Salvatore A. Bravo – Tempo astratto e tempo emancipato. C’è un tempo rivoluzionario in cui si diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria.

Tempo astratta e tempo emancipato
Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Salvatore A. Bravo

Tempo astratto e tempo emancipato in cui si diventa persona.

Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato

 

Il tempo del capitalismo assoluto è il tempo astratto. La percezione del tempo si fa concreta nella consapevolezza dell’aprirsi al mondo, nel tempo della partecipazione al mondo ed a se stessi: è il tempo vissuto, in cui il fluire si organizza non nella dispersione di sé, ma nel raccoglimento, nel processo di soggettivizzazione attiva. Il tempo diviene, così, dimensione della qualità dialogica e dialettica che accoglie il mondo, le rappresentazioni, i suoi stereotipi per rielaborarli nella creatività.
C’è un tempo rivoluzionario in cui il soggetto, non più individuo, atomo nel mondo al traino delle forze dei modi di produzione, diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. L’individualismo, espressione sostanziale del turbo capitalismo, si caratterizza per la temporalità generica ed astratta: il soggetto non vive il proprio tempo, ma il tempo del modo di produzione, vive al ritmo del dicitur, non osa essere libero. Gli è sconosciuta la dimensione interiore, del conflitto tra la rappresentazione del mondo e l’elaborazione personale e condivisa di un’altra modalità di vivere e rapportarsi al mondo. Il tempo fluido, martellante, fa del soggetto una parte organica del sistema, è il tempo del vuoto silenzio muto, non vi sono parole, ma solo muti silenzi vuoti di senso.
La caverna di Platone non è solo buio ed immagini, è il muto silenzio del tempo che scorre senza la dimensione del simbolico. Il tempo dei dormienti è l’invisibile forma che assume il nichilismo, avvolge, rassicura con un fluire che mentre chiede tutto, svuota il soggetto della sua capacità simbolica. Opporsi a tale modalità di potere – che entra nel corpo vissuto per svuotarlo della sua potenzialità simbolica –, non è facile perché si è portati in una dimensione che vuole ci si sottragga al conflitto, al fine di rendere la vita priva di vita. Si avvelenano le fonti della vita, prosciugandole con la distopia: le merci ed il denaro divengono le divinità tiranniche che promettono «ogni felicità», allontanano così il soggetto da se stesso, destabilizzandolo, ipostatizzando forme di dipendenza mascherate da libertà senza limiti e confini.
Il tempo è così ritagliato all’interno di categorie produttive che adescano con i loro miti. Nell’immediato, il soggetto – rassicurato dall’apparente concretezza del tempo astratto –, è teso con le sue energie verso l’immanente metafisica della merce. Il tempo nella ripetizione sempre uguale, malgrado il ritmo frenetico della produzione e del consumo, rallenta in quanto attimo segnato dalla violenza della coazione a ripetere. La comprensione dello stato presente può accadere in una pluralità di modi: talvolta la verità può delinearsi improvvisa nella lettura di un mito greco.

Il tempo dei dormienti
Aristotele con il mito dei dormienti descrive un piano della condizione umana possibile in ogni epoca:

«Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosta, a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda [secondo quanto alcuni raccontano, tois muthologouménois] dormono presso le tombe degli eroi [in realtà: presso gli eroi, parà tois erosin]: essi infatti uniscono l’”ora” precedente con quello successivo, facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di percezione [dia ten anasthesian], l’intervallo fra i due istanti. Così come, dunque, se l’”ora” non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi sia del tempo nell’intervallo tra i due. Se dunque la convinzione che non esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisibile; mentre invece, quando percepiamo l’”ora” e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è trascorso; è allora evidente che non esiste tempo senza movimento e cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è possibile senza il movimento».[1]

Nel profondo il modo di produzione del capitalismo assoluto ha lo scopo di mutare il tempo/coscienza, in modo da impedire al soggetto la percezione di essere stato determinato. La vita nel capitalismo assoluto, è un unico istante, senza differenze qualitative, vige solo il tempo della scissione individualistica, si presenta nella sua compattezza liquida, deve sottrarre al soggetto il tempo qualitativo, rivoluzionario, per renderlo simile ad un ente che opera per automatismi algoritmici.

Marx ed il comunismo: il tempo emancipato
Il tempo è la posta in gioco nel tempo attuale: la servitù, la condizione di alienazione si deve associare alla dispersione del tempo. Il capitalismo assoluto vorrebbe essere il signore del tempo, e dunque mettere in atto nella storia una nuova creazione, nella quale il tempo è negato, in questa maniera ipostatizza se stesso e pone nella condizione di famuli eterni i suoi servi fedeli e socialmente trasversali.
In Marx tale problema è sicuramente uno dei tratti del suo pensiero rivoluzionario: la scommessa futura per Marx è la possibilità data ad ogni essere umano con il comunismo di vivere il proprio tempo nel simbolico. Tempo rivoluzionario, il tempo del comunismo, perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria. Le potenzialità simboliche portano nel loro grembo la verità eterna di ogni essere umano, ovvero la comunicazione nel segno della reciprocità simbolica. Non a caso Marx, pur non avendo descritto la società comunista, ne ha teorizzato l’elemento essenziale: il tempo liberato dalla sussunzione formale e reale, dalla sottomissione al macchinismo, per essere tempo dell’emancipazione. La praxis rivoluzionaria apre la prospettiva di un orizzonte nel quale si ipotizza l’abolizione di ogni attività esclusiva, e cioè di un’organizzazione della società che

«regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».[2]

Se il tempo del capitalismo è il tempo dei dormienti, dei viventi stranieri a se stessi come alla comunità, il tempo del comunismo è il tempo che libera dalle scissioni, per rendere concreta la natura umana, le sue potenzialità espressive che non possono essere confinate in angusti limiti.

Il tempo che verrà
Il tempo è il luogo della vita, dell’unità, è il grande tema rimosso dalle “sinistre” del sistema. Naturalmente il silenzio sul tempo svela e rileva la realtà nichilistica delle “sinistre” omologate sul tempo dell’azienda. Il futuro si gioca sul senso e sugli usi del tempo: la “sinistra” senza metafisica, non può che schierarsi con il capitale, proprio perché è in assenza di una metafisica, di una visione olistica nella lettura del tempo presente e della storia.

Occorre riaprire il dibattito filosofico e politico sul problema del tempo e della vita: non è altrimenti pensabile riconfigurare il presente in una prospettiva nuova. La sfida a cui occorre rispondere la si può sintetizzare nell’aforisma di Nietzsche che giudica le macchine il mezzo più efficace per eliminare dalla storia la soggettività e formalizzare in modo sostanziale il trionfo dell’uomo mediocre ed adattato:

«La macchina come maestra. – La macchina insegna, attraverso se stessa, l’interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa fornisce il modello dell’organizzazione partitica e della condotta bellica. Non insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare il vantaggio della centralizzazione». [3]

 

La macchina può liberare il tempo dell’essere umano, come prospettato da Marx nel frammento su macchinismo, o renderlo schiavo. Tutto è ancora possibile, malgrado che il silenzio perduri su tale tema.

Salvatore A. Bravo

[1] Aristotele, Fisica, IV, 11, 218 b, II. 23-33 e 219 a, II. 1-2; traduzione di Luigi Ruggiu.

[2] K. Marx, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 24.

[3] F. Nietzsche, Umano troppo Umano, volume II, aforisma 218.

 

 

 


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Rossella Latempa – La scuola fabbrica di Capitale Disumano

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Rossella Latempa

La scuola fabbrica di Capitale Disumano

 

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Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano. L’individuo deve diventare puro investimento di sé, “performer obbligato” costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università – e dei loro “sacerdoti della valutazione”. Il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) è un misto di inchiesta, riflessione teorica, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano. Quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” non è un principio naturale ma un paradosso storico, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe”, nuovo fondamento della cultura contemporanea.

 

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Per introdurre il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) proviamo a partire dal suo rovescio. La metafora del rovesciamento (di senso, di condizioni, di vita) è spesso presente nelle pagine dell’autore, a cominciare dal titolo. Proprio il “capovolgimento nell’opposto” rappresenta lo stato d’animo di “scissione permanente” (p.31) dell’individuo che vive da Capitale Umano. Qualche anno fa, Piero Cipollone e Paolo Sestito, nomi noti a chi segue le vicende politiche scolastiche (ex commissari straordinari INVALSI, oltre che economisti della Banca d’Italia) scrivevano “Il capitale umano, come far fruttare i talenti” (Il Mulino, 2010).

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Un breve saggio “dedicato agli insegnanti” che racconta come debba intendersi oggi l’istruzione in circa 100 pagine, con tanto di dati, indici e grafici. La loro idea è che il sistema educativo “debba essere inteso come Fabbrica di Capitale Umano” (p. 65), essendo quest’ultimo “uno stock di competenze e conoscenze [..] producibili e accumulabili” (p.9) la cui valorizzazione è “strada maestra per avviare le necessarie trasformazioni dell’economia italiana” (p.101).
A quest’immagine – di Scuola come Fabbrica, Insegnanti come commessi e Studenti come apprendisti del Capitale Umano – Ciccarelli contrappone la sua articolata analisi: un misto di inchiesta, riflessione teorica profonda, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano, in perenne alternanza scuola-lavoro. È questa la tesi centrale del libro, il cui intento, dichiarato fin dalla copertina, è provare a rovesciare questa logica tramite una presa di coscienza e di consapevolezza collettive.
Il Capitale Umano, quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” (p. 13), non è un principio naturale ma un paradosso storico, un ossimoro, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe” (p.13), nuovo fondamento della cultura contemporanea. Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano.
Dalla scuola di Chicago, anni 50/60, la logica dell’accumulazione arriva ad inghiottire con voracità “l’essere umano, considerato un bene prodotto da un’autonoma capacità di investimento” (p. 19), fino “alle falde più microscopiche”, “a partire dal Dna” (p.21). Non solo il suo lavoro vivo – la sua forza lavoro – ma le emozioni, i sentimenti, il sonno, le angosce: tutto deve essere messo a valore. L’ individuo deve diventare puro investimento di sé, dunque “performer obbligato”, costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo “dalle istituzioni di certificazione, valutazione e coercizione” (p. 27) dell’istruzione, che devono concorrere a costruire individui all’altezza degli standard di concorrenza globali. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università prima di tutto – e dei loro “sacerdoti della valutazione” (p.29).
Il ruolo dell’educazione è descritto con una cura e una precisione che evidenziano passione e attenzione per il destino dell’istruzione- della scuola in particolare –, tratti non comuni per chi, come l’autore, non sperimenti direttamente la quotidianità e la realtà viva del rapporto insegnante-studente.
È l’istruzione che permette di interiorizzare e formalizzare “l’investimento economico di sé come idea regolatrice della vita” (p. 55). Si va a scuola per introiettare l’arte della competitività e il mito del merito, coltivare la competenza di auto-imprenditorialità fin dalle elementari, perfezionandola lungo il percorso superiore e specializzandola nell’Università. Il lavoro del capitalista umano inizia da subito e non finisce mai: imparare e far fruttare i propri talenti e aggiornare le proprie competenze è un lavorio infinito, come infinito è il life long learning, la “vita in formazione continua”(p.56) a cui allude Ciccarelli. Il ciclo di crescita del capitale è diventato tutt’uno coi cicli scolastici, che insegnano ad investire, ciascuno secondo le capacità personali di accumulazione ed estrazione, nel proprio Capitale Umano.
Un Nuovo Vangelo, oggi, recita che il proprio tornaconto – “benessere”, nella neolingua della learning society – coincide con quello della società tutta. Sebbene ciascuno sia solo, faccia a faccia col proprio destino e i propri traguardi, bisogna credere che la concorrenza – unico bagliore di socialità – assicurerà prodigiosamente la prosperità collettiva. L’intera società apprende: il “principio-scuola” è esteso a tutta la comunità dei cittadini. E per scuola si intende una vera e propria educazione morale: auto-controllo, auto-ottimizzazione, auto-valorizzazione, consolidate passo dopo passo insieme all’autostima e alla resilienza. Si tratta di sviluppare “la mentalità del governo” di se stessi, di imparare a “considerare la vita come un apprendistato”, nell’illusione che l’apprendimento sia finalizzato al bene di individuo e società, mentre nella realtà si veicolano “pratiche necessarie alla riproduzione del sistema” stesso, che rinnova e amplifica differenze e disuguaglianze, sottraendo progressivamente all’individuo “la sua qualità più preziosa: l’autonomia” (p. 62).
La costruzione di questa narrazione, che Ciccarelli definisce un’”imbracatura ortopedica” (p.63) dell’educazione è avvenuta in circa un quarto di secolo, per mano di organizzazioni internazionali come l’OCSE e l’Unione Europea, che hanno progressivamente imbrigliato l’istruzione in “una rete di poteri pubblici e privati, filantropici e medici, imprenditoriali e familiari” che concorrono a sviluppare “modelli di comportamento di individui performanti e competitivi”, “da monitorare, profilare e valutare” (p. 64) secondo quei criteri che l’”agenda delle istituzioni” ha adottato per loro, e che Scuola – prima – e Università – poi – devono assumere e promuovere affinché siano frutto di una disciplina autonomamente accettata “in nome del proprio bene” (pag. 65). Gli studenti devono imparare ad essere i motori del proprio Capitale Umano, accettando il principio della formazione continua finalizzata alla certificazione delle capacità del “saper fare”, “sapere e dover essere”, ossia delle fantomatiche competenze. Sono proprio le competenze ad offrirsi concretamente come punto di contatto – snodo essenziale tra Istruzione e Lavoro. Esse garantiscono l’equivalenza tra produzione culturale (scolastica e accademica) e risorse umane impiegate nella realtà produttiva: sono l’interfaccia porosa tra Scuola, Università, Impresa, Lavoro. Competenze significano “qualifiche”, nel recente Quadro Nazionale[1], adottato sulla scorta delle indicazioni europee: una vera e propria “mappa” che fa corrispondere alle “uscite” dal sistema di istruzione e formazione gli “ingressi” nelle varie filiere della produzione. Non a caso, l’ente addetto al monitoraggio della corrispondenza competenze/qualifiche è l’Anpal, partorito dal Jobs Act e più volte protagonista delle pagine del libro. Competenze significano “comportamenti oggettivabili” (p.143), intesi come performance, di cui “dare conto” (accountability) e da registrare nel curriculum dello studente. Con La Buona Scuola ogni studente avrà finalmente un suo “libretto delle competenze”[2] anche in formato digitale[3], in cui saranno raccolte tutte le competenze sviluppate e misurate nel percorso di istruzione.
La costruzione dell’”avatar dello studente”, della “nuova carta d’identità con cui Stato e mercato governano l’esistenza” potrebbe essere utile alle imprese per “selezionare il profilo più adatto alle loro esigenze”: un profilo “morale di cittadino responsabile e trasparente agli occhi del panottico che tutto conosce” (pag. 156). Tra i dati e le esperienze raccolte nel portfolio studentesco spiccano due tipi di competenze: quelle certificate dall’Istituto di valutazione INVALSI[4] e i percorsi di alternanza scuola lavoro.

