Herbert Marcuse (1898-1979) – Un filosofo può commettere molti sbagli, ma in Heidegger non si trattò di un errore, bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa.
Se si esamina in retrospettiva il contributo di Herbert Marcuse alla cultura marxista degli anni Sessanta e Settata, non c’è dubbio che l’estetica abbia rappresentato per lui un campo di riflessione privilegiato. In un libro come Eros e civiltà (1955), lavorando sugli elementi di antropologia che in Marx si legano all’analisi dell’opera d’arte, Marcuse giunge a riconoscere nel comportamento estetico il modello di un’esperienza non alienata, il luogo in cui viene a ricomporsi la tipica scissione con la quale la società borghese divide anima e mondo, ideologia e base sociale. In questa prospettiva, Marcuse rivaluta la nozione romantica del «gioco» e ne fa il principio di una cultura non più repressiva di cui l’arte diventa una pietra angolare, dato che in essa si incontrano e si conciliano le istanze della libertà creativa e la necessità dei condizionamenti materiali.
L’arte, tuttavia, è e resta in Marcuse soltanto l’esempio di una prassi più generale che mira al rovesciamento degli ordini sociali esistenti e che egli definisce «dimensione estetica». Non è una scelta priva di ambiguità, posto che in assenza di una reale trasformazione della società il radicalismo di Marcuse rischia di confondersi con una strategia di estetizzazione dell’esperienza, ennesima variante di un atteggiamento divenuto oggi dominante. Ma è una scelta portata avanti con coerenza, al punto da diventare la preoccupazione più marcata dei suoi ultimi anni, come testimonia il saggio La dimensione estetica, apparso nel 1978, cioè un anno prima della sua morte. A riportare la nostra attenzione sulla connessione tra estetica e politica in Marcuse è una raccolta di testi curata da Paolo Perticari per l’editore Guerini e Associati. Si intitola, appunto, La dimensione estetica. Un‘educazione politica tra rivolta e trascendenza (pp. 296) e contiene, oltre al saggio che dà il titolo al volume, altri quattro contributi: «Industrializzazione e capitalismo nell’opera di Max Weber» (1968), «Tolleranza repressiva» (1969), «Saggio sulla liberazione» (1969), «Controrivoluzione e rivolta» (1972). In aggiunta a questo materiale, il volume propone un’intervista raccolta da Frederick Olafson nel1977 e finora inedita in italiano, nella quale Marcuse affronta per la prima volta in chiave autobiografica il proprio rapporto con Martin Heidegger, di cui fu allievo a Friburgo negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo.
La posizione di Marcuse è esemplare di una ricezione di Heidegger condizionata dalla sua adesione al nazismo – una terribile «sorpresa», egli dice, per tutti coloro che l’avevano conosciuto e frequentato – e dunque sostanzialmente disinteressata ai suoi lavori del dopoguerra. Ne diamo qui un’anticipazione abbreviata rispetto a quella del volume e leggermente riformulata per quel che riguarda le domande di Olafson.
Stefano Catucci
F. Olafson
Professor Marcuse, pochi sanno che Heidegger ha avuto un ruolo significativo nel suo percorso intellettuale. Che contatti ha avuto con lui.
H. Marcuse
Lessi Essere e tempo quando uscì, nel 1927. Dopo averlo letto decisi di tornare a Friburgo dove avevo conseguito la mia laurea in filosofia nel 1922 – con l’intenzione di lavorare con Heidegger. Rimasi a Friburgo fino al 1932.
