverso un buco gli aghi chiudono un circuito elettrico, che aziona dei contatori di scatti, in grado di tradurre le informazioni in serie numeriche.

I circuiti elettrici possono anche azionare delle macchine di smistamento delle schede, che depositano in un mucchietto separato quelle con i dati cercati. Per esempio le schede con i dati del censimento del 1933 prevedevano per gli ebrei un foro alla terza riga della 22esima colonna. La smistatrice ammucchiava una sull’altra le schede con questa informazione in un mucchietto a parte. Per passaggi successivi si poteva ricostruire quanti ebrei abitavano in un determinato quartiere o in una certa strada, o incrociare i loro dati anagrafici con le loro professioni. Negli anni ’40 lettori meccanografici più elaborati erano in grado di tradurre le schede in tabulati e liste di nomi.

Così all’interno della popolazione si potevano rapidamente individuare gruppi a seconda della caratteristica scelta: minorati fisici e mentali, asociali, comunisti, omosessuali. L’amministrazione dei Lager poteva smistare i prigionieri nella produzione a seconda della loro qualificazione professionale, oppure selezionarli per le camere a gas.

In Germania negli anni ’20 una società autonoma utilizzava, su licenza della Ibm, la tecnica Hollerith: la Dehomag di Willy Heidinger. Nel 1922, anno in cui la Germania fu funestata da una superinflazione, la Dehomag non fu in grado di pagare 100.000 dollari per l’uso del brevetto. Thomas Watson, presidente della Ibm, ne approfittò per inghiottirla. Offrì alla Dehomag la cancellazione del debito in cambio della cessione del 90% delle azioni. Da quel momento la fabbrica tedesca divenne a tutti gli effetti una filiale della Ibm, la più importante: il comparto tedesco realizzava quasi la metà del fatturato dell’intero gruppo.

L’ufficio statistico del Reich era uno dei migliori clienti. Watson, che sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, fu ricevuto con tutti gli onori dal Führer a Berlino nel 1937. Ancora nel marzo del 1941 un manager Ibm telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”.

Solo dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 la Dehomag fu posta dai nazisti sotto amministrazione controllata. Ma stranamente i rapporti con la filiale svizzera della Ibm non si interruppero, e per questo tramite, secondo Edwin Black, forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data.

[2] Carmelo Vigna – Luca Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia 2011, pag. 18. [indicepresentazioneautoresintesi ]

[3] Ibidem, pag. 39.

[4] Ibidem, pag. 77.

[5] Ibidem, pag. 115.

[6] Ibidem, pag. 118.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Josep M. Esquirol – La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità.

La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità

***

«Ci sono solitudini incomparabili nel loro tendere alla condivisione. In realtà, solo chi è capace di solitudine può stare davvero insieme agli altri. […] Il deserto è ovunque e in nessun luogo […]. Chi affronta il deserto è, soprattutto, un resistente. Non ha bisogno di coraggio per espandersi, bensì per raccogliersi e poter così resistere alle dure condizioni esterne. Il resistente non ambisce a dominare o colonizzare, né desidera il potere. Vuole anzitutto non perdere se stesso, ma anche, e specialmente, servire gli altri. Questo atteggiamento non va confuso con la protesta facile e stereotipata: la resistenza, in genere, è un atto discreto.

[…] Eppure non è sbagliato usare la parola resistenza per riferirsi, oltre agli ostacoli opposti dal mondo alle nostre pretese, alla fortezza che possiamo dimostrare nell’affrontare i processi di disintegrazione e corrosione provenienti dall’ambiente circostante e persino da noi stessi. Ed è proprio allora che la resistenza si rivela una profonda pulsione umana.

Il nostro esistere può essere considerato un resistere proprio perché una delle dimensioni della realtà è interpretabile come forza disgregatrice. Di fatto, la prova più dura a cui viene sottoposta la condizione umana è la continua disgregazione dell’essere. È come se le forze centrifughe del nulla volessero saggiare la capacità dell’uomo di resistere al loro assalto. Sebbene i volti dei nemici cambino nel tempo, non si tratta di una sfida legata all’oggi o al passato, bensì di una prova costante, perché è la realtà stessa – per esempio per mezzo del volto del tempo e della sua assoluta irreversibilità – a cingerci d’assedio.

[…] Il silenzio di chi si raccoglie è un silenzio metodologico – letteralmente, è “un cammino” – che cerca di “vedere meglio” […].

Se la resistenza si contrappone soprattutto alla disgregazione, sarà opportuno analizzare la natura specifica di alcune forze entropiche a cui dobbiamo la nostra situazione attuale (nichilismo è il nome di una di esse, forse la più rilevante) […].

[…] Abbiamo sottolineato che la resistenza intesa come raccoglimento non si contrappone all’idea di progetto, anzi, se adottiamo questa prospettiva, la resistenza diviene condizione necessaria della possibilità del progetto. Esistono, invece, una chiusura e un isolamento assolutamente sterili […] . Non ricevere né dare, ecco un isolamento che sta agli antipodi di quello del resistente, le cui orecchie sono invece sempre tese ad accogliere la parola amica, mentre il suo pensare generoso è fin dall’inizio rivolto ad una azione responsabile. La resistenza non è immunologia (da qui il nostro disaccordo con Sloterdijk).

