«Chi non sa rendersi conto di tremila anni
resta all'oscuro,
ignaro, vive alla giornata».
J. W. Goethe, 1788
L’infinito: un equivoco millenario.
«Molte parole sono giunte sino a noi, come diremo, attraverso gli incontri dei popoli.
Altra è però l’oralità che si identifica con la creazione quando è opera che muove fantasia, sentimento, estro, come il linguaggio della poesia o della preghiera.
Il ricordo delle opere e dei giorni fu in realtà fermato nella pietra come il grande blocco di diorite su cui sono incise le leggi di Hammurabi. Ciò che sappiamo di quei popoli del Vicino Oriente che crearono la prima grande civiltà come conquista perenne anche per l’Occidente noi possiamo leggerlo negli scritti che sono giunti sino a noi.
Nessun altro popolo celebrò con parole così vibranti il fascino della propria scrittura e chiamò le costellazioni scrittura dei cieli. E se i primordi culturali di altri popoli antichi hanno certo rilevanza conoscitiva, sono o possono essere arricchimento culturale, le creazioni dei popoli mesopotamici dal III millennio a.C. costituiscono invece per noi vita spirituale.
[…]
Ed ecco spalancarsi il paradiso dei miracoli sugli orizzonti dell’antico Eden. Vi sono parole fatte fluitare dalle onde di secoli remoti; giungono intatte sino a noi, ma non si possono accogliere solo col suono delle loro sillabe, occorre auscultarle acutamente per sentirvi dentro il loro segreto, come in una conchiglia si ascolta l’eco di oceani abissali.
Una di quelle parole che hanno sfidato i millenni è “mano”, dal latino manus.
Umberto Galimberti nel suo splendido Dizionario di psicologia (Utet, Torino 1994, p. 562) evocò la definizione kantiana della “mano” come proiezione esterna della mente. Manus, che non ebbe un’etimologia, ha il suo antecedente nell’antico accadico manû (calcolare, computare). Ne risulta la mano come strumento naturale del computo per indigitazione, quale emerge nei libri di matematica sino al Settecento.
A quella antica parola accadica manû ci riconduce una lunga serie di parole greche, latine, germaniche.
Il greco méne (luna), l’astro che guida i cicli biologici e segna i ritmi dei giorni: greco mén (mese). A méne, “luna”, ci richiama ilgotico mena, antico alto tedesco mano, anglosassone mona.
Il valore semantico di accadico manû (calcolare) torna in voci greche col senso di “ricordare”, “aver senso”: greco mévoç; (spirito, mente), e ovviamente in latino mens (mente), nell’inglese mean, germanico occidentale *mainjan.
La voce anglosassone, inglese, svedese hand (mano) conferma l’idea della mano come strumento di computo: hand appare con timbro oscurato in inglese hund-red.
Hand si identifica con il greco –kónta (un duale che denota le due mani, “dieci”) e con la base di greco ekatón (cento), ove la sillaba iniziale ha il senso di “venti”: eíkosi. La base di hand risale attraverso –katón ad accadico qatu (mano).
La nostra ignoranza delle antiche sorgenti ci ha precluso di conoscere la storia delle parole che vengono su dal cuore. Così il greco époç; (amore) che ritrova il suo antecedente in una voce antica che lo evoca come “desiderio”: accadico eresu (oggetto di desiderio), assiro erasu (desiderare).
Per la storia di Liebe (amore), antico alto tedesco liubi, luba, bastò il richiamo al latino libet, lubet, del quale nulla si seppe. Ci soccorre, in questo caso, l’accadico libbu, semitico lubb, libb, aramaico lebab (cuore, sentimento, amore).
Così per migliaia e migliaia di voci restate senza storia e che ritrovano rifugio nei lemmi dei Dizionari etimologici del mio Le origini della cultura europea (4 voll., Olschki, 1984-1994)».
Giovanni Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, 2001, pp. 4-6.
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Sargon I° (2334 – 2279)
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