Elsa Morante (1912-1985) – L’evasione non è per me. Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!

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«Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!».
E. Moranre, Alibi, 1958.

La vita nel suo movimento

La vita nel suo movimento

Elsa Morante, La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche (1950-1951), a cura di Goffredo Fofi, Einaudi, 2017. Le recensioni cinematografiche scritte negli anni Cinquanta per un programma radiofonico. Con un appendice di suoi scritti sul cinema.

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All’inizio del 1950 la Rai assegnò a Elsa Morante l’incarico di critico cinematografico per un programma radiofonico settimanale. La Morante era molto interessata al cinema (aveva anche avuto esperienze dirette in occasione della sceneggiatura di un film di Lattuada) e prese molto sul serio questo incarico. Finché un giorno i funzionari Rai rifiutarono di mandare in onda una sua recensione in cui criticava un film italiano di guerra (Senza bandiera di Duilio Coletti) accusandolo di nostalgie fasciste. Elsa non tollerò la censura e, dopo meno di due anni, interruppe la collaborazione.
Ora le quarantasette schede scritte in quel biennio 1950-51 sono state raccolte da Goffredo Fofi e vengono qui pubblicate per la prima volta. Vi sono recensiti i film dell’adorato Visconti, quelli di Orson Welles giudicati tra luci e ombre («eccezionali qualità del regista», «torte barocche avvelenate dal cattivo gusto»), e poi John Ford, Vincente Minnelli, Clouzot, Germi e tanti altri, maggiori e minori. Con un’appassionata prefazione dello stesso Fofi che, anche a partire dai ricordi personali, traccia il complesso rapporto della scrittrice con il cinema. E in appendice altri brani inediti della Morante sul cinema, sul suo ambivalente rapporto col neorealismo, sul suo apprezzamento dei film di Pasolini…

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Elsa Morante nasce a Roma nel 1912. Inizia molto giovane a scrivere favole, filastrocche e racconti per ragazzi pubblicati su diversi giornali, fra i quali il «Corriere dei Piccoli» e «Oggi». Una serie di questi racconti giovanili confluisce nel suo primo libro, Il gioco segreto, uscito nel 1941 e seguito l’anno dopo da Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina. Nel 1936 conosce Alberto Moravia, che sposerà nel 1941. Il suo primo romanzo è del 1948, Menzogna e sortilegio; il successivo, L’isola di Arturo , del 1957. Nel 1958 pubblica un libro di poesie, Alibi (ripubblicata nei «Supercoralli classici» nel 2004 con in appendice Quaderno inedito di Narciso e nel 2012 negli «ET Poesia»). Nel 1961 si separa da Moravia. Del 1963 è la raccolta di racconti Lo scialle andaluso, del 1968 Il mondo salvato dai ragazzini (ripubblicato da Einaudi nel 2006 e nel 2012), del 1974 il suo ritorno al romanzo con La storia, libro che ha un enorme successo. È un romanzo anche il suo ultimo libro, Aracoeli, del 1982. Dopo un lungo periodo di malattia muore a Roma nel 1985. Postumi sono usciti, da Einaudi come quasi tutti i suoi libri, il Diario 1938 e i Racconti dimenticati. Nel 2012 è uscito, sempre per Einaudi, L’amata. Lettere di e a Elsa Morante (Fuori Collana), curato dal nipote Daniele Morante. La sua opera complessiva è raccolta in due volumi nei Meridiani Mondadori, a cura di Cesare Garboli.

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Introduzione di Goffredi Fofi

 

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Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ciascun momento, ciascun attimo è di un valore infinito. Noi esistiamo proprio per rendere eterno ciò che è passeggero.

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La libertà come la vita
si merita soltanto chi ogni giorno
la dovrà conquistare».
J.W. Goethe, Faust.

 

 

Conversazioni con Goethe

Conversazioni con Goethe

«Fermati, attimo! Sei bello!».

«Ciascun momento, ciascun attimo è di un valore infinito, poiché esso è il rappresentante di tutta un’eternità».

Johann Wolfgang von Goethe, in  Johann P. Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, Einaudi, 2008.


Massime e riflessioni

Massime e riflessioni

«Compiango gli uomini che si lamentano tanto della transitorietà delle cose e si perdono nella contemplazione della vanità terrena. Noi esistiamo proprio per rendere eterno ciò che è passeggero; e questo può avvenire quando si apprezzi sia il transeunte che l’eterno».

Johann Wolfgang von Goethe, Massime e riflessioni [1833], Rizzoli, 2013.


Su questo tema goethiano, cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Milano, 2010.

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Peter Sloterdijk – Devi cambiare la tua vita! Questo è il comando metanoico per eccellenza. Esso fornisce la parola chiave per la rivoluzione. È soggetto chi si dedica a un programma per eliminare da se stesso la passività e passa dal mero essere-formato al versante del darsi-forma.


Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Non si può chiedere al fisico di essere filosofo; ma ci si può attendere da esso che abbia sufficiente formazione filosofica
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Qualunque sogno tu possa sognare, comincia ora.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ma le notti Amore mi vuole intento a opere diverse: vedo con occhio che sente, sento con mano che vede.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Nell’uomo vi è una scintilla più alta, la quale, se non riceve nutrimento, se non è ravvivata, viene coperta dalle ceneri della necessità e dell’indifferenza quotidiana.

 


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Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Roberto Marchesini «Alterità. L’identità come relazione»

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La solitudine dell’Homo sapiens è un male che a partire dal Rinascimento la cultura europea difende come se fosse invece una condizione di pienezza, un privilegio, una differenza che diventa superiorità etologica. Nel suo Alterità. L’identità come relazione (STEM Mucchi Editore, Modena 2016, pagg. 189, € 16) Roberto Marchesini sostiene invece che sarebbe tutto «più semplice se finalmente accettassimo di non essere soli, di non essere universi a parte, viaggiatori nella solitudine della notte» (p. 55) ma di rappresentare uno dei tanti frutti delle relazioni e dell’intero di cui siamo parte.

Non siamo compartimenti stagni ma soglie di coniugazione. Non siamo strutture permanenti ma entità che emergono dal flusso temporale. Non siamo dispositivi autarchici ma scambi di alterità con tutto ciò che delimita i nostri corpi e che però li forma, li plasma, li nutre, li guida nell’ambiente, li significa nei simboli, li rende vivi, splendidi, mortali. Non siamo freddezze che osservano il mondo, siamo invece bisogni che lo desiderano. Siamo cura verso noi stessi e verso gli altri, siamo reciproche coniugazioni di necessità e di doni. Siamo -in una parola- Mitsein, essere-con.

Soltanto un’«ontologia relazionale» può cercare di descrivere e comprendere la natura umana dentro la natura tutta intera, l’animalità umana dentro l’animalità. Un’ontologia post-cartesiana e post-umanistica che riconosca nell’eterospecifico, nell’animale, una delle condizioni di ogni specie, compresa la nostra; un’ontologia consapevole del fatto che la differenza è la condizione di ogni identità.

Se «la visione antropocentrica, ostinatamente cieca sui processi relazionali, rappresenta oggi il più grave rischio per l’essere umano, condannato al ruolo di ‘buco nero’ del pianeta» (p. 78), se la pretesa di essere il centro del mondo sta mettendo a rischio l’intero ecosistema, se l’illusione di costituire la sintesi del cosmo e i padroni di noi stessi si sbriciola nella dipendenza ormai reale ed evidente dagli algoritmi e dalle macchine con le quali comunichiamo, ciò significa che è arrivato il momento nel quale l’emancipazione dall’animalità transiti verso l’emancipazione dell’animalità e nell’animalità, poiché è nell’animalità che riconosciamo con chiarezza il nostro essere-con.

L’animalità che siamo -calda, costitutiva, antica- ci salvaguarda dall’illusione di costruirci da soli, dal sogno autarchico pronto a trasformarsi nell’incubo della servitù verso le nostre macchine e i nostri desideri. Riconoscerci come gli animali che siamo significa accettare la carnalità dei nostri bisogni, senza la pretesa di dominarli con uno sguardo soltanto razionale. Significa convivere con i nostri dispositivi nella consapevolezza della loro autonomia dal nostro controllo. L’ontologia relazionale diventa così forma ed espressione dello sguardo filosofico, da sempre sapiente del limite.

 

Alberto Giovanni Biuso

www.biuso.eu

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[Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto del 14 marzo 2017]


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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il quieto accontentarsi del reale si trasformi nel coraggio per qualche cosa di diverso.

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«Il quieto accontentarsi del reale [das Wirkliche], la mancanza di speranze, il paziente rimettersi ad un destino troppo grande e onnipotente, si è trasformato in speranza, in attesa, nel coraggio per qualche cosa di diverso. Nelle anime degli uomini è entrata con vivacità l’immagine di epoche migliori e più giuste; una brama, un anelito verso condizioni più pure e più libere ha scosso tutti gli animi e li ha posti in discordia con la realtà. L’impulso a sfondare le barriere meschine ha collocato le sue speranze in ogni avvenimento […]. Universale e profondo è il sentimento che l’edificio dello Stato, così come ancora sussiste, non può più reggersi […]. Come sono ciechi coloro i quali si lasciano indurre a credere che istituzioni, ordinamenti politici, leggi che non corrispondono più ai costumi, ai bisogni, alle opinioni degli uomini, dai quali lo spirito è fuggito, possano continuare a sussistere, e che forme le quali lasciano indifferente la parte intellettuale e quella sensibile dell’uomo siano tanto forti da costituire ancora il vincolo che tiene unito un popolo!».

 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Sulle più recenti vicende interne del Württemberg e in particolare sui vizi dell’ordinamento municipale ¡1798], in Id., Scritti politici, a cura di C. Cesa, Torino, 1972.

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Luce Irigaray – L’«a» è garante di due intenzionalità: la mia e la tua. In te amo ciò che può corrispondere alla mia intenzionalità e alla tua. Non basta guardare insieme nella stessa direzione, occorre farlo in un modo che non abolisca le differenze ma le renda alleate.

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Amo a te

Amo a te

 

Risvolto di copertina

Questo libro parla d'amore, amore delle donne per gli uomini e degli uomini per le donne, un amore che le donne di oggi sono invitate a rienventare: non più rivendicazioni di uguaglianza e non più separatezza, dunque, ma l'apertura a un rapporto che elimini ogni sfumatura di possesso. Non più "io ti amo", "io amo te", ma "amo a te", dove la "a" indica il riconoscimento di una differenza, di una irriducibilità e anche l'esitazione piena di rispetto di fronte al mistero dell'altro, un silenzio, una rinuncia a ogni forma di appropriazione: è il modello di una nuova forma di rapporto fra i sessi e di un nuovo modo di amare.

 

Amo a te significa «osservo nei tuoi confronti un rapporto di in-direzione». Non ti sottometto, né ti consumo. Ti rispetto (come irriducibile). Ti saluto: saluto in te. Ti lodo: lodo in te. Ti ringrazio: rendo grazie a te per … Ti benedico per. Ti parlo, non soltanto di una certa cosa, ma ti parlo a te. Ti dico, non tanto questo o quest’altro, ma ti dico a te.

L’a è il garante della in-direzione. L’a impedisce il rapporto di transitività, in cui l’altro perderebbe la sua irriducibilità, e la reciprocità non sarebbe possibile. L’a mantiene l’intransitività tra le persone, l’interpellanza, la parola o il dono interpersonali: parlo a te, domando a te, do a te (e non: ti do te a un altro).

L’a è il segno della non-immediatezza, della mediazione tra di noi. Quindi, non «ti ordino o ti comando di fare tale o talaltra cosa», il che potrebbe equivalere a «ti ordino a tali cose, ti sottometto a tali verità, a tale ordine», che possono corrispondere a un lavoro, ma anche a un godimento, umano o divino. E neppure «ti seduco a me», in cui il «tu» diventa «a me» e l’«amo a te» diventa «amo a me». E neppure «ti sposo», nel senso di «faccio di te mio marito o mia moglie» ossia «ti prendo, ti faccio mio (a)». Ma «desidero essere attenta(o) a te nel presente e nel futuro, ti chiedo di restare con te, sono fedele a te».

L’a è il luogo di non-riduzione a oggetto della persona. Ti amo, ti desidero, ti prendo, ti seduco, ti ordino, ti istruisco ecc. rischiano sempre di annientare l’alterità dell’ altro, facendolo(a) divenire un mio bene, un mio oggetto, riducendolo(a) al o nel mio, cioè a qualcosa che già fa parte del mio campo di proprietà esistenziali o materiali. L’a è anche una barriera contro l’alienazione della libertà dell’altro nella mia soggettività, nel mio mondo, nella mia parola …

Amo a te significa quindi «non ti prendo né come oggetto diretto, né come oggetto indiretto girando attorno a te». […] L’a è garante di due intenzionalità: la mia e la tua. In te amo ciò che può corrispondere alla mia intenzionalità e alla tua.

[…] Il problema del noi è il problema di un incontro che avviene secondo una sorte in qualche modo giusta (un kairos?), o, in parte, il problema di un caso di cui ci sfugge la necessità, ma è anche o soprattutto il problema della costituzione di una temporalità: insieme, con, tra. L’impegno sacramentale o giuridico, l’obbligo di riprodurre hanno troppo spesso tentato di risolvere questo problema: come costruire tra di noi una temporalità? come unire nel tempo due intenzionalità? due soggetti?

Infatti fare di te il mio bene, il mio possesso, il mio, non realizza l’alleanza tra noi. Questo gesto sacrifica una soggettività all’altra. L’a diventa un possessivo, l’indizio di un possesso, non di una proprietà esistenziale, a meno di dire che l’uomo è un possessore che trasforma in leggi i propri istinti. In questo caso, l’a del possesso non è più bilaterale. Tu appartieni a me, spesso senza reciprocità. Divenendo mio(a), tu perdi la libertà della reciprocità, oltre al fatto che il possessore è poco disponibile ad appartenere a qualcuno. L’attivo e il passivo si ripartiscono tra chi possiede e chi è posseduta(o), per esempio l’amante e l’amata. Non ci sono più due soggetti in relazione amorosa. L’a cerca di evitare di ricadere nell’orizzonte di riduzione di un soggetto all’oggetto, al bene proprio […]. Se sono attenta(o) alla tua intenzionalità, alla tua fedeltà a te stesso(a) e al suo/tuo divenire, mi è permesso immaginare se una durata può esistere fra di noi, se le nostre intenzionalità possono accordarsi.

Queste intenzionalità non possono ridursi a una. Non basta guardare insieme nella stessa direzione, secondo le parole di Saint-Exupéry, oppure occorre farlo in un modo che non abolisca le differenze ma le renda alleate. […] Tali alleanze possono dare a ciascuno(a) un sostegno nella realizzazione della sua intenzionalità.

Così: tu non mi conosci, ma sai qualcosa del mio apparire. Puoi ugualmente percepire le direzioni e le dimensioni della mia intenzionalità. Non puoi sapere chi sono, ma puoi aiutarmi a essere scorgendo quello che mi sfugge di me, la fedeltà o le infedeltà a me stessa(o). Puoi così aiutarmi a uscire dall’inerzia, dalla tautologia, dalla ripetizione, o anche dall’erranza, dall’errore. Puoi aiutarmi a divenire pur restando me stessa(o).

Questa alleanza, dunque, non ha nulla del matrimonio contrattuale che mi strappa a una famiglia per incatenarmi a un’altra; nulla che mi sottometta come discepolo(a) a un maestro(a), nulla che mi prenda la mia verginità, che blocchi il mio divenire in una sottomissione all’altro (garantita da un Altro o da uno Stato), nulla che costringa la mia natura alla riproduzione. Si tratta piuttosto di una nuova tappa della mia esistenza, quella che mi permette di realizzare il mio genere in un’identità specifica, legata alla mia storia e a un’epoca della Storia […].

 

Luce Irigaray, Amo a te, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 114-117.

 

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Kathleen Battke – «Perle di cenere». Portare Testimonianza ad Auschwitz. Contributi di ottanta partecipanti provenienti da paesi diversi che raccontano la propria esperienza.

