Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.

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Il principio speranza

«Tutto ciò che vive, dice Goethe, ha un’atmosfera intorno a sé; tutto ciò che è reale, poiché è vita e processo, e poiché può essere correlato della fantasia obiettiva, ha un orizzonte. Uno interiore, per così dire estendentesi verticalmente, nella propria oscurità, e uno esteriore di grande ampiezza, nella luce del mondo; ed entrambi gli orizzonti nei loro recessi sono riempiti della stessa utopia, di conseguenza identici nell’ultimum.

Lì dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.

Dove invece si ha costantemente di mira anche l’orizzonte prospettico, il reale si manifesta come ciò che esso è in concreto: come intreccio di processi dialettici, che si svolgono in un mondo incompiuto, in un mondo che non sarebbe assolutamente mutabile senza il gigantesco futuro della possibilità reale in esso. Insieme con quel totum che non rappresenta il tutto isolato di una sezione di processo di volta in volta dato, ma invece l’intero della cosa che in generale è pendente nel processo, dunque che è costituita ancora secondo tendenza e in maniera latente.
Questo soltanto è realismo […] La realtà senza possibilità reale non è completa, il mondo senza peculiarità gravide di futuro merita tanto poco uno sguardo, un’arte, una scienza, quanto il mondo del piccolo-borghese.
L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà; la possibilità reale circonda fino alla fine le tendenze-latenze dialettiche aperte. Da queste viene attraversato in maniera autenticamente realistica il movimento non concluso della materia non conclusa, e il movimento è, secondo il profondo detto di Aristotele, “entelechia incompiuta”*».

 

Ernst Bloch, Il principio speranza, 3 vol., Garzanti, 1994, vol. I, pp. 262-263.

***
Risvolto di copertina

Il principio speranza è una delle imprese filosofiche più ambiziose del Novecento: un secolo sorto sotto il segno di un'immotivata fede nell'onnipotenza dei progetti globali della storia, e che si è chiuso nella percezione disincantata di un futuro imprevedibile, improgrammabile e quanto mai incerto. Contrapposto all'attualità e all'ideologia della «fine della storia», Il principio speranza – che fonda la sua ontologia sulla potenzialità dell'essere e sull'apertura al cambiamento – risulta oggi audacemente inattuale ma ricchissimo di suggestioni su temi sempre aperti. Nelle cinque parti che costituiscono il suo capolavoro (iniziato nel 1938 e dato alle stampe per la prima volta nel 1959) Bloch esplora la dimensione utopica del pensiero in tutte le sue molteplici manifestazioni: oltre il «principio del piacere» delle vecchie utopie, ma anche oltre il «principio di realtà», inteso come passiva accettazione del già-dato. Gran parte del Principio speranza è dedicata a una fenomenologia degli stati utopici della coscienza: dai desideri più profondi dei singoli alle opere d'arte e ai grandi miti collettivi, fino alle forme che si annunciano nell'arte di consumo. In tutte queste forme, attraverso una «ontologia del non ancora», si delineano i tratti di una realtà conciliata che servono da guida e da orientamento per l'azione storica. In questo senso, Il principio speranza individua un possibile antidoto al nichilismo e all'angoscia: senza promettere redenzione e salvezza, senza confondere la caduta di alcuni idoli con la caduta degli ideali.

 

*Aristotele, Fisica 257b8

 


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Ernesto Che Guevara (1928-1967) – 1951 … adesso sapevo che io starò con il popolo. E preparo il mio essere come un tempio sacro in cui risuoni di nuove vibrazioni e nuove speranze il grido del proletariato.

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«Leggete questi appunti,
scritti con tanto amore, freschezza e sincerità,
che più di ogni altra cosa
mi hanno fatto sentire vcina a mio padre.
Vi lascio quindi con l'uomo che ho conosciuto
e che amo profondamente per la forza e la tenerezza
che ha dimostrato di possedere
con il suo modo di vivere»


Aleida Guevara March
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E. Guevara nel 1951

