Albert Camus (1913-1960) – Invece di uccidere e morire per diventare quello che “non” siamo, dovremo vivere e lasciare vivere per creare quello che realmente siamo.

Camus 006
Riflessioni sulla pena di morte

A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte

"Invece di uccidere e morire per diventare quello che non siamo,
dovremo vivere e lasciare vivere
per creare quello che realmente siamo".

A. Camus

Riflessioni sulla pena di morte (Réflexions sur la guillotine) è un saggio scritto da Albert Camus nel 1957. I brani che seguono sono tratti dall’ed. SE, Milano 1993, nella traduzione di Giulio Coppi.

«Poco prima della guerra del 1914, un assassino che aveva commesso un crimine particolarmente rivoltante (aveva massacrato una famiglia di coloni, compresi i figli) venne condannato a morte ad Algeri. Si trattava di un bracciante che aveva ucciso in una sorta di delirio omicida, ma con l’aggravante di aver derubato le proprie vittime. Il processo suscitò grande scalpore. Generalmente si ritenne che la decapitazione fosse una pena troppo mite per un simile mostro. Questa fu, così mi si disse, anche l’opinione di mio padre, sdegnato soprattutto dall’eccidio dei bambini. Una delle poche cose che so di lui, in ogni caso, è che volle assistere all’esecuzione, per la prima volta in vita sua. Si alzò nel cuore della notte per recarsi sul luogo del supplizio, all’altro capo della città, fra un gran concorso di folla. Di quanto vide, quel mattino, non disse nulla a nessuno. Mia madre racconta soltanto che rientrò di furia, stravolto, si rifiutò di parlare, si stese un istante sul letto e d’improvviso incominciò a vomitare. Aveva visto in faccia la realtà che si celava sotto le formule solenni tese a mascherarla. Non pensava più ai bambini massacrati, non poteva più pensare che a quel corpo palpitante sull’asse dove l’avevano gettato per tagliargli il collo.
Bisogna dunque ritenere che quest’atto rituale è ben spaventoso, se poté vincere l’indignazione di un uomo semplice e probo, e se un castigo da lui considerato fino ad allora cento volte meritato, non ebbe in definitiva altro effetto che provocargli la nausea fisica. Quando la giustizia suprema non offre che occasioni di vomito all’uomo onesto posto sotto la sua protezione, appare difficile sostenere che essa sia destinata, come dovrebbe essere suo compito, ad accrescere la pace e l’ordine in seno allo Stato. È invece evidente che essa non è meno ripugnante del delitto, e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l’offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango. Lo dimostra il fatto che nessuno osa parlare apertamente di una tale cerimonia. […] È invece mia intenzione parlarne crudamente. Non per il gusto dello scandalo, né, ritengo, per una malsana tendenza naturale. Ho sempre avuto orrore, come scrittore, di certi compiacimenti; come uomo, ritengo che gli aspetti ripugnanti della nostra condizione debbano, se inevitabili, essere affrontate in silenzio. Ma quando il silenzio, o le astuzie del linguaggio, contribuiscono a perpetuare un abuso che deve essere riformato, o una sventura che può essere alleviata, non esiste altra soluzione che parlar chiaro, e svelare l’oscenità che si cela sotto il manto delle parole. […] L’argomento principe dei partigiani della pena di morte è, lo sappiamo, l’esemplarità del castigo. Non si recidono teste soltanto per punire coloro che le portano, ma anche per intimidire, con un esempio terrificante, quelli che sarebbero tentati di imitarle. La società non si vendica, vuole solo prevenire. Brandisce una testa perché i candidati all’omicidio vi leggano il proprio futuro e indietreggino.
Questo argomento sarebbe decisivo se non si fosse costretti a constatare:
1. che neppure la società stessa crede all’esemplarità di cui parla;
2. che non è affatto dimostrato che la pena di morte abbia fatto indietreggiare un solo omicida deciso ad esserlo, mentre è evidente che essa ha esercitato un effetto fascinoso su migliaia di criminali;
3. che costituisce, per altri aspetti, un esempio ripugnante le cui conseguenze sono imprevedibili.
La società, in primo luogo, non crede a quel che dice. Se realmente vi credesse, esporrebbe le teste. Accorderebbe alle esecuzioni il beneficio del lancio pubblicitario che solitamente riserva ai prestiti nazionali o alle nuove marche di aperitivi. Sappiamo invece che le esecuzioni, in Francia, non avvengono più pubblicamente, ma si perpetrano nei cortili delle prigioni davanti a un ristretto numero di esperti.
[…]
Se infatti si vuole che la pena sia esemplare, non soltanto si devono moltiplicare le fotografie, ma bisogna anche collocare la ghigliottina su un palco in Place de la Concorde, alle due del pomeriggio, invitando l’intera popolazione e teletrasmettere la cerimonia per gli assenti. […]
Bisogna far questo, oppure smettere di parlare di esemplarità.
[…]
Potrei produrre ulteriori testimonianze altrettanto allucinanti. Ma, per quanto mi riguarda, non saprei andare oltre. Dopo tutto, io non sostengo che la pena di morte sia esemplare, e questo supplizio mi appare per quello che è, un grossolano atto chirurgico eseguito in condizioni che lo privano di qualsiasi carattere edificante. Invece la società e lo Stato, che hanno visto ben altro, possono tollerare perfettamente questi particolari, e poiché predicano l’esemplarità, dovrebbero cercare di renderli tollerabili a tutti, affinché nessuno possa ignorarli e l’intera popolazione, terrorizzata, diventi francescana. Diversamente, chi sperano di intimidire con questo esempio tenuto sempre nascosto, con la minaccia di un castigo presentato come mite e immediato, in definitiva più tollerabile di un cancro, con questo supplizio coronato dei fiori della retorica. Certamente non quelli che vengono considerati onesti – e alcuni lo sono – poiché a quell’ora dormono, poiché il grande esempio non è stato loro comunicato, poiché mangeranno il loro pane imburrato nell’ora del seppellimento prematuro, e poiché verranno informati dell’opera della giustizia, a patto che leggano i giornali, da un comunicato dolciastro che si scioglierà come zucchero nella loro memoria. Eppure sono proprio queste pacifiche creature a fornire la più alta percentuale di omicidi. Molte di queste oneste persone sono criminali che ignorano di esserlo. Secondo un magistrato, la stragrande maggioranza degli assassini da lui conosciuti non sapeva, radendosi al mattino, che la sera avrebbe ucciso. Per l’esemplarità e per la sicurezza, converrebbe dunque brandire, invece di truccarlo, il volto nudo del giustiziato davanti a tutti quelli che al mattino si radono.
[…]
In effetti, bisogna uccidere pubblicamente, oppure confessare di non sentirsi autorizzati ad uccidere. Se la società giustifica la pena di morte con la necessità dell’esempio, dovrà giustificare se stessa rendendo la pubblicità necessaria. Deve, ogni volta, mostrare le mani del boia, e costringere a guardarle i cittadini troppo delicati, e anche tutti coloro che, direttamente o indirettamente , hanno fatto esistere quel boia. Diversamente confessa di uccidere senza sapere quello che dice né quello che fa, oppure sapendo che, lungi dall’intimidire l’opinione pubblica, queste cerimonie rivoltanti non possono che ridestare in essa il crimine, o precipitarla nello smarrimento. Chi potrebbe chiarirlo meglio di un magistrato, il consigliere Falco, ormai giunto alla fine della carriera, la cui coraggiosa confessione merita diessere meditata: “… L’unica volta che nella mia carriera ho deciso contro una commutazione di pena e per l’esecuzione dell’imputato, ritenevo che, malgrado la mia posizione, avrei assistito perfettamente impassibile all’esecuzione. L’individuo, del resto, era poco interessante: aveva martirizzato la figlioletta, gettandola infine in un pozzo. Ebbene! Dopo la sua esecuzione, per settimane, per mesi, le mie notti furono ossessionate da quel ricordo… Ho fatto la guerra, come tutti, e ho visto morire una gioventù innocente, ma posso dire che quell’orribile spettacolo non mi ha mai procurato quella sorta di cattiva coscienza provata assistendo a questa specie di omicidio amministrativo che chiamiamo pena capitale”.
Ma, in definitiva, perché la società dovrebbe credere a questo esempio, che non impedisce il delitto, e i cui effetti, se esistono, sono invisibili? La pena capitale non può intimidire chi non sa che sta per uccidere, chi lo decide all’improvviso, e prepara quell’atto in preda alla febbre o a un’idea fissa, e neppure chi, recandosi ad un appuntamento chiarificatore, si porta appresso un’arma per impaurire l’infedele, o l’avversario, e poi se ne serve pur non volendolo, o non ritenendo di volerlo. La pena capitale non può, per dirla in breve, intimidire l’uomo gettato nel delitto come si può esser gettati nella sventura. Significa allora dire che nella maggioranza dei casi è impotente. È giusto riconoscere che raramente in Francia viene applicata nei casi appena citati. Ma questo stesso «raramente» fa fremere.
Impaurisce almeno quella razza di criminali su cui pretende di agire, e che vivono di crimine?
Nulla è meno certo. Si può leggere in Koestler che in Inghilterra, all’epoca in cui i borsaioli venivano giustiziati, altri borsaioli esercitavano il proprio talento tra la folla che circondava la forca da cui pendeva il collega. Una statistica degli inizi del secolo, in Inghilterra, afferma che su duecentocinquanta impiccati, centosettanta avevano in precedenza assistito personalmente a uno o due esecuzioni capitali. Ancora nel 1886, su centosessantasette condannati a morte passati per le carceri di Bristol, centosessantaquattro avevano assistito almeno a una esecuzione. Tali sondaggi non possono più essere condotti in Francia, a causa della segretezza che circonda le esecuzioni. Ma autorizzano a ritenere che attorno a mio padre, il giorno dell’esecuzione, doveva esserci un nutrito numero di futuri criminali che, loro, non hanno certo vomitato. La potenza dell’intimidazione agisce unicamente sui timidi non destinati al delitto e cede di fronte agli irriducibili sui quali vorrebbe precisamente agire.