Kathleen Battke

Perle di cenere

 

Kathleen Battke

KATHLEEN BATTKE

(a cura di)

PERLE DI CENERE

VENTI ANNI DI RITIRI

PORTARE TESTIMONIANZA AD AUSCHWITZ

Nel novembre del 2016 si è svolto il ventesimo ritiro Portare Testimonianza ad Auschwitz, promosso annualmente dallo Zen Peacemaker Order e ispirato da Bernie Glassman. Questo libro raccoglie i contributi di ottanta partecipanti provenienti da Paesi diversi che raccontano la propria esperienza. Un ingrediente fondamentale del ritiro è la condivisione in piccoli gruppi (council) che si tiene ogni mattina prima di recarsi nel luogo dove sorgeva il campo di sterminio di Birkenau: l’invito è di parlare in prima persona, a partire dall’emozione che in quel momento si prova e di ascoltare dal cuore, senza giudicare, per accogliere nella loro interezza le parole (e i silenzi) dell’altro. Perle di cenere, il titolo scelto dalla curatrice dell’edizione originale ci porta fin da subito in questa preziosa dimensione di assoluta unicità dove ogni storia risuona con il proprio timbro posandosi delicatamente accanto alle altre, offrendo testimonianza. Meditare, pregare o semplicemente aggirarsi tra i resti di Auschwitz costringe a domande le cui risposte rimarranno sempre parziali. I tre principi degli Zen Peacemaker, che costituiscono le linee guida del ritiro, incoraggiano a inoltrarsi nello spazio del non conosciuto per portare testimonianza a tutto ciò che si incontra, dentro e fuori da sé, perché possa emergere l’azione più appropriata, più integra. Le parole di questi testi trasmettono il sapore di un’esperienza che può aprire il cammino a uno sguardo diverso sul senso della propria vita, tenendo viva la domanda “cos’altro dobbiamo ascoltare?”

Lo Zen Peacemaker Order, fondato e ispirato da Bernie Glassman, organizza dal 1996 il ritiro Portare Testimonianza ad Auschwitz. In seguito ritiri analoghi si sono svolti anche in Ruanda, alle Black Hills in Sud Dakota e nel 2017 in Bosnia.

Edizione italiana e postfazione a cura di Roberto Mander.

ISBN 978-88-98963-63-8

Euro 16,00 , p. 256

Sensibili alle foglie

Collana a cura di Roberto Mander

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Locandina presentazione di «Perle di Cenere»

 

A seguire la proiezione del documentario

Auschwitz è il mio insegnante

di

Katia Bernardi


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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza. Attingere il proprio fine e la propria missione non dal consacrato corso delle cose esistenti.

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Attingere il proprio fine e la propria missione non dal sistema tranquillo e ordinato, dal consacrato corso delle cose esistenti

«[Occorre attingere] il proprio fine e la propria missione non dal sistema tranquillo e ordinato, dal consacrato corso delle cose esistenti; è un’altra sorgente quella a cui attingere. È lo spirito nascosto, che batte alle porte del presente, che è tuttora sotterraneo, che non è ancora progredito a esistenza attuale ma che vuole prorompervi; lo spirito per cui il mondo presente non è che un guscio, il quale contiene in sé un nocciolo diverso da quello che converrebbe al guscio».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1941-63.

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La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza

«La filosofia non è sonnambulismo, ma piuttosto la più vigile coscienza; e l’opera dei filosofi consiste appunto nell’aver tratto il razionale in sé dalle profondità dello spirito, dove esso si trova dapprima solo come sostanza, come essenza interiore, e nell’averlo recato alla luce, nell’averlo sollevato alla coscienza, al sapere; consiste, insomma, in un progressivo risveglio [sukzessives Erwaehen]».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke in zwanzig Bänden. Redaktion E. Moldenhauer und K.M. Michel, Frankfurt a.M., 1970, Bde. 18-20.

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Solone (638-558 a.C.) – Armonizzerò le leggi con i bisogni dei cittadini in maniera tale che tutti vedano chiaramente come meglio giovi vivere nella giustizia che trasgredire le leggi.

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Solone

«Ai greci [...] il dio ha dato di essere misurati in tutto
e per questo senso della misura siamo partecipi di una saggezza cauta [...].
Vedendo che la vita è soggetta continuamente a vicende d'ogni genere,
essa non ci permette di ingorgoglirci dei beni presenti
né di ammirare la sorte di un uomo
quando ancora ha il tempo di cambiare.
A ciascuno, infatti, vario sopravviene dall'ignoto il futuro».