È proprio allo strumento dell’alternanza scuola-lavoro che l’autore dedica la parte centrale del testo, analizzando da punti di osservazione differenti uno degli strumenti principali per diventare Capitale Umano:

1) punto di vista storico-sociale.
Attraverso il paragone con l’istituto delle 150 ore degli anni Settanta e in un’inchiesta che raccoglie alcune esperienze a due anni dall’inizio del grande esperimento sociale della Buona Scuola, Ciccarelli smonta il racconto ipocrita dell’alternanza come “strumento gramsciano” di uguaglianza tra borghesi e operai, dimostrando come essa non si sia rivelata altro che un amplificatore di disuguaglianze e di opportunità tra Nord a Sud, centri e periferie, licei e professionali.

2) punto di vista internazionale.
L’autore marca la differenza sostanziale sia normativa che organizzativa con l’alternanza svolta in Germania, patria del modello di apprendistato ispiratore della politica del duo Renzi- Giannini. In Germania l’apprendistato duale è un obbligo – per gli studenti che seguono particolari percorsi di istruzione – che consiste nella specializzazione di un “mestiere”, svolto per il 70% del tempo nelle aziende e dietro pagamento di un salario da “apprendista”.

3) punto di vista giuridico-normativo.
Ciccarelli sottolinea l’opacità e la pericolosità di un dispositivo (quello dell’alternanza) “ai margini del diritto esistente” in cui i giovani sono “sospesi in uno spazio extra -giuridico” (p. 114) che non li rende né pienamente studenti, avendo “il dovere di rispettare le regole di comportamento, funzionali e organizzative delle strutture ospitanti” (p. 134) né pienamente lavoratori /apprendisti in quanto ancora titolari del diritto-dovere di istruzione e formazione, oltre che privi di un contratto di lavoro e di salario.

Emerge così la natura “vera” dell’alternanza, strumento di trasformazione delle soggettività e del paesaggio educativo:

  1. dispositivo di adattamento ed educazione morale, attraverso il quale far entrare gli studenti a contatto “con le storie, le idiosincrasie, i desideri del mondo degli adulti”, nella società in cui vige il primato culturale dell’impresa: in fondo è questo” l’oggetto del loro apprendimento” (p.115);
  2. dispositivo di destrutturazione dell’organizzazione, delle metodologie didattiche e della relazione insegnante/studente. L’alternanza enfatizza ed introduce surrettiziamente un modello di didattica “ispirata a un saper fare e ad un imparare facendo, trasformando l’insegnamento in un imparare lavorando”. Un nuovo approccio al sapere e allo studio: di tipo funzionale ed operazionale-pragmatico, basato sulle qualità di “intraprendenza, capacità di lavorare in gruppo, auto-efficacia, saper prendere decisioni” (p. 136). Un “soluzionismo” chiamato in base alla moda del momento problem solving o pensiero computazionale, con cui insegnare alla futura forza lavoro a svolgere compiti “quantificabili [..]e misurabili in maniera oggettiva” (p. 144);
  3. strumento di ridefinizione dello status giuridico dell’insegnante: controllore-controllato, misuratore-misurato delle performance degli studenti, quando non tutor interno dei percorsi progettati. Una sorta di consulente-certificatore da affiancare eventualmente con tutor territoriali dell’Anpal, “professionisti esterni il cui compito è vegliare sul funzionamento e la qualità dei percorsi di studio e lavoro” (p. 159), secondo i recenti protocolli di intesa Anpal – Miur;
  4. dispositivo di allineamento (matching), ennesimo intervento di politica attiva del lavoro. L’alternanza, insieme alle varie tipologie di sussidi condizionati e strumenti di flexsicurity, concorre a mettere in corrispondenza il sistema di domanda e offerta. È “un esercizio di adeguamento all’offerta occasionale” (p.76), un’esperienza immersiva del mondo della precarietà e dell’occupabilità, ossia della capacità “di transitare da un’occupazione ad un’altra” (p.149).

Dal quadro tratteggiato dall’autore – riportato solo in parte- emerge con chiarezza che quella del Capitale Umano è ben più di una semplice teoria economica. Piuttosto si tratta di “un rapporto sociale di produzione, basato sulla subordinazione politica e morale” (p. 32): un congegno antropotecnico con cui fabbricare nuove figure sociali e ridefinire lo status della cittadinanza. L’homo competens (p.143) è cittadino solo se lavora e assolve l’obbligo di formarsi, attivarsi e ri-attivarsi perennemente, nell’attraversamento di un mercato del lavoro dissestato e destrutturato da 30 anni di interventi e riforme. Nella società-scuola della formazione continua e della “piena occupazione precaria” (pag. 73), il senso dell’istruzione pubblica, dall’infanzia all’Università, cambia: da funzione-istituzione votata all’interesse generale ad investimento del singolo, impegnato nella competizione di tutti contro tutti.

Il libro, che fin dalla soglia si definisce “esercizio etico di presa di distanza” è disseminato un po’ ovunque di esortazioni alla liberazione. Tuttavia, l’Orizzonte che l’autore vuole offrirci emerge nel capitolo più poetico, l’ultimo: un’ode alla “potenza degli studenti” (p. 205) e – in qualche modo – all’energia e alla vita. Essere studenti, ci ricorda Ciccarelli, significa agire e vivere sottratti dalla logica dell’utilità e della produttività. Una condizione unica nella vita dell’uomo, in cui tutto è ancora possibile, tutto è pensabile e in cui si può “realmente sperimentare la potenza di cui [tutti] disponiamo”. Questo stato di singolare bellezza, spazio vuoto dell’immaginazione, andrebbe “curato, sviluppato e celebrato”, reso comune e disponibile a chiunque non possegga “tempo liberato” (Scuola come scholè, otium) per ragioni di nascita, di censo o di ruolo. Uno stato la cui utilità sta nell’esperienza stessa della sospensione: quell’ impiego libero del tempo per buono o cattivo, produttivo o improduttivo, perso o guadagnato che sia. Un tempo al di fuori dei rapporti familiari e delle regole di condotta di provenienza, lontano dagli obblighi sociali, in cui creare e ricreare il proprio mondo. Cosa possibile “quando conoscenza e pratiche sono lasciate libere di darsi la propria regola” e quando si è “a proprio agio” (p.216) con se stessi e gli altri.

L’autore ipotizza uno strumento concreto per affermare un’idea di Scuola Nuova e una Nuova soggettività: il reddito agli studenti, individuale e incondizionato. Un mezzo a partire dal quale neutralizzare il congegno civilizzatore del Capitale Umano riconoscendo una condizione collettiva: quella di forza lavoro, potenza vitale che ha pieno diritto – dapprima – al tempo liberato in quanto studente e – poi – all’esistenza e alla dignità, in quanto uomo. Un reddito universale.

Le pagine di Ciccarelli ci consegnano un’energia e un impulso ad alzare lo sguardo e provare a vincere quello che sembra un destino inevitabile, ma che è solo frutto della Storia: non una condanna, ma presente transitorio in un futuro imponderabile (“la possibilità di un’emancipazione è immanente alla vita”, pag. 174). L’invito è a svuotare il Capitale Umano che siamo diventati, liberandolo dai nostri corpi con le loro fibre e dalle nostre menti con le loro sinapsi. Un invito a riscoprire la nostra potenza, amplificata da una condizione che riguarda tutti: studenti, insegnanti, lavoratori, abitanti di questa Terra.

 

Rossella Latempa

 

Il saggio è già stato pubblicato su «Sinistrainrete» del 24-01-2019

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Note

[1] http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/01/25/18A00411/sg .

[2] Il commissario europeo all’Educazione E. Cresson ne auspicava uno, a superamento del già allora inattuale “titolo di studio”, nel lontano Libro Bianco del 1996 definendolo “tessera personale delle competenze”, vedi http://www.mydf.it/DOC_IRASE/librobianco_Cresson.pdf pag. 11.

[3] L’autore ci ricorda che è in corso la strutturazione del Portale Unico della Scuola in cui, sotto la tutela del Garante della privacy, rendere accessibili i profili di tutti gli studenti.

[4] Matematica, italiano e inglese.


Rossella Latempa e Giovanni Carosotti | Appello per la scuola pubblica – Torino 9-10 Giugno 2018

Convegno: “Aprire le porte: creazione sociale e pedagogica del mercato”.

 L’insegnante capovolto: anatomia del suo successo

Di percorsi abbreviati, alunni competenti e insegnanti efficaci. Cosa significa educare oggi?


 

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Koinè – «Per una scuola vera e buona». La scuola per essere buona deve essere prima di tutto vera. La scuola pietrificata di oggi disconosce la questione di fondo: vero è ciò che è conforme al fondamento. Bene è tutto ciò che si prende cura del fondamento, cioè dell’uomo.


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Piera De Piano – Per una definizione del tempo in Aristotele. Il libro di Luigi Ruggiu «Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo»

Piera De Piano 01

Tardoantichi

Koinonia, 42, 2018

KOINΩNIA, 42, 2018

 

Coperta 283

Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino

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  Logo Adobe AcrobatPiera De Piano, Per una definizione del tempo in Aristotele  Logo Adobe Acrobat

Recensione al libro di Luigi Ruggiu, Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2017.

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Nel 1970 Luigi Ruggiu, professore emerito di Storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dava alle stampe un’imponente monografia su Aristotele e la concezione del tempo di cui il volume qui recensito rappresenta una ristampa riveduta e corretta, con un aggiornamento bibliografico posto in appendice. A quella pubblicazione seguirono, dello stesso Ruggiu, una monografia interamente dedicata a Parmenide (1975) e, un ventennio dopo, la traduzione e il commento della Fisica di Aristotele (1995). Sono stati proprio questi studi, come dichiara l’Autore stesso, a trasformare negli anni il suo orientamento teoretico e ad allontanarlo da quella che era stata la sua «linea maestra», e cioè la prospettiva nichilista dell’interpretazione del testo aristotelico, prospettiva manifestamente dichiarata nel sottotitolo del volume ed ereditata direttamente da Emanuele Severino e dal suo saggio Ritornare a Parmenide del 1964. Tuttavia, la necessità di rendere fruibile le sue ancora stimolanti interpretazioni del testo aristotelico hanno convinto l’Autore a ristampare l’opera, diventata ormai introvabile, rinunciando ad una nuova edizione che avrebbe significato, ammette Ruggiu, riscrivere completamente la terza parte del volume e rivedere stilisticamente le prime due (pp. VII-X).

Tre, dunque, sono le parti che compongono la monografia: le prime due (La concezione del tempo e dell’istante e Coscienza e autocoscienza in relazione all’essere) sono dedicate più propriamente alle pagine aristoteliche del quarto libro della Fisica. La terza e ultima parte (Il tempo come fondamento della determinazione del senso dell’essere), invece, ha natura più speculativa e manifesta più evidentemente l’orientamento teoretico dell’autore, orientamento da subito dichiarato proprio da Emanuele Severino, che firma la prefazione al volume: il senso autentico dell’essere è quello di opporsi al nulla e quindi ogni filosofia che ammetta che l’essere possa non essere, cioè essere nulla, deve dirsi nichilistica; il primo filosofo ad aver teorizzato i tratti fondamentali della nientità dell’ente sarebbe stato – secondo Ruggiu – proprio Aristotele, affermando che è necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è (pp. 5-7). Il luogo proprio nel quale si realizzerebbe tale nientificazione dell’ente, secondo Ruggiu, è quello dell’analisi aristotelica del concetto di tempo, ed è illuminando questo snodo teorico che le quasi cinquecento pagine del volume acquistano senso e profondità.

Una difficoltà di queste pagine è legata alla scrittura dell’Autore, il quale non sempre distingue in modo chiaro la citazione del testo dall’interpretazione di esso. Sebbene l’aspetto più propriamente speculativo si sviluppi, infatti, nella terza parte del volume, fin da subito si ha l’impressione che l’esito dell’interpretazione condizioni troppo, fin dal principio, la lettura della pagina aristotelica. Considerato il valore d’indagine che conservano le prime due parti, ancora di indubbia utilità per il lettore moderno, su queste, e in particolar modo sulla prima, si concentreranno le note che seguono.