[…]
Anche se questo accadesse, bisognerebbe poi fare i conti con un altro paradosso della natura umana. L’istinto di vita, se è fondamentale, non lo è più di un altro istinto, di cui non parlano gli psicologi accademici: l’istinto di morte, che esige in certe ore particolari la distruzione di se stessi e degli altri. È probabile che il desiderio di uccidere spesso coincida con il desiderio di morire o di annientarsi. L’istinto di conservazione si trova in tal modo abbinato, in proporzioni variabili, all’istinto di distruzione. Solo quest’ultimo riesce a spiegare totalmente le numerose perversioni che, dall’alcolismo alla droga, conducono coscientemente l’uomo alla propria rovina. L’uomo desidera vivere, ma è vano sperare che un tale desiderio regni sulla totalità delle sue azioni. Desidera anche non essere, vuole l’irreparabile, e la morte per la morte. Accade così che il criminale non desideri soltanto il delitto, ma anche la sventura che l’accompagna, persino e soprattutto se è una sventura smisurata. Quando questo strano desiderio cresce e domina, non solo la prospettiva di una condanna a morte non potrebbe fermare il criminale, ma è persino probabile che accresca ulteriormente la vertigine in cui si perde. Si uccide allora per morire, in un certo modo.
Queste anomalie bastano a spiegare come una pena che sembra calcolata per impaurire animi normali, sia in realtà totalmente priva di effetto sulla psicologia media. Tutte le statistiche senza eccezione, quelle riguardanti i paesi abolizionisti oppure gli altri, dimostrano che non esiste rapporto tral’abolizione della pena di morte e la criminalità. Quest’ultima non aumenta né regredisce. La ghigliottina esiste, come esiste il delitto; tra di essi non c’è altro vincolo apparente all’infuori della legge. E quanto ci è dato dedurre dalle cifre che le statistiche ci offrono in abbondanza, è questo: per secoli si sono puniti con la morte reati diversi dall’omicidio e il castigo supremo, applicato così a lungo, non è riuscito a far sparire nessuno di questi reati. Da secoli tali reati non si puniscono più con la morte. Eppure non sono cresciuti di numero, e alcuni di essi sono persino diminuiti. Ugualmente, per secoli si è punito l’omicidio con la pena capitale, eppure la razza di Caino non è scomparsa. Infine, nelle trentatrè nazioni che hanno abolito la pena di morte, o in cui non viene più applicata, il numero degli omicidi non è aumentato. Chi potrebbe dedurre da tutto questo che la pena di morte ha un potere intimidatorio?
[…]
Se dunque si vuol conservare la pena di morte, che ci venga almeno risparmiata l’ipocrisia di giustificarla con la sua esemplarità. Chiamiamo con il suo vero nome questa pena a cui ogni pubblicità è rifiutata, questa intimidazione che non agisce sulle persone oneste, finché lo sono, che affascina quelle che non lo sono più, e che degrada, o corrompe, coloro che vi pongono mano. È una pena certo, uno spaventoso supplizio, fisico e morale, ma non offre alcun esempio sicuro, se non demoralizzante. Sanziona, ma non previene, quando addirittura non suscita l’istinto omicida. È come se non esistesse, salvo per colui che la subisce, nell’anima, per mesi o per anni, e nel corpo, in quell’ora disperata e violenta in cui lo tagliano in due, senza privarlo della vita. Chiamiamola col suo nome che, in mancanza di una qualsiasi altra nobiltà, le restituirà almeno quella della verità, e riconosciamola per quel che essenzialmente è: una vendetta.
Infatti, il castigo che sanziona senza prevenire si chiama vendetta. È una risposta quasi aritmetica che la società fornisce a chi infrange la sua legge primordiale. Questa risposta è antica come l’uomo: si chiama taglione. Chi mi ha fatto del male, deve averne; chi mi ha strappato un occhio, deve perderne uno dei suoi; chi ha ucciso, deve morire. Si tratta di un sentimento, e particolarmente brutale, non di un principio. Il taglione rientra nell’ordine della natura, dell’istinto, non rientra nell’ordine della legge. La legge, per definizione, non può obbedire alle stesse regole della natura. Se l’assassinio è nella natura umana, la legge non è fatta per imitare o riprodurre questa natura. È fatta per correggerla. Ora, il taglione si limita a ratificare e a dar forza di legge a un puro movimento naturale. Noi tutti abbiamo conosciuto questo impulso, spesso a nostra vergogna, e conosciamo la sua potenza: ci viene dalle foreste originarie. A questo riguardo, noi francesi, che giustamente ci indigniamo vedendo il re del petrolio, in Arabia Saudita, predicare la democrazia internazionale mentre affida a un macellaio il compito di recidere con un coltello la mano del ladro, anche noi viviamo in una sorta di medioevo che non ha nemmeno la consolazione della fede. Definiamo ancora la giustizia secondo le regole di una rozza aritmetica. Possiamo almeno dire che questa aritmetica è esatta, e che la giustizia, sia pur elementare e limitata alla vendetta legale, è salvaguardata dalla pena di morte? Si è costretti a rispondere in modo negativo.
Lasciamo da parte il fatto che la legge del taglione è inapplicabile, e che sembrerebbe tanto eccessivo punire l’incendiario appiccando il fuoco alla suacasa quanto insufficiente castigare il ladro prelevando dal suo conto in banca una somma equivalente. Ammettiamo pure che sia giusto e necessario compensarel’assassinio della vittima con la morte dell’assassino. Ma l’esecuzionecapitale non è semplicemente la morte. È tanto diversa, nella propria essenza, dalla privazione della vita quanto lo è il campo di concentramento dal carcere. È un assassinio, senza dubbio, che ripaga in forma aritmetica l’assassinio commesso. Ma aggiunge alla morte un regolamento, una premeditazione pubblica e conosciuta dalla futura vittima, un’organizzazione infine, che di per se stessa è fonte di sofferenze morali più atroci della morte. Non c’è dunque equivalenza.
[…]
È questa, si dirà, la giustizia umana, sempre preferibile all’arbitrio, nonostante le sue imperfezioni. Ma questo malinconico apprezzamento è tollerabile soltanto per le pene ordinarie. È scandaloso riguardo alle sentenze di morte. Un’opera classica di diritto francese, per giustificare l’impossibilità della pena di morte di essere suscettibile di gradazioni, così scrive: «La giustizia umana non ha affatto l’ambizione di garantire questa proporzione. Perché? Perché sa di essere inadeguata». Dobbiamo dunque concludere che questa inadeguatezza ci autorizza a pronunciare un giudizio assoluto e che, nel dubbio di poter realizzare la pura giustizia, la società deve precipitarsi, con i più gravi rischi, verso la suprema ingiustizia? Se la giustizia sa di essere inadeguata, non le converrebbe mostrarsi moderata, e lasciare alle sue sentenze margini sufficienti affinché l’eventuale errore possa essere rimediato? Questa debolezza in cui la giustizia trova per se stessa, in maniera permanente una circostanza attenuante, non dovrebbe concederla sempre anche al criminale? Una giuria può forse dire in coscienza: «Se la faccio morire per errore, lei mi perdonerà considerando la debolezza della nostra comune natura. Ma io lac ondanno a morte senza tener conto né di questa debolezza, né di questa natura»? Esiste una solidarietà di tutti gli uomini nell’errore e nello smarrimento. Questa solidarietà dovrebbe forse agire in favore dei tribunali e venir sottratta all’accusato? No, e se la giustizia ha un senso in questo mondo, null’altro significa se non il riconoscimento di questa solidarietà, che non può, per la sua stessa essenza, essere disgiunta dalla compassione. La compassione, s’intende, può esser qui solo il sentimento di una sofferenza comune, non una frivola indulgenza che non tenga in alcun conto né le sofferenze né i diritti della vittima. Non esclude il castigo, ma sospende l’estrema condanna. Le ripugna il provvedimento definitivo, irreparabile che, non contemplando la miseria della condizione comune, si dimostra ingiusto verso l’umanità intera.
[…]
Di fronte al delitto, come si definisce effettivamente la nostra civiltà? La risposta è semplice: da trent’anni a questa parte i delitti di Stato superano di gran lunga i delitti individuali. Non parlo neppure delle guerre, mondiali o locali che siano, benché il sangue sia un alcol che, a lungo andare intossica come il più generoso dei vini. Ma il numero degli individui uccisi direttamente dallo Stato ha assunto proporzioni astronomiche e supera infinitamente quello dei delitti individuali. Continuano a diminuire i condannati per reati comuni e ad aumentare i condannati politici. Lo dimostra il fatto che ognuno di noi, per quanto rispettabile, può contemplare l’eventualità di essere un giorno condannato a morte, eventualità che all’inizio del secolo sarebbe apparsa ridicola. […]
Quelli che fanno versare la maggiore quantità di sangue sono gli stessi che credono di avere dalla loro parte il diritto, la logica, e la storia.
Non è dall’individuo ma dallo Stato che oggi la società deve difendersi. È possibile che tra trent’anni le proporzioni siano rovesciate. Ma, per il momento, la legittima difesa deve opporsi soprattutto allo Stato. La giustizia e la convenienza più realistica esigono che la legge protegga l’individuo contro uno Stato in preda alle follie del settarismo o dell’orgoglio. “Che cominci lo Stato abolendo la pena di morte” dovrebbe essere, oggi, il grido che ci unisce».

Albert Camus

 

L’immagine in evidenza:

Omaggio a Camus del pittore messicano Eduardo Pola (1998)


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 20-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Antoine De Saint-Exupéry (1900-1944) – Rispetto dell’Uomo! Rispetto dell’Uomo! … Ecco la pietra di paragone! Una civiltà si fonda prima di tutto nella sostanza.

Rispetto

LETTERA A UN OSTAGGIO_Layout 1

 

Logo-Elliot_240x240

 

«Rispetto dell’Uomo! Rispetto dell’Uomo! … Ecco la pietra di paragone! Quando il nazista rispetta esclusivamente chi gli somiglia, non rispetta altro che se stesso. Egli rifiuta le contraddfizioni creatrici, rovina ogni speranza di ascesa e fonda per mille anni, al posto di un uomo, il robot di un termitaio.
L’ordine per l’ordine castra l’uomo del suo potere essenziale, che è di trasformare sia il mondo che se stesso.

La vita crea l’ordine, ma l’ordine non crea la vita.

[…] Riconosciamo essere dei nostri anche quelli diversi da noi.

Ma quale strana parentela! Si fonda sull’avvenire, non sul passato. Sul fine, non sull’origine. Siamo l’uno per l’altro come dei pellegrini che, per sentieri diversi, procedono a stento verso lo stesso appuntamento.

Ma ecco che oggi il rispetto dell’uomo, condizione della nostra ascesa, è in pericolo. I cedimenti del mondo moderno ci hanno spinto nelle tenebre. […]

Il viaggiatore che valica la sua montagna nella direzione d’una stella, se si lascia troppo assorbire dai suoi problemi di scalata rischia di dimenticare quale stella lo guida. Se agisce solo per agire non andrà da nessuna parte. […] Così se mi irrigidisco in qualche passione partigiana, rischio di dimenticare che una politica ha senso solo a condizione di essere al servizio di un’evidenza spirituale. Abbiamo assaggiato, in momenti miracolosi, una certa qualità delle relazioni umane: questa è per noi la verità.

Qualunque sia l’urgenza dell’azione ci è vietato dimenticare la vocazione che deve comandarla, in caso contrario quell’azione resterà sterile. Vogliamo fondare il rispetto dell’uomo. […] Io posso combattere, in nome della mia strada, la strada scelta da un altro. Posso criticare i passi della sua ragione. I passi della ragione sono incerti. Ma devo rispettare quell’uomo, sul piano dell Spirito, se lui si affanna verso la sua stella.

Rispetto dell’Uomo! Rispetto dell’Uomo! […]
Se il rispetto dell’uomo è fondato nel cuore degli uomini, essi finiranno proprio per fondare di rimando un sistema sociale, politico o economico che consacrerà quel rispetto.
Una civiltà si fonda prima di tutto nella sostanza».

Antoine De Saint-Exupéry, Lettera a un ostaggio. Bisogna dare un senso alla vita degli uomini (1943), Elliot Edizioni.

Risvolto di copertina
Insieme a “Terra degli uomini”, “Lettera a un ostaggio” rappresenta il punto più alto dell’opera di Saint-Exupéry sia sotto il profilo letterario ed emozionale che nella visione filosofica della vita, che può riassumersi nell’affermazione: “Non c’è che un problema, uno solo, in tutto il mondo: restituire agli uomini un significato spirituale”. Scritta durante il suo viaggio d’esilio verso gli Stati Uniti, in fuga dalla Francia occupata, pensando a Leon Werth, l’amico a cui aveva dedicato “II Piccolo Principe”, “Lettera a un ostaggio” nasce dalla preoccupazione dell’autore per il pericolo di un esasperarsi dell’intolleranza che la guerra aveva portato alla luce. Dietro il filo dei pensieri, si sviluppa una linea melodica costante che ha per guida l’immagine del sorriso, reso possibile dalla coscienza e dall’impegno a essere in ogni momento quello che si è, per se stessi e per la comunità in cui si è inseriti. Questo testo è stato definito “il poema della restaurazione del sorriso”. Dello stesso tenore è il secondo scritto contenuto in questo volume, bisogna dare un senso alla vita degli uomini, che fa parte di una raccolta di saggi intitolata “La pace o la guerra”, pubblicata originariamente su “Paris Soir” all’inizio dell’ottobre 1938.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 18-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Johannes Baptist Lotz (1903-1992) – La solitudine è esperienza dell’uomo in quanto uomo

solitudine

 

«Lungo la sua storia, l’uomo è accompagnato da alcune esperienze fondamentali, entro le quali si svolgono le linee della sua esistenza […]. Tra queste esperienze fondamentali la solitudine occupa un posto di primo piano, perché non è estranea ad alcuna epoca, e insorge in tutti i tempi, per quanto questi possano differire tra di loro in tutto il resto […]. Ma perché l’esperienza della solitudine è così indissolubilmente legata con l’esistenza umana? Perché tale esperienza scaturisce da quel centro esistenziale dell’uomo, che sopravvive a tutte le vicende storiche e costituisce il nucleo più intimo e l’estrema profondità del proprio essere. Perciò la percezione della solitudine mette in piena luce l’intera grandezza e quindi anche il tremendo pericolo, in definitiva il mistero imperscrutabile, dell’uomo in tutta la sua portata. Sotto questo punto di vista la solitudine rientra tra quei temi eterni, che sono inesauribili quanto l’uomo».

Johannes Baptist LotzDella solitudine dell’uomo: la situazione spirituale dell’epoca della tecnica, Edizioni paoline, 1964.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 18-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.

Spinoza 005
Spinoza, Etica

Spinoza, Etica

«[…] noi non possiamo mai fare in modo da non aver bisogno di niente fuori di noi per conservarci nel nostro essere, e da vivere senza alcun commercio con le cose esterne; e se, inoltre, consideriamo la nostra Mente, il nostro intelletto sarebbe certamente più imperfetto se la Mente fosse sola e non comprendesse null’altro se non se stessa. Vi sono dunque molte cose fuori di noi che ci sono utili e che perciò dobbiamo desiderare. Fra queste, non se ne possono pensare altre più eccellenti di quelle che concordano interamente con la nostra natura. […]

All’uomo, quindi, niente è più utile dell’uomo; gli uomini, cioè, non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le Menti e i Corpi formino quasi una sola Mente e un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune; da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli».

Baruch Spinoza, Etica [Parte IV, Proposizione XVIII, Scolio], a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, 1972, p. 282.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 18-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Edoarda Masi (1927-2011) – Una «rivoluzione culturale»: utopia necessaria nella società di oggi, che assume il profitto a valore dominante e universale, così come predicano gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato».

Masi Edoarda

masi+contestazione+cinese

Sono passati [cinquanta; ndr] anni dall’inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa.
Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta impossibile.
Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subìto anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore nell’ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell’interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimeeliabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti. […]
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale – come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà … come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ‘62, lanciate dalle città d’Europa in Africa, in Asia: «Partenone! Fraternità!», risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei «variopinti legami» della società feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista.
Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano «mercato» per non usare il termine «capitale», che sarebbe più corretto.
Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l’ingresso. Si era arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale anche nell’Unione sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conciusioni alle quali, per altra via, è giunto lstvàn Mészàros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguime la strada: quelli che oggi sono al potere.
Come già da un pezzo e ripetutamente è stato dimostrato, il degrado e la distruzione, l’allargamento oltrermisura della forbice che divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre più rigida, la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri – la stragrande maggioranza – non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, né residui di un passato di «arretratezza» da superare, ma il risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza.
Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana.
Più si aggrava l’infelicità della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell’assenza di umanità, della solidarietà ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi della borghesia, più diventa indispensabile per quest’ultimo che la massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di un’alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a milioni nel corso di due secoli. […]
Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta già in quegli anni lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che avevano posto con grande libertà le questioni del rapporto fra dirigenti e diretti, fra partito e popolo, fra stato e indiividuo; fra colti e incolti; fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi lavora.
Nelle grandi città industriali e nei loro hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione «orizzontale», di gestione decentrata del territorio, di imprese miste agricolo- industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di gestione «dal basso». […]
Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato». La sola cosa possibile, allora, è di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi documenti, ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilità qui e ora.

Edoarda Masi, Articolo pubblicato su il manifesto del 25 maggio 2005.

 

Cento capolavori della letteratura cinese

Cento capolavori della letteratura cinese

 

Il libro da nascondere

Il libro da nascondere

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 18-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Hélder Pessoa Câmara (1909-1999) – Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo, prendi il largo!

Camara

 

Se sogniamo insieme ...

Se sogniamo insieme …

«Quando il tuo battello
comincerà a mettere radici
nell’immobilità del molo,
prendi il largo!».

 

 

Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.

Se uno sogna da solo, il suo rimane un sogno; se il sogno è fatto insieme ad altri, esso è già l’inizio della realtà.

Felice è colui che comprende che è necessario rinnovarsi molto, per essere sempre lo stesso.

 

 

Hélder Pessoa Câmara

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 18-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


 

***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Nikolaj Gavrilovič Černyševskij (1828-1889) – Bellezza è la vita come dovrebbe essere nella intera realtà, al punto di diventare necessità.

Cernysevskij 001

Che Fare?

«Bellezza è la vita come dovrebbe essere
nella intera realtà,
al punto di diventare necessità. […]
E l’amore, tu lo sai,
non è che il desiderio di veder felice chi si ama.
Ora, senza libertà non esiste amore».

 

578856_477415642278151_1011473782_n-1

Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, Introduzione di Eleonora Fiorani e Francesco Leonetti. Traduzione di Federico Verdinos, Garzanti, 1974 (2004).