Annotazione al margine

«Le stelle punteggiavano di luci il cielo di quel villaggio di montagna e il silenzio e il freddo rendevano immateriale l’oscurità. Era – non so bene come spiegarlo – come se ogni sostanza solida si volatilizzasse nello spazio etereo che ci circondava, privandoci dell’individualità e fondendoci, intirizziti, a quel buio immenso. Non vi era una sola nube che, carpendo una porzione di cielo stellato, desse una qualche prospettiva allo spazio. A pochi metri appena, la funerea luce di un lampione stemperava le tenebre circostanti.
li volto dell’uomo si perdeva nell’ombra, emergevano soltanto lo scintillio dei suoi occhi e il candore dei quattro denti anteriori. Tuttora non saprei dire se fu l’ambiente o la personalità di quell’individuo che mi preparò a ricevere la rivelazione, ma so che gli stessi argomenti li avevo sentiti molte altre volte espressi da differenti persone e mai mi avevano impressionato. In realtà, era un tipo interessante, il nostro interlocutore; fuggito ancor giovane da un paese d’Europa per non cadere sotto il pugnale del dogma, conosceva il sapore della paura (una delle poche esperienze che portano a valorizzare la vita), poi, passando di paese in paese e attraversando migliaia di avventure, aveva finito col posare le sue ossa in quel luogo dimenticato e lì aspettava pazientemente il momento del grande evento.
Dopo le frasi banali e i luoghi comuni con cui ciascuno spiegò la propria posizione, quando ormai languiva la discussione ed eravamo sul punto di separarci, buttò lì, con lo stesso sorriso di ragazzo picaro che non lo abbandonava mai, accentuando la disparità dei suoi quattro denti incisivi: «L’avvenire è del popolo che, a poco a poco o in un sol colpo, conquisterà il potere qui e su tutta la terra. Il peggio è che deve civilizzarsi, e questo non può realizzarsi prima, ma dopo averlo preso. Si civilizzerà solo imparando dai propri errori, che saranno anche gravi, e costeranno molte vite innocenti. O forse no, forse non saranno innocenti perché avranno commesso l’enorme peccato contro natura di non avere capacità
di adattamento. Tutti loro, tutti i disadattati, anche lei e io, per esempio, moriranno maledicendo il potere che hanno contribuito a creare con il proprio sacrificio, a volte immenso. È che la rivoluzione, con la sua forma impersonale, prenderà la loro vita e persino ne utilizzerà la memoria, che resterà come esempio e strumento di dottrina per i giovani che verranno. Il mio peccato è ancor più grande, perché io, più accorto o con maggior esperienza, la chiami come preferisce, morirò sapendo che il mio sacrificio obbedisce soltanto a un’ostinazione simbolo della civiltà putrefatta che si sta sgretolando, e che per lo stesso motivo, senza che per questo ne venga modificato il corso della storia, e neppure l’impressione che si è fatto di me, lei morirà con il pugno chiuso e la mascella serrata, in una perfetta rappresentazione dell’odio e della lotta, perché non è un simbolo (qualcosa di inanimato che si prende come esempio), lei è parte integrante della società che sta crollando: lo spirito del branco parla attraverso la sua bocca e si muove nei suoi gesti; lei è acuto quanto me, però ignora quanto sia utile l’apporto che dà alla stessa società che lo sacrifica».
Vidi i suoi denti e la smorfia picaresca con cui anticipava la storia, sentii la stretta delle sue mani e, come un mormorio ormai lontano, il formale saluto di commiato. La notte, svanita al contatto delle sue parole, tornava ad avvolgermi, confondendomi in lei; però, malgrado le sue parole, adesso sapevo … sapevo che nel momento in cui il grande spirito che governa ogni cosa darà un taglio netto dividendo l’umanità intera in due sole parti, antagoniste, io starò con il popolo, e lo so, perché lo vedo impresso nella notte, che io, eclettico sezionatore di dottrine e psicoanalista di dogmi, urlando come un ossesso, assalterò barricate o trincee, tingerò di sangue la mia arma e, come impazzito, sgozzerò ogni nemico mi si parerà davanti. E mi vedo, come se una stanchezza infinita stesse già esaurendo questa mia esaltazione, cadere immolato per l’autentica rivoluzione uniformatrice di volontà, pronunciando un mea culpa esemplare. Già sento dilatarsi le mie narici, assaporando l’odore acre della polvere e del sangue, della morte nemica; già si contrae il mio corpo, pronto al combattimento, e preparo il mio essere come un tempio sacro in cui risuoni di nuove vibrazioni e nuove speranze il grido belluino del proletariato trionfante» [1951].

 

Ernesto Che Guevara, Latinoamerica. I diari della motocicletta [1951], Mondadori, 2016. pp. 172-174.

 

 

 

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Risvolto di copertina
Dicembre 1951. Due giovani studenti di medicina argentini, Ernesto Guevara de la Serna e Alberto Granado, partono in sella a una sgangherata motocicletta, pomposamente battezzata "Poderosa", per attraversare l'America Latina. In quei sette mesi di avventure e incontri, destinati a forgiarli per sempre, toccheranno mille luoghi, dalle rovine di Machu Picchu al lebbrosario di San Pablo. Durante il viaggio Ernesto raccoglie appunti e, una volta rientrato, li riordina in un diario che è ormai un mito, l'opera più celebre del Che, un libro di culto letto e amato da almeno tre generazioni. Queste pagine svelano lo sguardo fresco ma già critico e intelligente dell'uomo destinato a diventare, di lì a poco, il comandante Che Guevara; contengono i mille volti dell'America, la miseria degli Indios e la folgorante bellezza del paesaggio; raccontano il desiderio di conoscere, esplorare, capire, emozionarsi come solo a vent'anni si può, mentre la moto perde pezzi per strada e due ragazzi si trasformano in uomini. Come scrisse Guevara riflettendo su quell'esperienza, «quel vagare senza meta per la nostra "Maiuscola America" mi ha cambiato più di quanto credessi».

 


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Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

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Incontro con Aristotele

Giulio Einaudi Editore

Mario Vegetti e Francesco Ademollo,
Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi, 2016.

 

«Aristotele era certamente un pensatore sistematico, ma non nel senso che il suo intento principale fosse quello di produrre una compagine teorica totalizzante, chiusa e definitiva: si trattava piuttosto – secondo la definitizione di Ingemar Düring – di un filosofo Problemsystematiker, cioè impoegnato nello sforzo metodico di affrontare e risolvere i problemi posti dalla comprensione del mondo naturale e umano, e dalla costruzione dei relartivi saperi. Rispetto a questo lavoro sulle questioni della conoscenza, il sistema costituiva semmai un orizzonte tendenziale di unificazione. Ma è segno della grandezza intellettuale del filosofo il fatto che egli non trucchi mai le sue carte: i problemi irrisolti, o risolti solo in modo provvisorio e non del tutto soddisfacente, l’esigenza di ulteriori ricerche e precisazioni, vengono da lui spesso segnalati. […] La potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci […]».

 

 

 

Mario Vegetti e Francesco Ademollo, Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi, 2016, pp. VIII, IX.

Risvolto di copertina

Aristotele è stato il maggiore testimone di quell'appassionato desiderio di conoscenza che egli, nelle prime righe della Metafisica, riconosce come una tensione comune a tutti gli uomini, come un segno precipuo della loro umanità. Di fronte al suo immenso sforzo di soddisfare questo desiderio, per sé e per la tradizione cui apparteniamo, è difficile non provare quell'emozione che accompagna sempre l'incontro con le grandi esperienze dell'intelligenza umana, e, nel nostro caso, con l'imponenza di un'impresa del pensiero che si stenta a concepire come dovuta al lavoro di un solo uomo. Questo libro si propone di introdurre il lettore nel laboratorio intellettuale in cui questa impresa è stata realizzata. Il suo scopo è di condurre a una comprensione critica dell'edificio di pensiero costruito da Aristotele, nella sua complessità, nel suo senso d'insieme, e anche nelle questioni che esso lascia aperte. «Incontrare Aristotele» significa dunque disporsi a un ascolto non pregiudicato e non «scolastico» della sua lezione: una lezione che è ancora in grado di parlarci e di suscitare consenso o dissenso, di non lasciarci indifferenti di fronte a quello che è stato uno dei maggiori sforzi filosofici di comprensione del mondo che la nostra tradizione ci abbia trasmesso.

 

 

Immagine in evidenza:
Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, Aristotele che contempla il busto di Omero.


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Bruno Bettelheim (1903-1990) – Una lettura della fiaba «I tre porcellini». Non dobbiamo ingannare noi stessi: la lotta sarà lunga e difficile, e inciderà su tutte le nostre energie morali e spirituali, se vogliamo non un “nuovo mondo” alla Huxely, ma un’epoca dominata dalla ragione e dall’umanità.

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«Non dobbiamo ingannare noi stessi:
la lotta sarà lunga e difficile,
e inciderà su tutte le nostre energie morali e spirituali,
se vogliamo non un "nuovo mondo" alla Huxely,
ma un'epoca dominata dalla ragione e dall'umanità».


B. Bettelheim, Il prezzo della vita.
La psicanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani, 1976, p. 266.
La fiaba «I tre porcellini», nella versione di Joseph Jacobs (1854–1916)
C'erano una volta tre porcellini che vivevano con i genitori. I tre porcellini crebbero così in fretta che la loro madre un giorno li chiamò e disse loro: "Siete troppo grandi per rimanere ancora qui. Andate a costruirvi la vostra casa". Prima di andarsene da casa li avvisò di non fare entrare il lupo in casa: "Vi prenderebbe per mangiarvi!" E così i tre porcellini se ne andarono. Presto la strada si divise in tre parti. Il Porcellino Grande spiegò che ognuno di loro avrebbe dovuto scegliere una direzione. Li avvisò del lupo e poi andò a sinistra. Il Porcellino Medio andò a destra e quello piccolo nella via centrale. Sulla sua strada il Porcellino Piccolo incontrò un uomo che portava della paglia. "Per piacere, dammi un po' di paglia!" disse "Voglio costruirmi una casa". In poco tempo costruì la sua casa e pensò di essere salvo dal lupo. La casa non era molto bella e nemmeno fatta bene ma a lui piaceva molto. Gli altri due porcellini se ne andarono assieme e presto incontrarono un uomo che portava della legna. "Costruirò la mia casa con il legno" disse il Porcellino Medio "Il legno è più resistente della paglia". Il Porcellino Medio lavorò duramente tutto il giorno per costruire la sua casa. "Adesso il lupo non mi prenderà e non mi mangerà" disse. Il Porcellino Grande camminò per conto suo. Presto incontrò un uomo che trasportava mattoni. "Per piacere, dammi un po' di mattoni" disse il Porcellino Grande "Voglio costruirmi una casa." Così l'uomo gli diede dei mattoni per costruire una bella casa. "Ora il lupo non potrà prendermi per mangiarmi" pensò. Il giorno dopo il lupo arrivò alla casetta di paglia: " Porcellino, porcellino, fammi entrare" gridò il lupo. Ma il Porcellino Piccolo sapeva che era il lupo e non lo lasciò entrare. Ma il Porcellino Piccolo sapeva che era il lupo e non lo lasciò entrare. Ma il lupo cominciò a sbuffare stizzito. E sbuffava e sbuffava e buttò giù la casetta del Porcellino Piccolo. Poi se lo mangiò in un baleno. Il giorno seguente il lupo andò a casa del Porcellino Medio e bussò alla sua porta. "Chi è?" chiese. "Tuo fratello" rispose il lupo. Ma il Porcellino Medio sapeva che non si trattava del fratello e non aprì al lupo. Così questi sbuffò stizzito e buttò giù la casa del Porcellino Medio. La casa di legno cadde e il lupo se lo mangiò. Il giorno dopo il lupo arrivò alla casa di mattoni e gridò: "Porcellino, Porcellino, fammi entrare!" Ma il Porcellino Grande rispose: "No, non ti farò entrare!" quando improvvisamente sentì bussare nuovamente alla porta. "Apri la porta e vedrai chi sono!" disse il lupo con una vocetta. Quindi il lupo cominciò a sbuffare e sbuffare ma non riuscì a buttare giù la casa. Il lupo era furibondo! Gridava: "Porcellino, Porcellino, scenderò per il camino e ti mangerò!" Il Porcellino era spaventato ma non rispose. Dentro casa c'era una grossa pentola sopra il fuoco del camino. L'acqua stava per bollire. Il lupo si calò dal camino. Siccome non c'era il coperchio sulla pentola il lupo vi ruzzolò dentro e finì nell'acqua bollente. E questa è la fine del lupo cattivo e la storia di tre piccoli porcellini.

Per diverse versioni dei Tre porcellini vedi Katherine M. Briggs (18981980), A Dictionary of British Folk Tales, 4 voll., Indiana University, Bloomington, 1970. La trattazione da parte di B. Bettheleim di questa fiaba si basa sulla sua più antica forma pubblicata nel libro di J. O. Halliwell (1820-1889), Nursery Rhymes ad Nursery Tales, London, 1843 circa. Soltanto in alcune delle più recenti versioni della storia i due porcellini più giovanbi sopravvivono, e questo priva la storia di gran parte del suo impatto.


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«La fiaba I tre porcellini insegna in forma molto divertente e drammatica al bambino […] che non dobbiamo essere pigri e prendercela comoda, perché altrimenti potremmo perire. L’intelligente programmazione e la previdenza unite al duro lavoro ci permetteranno di trionfare anche sul nostro più feroce nemico: il lupo! La storia mostra anche […] che il terzo porcellino, [è] quello più saggio, [ed] è solitamente presentato come […] il più anziano.
Le case che i tre porcellini costruiscono simboleggiano il progresso dell’uomo nella storia: prima una baracca e poi una casa di legno, e per finire una solida casa di mattoni. Internamente, le azioni dei porcellini rivelano un progresso dalla personalità […]. Il porcellino piu piccolo costruisce la sua casetta nel modo più sbrigativo, con della paglia; il secondo si serve di bastoni; entrambi tirano su i loro rifugi con la massima fretta e col minimo dispendio di energie, così da poter giocare per il resto della giornata. […] Il porcellino più piccolo cerca un’immediata gratificazione, senza darsi pensiero del futuro e dei pericoli della realtà, mentre il porcellino mediano dà prova di maggiore maturità cercando di costruire una casa un po’ più solida di quella del porcellino più piccolo.
Soltanto il terzo porcellino […] ha imparato ad agire in conformità col principio di realtà: egli […] agisce invece conformemente alla sua capacità di prevedere quello che può accadere nel futuro. È perfino in grado di prevedere correttamente il comportamento del lupo: il nemico […] che cerca di sedurci e di prenderei in trappola; perciò il terzo porcellino può sconfiggere potenze piu forti […] di lui. Il selvaggio e distruttivo lupo rappresenta tutte le forze asociali, inconsce e divoranti da cui l’individuo deve imparare a difendersi, e che egli può sconfiggere […].
I tre porcellini colpisce molto di più […] che non la favola di Esopo, affine ma apertamente moralista, La cicala e la formica. In questa favola una cicala, ridotta alla fame in inverno, supplica una formica di darle un po’ del cibo da lei faticosamente raccolto e immagazzinato
durante l’intera estate. La formica chiede alla cicala cosa fece durante l’estate. La cicala risponde che cantò senza mai lavorare, e la formica respinge la sua richiesta d’aiuto dicendole: “Visto che hai cantato per tutta l’estate, adesso che è inverno balla pure”.
Questa chiusa è tipica delle favole […]. La fiaba, al contrario, lascia a noi ogni decisione […]. Sta a noi applicare la fiaba alla nostra vita […].
Un raffronto fra I tre porcellini e La cicala e la formica accentua la differenza fra una fiaba e una favola. La cicala, similmente ai porcellini e al bambino stesso, è decisa a trastullarsi, senza preoccuparsi molto del futuro. In entrambe le storie il bambino s’identifica con gli animali (anche se solo un ipocrita saputello può identificarsi con la spietata formica, e soltanto un bambino malato di mente col lupo); ma secondo la favola, una volta che il bambino si è identificato con la cicala può abbandonare ogni speranza. La cicala votata al principio di piacere non può aspettarsi che la rovina; è una situazione senza altre alternative, in cui l’aver fatto una scelta una volta sistema le cose per sempre.
Ma l’identificazione coi tre porcellini della fiaba insegna che ci sono degli sviluppi […] La storia dei tre porcellini suggerisce una trasiormazione in cui è mante nuta una notevole misura di piacere, perché ora la soddisfazione è rIcercata con autentico rispetto per le esigenze della realtà. L’astuto e gaio terzo porcellino mette nel sacco il lupo parecchie volte […]. Al bambino, che dal principio alla fine della storia è stato invitato a identificarsi con uno dei protagonisti, non solo s’infonde speranza ma viene anche detto che sviluppando la propria intelligenza potrà sconfiggere anche un avversario molto piu forte.
Dato che secondo il senso di giustizia dei primitivi […] dei bambini soltanto chi ha compiuto qualcosa di veramente cattivo viene distrutto, la favola [La cicala e la formica] sembra insegnare che è sbagliato godersi la vita quando il tempo è propizio, come d’estate. Peggio ancora, in questa favola la formica è un animale cattivo, senza la minima compassione per le sofferenze della cicala: ed è questa la figura che si chiede al bambino di prendere ad esempio.
Il lupo, al contrario, è manifestamente un animale malvagio, perché vuole distruggere. La cattiveria del lupo è qualcosa che il bambino piccolo riconosce nel proprio intimo: il suo desiderio di divorare, e la sua conseguenza: l’angoscia di poter subire anche lui una sorte del genere. […] Quale miglior dimostrazione del valore dell’agire in base al principio di realtà […] frustrando i malvagi disegni del lupo? […] I tre porcellini è una fiaba perché ha un lieto fine, e perché il lupo riceve quanto si merita.
Mentre la concezione della giustizia del bambino è offesa dal fatto che la povera cicala deve morire di fame pur non avendo fatto niente di male, il suo senso di onestà è soddisfatto dalla punizione del lupo. Dato che i tre porcellini rappresentano vari stadi dello sviluppo dell’uomo, la scomparsa dei primi due non è traumatica; il bambino comprende
a livello subconscio che dobbiamo emanciparci da forme piu primitive di esistenza se vogliamo passare a forme superiori. Chi racconta a dei bambini piccoli la fiaba dei Tre porcellini trova soltanto che essi si rallegrano per la meritata punizione del lupo e la vittoria, ottenuta con l’astuzia, del porcellino piu anziano: essi non sono dispiaciuti per la sorte dei due piu piccoli. Anche un bambino piccolo sembra comprendere che tutti e tre sono in realtà uno solo e il medesimo a differenti stadi, come è suggerito dal fatto che rispondono al lupo esattamente con le stesse parole: “No, no, no, per le setole del mio groppone!” Se sopravviviamo soltanto nella forma piu elevata della nostra identità, è bene che sia cosi.
I tre porcellini indirizza i pensieri del bambino relativi al suo sviluppo senza dirgli neppure come dovrebbe essere, permettendogli di trarre le proprie conclusioni. Questo processo basta da solo per una vera maturazione, mentre dire al bambino cosa deve fare non fa che
sostituire alla schiavitù rappresentata dalla sua immaturità la subordinazione ai dettami degli adulti».

Il mondo incantato

Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli, 1978, pp. 44-47.

***

Immagine in evidenza:
Richard Dadd (1817-1886), The fairy feller’s master-stroke, Tate Gallery, London.


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Marcel Proust (1871-1922) – La lettura diventa perniciosa quando, al posto di risvegliarci alla vita dello spirito, tende a sostituirsi ad essa.

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Proust, Il piacere della lettura

«Fintanto che la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi dischiudono al fondo di noi stessi dimore in cui non saremmo stati in grado di penetrare, il ruolo che essa svolge nella nostra vita è salutare. Diventa invece pernicioso quando, al posto di risvegliarci alla vita personale dello spirito, tende a sostituirsi ad essa, quando la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo tramite l’intimo progresso del nostro pensiero e lo slancio del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, depositato nelle pagine dei libri come un miele già distillato da altri, che dobbiamo solo prenderci la briga di attingere sugli scaffali delle biblioteche per poi degustarlo passivamente, in perfetto riposo di corpo e spirito».

 Marcel Proust, Il piacere della lettura, Feltrinelli, 2016, pp. 46-47.

 

Risvolto di copertina
Nel 1906 esce in Francia la traduzione proustiana di Sesamo e gigli di John Ruskin, accompagnata da una prefazione - Sulla lettura - nella quale Proust, prendendo le distanze dalle teorie del critico inglese, rende presente la sua idea di lettura, offrendoci un primo assaggio di quel peculiare stile di scrittura che troverà la sua massima espressione nella Recherche. Queste pagine, tra le più affascinanti che siano state dedicate all'attività di leggere, sono presentate insieme a un articolo, Giornate di lettura, pubblicato su "Le Figaro", dove - a dispetto del titolo - è un altro il magico oggetto in grado di evocare presenze e atmosfere assenti, il telefono, dispositivo all'epoca ancora estremamente raro e d'élite. È un piccolo esempio di scrittura mondana e d'occasione, un divertissement nel quale, tuttavia, traluce la capacità affabulatoria, ironica e ammaliante del primo Proust. Prefazione di Emanuele Trevi.

 

Marcel Proust – La lettura ci insegna ad accrescere il valore della vita

Marcel Proust – «Ogni lettore, quando legge, legge se stesso»

Marcel Proust (1871-1922) – Il libro essenziale esiste già in ciascuno di noi

Marcel Proust (1871-1922) – Leggere è comunicare

 


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Emily Dickinson (1830-1866) – Distilla un senso sorprendente da ordinari significati

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Dickinson, Poesie

Fu questo un poeta – colui che distilla
Un senso sorprendente da ordinari
Significati, essenze così immense
Da specie familiari.

Morte alla nostra porta
Che stupore ci assale
Perché non fummo noi
A fermarle per primi.

Rivelatore d’immagini,
È lui, il Poeta,
A condannarci per contrasto
Ad una illimitata povertà.

Della sua parte ignaro,
Tanto che il furto non lo turberebbe,
È per se stesso un tesoro
Inviolabile al tempo.

                                          Emily Dickinson

 

 

Dickinson, Mondadori

 


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Marwan Barghouti – «L’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace». – Onore, Rispetto e Libertà per Marwan Barghouti, prigioniero da 14 anni di Israele

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Onore, Rispetto

e Libertà

per

Marwan Barghouti

prigioniero da 14 anni di Israele

 

Libertà per i palestinesi prigionieri politici di Israele

Libertà per il popolo palestinese

 



Oggi, 6 giugno 2016, un grande combattente per la causa palestinese, Marwan Barghouti, compie 57 anni. È sequestrato nelle carceri degli occupanti israeliani proprio in quanto dirigente della opposizione alla Conquista della Palestina perpetrata da Israele, e con lui sono prigionieri moltissimi altri militanti palestinesi. Vogliamo ricordarlo, e ricordarli, in questo giorno, rinnovando il nostro impegno con cui da quasi cinquanta anni cerchiamo di essere vicini alla legittima lotta del popolo palestinese.

Giancarlo Paciello e Carmine Fiorillo



«Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l’altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace. Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione».

Marwan Barghouti, da il manifesto, 12-10-2015: Il «Mandela palestinese» accusa

 


Barghouti

Il testo che segue rappresenta il capitolo “Il giudizio e la condanna” pp. 55-74 del libro Barghouti il Mandela palestinese di Paolo Barbieri e Maurizio Musolino, DATANEWS Editrice, Roma 2005

Risvolto di copertina

l testo parla della figura politica di Maruan Barghouti, membro del Consiglio legislativo palestinese e segretario di Al-Fatah per la Cisgiordania. Imprigionato nel 1978, per sette anni, nelle carceri israeliane, nel 1987 è stato costretto a lasciare la Palestina per la Giordania e vi è tornato solo nel 1994 dopo gli accordi di Oslo. Il 15 aprile 2002 è stato rapito a Ramallah dall’esercito israeliano e sottoposto a processo per terrorismo e altri gravi crimini; nel 2004 è stato condannato all’ergastolo. Dopo la morte di Arafat, Barghouti rappresenta il possibile leader alla guida della Palestina, soprattutto in seguito alla sua inaspettata candidatura alle presidenza dell’Anp in aperta sfida a Abu Mazen.


 

Marwan Hassib Hussein Barghouti nasce il 6 giugno 1959 a Kobar, un villaggio poco a nord di Ramallah, in Cisgiordania. E il terzo di sei fratelli. I primi anni della sua vita Marwan li trascorre in un lembo di terra amministrato dal regno giordano e in questo contesto inizia a frequentare la scuola primaria. La sua è una delle famiglie più influenti e conosciute dell’area (un Barghouti fu tra i fondatori del Partito comunista palestinese, un Barghouti, Mustafa per la precisione, è stato il principale antagonista di Abu Mazen alle elezioni presidenziali del gennaio 2005; Hafez Barghouti è uno dei giornalisti più affermati nel Medio Oriente; Mourid Barghouti è un apprezzato poeta; e sempre una Barghouti, Fathiya, è una delle poche donne elette “sindaco” nelle elezioni amministrative del dicembre 2004 in Palestina: l’elenco potrebbe continuare a lungo, anche se non tutti i Barghouti più noti sono direttamente imparentati con Marwan) e la sua prima infanzia si svolge in modo abbastanza sereno. Ma questa tranquillità non durerà a lungo. Finirà il 6 giugno 1967, proprio il giorno in cui il giovane Marwan festeggia il suo ottavo compleanno. Quel 6 giugno le truppe israeliane lanciano la Guerra dei Sei giorni, occupano quel che resta del territorio della Palestina originariamente affidata al mandato inglese, invadono il Sinai egiziano e il Golan siriano.

 

Il prigioniero politico

Marwan Barghouti é un uomo piccolo, tarchiato, non ha l’aria solenne del leader ma l’aspetto, si direbbe, di un uomo qualunque. A prima vista potrebbe essere un avvocato di provincia, ma le misure di sicurezza e la tensione che si respira nell’aula della Corte distrettuale di Tel Aviv, tradiscono la verità: è un imputato e non un imputato qualunque. Manette ai polsi, le mani alzate simbolo del suo rifiuto di arrendersi, «la pace sarà raggiunta – grida da dietro le sbarre in arabo, inglese ed ebraico – solo con la fine dell’occupazione». È il 14 agosto del 2002, è il giorno della formalizzazione delle accuse nel processo per terrorismo a carico del segretario generale di al Fatah, il movimento nazionalista anima storica della lotta per l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Quando è apparso chiaro che l’Intifada non si sarebbe fermata nonostante le rappresaglie indiscriminate, i bombardamenti sui civili, i rastrellamenti, le punizioni collettive, il governo israeliano ha deciso di prenderlo di mira, come massimo responsabile della rivolta. Per ben tre volte le truppe israeliane compiono provocatorie, sprezzanti intimidazioni occupando militarmente la sua casa nel paese natale di Kobar, nei pressi di Ramallah: nel dicembre del 2001, a gennaio e a fine marzo del 2002, l’ultima volta prendendo in ostaggio («arrestando», nel gergo ufficiale) sua moglie e i suoi figli. Il 14 aprile del 2002, finalmente lo trovano in casa di Ziad Abu ‘Eyn, un vecchio compagno di lotta, accusato di un attentato vent’anni prima e quindi schedato dagli israeliani come «terrorista». Accade ancora una volta a Ramallah.

Sono passati quattro mesi dal suo arresto, quando il procuratore dello Stato Devorah Chen legge i capi d’imputazione a suo carico. Quattro mesi in cui ha avuto pochissimi contatti con l’esterno, e, secondo una prassi purtroppo consolidata, è stato praticamente sempre a disposizione degli agenti dei servizi segreti di Tel Aviv. «Marwan – racconta Fadwa, la moglie – ha sofferto 100 giorni successivi di interrogatori intensi e di torture impietose da parte dei suoi carcerieri israeliani. Durante gli interrogatori, hanno usato vari mezzi di crudeltà fisici e psicologici. Lo hanno privato del sonno e gli hanno inflitto un tipo di tortura chiamato shabeh. Ciò vuol dire che è stato costretto a sedere su una sedia bassa con le mani dietro la schiena per lunghe ore». Ma quando prende la parola durante le udienze del procedimento voluto fortemente dal governo Sharon, con la sua requisitoria contro la politica israeliana Barghouti ribalta la scena, rimette al centro del processo la storia, la politica, la rivolta palestinese e le sue ragioni ormai antiche. [Leggi tutto nelle dieci pagine in formato PDF]

Onore, Rispetto e Libertà per Marwan Barghouti,
prigioniero da 14 anni di Israele

 

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Manuel Rivas – I libri bruciano male. Incerto è, a dire il vero, l’avvenire. Chi sa cosa accadrà? Ma incerto è anche il preterito. Chi sa cosa è accaduto?

Manuel Rivas
Incerto è, a dire il vero, l'avvenire.
Chi sa cosa accadrà?

Ma incerto è anche il preterito.
Chi sa cosa è accaduto?

Antonio Machado, Juan de Mairena

 

 

 

I libri bruciano male


Risvolto di copertina

La Coruña, notte del 18 agosto 1936: sulla darsena del porto e in varie piazze della città ardono grandi pire. Ma non si tratta delle tradizionali fogueiras accese per animare le sagre popolari estive: sono i franchisti che, un mese dopo il golpe, stanno dando fuoco alle principali biblioteche della città per cancellare ogni traccia del passato repubblicano. La Coruña diventa così un modello di sofferenza universale, sottolineando come il controllo sistematico sulla lingua e la cultura non sia stato un semplice corollario della dittatura ma una delle sue prime preoccupazioni. Bruciare i libri significa sì ucciderne le idee, ma anche e soprattutto gli uomini e le storie che le loro pagine racchiudono. Attorno a questo evento, a questo buco nero, ruotano come pianeti le linee narrative e i personaggi in un carosello di voci senza fine: tra i deliri intellettuali del dottor Montevideo e le raccapriccianti esecuzioni di Federico García Lorca e dell’editore corugnese Ánxel Casal, tra gli abusi di potere del giudice Ricardo Samos, spalleggiato dal torvo ispettore Ren, e le mulleres con cousas na cabeza della pittrice e spia repubblicana Chelo Vidal, tra il censore Tomás Dez, simbolo dell’anticultura fascista, e l’affascinante figura di Terranova, viveur amante del bel canto e delle feste paesane aiutato dall’amico e pugile Curtis. Un’atmosfera di terrore e oscurantismo troppo nauseabonda per non far riecheggiare nella nostra memoria le atrocità che in quegli stessi anni il fascismo perpetrava in Italia.


 

«l libri bruciavano male. Quando uno di loro si mosse nella pira più vicina, a Hércules parve che all’improvviso stesse aprendo a ventaglio le fresche spine rossastre di una branchia di merluzzo. Da un altro si staccò un pezzetto incandescente che rotolò come un riccio di mare di neon sui gradini di una scala antincendio. Poi pensò che quella cosa che si agitava inquieta nel mucchio ardente fosse una lepre imprigionata e che un refolo di vento, che ravvivò un po’ la pira, spargesse in scintille il suo mantello bruciato, dal primo all’ultimo pelo. In questo modo, la lepre conservava ancora la sua sagoma nella grafia di fumo e stirava le zampe per avanzare rapida lungo la diagonale vetrata del cielo del viale atlantico.
Le prime pire dei libri erano state innalzate lì, a fianco della Darsena, andando verso il Parrote. Erano posizionate, in un certo senso, nel ventre urbano, dove il mare aveva partorito la città, il primo nido di pescatori, e da allora di erba ne era cresciuta parecchia, persino sui tetti, che somigliavano a cime verdeggianti, in quel luogo che oggi è il punto di confluenza del servizio di trasporto pubblico di lance della baia, dei tram urbani e delle vetture di linea dell’interno. Le altre pire bruciano lì a fianco, nella piazza principale che porta il nome di Maria Pita, l’eroina che durante uno dei molti attacchi dal mare guidò la difesa della città alla testa di un comando di pescivendole […]».

«Tutto questo, le pire di libri, non appartiene alla memoria della città. Sta succedendo adesso. Quindi questo bruciare dei libri non accade in un passato remoto e neppure di nascosto. Non si tratta nemmeno di un incubo immaginario sognato da un apocalittico. Non è un romanzo. Per questo il fuoco va lento, perché deve vincere le resistenze, l’imperizia degli incendiari, la mancanza di abitudine dei libri a bruciare. L’incredulità degli assenti. Si vede benissimo che la città non ha memoria di questo fumo svogliato e renitente che si muove in un’atmosfera estranea. Deve bruciare persino quello che non sta scritto […]. Tutto questo brucerà lentamente, anche il libro dello stemma, che non apparirà più sullo scudo della città. La Repubblica di Platone. Finalmente, era ora!».

«Quello che adesso assume la direzione del rogo sottoscrive con un sorriso l’intenzione della frase del subordinato. I libri come criminali, arrestati, messi al muro. Di spalle alla gente. In fila , pigiati, senza lo spazio per potersi allungare, in un silenzio muto. Quelli lì, comunque, hanno avuto miglior sorte che questo. Passeranno i giorni, i mesi, gli anni, e i libri arrestati spariranno a poco a poco. Una mano distratta. Un artiglio deciso. Libro dopo libro, quel che non è stato bruciato della biblioteca sarà ridotto a brandelli nel Palazzo di Giustizia. E lo stesso accadrà con tutte le altre cose che appartenevano a quell’uomo. Tutto sarà oggetto di spoglio. Le grandi e le piccole proprietà. Persino le cose più minuscole e intime. Non soltanto i libri: hanno estirpato anche gli scaffali di legno intagliato su cui erano appoggiati. Hanno portato via o hanno distrutto le collezioni dell’amante della scienza, del curioso naturalista».

«Le consultazioni erano sporadiche. Non c’era molta selezione nel rogo. I libri erano scaricati a mucchi o lanciati a casaccio dai cassoni dei camion. Quando uno di loro usciva dall’anonimato, come un viso che spunta fuori da una fossa comune, la proclamazione del titolo ad alta voce gli conferiva un ultimo merito, la prova definitiva del fatto che alla fin fine si trattava di un buon titolo, perché quell’ignorante di Parallelepipedo – era stato lui a definirsi così, non senza un certo orgoglio – era lì, a chiedere informazioni al riguardo».

«Capo! Qui ce n’è uno di quel tale, Lorca! Lo gettò con ostentata avversione, cercando di mirare al centro del vulcano. Dalle fiamme fuoriuscì un’eruzione di fumo scuro e scintille incandescenti. Ne prese un’altra manciata. Il capo, intanto, si era avvicinato un’altra volta. Il primo del nuovo mucchio era un libriccino esile. Al centro, l’unica illustrazione, una semplice capasanta.
Sei poesie galeghe, Fe-de-ri-co … Ma che storia è questa, li sfornano per famiglie?
Si voltò verso il capo tendendogli il libro con un’espressione di disgusto.
Samos, mi dica un po’! Questo finocchio scriveva anche in galego?»

 

Manuel Rivas, I libri bruciano male, Feltrinelli, 2009, pp. 47, 49-50, 62, 65, 67.

 

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Darsena di A Coruña, agosto 1936.
Rogo di libri dopo il colpo di stato fascista del 18 luglio.

Rogo libri

Un rogo di 600 libri fu ordinato nel 1490  dall’inquisitore Torquemada.

 

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Rogo di libri alla Festa studentesca della Wartburg il 18 ottobre 1817.


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Max Pohlenz (1872-1962) – La Grecia classica ci ha indicato la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene comune. La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene.

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La libertà greca

«Caratteristica fondamentale dell’uomo ellenico è il forte impulso ad autodeterminarsi, che lo induce a formulare un suo personale giudizio sulle cose da cui si trova circondato, e a configurare, di conseguenza, la propria vita secondo un criterio proprio.
Egli non disconosce gli ostacoli contro cui viene ad urtare, ed ha un senso profondo dei limiti che, in quanto uomo, gli sono imposti. È’ ben consapevole di trovarsi in una collettività, nella quale, per poter esistere, si deve inserire, anche a costo di sacrificare desideri propri. Ben sovente egli è anche costretto a sperimentare che la sua volontà è frustrata da accadimenti imprevedibili […]. Gli è pure estranea l’angoscia cosmica che, conseguenza delle più dure esperienze, grava sugli uomini di oggi […].
L’uomo greco possiede il senso della realtà, dell’esistenza riconosce appieno ed avverte, oltre agli aspetti buoni, anche la durezza; vede i pericoli che lo minacciano, ma il suo atteggiamento fondamentale non è il timore, l’ansia di difendersi, bensl una positiva volontà di vita, che lo spinge, entro i limiti che nell’ordinamento cosmico gli sono stati tracciati, a configurare la sua esistenza in modo adeguato alla propria natura e conforme alla sua volontà. In Eschilo Eteocle rimprovera aspramente alle fanciulle tebane la loro paura inconsulta […]. E già in Omero Ettore assurge a piena grandezza umana proprio nell’attimo in cui si vede dinanzi la morte sicura e s’avvede d’essere ingannato e tradito da tutti gli dei. Non lo vince la paura, ma ecco qual è il suo unico pensiero:
                     ch’io non senza lotta, non privo di gloria termini la vita,
         no, ch’io compia ancora qualcosa di grande, novella alle generazioni future.

Ecco il fondamento psicologico su cui poté svilupparsi il concetto greco di libertà»

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 5-6.