La problematicità della riflessione sul tempo proposta da Aristotele sta nel fatto che essa si inserisce pur sempre in un’ontologia «che determina il significato dell’essere sulla base della presenza, anche se quest’ultima può essere interpretata in diversi modi […]. Se il tempo viene ad essere sostanzializzato e considerato come disteso in linea retta nello spazio, passato e futuro o sono ricondotti al nulla oppure devono identificarsi con il presente» (p. 28). Se l’essere esiste solo nella presenza, e quindi nello spazio, come può esistere il tempo se esso ora è passato, ora è futuro?

Una prima soluzione dell’aporia si trova nel ricondurre l’ontologia del tempo a quella di una qualsiasi unità il cui essere è un durare. In tal senso si rende molto perspicua l’analogia tra la natura del tempo in quanto durata e la melodia: il nulla del passato e il nulla del futuro non sono un non-essere in senso assoluto; essi sono un niente di ora, dunque un «determinato nulla», non l’assoluta privazione dell’essere. Il fenomeno più facilmente percepibile in tal senso, secondo Ruggiu, è proprio quello della melodia: questa non può essere còlta semplicemente come composizione di una pluralità di suoni, ma come un tutto di cui fanno parte non solo il suono presente, ma anche quello passato; anzi senza quest’ultimo la melodia non sarebbe nemmeno più una melodia, risultando invece solo una serie di suoni irrelati l’uno rispetto all’altro (p. 30). La fisicizzazione del tempo e un’ontologia che riduce l’essere alla presenza portano a due conseguenze: o il passato e il futuro si possono pensare come frutto di semplice immaginazione, oppure il tempo si può pensare come un tutto che può legittimamente comprendere in sé parti riconducibili al non essere (p. 32).

Una seconda soluzione dell’aporia fa riferimento alla coscienza (è con questo termine che Ruggiu traduce il greco ψυχή). Ciò che si muove nel tempo, e quindi il non essere del passato e del futuro, si salva perché a esistere e non esistere non è – in questa prospettiva – il contenuto, ma la percezione del contenuto che si ha nella coscienza. Tale soluzione – si chiede però Ruggiu – riesce a tenere completamente lontano il tempo dal nulla? È a partire da questa domanda che lo studioso interroga il testo aristotelico soffermandosi sulla relazione tra tempo e movimento. Tempo e movimento sono fortemente intrecciati. La rappresentazione che ne abbiamo è che non esista tempo senza movimento né viceversa. Ma Aristotele dimostra anche come essi siano assolutamente distinti e separati. Ciò che è legato al movimento è piuttosto il tempo inteso in senso matematico, come unità di misura del prima e del dopo, ma non il tempo inteso in senso ontologico e metafisico. Ruolo importante in questa distinzione è quello rivestito, ancora una volta, dall’anima, che diventa così il ὑποκείμενον in senso primario, perché il fondamento in senso secondario è il contenuto della coscienza. Non esiste mutamento se non si ha coscienza del contenuto che muta e solo la coscienza consente di cogliere l’unità del flusso. Non esiste un tempo oggettivo. «Senza la presenza del mutamento nella coscienza, non si dà tempo, in quanto la presenza permane immutata e quindi, mancando il divenire dei contenuti della presenza, non può nemmeno esservi una percezione del tempo, che si costituisce come percezione di un flusso, cioè di un passato, dell’intervallo che intercorre tra passato e presente, del distinguersi vicendevole di questi diversi momenti» (p. 49). Tempo e movimento non s’identificano, ma non si dà tempo senza movimento (phys. 218b9 – 219a2). Il tempo è qualcosa del movimento: è quando percepiamo un ente che muta che percepiamo la successione insita nel divenire dell’ente, e quindi il tempo.

Accanto all’analisi testuale, Ruggiu non manca di discutere una ricca bibliografia critica. Sulla questione del rapporto tra tempo e movimento, per esempio, lo studioso prende le distanze tanto da Hamelin (Aristote, Physique II, traduction et commentaire, Paris 1931), che affronta sempre la questione in termini ontologici, quanto da Moreau (L’espace et le temps selon Aristote, Padova 1965), sostenitore invece di una prospettiva più precisamente psicologica, spostando invece la questione su un piano che egli definisce fenomenologico.

Il tempo non è una sostanza, cioè un τόδε τι, ma è un πάθος o una ἕξις del movimento (phys. 8, 1, 251b28; 4, 14, 223a 18). Ciò non significa però che il tempo sia una determinazione del movimento e che quindi esista in funzione di esso. Il tempo e il movimento hanno qualcosa in comune e questo qualcosa in comune è il τόδε τι, il ὑποκείμενον, il sostrato. Chiave di volta dell’interpretazione di questo nodo teorico è l’inserimento nel discorso del concetto di continuo come costitutivo di spazio, tempo e divenire. Il prima e il dopo (πρότερον καὶ ὕστερον) vengono evidentemente definiti in base a qualcosa che funge da principio, e quindi il punto nello spazio, l’istante nel tempo, il τόδε τι o τὸ κινούμενον nell’ente in movimento (cfr. Arist., met. 5, 11, 1018b 10). C’è qualcosa che ritorna ogni volta che ci si avvicina alla definizione ultima di tempo, sia quando si è dovuto ammettere che esso deve comunque in un certo qual modo sganciarsi dalla necessità di essere sempre qualcosa, sia quando ci si è avvicinati alla comprensione del divenire che è nel movimento. Questo qualcosa è la continuità esistente tra identico e differente, l’unità che esiste tra le parti e il tutto. Il tempo ha a che fare con ciò che sta a metà, che tiene unito ciò che è separato, che rende simili le cose dissimili. Ruggiu si sofferma molto su questa idea e costruisce di essa una lettura davvero stimolante, soprattutto considerando la temperie culturale in cui essa è stata formulata. Il divenire di un ente implica anche il permanere di quell’ente. Un soggetto che diviene, che muta, deve pur sempre conservare qualcosa, deve pur sempre rimanere, in relazione a qualcosa, identico a se stesso; altrimenti non ci sarebbe un divenire di quell’ente; non ci si accorgerebbe di un ente che muta, se di quell’ente che muta non permanesse qualcosa che lo rende riconoscibile in quanto «quell’ente che muta». Ecco perché il tempo è una successione, una durata, è la relazione anteriore-posteriore, πρότερον καὶ ὕστερον. Evidentemente bisogna che ci sia un principio, un punto di riferimento rispetto al quale far esistere il prima e il dopo. L’istante è il μεταξύ di questa durata, è il principio dell’anteriore e del posteriore e a questo punto riacquista la centralità del suo ruolo la coscienza: solo la coscienza può far sì che il divenire dell’ente sia percepito come tale e cioè come un permanere dell’ente che muta, che contiene in sé quel τόδε τι che lo identifica e che rimane uguale a se stesso nel mutamento. «La coscienza è la dimensione in cui l’ente nel suo passare permane, come memoria di ciò che non compare più nell’intramondano e come attesa di ciò che non è ancora fenomenologicamente comparso come ente intramondano» (p. 90). La coscienza quindi non è solo ratio cognoscendi del tempo ma anche sua ratio essendi: solo la coscienza può sapersi come identica e differente, può porre come identici e differenti i diversi contenuti della presenza.

Al di fuori della coscienza, diversità e identità sono senza significato. Prima e dopo esistono solo in quanto relazione della coscienza col contenuto fenomenologicamente presente: «è l’identità dell’autocoscienza che rivela il mutare delle determinazioni del τόδε τι e parallelamente le dimensioni del tempo in cui tale divenire si manifesta» (p. 91). A questo punto Ruggiu può arrivare alla definizione aristotelica del tempo quale:  ριθμὸς κινήσεως κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον (phys. 4, 11, 219b 1), «determinazione dell’anteriore-posteriore del divenire». Tale definizione in qualche modo compendia tutti gli elementi emersi nei due capitoli precedenti: il divenire, lo spazio incluso nel divenire, il rapporto di anteriore-posteriore, la coscienza come fondamento della determinazione (numero) del divenire nei suoi momenti costitutivi, il πρότερον e il ὕστερον.

Il terzo capitolo è allora dedicato alla concezione del tempo quale numero. Due sono le interpretazioni correnti di tale definizione: da una parte quella epistemologico-matematica, sostenuta tra gli altri da Moreau (op. cit.) e Guthrie (A History of Philosophy, 1962), che intende  ριθμός come numero puro e quindi pensa al tempo come a una determinata unità di misura; dall’altra quella ontologica, secondo la quale con il concetto di numero attribuito al tempo Aristotele intenderebbe affermare l’atto del porre in rapporto le diverse fasi del movimento, proprio dell’operare dell’anima. Se la prima, secondo Ruggiu, riduce arbitrariamente il numero a un’unità di misura astratta, la seconda, che ha in Hamelin (Le système d’Aristote, 1931) uno dei suoi principali esponenti, ha portato l’attenzione sulla natura relazionale del numero, per cui il numero è sempre numero di qualcosa, predicato di qualcosa, e sulla funzione numerante dell’anima. Una posizione intermedia è quella di Wieland (Die aristotelische Physik, 1960), autore di una interpretazione di «tipo operativo», come la definisce Ruggiu: il tempo non è un principio ontologico del reale, ma il modo o lo strumento con cui l’anima si rapporta al divenire. Nel suo rapportarsi al divenire l’anima ha bisogno di unità di misura, che individua nei moti della sfera celeste.

L’obiettivo di Ruggiu è invece mostrare come il numero svolga nell’anima la funzione teoretica di ricongiungimento del molteplice al tutto, uno e continuo che forma la realtà del tempo. Il numero non ha alcun significato matematico; esso è numero di cose e ha come oggetto un continuo successivo. Tale conclusione è ciò che più tiene legato l’Autore, per sua stessa ammissione, alle conclusioni del suo scritto di anni addietro. È proprio la considerazione del movimento in successione la chiave di volta dell’interpretazione di Ruggiu. Il numero è lo strumento con cui il molteplice viene unificato. Ciò è vero in qualsiasi numerazione degli enti; qual è però la peculiarità della numerazione rispetto al tempo? Mentre nel molteplice che coesiste nello spazio la relazione che introduce il numero non ha un senso e una direzione determinati, per cui il qui può essere pensato come il colà e viceversa, nel caso del molteplice successivo la direzione deve essere conservata nella relazione di separazione e di connessione che il numero introduce. Il numero matematico è la relazione del molteplice all’uno ma non determina se questo sia un molteplice di coesistenti o un molteplice di successivi. L’inserimento del numero nella definizione del tempo è importante perché è proprio il numero a portare con sé la presenza dell’anima: il numero per Aristotele esiste solo in relazione alle cose di cui è numero e in relazione all’anima che numera. Conoscere per l’anima è attualizzare, cioè porre ogni contenuto nell’attività della presenza della coscienza. Quando la coscienza si relaziona a un contenuto che diviene, a un ente che si offre come continuamente altro da sé, allora essa deve numerare una successione. Momento fondamentale di tale successione è l’esser-ora, l’istante, a cui Ruggiu dedica non poche interessanti riflessioni, nel quarto capitolo di questa prima parte. L’istante è privo di sostanza, non è un τόδε τι, dal momento che esso è numero ed è, come il tempo, sempre predicato di qualcosa. Vi è inoltre una stretta relazione, anzi una interdipendenza, tra tempo e istante, per cui l’uno esiste solo se esiste l’altro: Φανερὸν δὲ καὶ ὅτι εἴτε χρόνος μὴ εἴη, τὸ νῦν οὐκ ἂν εἴη, εἴτε τὸ νῦν μὴ εἴη, χρόνος οὐκ ἂν εἴη (phys. 4, 11, 219 b 33). Non è possibile considerare, alla maniera zenoniana, il tempo come una molteplicità di istanti indivisibili, configurati come unità minime di tempo. Ciò presupporrebbe una priorità ontologica dell’istante rispetto al tempo, concepito come da questo indipendente, ma anche, paradossalmente, a fondamento della concettualizzazione di esso. Ne consegue la definizione dell’istante non più come parte del tempo ma come suo limite. In quanto limite, l’istante è presente nella realtà temporale solamente in modo potenziale. «Tale potenzialità può attuarsi solo per opera dell’atto astrattivo della coscienza che, determinando l’esser ora dell’ente mosso, distingue nel tutto uno continuo della successione del mobile, un momento temporale – l’istante – che non è realtà per sé stante, ma emerge come distinto dal tempo per il tramite dell’atto di determinazione della coscienza» (p. 138). La natura dell’istante è una natura aporetica, in quanto esso è identico e diverso al tempo stesso. Rispetto al suo «esser-ora», l’istante è sempre in atto, non si altera; ciò che varia è il contenuto di cui l’«esser-ora» si predica e quindi la rappresentazione che ne ha l’anima, la quale non percepisce soltanto il variare del contenuto, ma anche il variare continuo del νῦν che si predica nella successione del prima e del dopo e quindi dei momenti-limite del mobile nel suo divenire. Nell’istante ci sono, per così dire, un momento di identità e permanenza e un momento di differenza e variazione: il molteplice della variazione, nell’istante, corrisponde al variare delle determinazioni che ineriscono al mobile nel divenire, ma i diversi modi della variazione ineriscono all’unità e permanenza dell’esser-ora: «v’è quindi un unico istante che si succede e che si manifesta come presente, passato e futuro» (p. 189). In quanto l’istante divide, cioè in quanto si determina come inizio e fine delle determinazioni dell’essere mosso, esso è sempre in potenza; in quanto esso unifica, invece, è sempre in atto.

La seconda parte del libro è interamente dedicata al tema del rapporto tra tempo e ψυχή, in realtà già protagonista nelle pagine precedenti. Qui l’analisi prende avvio dalla dichiarazione aristotelica secondo la quale dal momento che niente può numerare se non la coscienza (ψυχή), e di essa l’intelletto (νοῦς), e visto che il tempo è propriamente il numero dell’anteriore e posteriore del divenire, allora non può esistere tempo se non esiste la coscienza (cfr. phys. 223 a 25-29).

Non è possibile affrontare qui dettagliatamente tutti gli approfondimenti che Ruggiu opera sul testo aristotelico; basterà dar conto brevemente delle discussioni condotte dall’Autore sulle diverse interpretazioni critiche di τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος (cfr. phys. 223a 27), che Aristotele ammette come esistente anche indipendentemente dalla coscienza. Lo studioso dimostra come tale espressione non si riferisca a una parte del tempo, ma al sostrato del tempo, al contenuto di cui il tempo è numero e cioè al divenire, oggetto di numerazione. Ciò che Ruggiu traduce come sostrato del tempo (τοῦτο ὅ ποτε ὂν ἔστιν ὁ χρόνος) è dunque ciò che deve essere determinato come tempo, ma non è per sé tempo. Perché quell’indeterminato sia determinato come tempo è necessario che esso si manifesti all’anima e che quindi venga numerato; senza la coscienza, che è la sola a svolgere l’attività numerante, non c’è tempo, c’è solo divenire. Tuttavia, Aristotele ammette che questo sostrato esiste al di fuori della coscienza perché il divenire non dipende ontologicamente dalla coscienza, esiste indipendentemente da essa, da essa non è creato, sebbene allo stesso tempo dipenda da essa perché in essa si manifesta: «la coscienza è quindi manifestativa, non tetica» conclude Ruggiu a p. 219. Definite tali premesse, Ruggiu prosegue dimostrando come la coscienza temporalizzi il divenire attraverso la sensibilità, tanto da precisare la natura del tempo come struttura della sensibilità, e anzi, più potentemente, come struttura del senso comune (κοινὴ αἴσθησις: p. 258). «Non è sulla base del senso dell’essere che viene a strutturarsi il significato del tempo ma, al contrario, è in base al tempo che si delinea lo stesso essere dell’ente» (p. 285): questo l’assunto di base della terza parte del libro. L’essere per eccellenza, l’ὄντως ὄν, spiega Ruggiu, è l’essere che trascende il tempo, che si sgancia dal processo di successione e si afferma dunque come assoluta permanenza. Tuttavia l’ente in quanto presente si lega al tempo, alla necessità di essere ora e non poter non essere ora, e, relazionandosi al tempo, finisce per porsi come momento del divenire. Ciò manifesta il legame tra il tempo e il nulla, dal momento che il divenire è «passaggio dal non-essere all’essere o dall’essere al nonessere» (p. 284). Su tale posizione Ruggiu in realtà ritornava già nella seconda edizione della sua traduzione della Fisica (2007), parlando del divenire come essere e riprendendo l’analisi del significato del non essere in Aristotele. Potenza e atto rappresentano per lo studioso uno dei molteplici significati dell’essere che egli passa in rassegna nel séguito del capitolo: l’essere come categoria, l’essere come accidente, l’essere nel significato di vero e falso e l’essere, appunto, come atto e potenza. Definito il significato strutturale che il tempo riveste nella determinazione del senso dell’essere, Ruggiu si occupa dell’analisi aristotelica del concetto di «essere nel tempo» (pp. 335-352) leggendo le pagine di phys. 4, 12, 220b 32-222a 10, da cui risulta che l’essere è significante non come non-essere nulla, ma come «perdurare nella presenza»: la temporalità diventa senso dell’essere. Ciò che è degno di nota è che tale analisi pone definitivamente in crisi ogni analisi del tempo di tipo epistemologico-matematico che non metta invece in relazione la concezione aristotelica del tempo con la dimensione ontologica delle cose.

È impossibile ripercorrere nel dettaglio l’intera analisi di quest’ultima parte dell’opera, che invece veniva sviscerata nella bella recensione di Enrico Berti («Una recente indagine sul rapporto tra essere e tempo in Aristotele», in Rivista di filosofia neo-scolastica, I-II, 1971, pp. 152-163), che, senza cedere a un tono troppo polemico, non esitò a confrontarsi direttamente su spinose questioni interpretative al centro del dibattito ontologico su cui lo studioso era chiamato in causa dallo stesso Autore. Considerando che molte delle conclusioni qui prospettate sono state superate da Ruggiu, come da lui stesso dichiarato fin dalla premessa, basti presentare in questa sede l’esito dell’argomentazione, che configura una dettagliata analisi del principio di non contraddizione, passaggio obbligato della riflessione ontologica, principio della scienza dell’ente in quanto ente. Esso, commenta Ruggiu, è legge dell’esperienza e in quanto tale non può essere posto in antitesi con nulla che appartenga a quella totalità, che è appunto l’orizzonte ontologico in cui quel principio vive e in relazione al quale esso ha significato. Pertanto, se la totalità entra in conflitto con l’esperienza, essa entrerà in conflitto anche con il principio, o, se il principio viene negato, entrerà in crisi anche la totalità dell’esperienza.

È così che si conclude questa voluminosa trattazione di uno degli argomenti più avvincenti della filosofia aristotelica e in generale del pensiero occidentale, qual è quello del tempo e della sua relazione con l’individuo e con le cose, che tanto rilievo assumerà poi nel pensiero tardoantico e cristiano (si pensi ad Agostino). È doveroso segnalare che, nonostante la presenza di numerosi refusi che, per la consistenza della loro frequenza, finiscono, a volte, per mettere a disagio il lettore, questa di Ruggiu è un’opera che conserva un’indiscutibile utilità e molti spunti di riflessione, soprattutto nella parte dedicata alla lettura del testo aristotelico. Notevoli sono anche la ricca bibliografia, aggiornata con testi pubblicati sull’argomento dopo il 1970, e gli indici, tematico e dei nomi, che corredano il volume. Nelle prime pagine, infine, dopo una sintetica presentazione dell’autore, si offre al lettore una riproduzione della copertina e del frontespizio del volume originario.

 

PIERA DE PIANO

 

 

 


Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele

Saggio sulle origini del nichilismo.

Prefazione di Emanuele Severino

ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170×240 mm., Euro 35

indicepresentazioneautoresintesi

 

 

Aion Ostia nuova

Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini.
Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.

 

L’attualità di un testo si riconosce dalla centralità del tema, dalla novità nell’impostazione, dalla fecondità dei risultati. Non si tratta solo della conoscenza storica dell’autore, Aristotele, ma della penetrazione di una ricerca resa nuovamente disponibile per la sua capacità di interloquire con i problemi di metodo e di merito. Anche sul versante non direttamente filosofico della scienza, in particolare della fisica moderna e contemporanea. Il tempo analizzato nella Fisica è stato indagato iuxta propria principia. È quindi capace di sprigionare tutta la forza sintetica di penetrazione di un tema così impenetrabile e sfuggente.