Quando lasciai la Gennania – prima che Hitler salisse al potere – l’amicizia finì. Rividi Heidegger dopo la seconda guerra mondiale, cioè intorno al 1946/47, nella Foresta Nera, dove possedeva una casetta. Ci fu un colloquio dai toni poco amichevoli. Fino a quel momento c’era stato uno scambio epistolare, ma poi tutti i contatti tra noi si interruppero. [ … ] Durante il primo periodo, diciamo dal 1928 al 1932, da parte mia c’era solo una piccola riserva e relativamente poche critiche su Essere e tempo. Vorrei dire piuttosto da parte nostra, perché in quel periodo Heidegger non costituiva un problema personale, bensì un problema per la maggior parte della generazione che studiò in Germania dopo la prima guerra mondiale. Noi vedevamo in Heidegger ciò che all’inizio avevamo visto in Husserl: un nuovo inizio, il primo tentativo realistico di dare basi concrete alla filosofia, una filosofia che si interessasse della condizione umana e non solo di idee e principi astratti. Condividevo questo con una parte piuttosto ampia della mia generazione ed è superfluo dire che la delusione per questa filosofia arrivò presto, penso negli anni Trenta. E abbiamo fatto un riesame completo di Heidegger dopo che si è saputo del suo rapporto con il nazismo.
F. Olafson
Lei si è occupato delle implicazioni sociali e politiche della filosofia di Heidegger?
H. Marcuse
Me ne sono interessato molto. Nello stesso periodo scrivevo articoli sulle analisi marxiste per l’organo teoretico della socialdemocrazia tedesca, «Die Gesellschaft». All’inizio pensavo che potesse esserci una combinazione di esistenzialismo e marxismo sulla base di un’analisi concreta dell’esistenza umana e del suo mondo. Ma presto mi accorsi che la concretezza di Heidegger era in gran parte un’apparenza, che la sua filosofia era in realtà molto astratta e si allontanava dalla realtà, o meglio la evitava, proprio come le filosofie che allora dominavano le università tedesche: il neo-kantismo, il neo-idealismo, ma anche il positivismo. [ … ]
F. Olafson
Ma le analisi fenomenologiche e ontologiche di Essere e tempo possono essere utilizzate in chiave sociale?
H. Marcuse
Nel mio primo articolo (Contributi ad una fenomenologia del materialismo storico, 1928) ho cercato di combinare esistenzialismo e marxismo. L’essere e il nulla di Sartre è un tentativo ancora più ampio in tal senso, ma quando Sartre si rivolse al marxismo rovesciò i suoi scritti esistenzialisti e alla fine se ne staccò, proprio perché non riusciva a conciliare Marx con Heidegger. Come lo stesso Heidegger, Sartre sembrava usare l’esistenzialismo per isolarsi dalla realtà sociale, invece di penetrarla. […] Concetti heideggeriani come «Esserci», «Essere», «Ente», «Esistenza», sono cattive astrazioni, nel senso che non sono strumenti concettuali per comprendere la concretezza vera sotto l’apparenza […]. Quella di «Esserci», per esempio, è per Heidegger una categoria sociologicamente e persino biologicamente «neutra» (non esistono differenze sessuali!). La «domanda sull’essere» rimane sempre senza risposta, e viene sempre ripetuta, mentre il fenomeno reale della paura si trasforma nel concetto di un’angoscia acuta, ma indefinita. […] L’ultimo Husserl cercò di arricchire la sua filosofia con una maggiore «concretezza storica». L’esistenzialismo di Heidegger, invece, resta in realtà un idealismo trascendentale.
F. Olafson
Dobbiamo concluderne che i teorici sociali dovrebbero abbandonare ogni tentazione esistenzialista e limitarsi a una descrizione funzionale della natura umana, accettando di fatto i presupposti del comportamentismo? Sia Heidegger che Sartre hanno cercato di opporsi a questo tipo di filosofia.
H. Marcuse
No, non significa questo. Dipende solo da cosa s’intende per ontologia. Se un’ontologia trascura la storia, ne ignora il peso, la butta via e ritorna a un concetto trascendentale statico, allora io credo che non possa fornire alcuna base concettuale per una teoria sociale e politica.
F. Olafson
In Essere e tempo Heidegger definisce «storicità» la struttura peculiare dell’esistenza umana, il rapporto costitutivo dell’individuo con il proprio passato, la sua dipendenza da una tradizione, il suo modo di raccoglierla e di cambiarla. Non sono elementi di concretezza?
