Francesca Eustacchi – C’è oggi nella cultura occidentale un silenzio che urla: quello degli intellettuali che hanno rinunciato al loro ruolo. Si può e si deve utilizzare il sapere antico per riflettere sul mondo contemporaneo.

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Per la rinascita di un pensiero critico contemporaneo. Il contributo degli antichi

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Francesca EustacchiMaurizio Migliori, Per la rinascita di un pensiero critico contemporaneo. Il contributo degli antichi, Mimesis, 2017.

Francesca Eustacchi, dottoressa di ricerca in Philosophy and Theory of Human Sciences e cultrice della materia in Storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Macerata, autrice di saggi sui sofisti e Platone, con particolare attenzione ai problemi onto-gnoseologici, etici e politici.

Maurizio Migliori, già ordinario di Storia della filosofia antica, studioso di Platone; tra le sue molte pubblicazioni Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, 2 vv., Brescia 2013; By the Sophists to Aristotle through Plato, E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori eds., Sankt Augustin 2016; Platone, Brescia 2017; La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni, Pistoia, 2019.

C’è oggi nella cultura occidentale un silenzio che urla: quello degli intellettuali che hanno rinunciato al loro ruolo. Il pensiero critico appare appiattito sui luoghi comuni e sul dibattito politico immediato. Sembra scomparsa una riflessione teorica capace di affrontare la complessità dei problemi, di compiere analisi di lungo periodo, di cogliere le potenzialità e i pericoli insiti nell’attuale situazione, in sintesi, di analizzare “razionalmente” le tante questioni da troppo tempo rinviate. Questo volume riafferma la necessità di un pensiero che voglia conoscere criticamente la realtà, mostrando la ricchezza del contributo che gli antichi greci hanno offerto. Si può e si deve utilizzare il sapere antico per riflettere sul mondo contemporaneo. Si tratta di mettere in opera quell’atteggiamento critico che è la cifra della filosofia fin dalle sue origini: essa nasce dalla meraviglia, dalla sorpresa, dalla coscienza dell’instabilità che spinge ad uscire dal recinto del noto per addentrarsi senza esitazioni nell’ignoto, recuperando il valore dell’approccio razionale.


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Dipartimento di Studi umanistici – Università di Macerata

Francesca EUSTACCHI, Πρός τι

Il problema del relativismo nei sofisti
e le argomentazioni non metafisiche di Platone

 

«Per chi intraprende cose belle, è bello anche soffrire,
qualsiasi cosa gli tocchi».
(Platone, Fedro, 274A8-B1).

***

«Io dico che bisogna operare seriamente con ciò che è serio,
con ciò che non è serio no.
Dio è per natura degno di seria attenzione,
perché in ciò consiste ogni beatitudine,
mentre l’uomo, come abbiamo detto prima,
è una specie di giocattolo costruito da dio
e il suo valore sta proprio in questo.
Di conseguenza ogni uomo e ogni donna
devono condurre la loro vita
giocando i giochi migliori,
l’opposto di ciò che si pensa oggi».
(Platone, Leggi, 803C2-8).

***

«Vincere se stesso
è la prima e più nobile di tutte le vittorie,
essere sconfitti da se stesso
è la cosa peggiore e insieme la più dannosa».
(Platone, Leggi, 626E2-4).

 