Diogene Laerzio, Le Vite dei Filosofi, VIII, 51.
 °°°
«Anacarsi, avendo saputo che Solone attendeva alla stesura della sua costituzione, scoppiò a ridere dell’impresa cui si era accinto, poiché pensava di combattere l’iniquità e l’avidità degli uomini mediante parole scritte:
– Il tuo codice, – disse, – sarà come una ragnatela: come le ragnatele stringerà i deboli e i timidi che vi incapperanno, mentre i potenti e i ricchi la stracceranno.
Al che Solone gli rispose:
– Gli uomini osservano i contratti quando non gioverebbe a nessuna delle due parti violarne le clausole. lo armonizzerò le leggi con i bisogni dei cittadini in maniera tale che tutti vedano chiaramente come meglio giovi vivere nella giustizia che trasgredire le leggi».
 °°°
Plutarco, Solone, 5. Cfr., inoltre, Diogene Laerzio I, 58.
La vita di Solone

La vita di Solone


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Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

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Il tempo consumabile dell’età moderna

La società dello spettacolo di Guy Debord tratteggia il fondamento ontologico del capitalismo assoluto: il tempo naturalizzato, il tempo ciclico del neopagenesimo prono all’idolatria delle merci. La sostanza taciuta alberga in ogni luogo, in ogni individuo reso funzione, nella ripetizione compulsiva del gesto e della scelta programmata dallo spettacolo delle immagini. La mosca è nella bottiglia e non riesce a trovare l’uscita dal collo della bottiglia, direbbe Wittgenstein. Il tempo ciclico è trasparente e tagliente come il vetro di una bottiglia: c’è, costruisce l’ordito delle alienazioni, ma si è ritirato nel silenzio religioso; l’innominabile è il sovrano delle esistenze, precarizza e porta con sé l’oblio della storia. Non più lessicalmente presente, in quanto l’asservimento alla società dello spettacolo regna, gli intellettuali servono, ormai organici alle caverne del potere del tempo ciclico e dell’assenza della storia. Debord evidenzia che il tempo ciclico della produzione, è il tempo artificiale dell’industria, tempo della tecnica, tempo del dispositivo, penetra capillarmente in ogni strato della coscienza per ridurla ad oggetto. Il tempo ciclico dell’industria ha inaugurato una nuova categoria temporale della ripetizione a ritmo di produzione, consumo, distruzione. La trinità pagana del ciclo temporale consente la sopravvivenza al neointegralismo della produzione per il consumo ed è inversamente proporzionale alla vita: il tempo ciclico sottrae vita per permettere la sua espansione illimitata: «Il tempo pseudo-ciclico è quello del consumo della sopravvivenza economica moderna. La sopravvivenza aumentata, in cui il vissuto quotidiano rimane privato di decisione e sottomesso non più all’ordine naturale, ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato; e questo tempo ritrova dunque del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che regolava la sopravvivenza delle società preindustriali».[1]

Il tempo ciclico delle società industriali non sfugge al destino, al fato che occhieggia dall’abisso, ovvero esso stesso fondamento dei vissuti senza decisionalità effettiva, è divorato dal ciclo artificiale del tempo. Crono è tra di noi, divora i suoi figli, ma ha fatto un passo in avanti. Non può sfuggire alla sua legge: «deve divorare se stesso», per cui il tempo ciclico artificiale è il tempo del nulla, del nichilismo realizzato, dell’impensabile che si avvera, tutto è consumo. Il tempo che fonda la ritualità del consumo è divorato dai suoi sudditi. Non vi è spazio per il tempo della decisione, del pensiero riflesso, il sistema sopravvive divorando se stesso ed annichilendo ogni possibile dissenso che vive del tempo: «Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile, che raccoglie tutto ciò che si era precedentemente distinto, durante la fase di dissoluzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica, vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene allora ad essere trattato come materia prima di nuovi prodotti diversificati, che s’impongono al mercato come forme di impiego di tempo socialmente organizzato».[2]

Il tempo globale estende la sua rete e le sue caverne su ogni parte del globo, lo spazio dev’essere asservito al tempo artificiale, in tal modo ogni differenza è divorata e sostituita dalle immagini, le reti relazionali sempre più fitte della società dello spettacolo e della comunicazione si dipana in una ripetizione di immagini sempre uguali nei contenuti, apparentemente differenti nelle forme: «La storia universale diviene una realtà, perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che dappertutto simultaneamente è la stessa, non è ancora che il rifiuto intrastorico della storia».[3]

Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale. Il tempo irreversibile delle merci è il tempo della quantificazione a cui la coscienza non deve sfuggire. La storia chiude il suo ciclo. Il tempo ciclico vorrebbe divorare la storia e che terminasse con l’energia prometeica della produzione. Nessun delitto è perfetto, per cui la storia assassinata dal tempo artificiale ciclico ha lasciato le sue tracce, le sue contraddizioni, l’ordito per ricostruire nuovi orizzonti nella decodifica collettiva del presente vissuto. Siamo chiamati, vocati al compito di rintracciare i delitti e le categorie che non appaiono, per destrutturarle, perché la storia riprenda il suo soffio vitale, e la corrente calda ci richiami a nuova vita.

Salvatore Antonio Bravo

La Société du Spectacle

La Société du Spectacle

[1] Guy Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini & Castoldi, 2013, p. 142.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, p. 137.

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Silvia Fazzo – La concezione aristotelica dei principi trova nel libro Lambda della Metafisica la sua esposizione più completa ed esauriente. La comprensione del libro però non è un processo lineare: richiede, fra l’altro, che si faccia in qualche modo tabula rasa della tradizione esegetica.

Silvia Fazzo 01

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Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

 

Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele

 


Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Commento al libro Lambda della Metafisica di Aristotele

Bibliopolis

La concezione aristotelica dei principi trova nel libro Lambda della Metafisica la sua esposizione più completa ed esauriente. La comprensione del libro però non è un processo lineare: richiede, fra l’altro, che si faccia in qualche modo tabula rasa della tradizione esegetica. Di qui, la scelta di aderire al dettato preciso del testo, dopo averlo restituito in edizione critica nel corso del precedente volume (LXI-1, 2012). Su questa base, il commento si è svolto quanto possibile ex novo. Come esito, il libro Lambda acquista compiutezza formale, dal primo all’ultimo capitolo e si valorizza l’unità di svolgimento, Si evidenzia poi fin dall’inizio la coerenza d’intenti con altri dei libri che oggi chiamiamo Metafisica, cui Lambda si connette in una trama di continuo ripensamento: Lambda appare così, non bozza ante litteram, né percorso alternativo, ma parte integrante e compimento di uno stesso progetto scientifico, in concorrenza con le teorie accademiche e presocratiche dei principi.

 


Aporia e sistema.

La materia, la forma, il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia

 

Aporia e sistema. La materia, la forma, il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia

Aporia e sistema.

Ets

“Aporiai kai lyseis”, “aporie e soluzioni”: questo è il titolo che porta in greco la raccolta delle cosiddette “Quaestiones” di Alessandro di Afrodisia (l’Esegeta di Aristotele per eccellenza). Sono brevi opuscoli di carattere specialistico, sovente frammentari o poco rifiniti nella redazione, ma significativi dal punto di vista dottrinale, per il fatto stesso che attestano una fase travagliata e non ancora dogmatica nella storia dell’aristotelismo. Analizzati qui nel loro dettato letterale e nel loro contesto problematico, gli opuscoli lasciano emergere tendenze e tensioni intrinseche alla tradizione esegetica dei testi di Aristotele, e documentano il ruolo ed il metodo dell’attività di Alessandro nel conferire coerenza e compiutezza all’aristotelismo come sistema dottrinale. Al centro della presente ricerca sono in particolare alcuni temi cruciali: la relazione fra forma e materia, il problema della materialità e della fisicità dei corpi celesti, l’azione provvidenziale e ‘divina’ esercitata dai movimenti celesti sul mondo sublunare.

 

Alessandro di Afrodisia, placchetta del XVI secolo, Bode-Museum

Alessandro di Afrodisia, placchetta del XVI secolo, Bode-Museum


La provvidenza

Alessandro di Afrodisia, La provvidenza


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