Risvolto di copertina

Mosso dalla sua opposizione all'idealismo, Cernysevskij pose alla base del romanzo Che fare? il rapporto uomo-donna inteso come rapporto basilare della società, attraverso il quale filtrò e analizzò i problemi del vivere sociale: uguaglianza tra i sessi, organizzazione del lavoro, analisi critica delle convenzioni. Questo romanzo sociale, scritto nel 1863 nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo – dove lo scrittore era stato rinchiuso per la sua attività e i suoi scritti critici sovversivi – ebbe una straordinaria efficacia rivoluzionaria, specie tra i giovani. Fu conosciuto attraverso copie clandestine e apparve integralmente e pubblicamente solo nel 1905.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 18-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


 

***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Josè Saramago (1922-2010) – Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia

Saramago 01

 

«Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia. Il concetto di felicità presuppone che uno sia contentissimo, che se ne vada in giro ridendo, abbracciando tutti, dicendo sono felice, che meraviglia. È chiaro che anche un mal di denti gli toglierà la gioia e, quindi, la felicità.
Penso che la serenità sia una cosa diversa. La serenità ha molto dell’accettazione, ma include anche un certo autoriconoscimento dei propri limiti.
Vivere in armonia non significa non avere conflitti, ma poter convivere con gli stessi serenamente».

Josè Saramago

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 16-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


 

***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Simone Weil (1909-1943) – Il desiderio di luce produce luce: un tesoro che nulla al mondo ci può sottrarre.

Weil 009

 

Il desiderio di luce produce luce.

C’è vero desiderio quando c’è uno sforzo d’attenzione.

E si desidera realmente la luce

quando manca qualunque altro movente.

Se anche gli sforzi d’attenzione

rimanessero per noi apparentemente sterili,

un giorno una luce a essi esattamente proporzionale

infonderà l’anima.

Ogni sforzo aggiunge un po’ d’oro

a un tesoro che nulla al mondo ci può sottrarre.

 

                                       Simone Weil


Simone Weil (1909-1943) – Silenzi che educano l’intelligenza

Simone Weil, «Oppressione e libertà», Orthotes Editrice, 2015

Simone Weil (1909-1943) – Trovare uomini che amino la verità


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 16-05-2016


 


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


 

***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Articolo 33 – Il libro di Mauro Magini, «Il mio amico Platone».

Magini 005

 Mauro Magini 

Il mio amico Platone
Riflessioni su società, religione, vita

245 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi  

 

Mauro Magini è nato a Orciano di Pesaro nel 1941 e attualmente vive a Roma. Laureato in chimica e già ricercatore dell’Enea, dove ha pubblicato numerosi studi su riviste scientifiche internazionali. Ha inoltre pubblicato, con la moglie Maria Teresa Pellegrini, manuali di chimica per le scuole superiori. Questa è la sua prima opera in cui affronta questioni esistenziali. Militante attivo della Comunità di base di San Paolo, crede in una religione che libera le coscienze e non le opprime come purtroppo succede quasi sempre in tutte le religioni.

articolo-33-supplemento-digitale-alla-rivista-2Mauro Magini ha raccolto in questo libro i suoi scritti, composti in tempi diversi. Su argomenti diversi tra loro. Coprono infatti un arco di circa quaranta anni, a partire dagli anni Settanta del Novecento ad oggi. Si tratta di riflessioni sulle grandi questioni della vita e del mondo: la società, le guerre, il terrorismo, la corruzione politica. Il filo che lega i vari passaggi è l’approfondimento dei temi etico-religiosi che caratterizzano il nostro tempo. Il percorso inizia con i referendum sul divorzio e sull’aborto, per passare poi al tema della corruzione, all’etica, alla ricerca. Una attenta analisi sul terrorismo caratterizza la riflessione sul secolo che stiamo vivendo, con proposte sul pacifismo e la collaborazione tra i popoli. Affrontata in maniera ampia è la questione religiosa. Mauro Magini è un chimico, viene quindi da una formazione scientifica. Militante attivo della Comunità di base di San Paolo, crede fermamente in una religione che libera le coscienze e propone un terreno di condivisione non conflittuale tra scienza e religiosità. Si confronta nelle pagine del suo libro con importanti pensatori come Hans Küng, Raimon Panikar, Vito Mancuso. Per chiudere, alcune poesie intimiste.

Articolo33

Articolo 33, Anno VIII, N. 3-4, Marzo-Aprile 2016, p. 88.

 

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 16-05-2016


 


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


 

***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

1 2 3 4 6