H. Marcuse
Anche questa è una falsa concretezza, perché in realtà nessuna delle condizioni culturali, materiali e sociali che fanno realmente la storia trovano posto in Essere e tempo. La storia come tale viene neutralizzata […] e compressa in una categoria esistenziale totalmente immune dal materiale specifico e dalle condizioni mentali che sono il fondamento della storia. Ci può essere un’eccezione: l’interesse degli ultimi scritti di Heidegger per la tecnica e la tecnologia, il momento in cui la domanda «sull’essere» si ritira davanti alla domanda «sulla tecnica». Ammetto di non aver capito molte cose di questi scritti. […] Ma ho l’impressione che i concetti heideggeriani di tecnologia e di tecnica siano gli ultimi di una lunga serie di neutralizzazioni: vengono trattati come «forze in sé», lontane dai contesti di potere con i quali sono in relazione e che determinano il loro utilizzo e la loro funzione. Per questo vengono oggettivati come destino. […]
F. Olafson
Ma quando paria di storicità, Heidegger non ha forse in mente qualcos’altro? Per una teoria sociale, non è importante mostrare in che modo l’individuo si rispecchia in una determinata società? Non è importante caratterizzare la situazione non solo al livello di forze e tendenze relativamente impersonali, ma sul piano delle loro ripercussioni individuali?
H. Marcuse
È una necessità prioritaria, ma è proprio qui che le circostanze concrete della storia entrano in gioco. Come si pone l’individuo e come si vede nel capitalismo – in un determinato livello di sviluppo del capitalismo –, nel socialismo, come membro di questa o quella classe e così via? Questa dimensione manca completamente. Sono sicuro che l’Esserci si costruisce nella storicità, ma Heidegger si concentra sull’individuo purificato dalle umiliazioni nascoste e palesi della sua classe, del suo lavoro, della sua realizzazione, purificato dai danni che sono stati causati dalla società e che gli individui subiscono attraverso la società. In Heidegger non c’è alcuna traccia di quella ribellione quotidiana che aspira alla libertà. Il «Si» anonimo, il «chiunque», non è un sostituto della realtà sociale.
F. Olafson
Inquietudine e angoscia sono per Heidegger categorie esistenziali dell’individuo perché poste in relazione con la dimensione dell’essere per la morte. Lei ritiene che l’enfasi con la quale egli sottolinea questo aspetto dipenda dalla sua impronta teologica?
H. Marcuse
Sì, è possibile che abbia qualcosa a che fare con questo, ma è molto importante che lei ricordi il significato del concetto di morte nella sua filosofia. Credo che sia un buon inizio per una breve discussione sulla possibilità che il nazismo heideggeriano sia visibile nella sua filosofia prima del 1933. Io posso dirle, per esperienza personale, che né nelle sue conferenze, né nei suoi seminari, né a livello personale Heidegger ha mai dato alcun segno di simpatia per il nazionalsocialismo. In realtà non si discusse mai di politica e, fino alla fine, egli elogiò entrambi gli ebrei ai quali aveva dedicato i suoi libri: Edmund Husserl e Max Scheler. La sua aperta adesione al nazionalsocialismo fu perciò una sorpresa per noi. Da quel momento ci venne spontanea una domanda: ci siamo lasciati sfuggire qualcosa […] in Essere e tempo e negli altri scritti? E abbiamo fatto un’osservazione interessante, ex-post. Se si esamina la sua nozione di «essere nel mondo», si trova una visione dell’esistenza umana estremamente repressiva e opprimente. Rileggiamo le categorie […] con cui descrive l’Esserci: chiacchiera oziosa, rarità, ambiguità, caduta, gettatezza, angoscia, proiezione verso la morte, paura, sgomento, noia e così via. Quest’immagine gioca con le paure e le frustrazioni degli uomini e delle donne nelle società repressive; è materiale umano per la personalità autoritaria. Ed è sintomatico che, in Essere e tempo, manchi l’amore, citato solo in nota e in un contesto teologico, insieme con la fede, il peccato e il rimorso. Ora, ex-post, vedo nella sua filosofia un fortissimo deprezzamento della vita, una svalutazione della gioia e del godimento, della sensualità e dell’appagamento. Forse a quel tempo ne avevamo sentore, ma ne siamo stati consapevoli solo dopo aver saputo della sua adesione al nazismo.