[…] Il resistente non pensa solo, o prioritariamente, a se stesso. Ecco dunque gli elementi della resistenza politica: coscienza, volontà e coraggio, oltre a un’intelligenza strategica per organizzarsi da sé e continuare a lottare nonostante la persecuzione sistematica e inevitabile di cui sarà oggetto. […] Resistere alla tirannia e al totalitarismo significa opporsi alla disgregazione, perché quei regimi […] uniformano e forzano una totalità apparente e falsa.

[…] La forza del resistente viene dal profondo.

[…] La memoria e l’immaginazione (il fervore delle idee) sono le migliori armi a disposizione del resistente.

[…] Non esiste resistenza senza modestia o generosità. Per questo, la presunzione e l’egoismo sono sintomi della sua assenza. Narciso non è resistente.

[…] La vita può essere assolutamente profonda anche nella marginalità, perché quel che davvero conta è la possibilità, per ognuno di noi, di essere inizio. Solo se non si arretra nemmeno di un passo si può continuare a sperare …».

Josep Maria Esquirol, La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 9-17.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Koinè – Il nostro invito augurale: A COSA SIAMO CHIAMATI ? La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.

Koinè - Resistenza culturale - Fiorillo Carmine

indicepresentazioneautoresintesi

Il nostro invito augurale:
A COSA SIAMO CHIAMATI ?

L’alternativa del futuro è  quella tra una società diventata libera comunità senza capitalismo, e una società capitalistica senza più alcuna comunità.

Il valore della libera comunità è il principio costitutivo della verità delle cose umane e del giudizio morale su di esse.

L’unico modello in rapporto al quale è umanamente sensato capire cosa vada accettato, e cosa respinto, di un sistema economico, è la libera comunità.
Il sistema economico contemporaneo è la negazione speculare della libera comunità, in quanto produce una collettività disgregata, despiritualizzata, coattivamente e ossessivamente comandata dalla ricerca del profitto e dalle procedure della tecnica. Esso prefigura perciò la morte dell’umanità dell’uomo, proprio in quanto è al di fuori di ogni giustizia e di ogni amore. Un sistema economico, come quello oggi vigente su scala planetaria, che ha come suo elemento motore e come suo fine intrinseco il profitto monetario privato, e che si sviluppa senza più alcun condizionamento di princípi non economici, è la materializzazione stessa dell’ingiustizia.
Chi vive tranquillo sotto un simile sistema, non trovando nulla di riprovevole nell’attività delle banche, delle società finanziarie e delle imprese volte al profitto, dando il proprio voto ai politici che legittimano questo stato di cose, evitando di condannare pubblicamente i detentori del potere, accettando entusiasticamente tutte le innovazioni tecniche, è perciò un operatore di ingiustizia.
Le esperienze di resistenza a questo sistema sociale (esperienze di agire comunitario non mercantile, esperienze di rifiuto dei comportamenti tecnicizzati, esperienze di autentica comunicazione culturale al di fuori dei ruoli imposti dai poteri dominanti, esperienze di contrasto dei poteri economici e politici, ecc.), se sono vissute in maniera spiritualmente sana come esperienze d’amore per l’umanità dell’uomo e di libera comunità, non possono non essere avvertite come gratificanti e realizzanti di per se stesse nel loro presente, indipendentemente dall’esito storico dei loro risultati nel loro presente e futuro temporale.
Se si ha capacità di amare e di progettare un mondo diverso, si resiste alla logica di questo sistema sociale semplicemente perché si vuol vivere bene e nella verità.

A COSA SIAMO CHIAMATI ?

La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.

Ciascuno di noi è chiamato, come uomo morale, a questa resistenza:

– è chiamato a considerare gli oligarchi dell’economia sempre avidi di sfruttare il lavoro, il territorio, i mercati, e i tecnoscienziati intenti a manipolare le specie viventi, per quello che in realtà sono: gli artefici consapevoli della distruzione dell’umanità dell’uomo;

– è chiamato a sottrarsi, nei limiti del possibile, alle logiche disumanizzanti;

– è chiamato a sperimentare le forme oggi possibili di agire comunitario;

– è chiamato a dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica;

– è chiamato a pensare concettualmente e criticamente anche riguardo al funzionamento della propria personalità.

Quando la resistenza degli esseri umani, guidati dalla loro capacità di amare, dal loro spirito di giustizia, e dalla loro comprensione intelligente di se stessi e della società, avrà spezzato in qualche punto della presente vita coattivamente “associata” l’attuale logica sistemica, e quando le carenze e le disfunzioni derivanti da tali rotture saranno affrontate con una logica nuova, in vista di soluzioni ispirate al vincolo solidale e comunitario che deve legare tutti gli esseri umani, allora saremo usciti dal sentiero della notte.

Associazione culturale Petite Plaisance

 

La contraddizione
Amici
Amore
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Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.

Italo Calvino_Nidi di ragno

«C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra.
Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo … tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi.
L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio […].
Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali.
Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione.
Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo».


Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964 [la prima edizione è del 1947].


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …