Elena Irrera – “Sulla bellezza della vita buona”. Vi è un legame imprescindibile tra vita pratica e vita teoretica. La prospettiva del bello, orientando l’attività razionale dell’individuo secondo eccellenza, indicherà al soggetto agente non solo il traguardo più perfetto da raggiungere, ma anche il percorso stesso per conseguirlo.

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Elena Irrera,
Sulla bellezza della vita buona.
Fini e criteri dell’agire umano in Aristotele
Carabba Editrice, 2012.

Sulla bellezza della vita buona

«[...] chiunque abbia la possibilità di vivere secondo la propria scelta
stabilisce un qualche scopo della vita felice
sia esso l'onore o la fama o la ricchezza o la cultura,
guardando al quale compirà tutte le sue azioni
(perché appunto
è segno di molta insipienza
non aver indirizzato
la vita a un qualche fine)».

Aristotele, Etica Eudemia I, 2.1214b6-111.

 

«Che la ricerca umana della bellezza possa configurarsi come un tema-chiave nella riflessione aristotelica sui fini e i metodi della razionalità pratica non costituisce certamente una novità. È infatti generalmente riconosciuto che il bello, anziché essere relegato da Aristotele a valore puramente estetico, sia in più occasioni introdotto come oggetto di indagine morale e come fine che l’uomo virtuoso si propone di raggiungere. Ciò che, invece, ritengo sia stato ingiustamente oggetto di scarso interesse […] è lo studio delle possibili intersezioni tra un senso “contemplativo” del bello ed uno di carattere “pratico”. […] Il presente libro si propone […] di offrire una ricostruzione della visione aristotelica del bello capace di far emergere tale nozione non solo come vero e proprio trati d’union tra le due forme di attività, ma anche come specifico criterio per l’agire umano autenticamente virtuoso. […]  il mio contributo ha come principale scopo quello di presentare la possibilità che, attraverso il perseguimento del bello, l’attività pratica sia volta alla massimizzazione dell’ attività contemplativa entro la sfera dell’agire. È quindi mia intenzione mostrare comeil desiderio “intellettuale” del bello, piuttosto che quello della semplice realizzazione pratica di atti virtuosi, possa costituire il motivo fondante del coinvolgimento di un individuo nell’arena pratica.
[…] Da un lato, tenterò di mostrare come il riferimento al bello permetta la comprensione dell’essenza della vita felice e della natura umana stessa; dall’altro, suggerirò che il bello, se inteso come ideale “orientativo” per l’azione umana, riesce a svolgere simultaneamente un doppio ruolo: quello di “promotore” di azioni virtuose e quello di “formazione intellettuale” di individui dotati di intrinseca perfezione morale» (pp. 9-11).

«Ciò premesso, farò notare come il cosiddetto “bene umano” non sia un’entità statica e separata dalla vita umana, e considererò l’eudaimonìa come lo stesso bene, quello sommo, indagato però dalla prospettiva dell’individuo che lo persegue. In questo senso, il tema del bene umano si lega a quello della vita, delle aspirazioni e delle aspettative di chi la vive» (p. 12).

«L’agente morale aristotelico, in quanto dotato di autentica virtù di carattere, sarà dunque concepito come individuo proteso a ricercare, in ultima analisi, una visualizzazione teoretica delle distintive proprietà di ordine, appropriatezza e limite delle belle azioni. Tale visualizzazione si rivelerà fine a se stessa e non strumentale a scopi ulteriori.
Come anticipato nella prefazione, questo libro nasce dall’esigenza di raggiungere una comprensione di tò kalón che consenta di gettare una nuova luce sullo studio della dimensione dell’agire etico e politico, e che mostri l’esistenza di un legame imprescindibile tra vita pratica e vita teoretica» (p. 21).

«L’immagine della vita sommamente desiderabile che mi auguro emerga attraverso la mia discussione è quella che esprime il bene umano come un traguardo da raggiungere e, pertanto, come un oggetto capace di orientare l’uomo stesso verso la più perfetta realizzazione delle proprie potenzialità etiche e intellettuali. In base alla ricostruzione che intendo svolgere, il principale interesse di Aristotele non apparirà quello di fornire una definizione di eudaimonìa funzionale a scopi prettamente teoretico-speculativi, quanto invece quello di mostrare come l’individuo sia in grado di intraprendere, attraverso un’adeguata educazione al bene e al bello, un processo pratico di maturazione e di sviluppo orientato all’acquisizione della propria forma distintiva. La prospettiva del bello, orientando l’attività razionale dell’individuo secondo eccellenza, indicherà al soggetto agente non solo il traguardo più perfetto da raggiungere, ovvero il bene ultimo, ma anche il percorso stesso per conseguirlo.
[…] L’indagine che verrà condotta nel corso di questo testo, pertanto, presenterà il bello come trait d’union tra attività pratica dell’uomo virtuoso e quella teoretica. L’agire “in vista del bello” equivarrà non solo ad esercitare la razionalità pratica umana in prospettiva della contemplazione, ma anche a massimizzare la possibilità di contemplazione contenuta nell’agire» (p. 35).

«Sosterrò dunque che [l’uomo politico autenticamente virtuoso], anziché essere guidato nella propria attività pratica dal semplice desiderio di promuovere concretamente il bene comune, agisce, in ultima analisi, in quanto spinto da un profondo interesse per la contemplazione del valore intrinseco della virtù morale e, pertanto, in vista della soddisfazione di una passione di natura teoretica» (p. 370).



Elena Irrera

Figure del bello nella filosofia di Aristotele
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Coperta 258

Osservando con sguardo sinottico la vasta produzione di logoi aristotelici a noi pervenuti, è possibile riscontrare la presenza di nozioni che, essendo impiegate in una nutrita varietà di ambiti disciplinari, possono essere a buon diritto qualificate come “trans-contestuali”. Aristotele sembra idealmente invitare i suoi lettori non solo ad individuare tali nozioni e a riflettere sul ruolo da esse svolto all’interno di specifici settori conoscitivi, ma anche a profilare degli spazi virtuali di collegamento e interazione tra settori di indagine differenti alla luce della loro comune presenza in ciascuno di essi. La constatazione che un dato termine (e, di conseguenza, anche lo spettro di temi e significati da esso evocati) ricorra in tipi differenti di indagine filosofica suggerisce la possibilità che lo stesso Aristotele abbia intenzionalmente congegnato vari aspetti della sua riflessione in maniera tale da rendere le specifiche argomentazioni impiegate e i loro rispettivi domíni di afferenza “permeabili” ad un gioco di reciproci rimandi.
In questo senso, è ragionevole assumere che, attraverso l’individuazione di alcuni elementi lessicali e concettuali comuni a settori disparati, i vari aspetti della riflessione aristotelica sulla realtà e i suoi princìpi si prestino ad essere colti dal lettore in una visione d’insieme, ovvero ad essere osservati come componenti di una struttura complessa di soggetti interconnessi che trascende le singole specificità disciplinari. Nel presente contributo tenterò di offrire alcuni spunti di analisi su un concetto che ricorre in una pluralità di aree di ricerca, tra le quali la metafisica, la fisica, la biologia, l’etica e la politica: quello di tò kalón. L’espressione che designa il concetto in questione è stata variamente tradotta dagli studiosi. Nella sua versione della Metafisica, Reale opta per la traduzione “il bello”; nelle sue traduzioni dell’Etica Eudemia, dell’Etica Nicomachea e della Grande Etica Fermani adotta le espressioni “il bello” e “il bello morale”. L’idea che tò kalón esprima una nobiltà di natura morale emerge ad esempio in alcune traduzioni angloamericane, come quella di Rowe, che utilizza “the fine”, e una nutrita schiera di studiosi che rendono l’espressione in esame con “the noble” (Rackham, Ross, Ostwald, Crisp, Bartelett e Collins, Reeve).
È opinione generalmente condivisa che l’ideale del tò kalón, nella cultura greca classica, non indichi soltanto proprietà e valori prettamente “estetici”, ossia pertinenti alla sfera di una bellezza puramente fisica che sia oggetto di un’esperienza sensoriale (visiva e/o uditiva) fine a se stessa. Al contrario, come avremo modo di osservare, l’ideale in questione appare in grado di innescare e orientare percorsi umani di conoscenza e di azione virtuosa che trascendono il piano di un confronto con il mondo esterno non mediato dalla riflessione o dall’educazione.
Aristotele introduce la questione della bellezza in numerose occasioni e contesti di indagine differenti, ossia ambiti di discussione non immediatamente accostabili gli uni agli altri né in termini di finalità, né in termini degli argomenti trattati. Il bello è ad esempio menzionato come proprietà riscontrabile in oggetti fisici e sostanze naturali, in azioni umane e perfino in forme di organizzazione del potere politico. Esso può essere associato alla perfezione formale degli enti o al senso di piacevolezza e/o di desiderabilità intrinseca che una simile proprietà stimola negli esseri umani che la rilevano. A volte, esso è indicato spesso come motivazione per un comportamento individuale autenticamente virtuoso, e come ideale che il buon legislatore è chiamato ad imprimere tanto nelle leggi quanto nelle proprie azioni. Lo stesso Aristotele sembra sostenere che uno degli scopi dell’educazione sia quello di fornire orientamenti di crescita e di evoluzione che portino gli individui ad essere “amanti del bello” e, di conseguenza, più inclini di altri a comprendere i ragionamenti sulla natura della virtù e sulla necessità di acquisirla in vista del conseguimento del bene umano.
Tratto comune a tali approcci è l’idea che il bello sia oggetto di un’esperienza distintamente umana, ovvero una esperienza capace di stimolare attivamente un corretto esercizio di quelle facoltà deputate alla realizzazione delle possibilità di perfezionamento della natura razionale degli individui, tanto nella sfera del pensiero teorico quanto in quella dell’agire pratico. Indagare il ruolo che il bello ricopre nella vita umana, pertanto, permetterà di delineare una prospettiva di osservazione particolare delle dinamiche attraverso cui tale perfezionamento può avvenire.
L’ipotesi di lavoro che orienterà la presente discussione è rappresen­tata dall’idea che la nozione di tò kalón, in virtù della sua caratteristica trans-contestualità, consenta di mettere in rilievo alcuni tipi di collega­mento tra settori di indagine dotati di autonomo statuto disciplinare. In particolar modo, si tenterà di osservare come la nozione in esame funga da fil rouge tra i cosiddetti étikoì lògoi, ossia quelli che costituiscono l’intelaiatura argomentativa dell’Etica Nicomachea, dell’Etica Eudemia e della Grande Etica, e il contenuto della Politica. Alla luce della funzione svolta dal bello nelle riflessioni condotte da Aristotele nei testi in questione, i discorsi sui princìpi pratici discussi nelle Etiche e quelli relativi alla natura della polis, del cittadino, del governante e delle costituzioni, appariranno come espressioni di un’area unitaria di indagine, quella volta alla ricerca del bene umano e della molteplicità delle sue espressioni (giustizia, amicizia, singole virtù etiche ed intellettuali, il piacere) nella dimensione politica.

Elena Irrera

 


Elena Irrera
Il bello come causalità metafisica in Aristotele,
Mimesis Edizioni, 2011.

 

 

IL bello come

Risvolto di copertina

Può la ricerca della bellezza orientare la strutturale tensione dell’uomo verso la conoscenza? Può la bellezza stessa offrire una via d’accesso alla struttura e alla comprensione umana del bene? Il presente studio si propone di rispondere a tali quesiti offrendo un parziale tentativo di ricostruzione del ruolo giocato dal bello (tò kalòn) nella metafisica e cosmologia aristoteliche. Viene inoltre presentato un caso particolare che, a giudizio dell’autrice, rende particolarmente visibile l’applicazione della nozione del “bello” (concepita come vera e propria forma di “causalità”), ad una sfera di carattere squisitamente pratico: quella dell’azione legislativa virtuosa descritta in alcuni frammenti del Protreptico. Scopo del libro è quello di mostrare che il bello, anziché costiuire una statica proprietà degli oggetti, si rivela un fattore attivamente operante in natura, prefigurando per di più la possibilità di un agire pratico umano improntato alla contemplazione intellettuale dei princípi di bellezza.


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David Hume (1711-1776) – Le difficoltà non devono scoraggiarci. La mancanza di ostacoli rende inutili le nostre forze, facendocele dimenticare; al contrario gli ostacoli le risvegliano e le mettono in azione.

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«Si può facilmente rintracciare nella natura umana una qualità per cui qualsiasi difficoltà che non riesca a scoraggiarci e a intimorirci completamente ha piuttosto un effetto contrario e ci ispira una grandezza e una magnanimità straordinarie. Nel raccogliere le nostre forze per superare l’ostacolo, diamo nuovo vigore all’animo e l’innalziamo a una altezza che, diversamente, non avrebbe mai raggiunto. La mancanza di ostacoli rende inutili le nostre forze, facendocele dimenticare; al contrario gli ostacoli le risvegliano e le mettono in azione».

David Hume,
Trattato sulla natura umana, II, iii, 8

9788845291333


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David Le Breton – La carezza è il tentativo di abolire la distanza avvicinandosi all’altro in una reciprocità che si vuole immediata. La carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare.

Le Breton copia
Il sapore del mondo

Il sapore del mondo

***

«L'altro in quanto altro non è qui oggetto che diventa nostro
 o che finisce per identificarsi con noi;
esso, al contrario, si ritira nel suo mistero.
 
EMMANUEL LÉVINAS, Il tempo e l'altro

«La carezza non significa prendere possesso dell’altro, bensì coincidere con lui o con lei in un avvicinamento senza fine. Il tatto è il senso principale dell’incontro e della sensualità, è il tentativo di abolire la distanza avvicinandosi all’altro in una reciprocità che si vuole immediata. In questo intreccio, nessuno tocca che non sia a sua volta toccato; nell’erotismo, la carezza è la mutua incarnazione degli amanti. Ciascuno si rivela a se stesso modellandosi sul corpo dell’altro. La reciprocità della mano e dell’oggetto trova qui la sua compiuta misura: la mano tocca nel momento stesso in cui è toccata. Essa incarnatutta la potenza creativa che le è propria. Scrive Sartre: “La carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la mia carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte delle cerimonie che incarnano l’altro; […] il desiderio si esprime con la carezza, come il pensiero con il linguaggio. E la carezza rivela la carne dell’altro proprio come carne a me e all’altro” (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, 1984, pp. 476-477).  La carezza è virtuosa soltanto se è accettata da colui o colei che la riceva: se non è desiderata, è una forma di violenza. Il medesimo movimento, a seconda del modo in cui è ricevuto, può essere uno stupro o un’offerta. Imposto con la forza o l’intimidazione, è intollerabile. La dolcezza infinita di una carezza concerne in primo luogo la significazione». (pp- 226-227).

«La pelle è rivestita di significati. Il tatto non è solamente fisico: è al tempo stesso semantico. Il vocabolario del tatto predilige metaforizzare la percezione e la qualità del contatto con l’altro, oltrepassando il mero riferimento tattile per esprimere il significato dell’interazione. […] La pelle funge da metafora del soggetto quand’egli ci tiene ancora, alla sua pelle. Comprendere rinvia a prendere insieme con l’altro mirando a un’impresa comune. Si tende la mano a chi è in difficoltà, oppure lo si lascia cadere. La corrente passa o non passa. Il fatto di sentire rinvia immediatamente alla percezione
tattile e all’ambito dei sentimenti. Avere tatto consiste nel limitarsi a sfiorare l’altro in merito a questioni delicate, usando la giusta discrezione che preserva chi agisce senza tenerlo all’oscuro di un’informazione essenziale. Tanta delicatezza testimonia il senso della distanza che – lo si intuisce – è necessario conservare nei confronti di qualcuno il cui temperamento è importante tenere nel massimo riguardo. Una formula tocca nel segno o tocca la corda sensibile. Si ha il senso del contatto, si percepiscono bene determinate cose grazie a una sensibilità a fior di pelle. E, allora, si va sul velluto, il percorso è liscio come l’olio.
Concedere la mano indica la parte per il tutto. Ma essere nelle mani di un altro significa perdere la propria autonomia, specie ove si tratti di persona capace di tenerci in pugno quando, magari, non vuole addirittura passare alle mani. […] Vi è chi si sente toccato, ma talvolta anche manipolato da una testimonianza commovente. Si lusinga qualcuno lisciandogli il pelo, oppure ci si sforza di trattarlo con i guanti per non urtarlo; altri, invece, vanno presi con le pinze […]. Se dobbiamo avanzare un’offerta sul cui buon esito nutriamo qualche dubbio, cominciamo con il tastare il terreno. E siamo punti sul vivo o ce ne abbiamo a male in presenza di un discorso indisponente o di un contatto che ci fa rizzare i capelli in testa o ci dà sui nervi; ancora, ci rendiamo conto di essere troppo sensibili ogni volta che abbiamo reazioni epidermiche. Una battuta acida ferisce, urta, fa sudare quando addirittura non scortica vivi. Una parola è capace di far venire i brividi alla schiena, la pelle d’oca o l’orticaria, oppure scalda il cuore. Allevia o irrita. L’imbarazzo copre di rossore. Una scena colpisce, prende alla gola. Il seduttore cerca di fare colpo. Una relazione è ardente, tenera, dolce, tiepida, piccante. Una persona è untuosa, pungente, appiccicosa; altri sono duri, persino carogne, oppure dei mollaccioni; altri ancora, calorosi o glaciali. Quando siamo in pericolo, rischiamo la pelle.
Tutti questi termini ricorrono al vocabolario del tatto per esprimere le diverse modalità degli incontri. Alcuni verbi, che coinvolgono la mano, servono a descrivere i nostri atti nei confronti dell’altro: prendiamo parte al suo dolore o prendiamo le sue parti, ci appoggiamo su di lui oppure siamo noi obbligati a dargli una mano o a sostenerlo poiché non ha fiducia in se stesso; afferriamo ciò che ha da dirci o lo comprendiamo, ma talvolta si rende necessario strappargli una confessione o toccare la corda dei sentimenti per onenerne un favore. La persona amata la portiamo nel cuore e l’accogliamo a braccia aperte: quella che detestiamo, invece, ci fa venire la pelle d’oca o rizzare il pelo o, ancora, suscita in noi repulsione. Alcuni vorrebbero fare la pelle ai nemici o conciarli per le feste. La qualità del rapporto con il mondo è anzitutto una questione di pelle» (pp.223-225).

David Le Breton,
Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi,
Raffaello Cortina Editore, 2007.


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Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.

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Manifesto dei comunisti

«Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale e fare del mondo una grande caserma o una grande officina. Vi sono comunisti che se la prendono comoda e che negano e vogliono sopprimere la libertà personale, che secondo loro ostacola la via all’armonia; ma  noi non abbiamo nessuna voglia di comprare l’eguaglianza a prezzo della libertà. Siamo convinti [..] che in nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità».

K. MarxF. Engels,
Manifest der Kommunistischen Partei,
tr. it. di D. Fusaro, Manifesto e principi del comunismo,
Bompiani, Milano 2009,  p. 265.

 

 

Risvolto di copertina
Pubblicato nel febbraio del 1848, sotto un cielo oscurato dalle nubi della rivoluzione, il Manifesto del partito comunista nasce dall’esigenza di spiegare al proletariato il vero movimento della storia per indurlo così ad abbracciare la missione di “seppellitore” del moderno mondo borghese, stregone ormai incapace di controllare le forze infere da lui stesso evocate. In questo modo, il terrifico «spettro del comunismo» poteva materializzarsi, trasformandosi in “forza oggettiva” capace di eseguire gli ordini della storia. Nelle pagine di questa breve ma densissima opera che non fa pace con il mondo, oltre le facili speranze e gli indubbi errori di valutazione, batte il cuore del progetto marxiano di redenzione dell’umanità: la speranza in un mondo senza classi né sfruttamento e la critica radicale del “modo di produzione capitalistico”, hegelianamente inteso come totalità contraddittoria e in movimento verso il proprio “superamento”. Grazie alla “buona novella” installata nel corso stesso degli eventi della storia umana, ed enunciata con un rigore scientifico pari solo al tono profetico, questa “Bibbia politica” andò incontro a un successo strepitoso che la rese il testo politico più diffuso e famoso di tutti i tempi. Un testo che racchiude tutt’ora schegge capaci di identificare e di colpire al cuore l’odierno “spirito del capitalismo”, contraddittoriamente in bilico – oggi come ieri – tra ricchezza e povertà, tra magnificenza e miseria, tra libertà e asservimento. La presente edizione offre al lettore italiano anche i Princìpi del comunismo di Engels, bozza originaria a partire dalla quale Marx compose il Manifesto del partito comunista, successivamente firmato a doppio nome dai due autori.

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John Donne (1572-1631) – Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è una parte del tutto. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.

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La casa di John Donne a Pyrford

La casa di John Donne a Pyrford

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te».

 

John Donne,
Da Meditazione XVII
in Devozioni per occasioni d’emergenza,
Editori Riuniti, Roma, 1994, pp. 112-113.

John Donne ritratto da un anonimo, 1595 circa, National Portrait Gallery, Londra

John Donne ritratto da un anonimo, 1595 circa, National Portrait Gallery, Londra

 


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Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.

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«Sì, mi sono dato tutto a questa idea,
qui la sapienza suprema conclude:
la libertà come la vita
si merita soltanto chi ogni giorno
la dovrà conquistare.
E così, circondati dal pericolo, vivano
qui il bimbo, l’uomo, il vecchio, la loro età operosa.
Tanto folto fervore, lo potessi vedere!
In una terra libera fra un popolo libero esistere!».

Johann Wolfgang von Goethe, Faust
(Atto V; Scena: Grande cortile antistante il palazzo),
Introduzione con testo a fronte e note a cura di Franco Fortini,
Mondadori, I Meridiani, 1999, p. 1017.

 

 


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Aldous Huxley (1894-1946) – Medicus curat, natura sanat: il medico cura, la natura guarisce.

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«Medicus curat, natura sanat: il medico cura, la natura guarisce. Il vecchio aforisma riassume perfettamente lo scopo della medicina, che è quello di assicurare agli organismi le condizioni interne ed esterne più favorevoli all’azione delle forze autoregolatrici e restauratrici.
Se non vi fosse alcuna vis medicalrix nalurae, alcuna naturale forza risanatrice, la medicina sarebbe impotente e il minimo disordine porterebbe subito alla morte o si tramuterebbe in malattia cronica.
Quando le condizioni sono favorevoli, gli organismi malati tendono a riprendersi mettendo in azione le forze autorisanatrici».

Aldous Huxley, L’arte di vedere, Adelphi, 1989; The art of seeing, 1942.

 

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Risvolto di copertina

Colpito, fin da giovane, da una grave diminuzione della vista, Aldous Huxley rieducò i suoi occhi seguendo il «metodo Bates», assai discusso in quegli anni. E in questo libro vuole comunicarci quanto ha appreso nel corso di questa sua esperienza di autoguarigione. Ma, come sempre in Huxley, anche se il discorso ha un riferimento fattuale e fisiologico estremamente preciso, la sua portata va molto al di là. Per aiutare la natura a risanarci, osserva Huxley, bisogna innanzitutto arginare l’invadenza dell’io cosciente, perché «quanto più c’è io tanto meno c’è Natura, cioè il funzionamento proprio e corretto dell’organismo». Nell’atto del vedere entra dunque in gioco tutto il rapporto fra la mente e l’organo che le è più vicino. Così questo resoconto, che ci permette di addentrarci in tutti i meandri di quelle funzioni altamente complesse che compiono i nostri occhi in ogni momento, diventa un libro di esercizi per l’immaginazione, una guida sapiente a quella «vigile passività» che ci è preziosa per vedere bene in ogni possibile senso – e innanzitutto in noi stessi.

 


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Luca Grecchi – Sulla progettualità

Quale progettualità?

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Con questo testo inizia, per questo numero,
una nuova modalità di costruzione in progress della rivista Koinè.
Il tema è quello della progettualità.
Chi vuole partecipare, può inviare il proprio elaborato.
I testi più significativi saranno prima raccolti su queste pagine
e poi pubblicati anche in volume cartaceo.
Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx

a tutto campo

Luca Grecchi

Sulla progettualità

Nel maggio 2016 si è svolta, a Bologna, una informale riunione della redazione della rivista Koinè, di cui sono direttore dal 2003, ma che ha una storia assai più lunga, e direi meritoria, sin dalla originaria direzione di Carmine Fiorillo che data al 1993 (con la collaborazione, fra gli altri, degli amici scomparsi Massimo Bontempelli e Costanzo Preve). Per motivi famigliari non ho potuto partecipare quel giorno. Avevo però proposto due possibili temi di discussione, sui quali lavorare per la redazione del prossimo numero, distinguendosi Koinè – rispetto ad altre riviste analoghe – per la sua base filosofica progettuale, e per il non accontentarsi della mera critica politico-culturale dell’esistente.

I temi possibili erano i seguenti:
La riflessione sui motivi per i quali, nonostante la natura razionale e morale dell’uomo, si assiste da secoli alla diffusione globale della poco razionale e morale crematistica in ogni parte del pianeta.
La riflessione su come dovrebbe essere un modo di produzione sociale per essere migliore; chi, infatti, critica l’esistente senza avere un progetto ideale inerente le strutture socio-economiche fondamentali (forme della proprietà, della produzione e della distribuzione), produce culturalmente, ed anche politicamente, ben poca cosa.

Convinto che questa linea generale fosse condivisa da tutti i partecipanti – più volte è stato sostenuto che “l’unica critica seria che si può fare è quella che prende in considerazione il sistema tutto nelle sue strutture fondamentali”, il che richiede la necessità di pensare a strutture fondamentali alternative: la critica del resto, anche etimologicamente, richiede una scelta, una decisione, ma si può realmente decidere solo fra almeno due alternative determinate –, ho tuttavia verificato che così non è, e che vi sono alcune differenze rilevanti su questo tema all’interno di Koinè. Poiché queste differenze sono comunque buone differenze, nel senso che riguardano contenuti effettivamente problematici che si possono sviluppare in direzioni diverse, ho ritenuto opportuno elaborare in queste pagine un discorso più generale, che prescinde dall’episodio concreto dell’incontro di Bologna (che di questa analisi è solo il contingente cominciamento). Prima di farlo, farò comunque alcune precisazioni, per sbrogliare il campo da due possibili malintesi:

La critica, specie se radicale, è aristotelicamente sempre benvenuta: senza dialettica, non vi è filosofia. Per questo spero che a queste pagine ne seguano altre di risposta.

Il confronto fra posizioni filosofiche non compromette mai, se essa è reale, l’amicizia fra le persone che lo pongono in essere; il “conflittismo”, in cui certa sinistra critica si è dilaniata per anni su piccoli dettagli lontanissimi dal vedere la luce, è sicuramente bandito da questo dialogo. [Leggi tutto]

Può dunque a mio avviso – salvo smentite –
ritenersi che un modo di produzione sociale
volto a favorire la comunità umana,
debba avere almeno queste tre determinazioni:

assenza di proprietà privata dei mezzi della produzione sociale
(non ovviamente dei prodotti necessari alla quotidianità);

assenza di mercato
(le persone potranno fare e scambiare ciò che vogliono, ma in forme comunitarie);

assenza di denaro
in ogni società storicamente esistita questo strumento
non è mai riuscito a mantenersi al rango di mezzo di pagamento,
divenendo presto riserva di valore per l’accumulazione).

Luca Grecchi, Sulla progettualità



Aristotele: la rivoluzione è nel progetto.
La «critica» rinvia alla «decisione»
di delineare un progetto di modo di produzione alternativo.
Se non conosciamo il fine da raggiungere,
dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?

Chi non progetta
ciò che può essere progettabile,
lo avrà fatto diventare,
col proprio non progettarlo,
qualcosa di irrealizzabile,
e a cui non porta più nessuna strada.

***

Luca Grecchi,
Aristotele: La rivoluzione è nel progetto

***

S O M M A R I O


La scelta del soggetto e la scelta del titolo

Il messaggio aristotelico non è “conservatore”

“Rivoluzione“ e “progetto“ versus “ribellione”

Aristotele può essere considerato pensatore progettuale e rivoluzionario

Aristotele non è accostabile al “ribellismo” dei vari maîtres à penser
Il suo pensiero punta a costruire una vita buona per tutti

Aristotele sostenne che la crematistica conduce ad una vita innaturale

Che cosa è il “bene” per Aristotele? E il “bene comune”?

Per Aristotele, insomma, serve una sorta di rivoluzione
delle modalità socio-economiche dominanti

Platone ed Aristotele andavano all’essenziale. Oggi non lo si fa più

Oggi si mercifica e si include anche la critica ribellistica.
Non si accetta quella fondata sulla natura umana: progettuale

Come dovrebbe essere un modo di produzione sociale per essere migliore?

Capire come le cose devono essere, non solo come le cose sono
La kallipolis aristotelica.
Chi vive senza un fine e senza un progetto, conduce davvero una ben misera esistenza

Non basta il ribellismo.
La critica, anche etimologicamente, rinvia alla decisione

Chi vuole fare filosofia deve ragionare sull’intero. Ogni modo di produzione è storico

Preparare su solide fondamenta quanto meno il progetto


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Alessandro Monchietto – Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi.

Quale progettualità?

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Alessandro Monchietto

Quale progettualità?
A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi.

***

1. Ho letto con gratitudine e interesse le riflessioni che l’amico Luca Grecchi ha sviluppato in un recente saggio dedicato al tema della progettualità1. In questo contributo mi limiterò a proporre qualche breve spunto, nella speranza possa fungere da stimolo al prosieguo del dibattito.
Ritengo che tra Grecchi e lo scrivente la differenza sul tema della progettualità (“un alternativo modo di produzione sociale possibile/desiderabile”) sia di grado e non di sostanza: non avrei difficoltà ad accogliere tutto quel che Luca scrive a proposito, e considero lo sfondamento su questo fronte già riuscito (perché la porta era aperta).
Il mio intento sarà dunque quello di trattare sinteticamente questo primo aspetto, per soffermarmi poi con maggiore attenzione sul punto nodale della questione che – come rileva Grecchi – “riguarda il concetto che costituisce la base di ogni progettualità, ossia la natura umana”.

2. L’obiezione che mi viene implicitamente mossa nel testo Sulla progettualità è “una sostanziale marginalizzazione del tema teoretico (il lungo termine), ed uno schiacciamento sul tema prassico (il breve termine)”.
Contrariamente a quanto viene argomentato nel saggio, credo che il discorso riguardi essenzialmente le priorità (la nostra vita è limitata ed è inevitabile prevederle) e non la direzione da intraprendere. Condivido l’idea secondo cui l’unico gesto critico, l’unica critica seria che si possa filosoficamente avanzare è quella che prende in carico “il sistema tutto nelle sue strutture fondamentali”; ma ritengo cruciale difendere gli spazi di manovra (necessari ma non sufficienti) per potersi un giorno avvicinare a un “modo di produzione sociale migliore”. [… Leggi tutto nel PDF allegato]

Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi


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Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.

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Opere filosofiche giovanili

Opere filosofiche giovanili

 

«L’alienazione della vita umana resta […] un’alienazione tanto più grande quanto più si abbia coscienza di essa come tale: se può esser consumata, lo è solo mediante il comunismo messo in opera.
Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato.
Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista».

Karl Marx, Opere filosofiche giovanili,
a cura di Galvano della Volpe,
Editori Riuni, 1969.

 


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