«La parte del testo relativa alla trattazione del tempo si presenta come lo svolgimento sistematico più profondo ed articolato della tesi per cui il tempo viene costituito dall’anima attraverso l’atto di numerazione che esercita in rapporto al divenire, ed è quindi necessariamente relato ad essa. Questa grande sintesi operata da Ruggiu, che ricomprende tutti i contributi precedenti sulla definizione del tempo secondo Aristotele costituisce, sia per il rigore dell’argomentare che per la consistenza dell’impianto teoretico che assume come presupposto un confronto critico indispensabile per ogni interpretazione che da essa si differenzia; in questo senso rappresenta, insieme al testo di Conen, l’interpretazione attuale più interessante della dottrina aristotelica del tempo» (A. Giordani).

Il filo nascosto della indagine aristotelica è costituito dal ruolo che l’anima dell’uomo riveste nella physis. Attraverso una magistrale fenomenologia della coscienza del tempo, nella quale si mostra l’unità inscindibile di tempo e movimento, Aristotele mostra l’irriducibilità del tempo al movimento, ma anche la necessità del suo rapporto. Il “numero” che quindi compare nella definizione del tempo, non è il numero astratto, il numero matematico, ma il numero concreto, il numero numerato. Attraverso un’analisi penetrante dell’ora (νῦν) lo Stagirita mostra la necessità dell’identità e permanenza e insieme la struttura del differenza che è propria dell’istante e quindi del tempo. È l’istante che costituisce l’unità e la continuità del tempo, ma insieme anche la sua distinzione. Il tempo non si dà senza l’anima, cioè senza la chiamata in causa della memoria, della presenza e dell’attesa.

Nella contemporaneità, a lungo questa problematica è parsa monopolio della fisica, con le sue esplorazioni nel mondo dell’infinitamente piccolo e della fisica dei quanti. Ma qui il tempo con i suoi caratteri di irreversibilità e di ekstaticità scompare. La fisica conclude infine che il tempo è nulla, il prodotto di una semplice illusione, come ebbe a dire Einstein in una celebre lettera inviata ai familiari del suo amico Michele Besso: «Per tutti coloro che credono nella fisica, la divisione tra presente, passato e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione».

Oggi tuttavia assistiamo ad un ribaltamento di queste tesi. «La sintesi fra il tempo di Aristotele e quello di Newton è il gioiello dei pensieri di Einstein» (C. Rovelli). Se al livello più fondamentale “non c’è variabile tempo” e quindi non esiste differenza tra passato e futuro, esiste anche un movimento di ritorno (Nostos!) per comprendere come da questo mondo senza tempo possa emergere il tempo a noi familiare. Alla nostra scala, esiste anche la variabile tempo. Con una espressione alla Borges, si conclude che «il tempo siamo noi».

Ma quale Aristotele e soprattutto: quale tempo?

A questo interrogativo, il volume di Ruggiu fornisce una risposta convincente. Perciò oggi viene qui riproposto nella sua piena attualità.



Luigi Ruggiu è professore emerito di storia della filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Già consigliere di amministrazione della Biennale di Venezia (1978-1986) e direttore della rivista di cultura e politica Il Progetto (1982-1992), a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia. Nel 2000 è stato insignito della medaglia d’oro del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dei “Benemeriti della scienza e della cultura”.

Le principali linee della sua ricerca sono:

I.

La problematica della temporalità nella storia della filosofia

Tempo Coscienza Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichi-lismo, Brescia 1970; Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, a cura di L. Ruggiu, Guerini e Associati editore, Milano 1997; Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori Editore, Milano 1998; Tempo della fisica e tempo dell’uomo: Parmenide, Aristotele, Agostino, Editrice Cafoscarina, Venezia 2006. Aristotele, Fisica. Testo greco a fronte. Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di L. Ruggiu, nuova edizione, Mimesis, Milano 2007; Tempo delle scienze, tempo della filosofia, in Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia, a cura di U. Curi, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 101-135; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013; Parmenide e il tempo, in Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 455-512.

II.

Il problema dell’agire pratico e poietico

Teoria e prassi in Aristotele, Napoli 1973; La scienza ricercata. Economia politica e filosofia. Studi su Aristotele e Marx, Treviso 1978.

III.

Filosofia e economia

Genesi dello spazio economico. Il labirinto della ragione sociale: filosofia societá e autonomia dell’economia, Guida, Napoli 1982.

IV.

Parmenide e la genesi dell’ontologia

Parmenide, Venezia-Padova 1975; Parmenide, Il Poema sulla natura, introd., traduzione di G. Reale; saggio introduttivo e commento di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991; Parmenide di Elea, in Le radici del pensiero filosofico. I – La filosofia greca: dai presocratici ad Aristotele, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1993; Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti, Edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio: Mimesis, Milano-Udine 2014.

V.

La filosofia di Hegel

L. Ruggiu – I. Testa (a cura), Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, Guerini e Associati, Milano 2003; L. Ruggiu – J. M. Cordon (cura), La crisi dell’ontologia. Dall’idealismo tedesco alla filosofia contemporanea, Guerini e Associati, Milano 2004; L’assoluto come nulla e la ragione come negare: Hegel a Jena, in Hegel e il nichilismo, a cura di F. Michelini e R. Morani, Franco Angeli editore, Milano 2003, pp. 21-40; Intersoggettività e universale della comunicazione, in L’Universale ermeneutico, a cura di G. Nicolacci e L. Samonà, Biblioteca del Giornale di Metafisica, Tilgher, Genova 2003, pp. 13-28; Spirito assoluto, intersoggettività, socialità della ragione, «Giornale di Metafisica», nuova serie, XXV (2003), pp. 393-418; Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013.

VI.

Questioni di storia della storiografia

Il presente del passato. La ripresa del pensiero classico nella filosofia contemporanea, in L’oggetto della storia della filosofia. Storia della filosofia e filosofie contemporanee, a cura di R. Racinaro, La Città del Sole Editore, Napoli 1998, pp. 173-222; La ripresa dell’antico in Giordano Bruno, in Giordano Bruno: destino e verità, a cura di D. Goldoni – L. Ruggiu, Marsilio, Venezia 2002, pp. 185-224.


Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

Aristotele, Fisica. A cura di L. Ruggiu

 

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Aristotele, Fisica. Nuova edizione

Genesi dello spazio economico

Genesi dello spazio economico

 

Il tempo in questione occidentale Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

Il tempo in questione. Paradigmi sulla temporalità nel pensiero occidentale

 

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti

 

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel

 

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

Logica Metafisica Politica. Hegel a Jena

 

Parmenide. Nostos. L'essere degli enti

Parmenide. Nostos. L’essere degli enti

 

Parmenide. Poema sulla Natura

Parmenide. Poema sulla Natura

 

Parmenide

Parmenide

 

Tempo della fisica e tempo dell'uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

Tempo della fisica e tempo dell’uomo. Parmenide, Aristotele, Agostino

 

Teoria e prassi in Aristotele

Teoria e prassi in Aristotele

 

 


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