F. Olafson
Lei crede che Heidegger fosse politicamente ingenuo? Secondo lei comprendeva le implicazioni della sua collaborazione con il partito nazista, quando era rettore dell’università di Friburgo?
H. Marcuse
Su questo posso dare informazioni sicure, perché ne ho discusso con lui dopo la guerra. Per preparare un po’ la mia risposta, mi permetta di leggere […] una delle sue affermazioni. Cito testualmente: «Non lasciare che le idee o i principi governino l’essere. Oggi e in futuro il Führer stesso è la realtà e la sua legge». Queste furono le parole di Heidegger nel novembre del 1933. Parliamo di un uomo che si dichiarava erede della grande tradizione filosofica occidentale, di Kant, di Hegel e di altri celebri filosofi. Tutto questo viene ora screditato. Norme, principi e idee sono obsoleti quando il Führer stabilisce la legge e definisce la realtà – la realtà tedesca! Ho parlato di questo con lui alcune volte ed egli ha ammesso che si era trattato di un «errore». Si era fatto un’idea sbagliata di Hitler e del nazionalsocialismo. […] Un filosofo può commettere molti sbagli, ma qui non si tratta di un errore […], bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. […] Heidegger riconobbe che c’era stato uno sbaglio, ma poi abbandonò li il problema. Rifiutava (e io credo che in qualche modo lo trovasse divertente) qualsiasi tentativo di negarlo o di spiegarlo in un’altra versione o non so cosa, perché non ha mai voluto appartenere alla stessa categoria dei suoi colleghi che, come egli diceva, all’improvviso non ricordavano più cosa avevano insegnato sotto il nazismo, o che l’avevano persino appoggiato, salvo poi dichiarare che non erano mai stati nazisti. Per quanto ne so, nel 1935 o 1936 Heidegger rinunciò a quell’aperta identificazione con il nazismo […], ma per me questo non basta a revocare il suo discorso del 1933.
È irrilevante quando e perché egli volse le spalle al nazismo […]. Rilevante è che egli pronunciò quella frase, che idolatrò Hitler ed esortò i suoi studenti a fare lo stesso. Se «la realtà e la legge tedesca d’oggi e del futuro» è solo il Führer stesso, allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa.
[…]
F. Olafson
Lei pensa che Heidegger abbia un concetto di società e, se sì, come sì esprime?
H. Marcuse
Non sarebbe corretto se rispondessi a questa domanda in modo diretto, perché io praticamente dal 1947 non so più nulla di lui. Fino ad allora, se aveva un concetto di società, non era esattamente un concetto degno di un filosofo. Se poi sia stato diversamente, le cose che potrei dire ora non avrebbero alcun valore. Dopo tutte le critiche che gli ho rivolto […] vorrei sottolineare che ho anche imparato qualcosa dal primo Heidegger: ho imparato a pensare […]. E soprattutto ho imparato a leggere un testo e a maneggiarlo seriamente, anche allontanandomi dalle interpretazioni tradizionali. Penso che i maggiori contributi filosofici di Heidegger siano le interpretazioni della filosofia greca. Egli sapeva davvero analizzare una frase di Aristotele o dei pre-socratici, e non solo in una o due ore, ma in mezzo semestre. Noi eravamo totalmente catturati ed entusiasti. […] Oggi, nell’epoca dello strutturalismo, bisognerebbe insistere sul fatto che ogni testo ha una sua propria autorità e che vi si può accedere solo forzandolo.
Testi pubblicati su il manifesto, 12-06-2002, p. 12.