«Socrate […] impegnò  tutte le sue energie per convincere gli uomini che non dovevano affidarsi a opinioni soggettive, ma aspirare con tutte le forze alla conoscenza del bene oggettivo, l’unica sicura stella polare nella loro attività pratica. Solo questo ‘bene’ l’uomo, per sua natura, poteva davvero ‘volere’ e la desiderata libertà poteva consistere solo nell’orientare a questo fine il proprio agire, senza lasciarsi turbare da influenze estrinseche. […] Socrate  […] nei suoi dialoghi andava traendo sempre maggiore conferma alla convinzione che l’uomo fosse creato per vivere nella società e suo primo compito dovesse essere di inserirsi in essa mediante una condotta etica.
[…] Socrate è  consapevole che l’individuo deve tutta la sua esistenza fisica e spirituale alla società, e può vivere solo in essa. Alla società egli è quindi per sua natura esternamente legato e anche interiormente vincolato. Non possiede quindi una libertà assoluta, ma si trova in un vincolo oggettivo che non può sciogliere senza perdersi. Può renderlo più spontaneo se vi assente da sé, riconoscendo il bene etico come suo autentico bene e agendo di conseguenza. La subordinazione volontaria al tutto, che Peride sognava come ideale mentalità politica, raggiunge la sua espressione piena quando Socrate, ingiustamente condannato, preferisce rimanere in carcere piuttosto che compromettere per parte sua l’ordinamento giuridico e la stabilità dello stato. L’atteggiamento fondato sulla intuizione sentimentale s’è però trasformato in chiara scelta che l’uomo attua basandosi sulla conoscenza del vero bene. E se nella tragedia Antigone sacrificava la sua vita per una grande causa obbedendo alla propria sensibilità etica, anche la sua azione si caricava ora d’un significato più profondo per la certezza che non la vita importava, ma la vita buona, e con il sacrificio volontario della sua esistenza fisica l’uomo poteva salvare la sua parte migliore, la sua persona etica.
In tal modo Socrate diede agli uomini il sicuro sostegno di cui avevano bisogno, e indicò loro la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene. Tale libertà del resto poteva trovare attuazione solo salva restando la consapevolezza dei suoi limiti, e anche la libertà personale presupponeva dei vincoli.
Per la massa quest’ideale era troppo alto, e la democrazia non sopportò chi incitava alla libertà etica dell’individuo. Fra i discepoli stessi di Socrate non potevano capire appieno il maestro quelli che non erano penetrati del suo stesso senso della polis».

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 217-218.

«Socrate aveva indicato agli uomini la via per la libertà interiore, mostrando loro che i veri valori si trovavano nella loro stessa anima. […] Platone fu indotto […] a riconoscere chiaramente che la vera libertà poteva consistere solo nel dominio assoluto dello spirito sugli istinti inferiori. Il dominio di sé, che anche la sensibilità popolare esigeva, era la libertà dello spirito, che rappresenta il vero io dell’uomo. Aristotele, guidato dalla sua personale inclinazione, modificò tale concetto, affermando che lo spirito adempiva alla sua natura ‘divina’ nel pensiero teoretico, per il quale l’uomo è sollevato al disopra della vita quotidiana.
Sia Platone sia Aristotele usarono solo con ritegno il termine di ‘libertà’, perché aveva suono troppo politico. In realtà però hanno sviluppato il concetto conferendogli chiarezza filosofica: la libertà interiore giunge a pienezza nella libertà dello spirito, che non solo garantisce all’uomo l’indipendenza dall’esterno, ma gli dà anche la possibilità di sviluppare liberamente la sua vera natura.
La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene».

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 134-135.

 


Vedi anche:

Max Pohlenz (1872-1962)  – Il cammino del dell’uomo greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene. Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto. Nel suo intimo possiede la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e plasmare la sua vita a proprio modo, nella consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni


Luca Grecchi

Perché non possiamo non dirci Greci
In Appendice: In difesa di Socrate, Platone ed Aristotele

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Luca Grecchi

La filosofia della storia nella Grecia classica

coperta 165

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Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia

Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.

Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.

Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.

Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele

Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.

Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.


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Ernesto Che Guevara (1928-1967) – Ha più valore, un milione di volte, la vita di un solo essere umano che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra.

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Essere uomo è precisamente essere responsabile.
Ognuno è responsabile di tutti.
Ognuno da solo è responsabile di tutti.
Ognuno è l'unico responsabile di tutti. 
Antoine de Saint-Exupéry

 

 

Guevara, Prima di morire

 

Ernesto Che Guevara, Prima di morire. Appunti e note di lettura, Feltrinelli, 2010.

 

Nobile pellegrino dei pellegrini,
che santificasti tutti i sentieri
con l'augusto passo del tuo eroismo,
contro le certezze, contro le coscienze,
e contro le leggi e contro le scienze,
contro la menzogna, contro la verità ...


Cavaliere errante dei cavalieri,
gentiluomo degli uomini fieri, principe dei valorosi,
pari tra i pari, maestro, salve!
Salve, perché ritengo che oggi ben poco ti resti
tra gli applausi o il disprezzo,
e tra le corone e gli encomi
e le sciocchezze della moltitudine!

Rubén Darío,
Litanie per il nostro signore Don Chisciotte,
da Otros poemas

 

 

Risvolto di copertina

Un libretto di citazioni: le letture preferite del Che. Un documento che viene pubblicato per la prima volta nel mondo. Avventurosamente ritrovato, il materiale di questo volume fa parte dei taccuini sui quali Ernesto Che Guevara veniva annotando i passi più significativi delle sue letture. Vi si leggono citazioni di Rosa Luxemburg, Lenin, Trotskij, Stalin, Mao Zedong, Lukács, Hegel, Engels, Castro. Compilate con la pazienza e la disciplina di uno studioso severo – un’attitudine che si avverte nella stessa calligrafia, nell’ordine dei paragrafi, nella precisione dei riferimenti bibliografici – queste note di lettura sono accompagnate dalle fotografie dei quaderni, dei documenti, dei reperti. Ma Prima di morire non è solo uno straordinario inedito, è anche la testimonianza di una passione intellettuale, di una coscienza politica che volentieri si intreccia a fantasia e poesia.

 

 


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