La conclusione del mio percorso di studi magistrali con una tesi in Storia della Filosofia Antica (Interferenze anima-corpo in Platone) mi aveva lasciato un senso di incompiutezza e il desiderio di approfondire quell’approccio multifocale, che da tempo a Macerata è utilizzato come chiave di lettura dei testi platonici e aristotelici e che avevo avuto modo di verificare nel corso dei miei studi. Questa visione polivoca, tesa a rendere ragione dell’evidente complessità del reale, mi affascinava e mi provocava con varie domande. Una di queste era di fondo e mi impegnava più delle altre: come evitare il relativismo e nel contempo riconoscere la coesistenza di giudizi, di verità e di prospettive diverse, a volte anche tra loro contrastanti, sulla stessa realtà? È possibile individuare una alternativa al binomio assolutismo-relativismo?
Questo interrogativo non mi sembrava lontano dal contesto dei dialoghi platonici, perché in essi il filosofo si confronta con i sofisti, generalmente considerati gli antesignani del relativismo. Da questa costatazione è nata la proposta per la ricerca: inizialmente mi ha mosso solo l’intuizione che questo dibattito del V-IV sec. a.C. poteva costituire un terreno privilegiato di indagine. In particolare, volevo approfondire quelle movenze argomentative che Platone mette in campo a livello gnoseologico, etico e politico, in risposta e contro quelle posizioni, definibili, in modo più o meno corretto, relativistiche; la scelta era quella di tralasciare la più conosciuta contrapposizione radicale basata sulla messa in campo di verità assolute o metafisiche (da qui il “non metafisiche” del titolo).
L’intento non è stato quello di paragonare antistoricamente il dibattito antico con quello contemporaneo sul relativismo, ma quello essenzialmente storico di comprendere meglio il primo. Ciò mi ha permesso poi di evidenziare nel dibattito antico anche quelle movenze teoriche che si ripropongono in quello attuale e che risultano utili per riflettere su quest’ultimo. Ho tenuto, però, presente una radicale diversità di prospettiva: il pensiero antico non è interessato, come quello moderno, a produrre paradigmi a cui il mondo fenomenico può o non può adattarsi, ma al contrario vuole spiegare la realtà, moltiplicando e arricchendo gli schemi, in modo da adattarli ad essa.
La duplice natura, storica e teoretica, della ricerca ha reso necessario un lavoro serrato sui testi, iniziato dal primo anno: i frammenti dei sofisti richiedono molta attenzione, una capacità che ho dovuto affinare, ritornando varie volte sui testi; altrettanta cura ha richiesto il contesto di riferimento (a volte non facilmente individuabile); l’uso, decisivo, della letteratura secondaria deve essere costantemente monitorato, per non correre il rischio di essere fuorviati da abitudini e/o mode interpretative.
Sul piano teoretico, è stato utile delimitare con precisione il tema del relativismo nei suoi molteplici aspetti, gnoseologici, ma anche etici e politici, affrontando alcuni snodi significativi del dibattito contemporaneo (Searle, Rorty Davidson, Kuhn, etc.). Questa indagine, che era stata pensata come operazione di chiarezza terminologica, mi ha permesso di individuare la differenza concettuale determinante, quella tra relativismo e relazione, che costituisce una delle chiavi teoretiche dell’intera ricerca. Grazie ad essa, ho potuto cogliere sia le diverse sfumature della sofistica sia l’elemento che le accomuna: la messa in gioco di molteplici relazioni a diversi livelli. Ciò ha portato a riconsiderare l’attribuzione ai sofisti della classica etichetta di relativisti e a sostenere che la maggior parte di loro non è affatto tale. L’homo mensura protagoreo non va letto, a mio avviso, come un criterio conoscitivo, ma come un anti-criterio, che, opponendosi all’assolutismo eleatico, delinea l’orizzonte umano in cui solo è possibile fare ricerca. Analogamente l’opuscolo gorgiano, Sul non essere, spazza via per autocontraddizione gli asserti dell’eleatismo, per valorizzare il terreno fenomenico.
Certo, la debolezza delle posizioni teoriche dei primi sofisti apre la strada al relativismo come possibile sviluppo, ma non come necessaria degenerazione. Il dibattito interno alla sofistica è infatti molto articolato: non solo ci sono tesi relativiste e non, ma, addirittura, posizioni anti-relativiste, ad esempio, nei Dissoi Logoi dove mai ce le aspetteremmo.
A partire da questa ricostruzione, è stato sorprendente scoprire che Platone tratta tutti i temi messi in campo dai sofisti, in un dialogo a volte esplicito, a volte solo alluso. In questa fase, soprattutto per l’interpretazione del pensiero platonico, è stato fondamentale potermi avvalere del confronto continuo con il prof. Migliori. È emerso così l’atteggiamento polivoco di Platone, che non si contrappone – esclusivamente o soprattutto sul piano metafisico – ai sofisti, ma assume posizioni differenti: critica e confuta i sofisti relativisti e immoralisti; rielabora e/o approfondisce le tesi dei grandi sofisti, a volte senza negarle, in quanto possono risultare, in una diversa contestualizzazione, accettabili.
In questo senso, la sofistica, come fucina di elementi tra loro diversi, ha prodotto molte riflessioni originali, che un filosofo dialettico come Platone ha saputo riconoscere, valutare e mettere a frutto. Il suo approccio è risultato teoreticamente esemplare da due punti di vista:

– perché attesta che al relativismo si può rispondere non tanto con la riaffermazione di posizioni rigide e assolute, quanto piuttosto con una strategia argomentativa molteplice che discute nel merito le questioni;

– perché mostra che è possibile trarre dalla valorizzazione delle strutture relazionali, messe in campo dai sofisti, un guadagno positivo per una migliore comprensione del reale.

In sintesi, questo lavoro mi ha permesso di fare un primo passo su un terreno complesso e ricco che spero di poter continuare ad approfondire negli anni prossimi.

 Francesca Eustacchi


Per dialogare con la filosofia antica


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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Le opinioni non possono rendere più vera la verità.

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Lettere a Theo [1872-1890]

Lettere a Theo [1872-1890]

«Le opinioni possono far cambiare alcune verità acquisite tanto quanto un gallo sulla cima di un campanile può far cambiare direzione al vento. Non è il gallo che può far sì che il vento provenga dall’est o dal nord, né le opinioni possono rendere più vera la verità».

Vincent van Gogh, Lettere a Theo [1872-1890], ed. it. a cura di Massimo Cescon, Guanda, Milano 2014, p. 25l.

 

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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Preferisco la malinconia che aspira e che cerca

Vincent van Gogh (1853-1890) – La maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura.


 


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Tzvetan Todorov (1939-2017) – La memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione.

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Memoria del male, tentazione del bene

Memoria del male, tentazione del bene

 

Salvatore A. Bravo

Todorov,
la memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica

Il secolo trascorso ed il presente sono secoli senza metafisica: ogni limite è stato ed è trasceso in assenza di una definizione di bene e di male. Tali paradigmi sono liquidati come cianfrusaglie del pensiero, oziosi rompicapo senza soluzione. Il problema metafisico è annichilito, espulso dalle accademie, spesso pronunciato con parole appena udibili anche dalla chiesa. Le forme di totalitarismo sono proliferate in assenza di metafisica, nella loro metamorfosi, come l’essere polivoco di Aristotele, hanno un fondamento comune non riconosciuto: l’astratto. Ogni totalitarismo ambisce alla perfezione, vuole eliminare ogni differenza, la fatica del molteplice da cui rielaborare il concetto, i totalitarismi esigono la perfezione, calano sul mondo della vita una cappa astratta a cui ci si deve adattare. La perfezione non vuole dialogo, nega ogni principio ontologico fondato sulla parola, al suo posto campeggia l’ideale della perfezione, il quale si pone oltre ogni distinzione dialettica tra bene e male, è sottratto dallo spazio e dal tempo, luoghi cognitivi dove si viene a determinare il senso del bene e del male, dove l’uno ha significato nella presenza dell’altro. La perfezione non conosce dialettica, si ripiega su se stessa, si presenta nella forma dell’ipostasi dinanzi alla quale non si può che accettare senza consenso, senza concetto. Ogni totalitarismo assimila per espellere le differenze e presentarsi con il suo radicale monismo. La perfezione è nell’uno, il bene ed il male, invece, sono nella dualità perenne, vi è il bene dove vi è dualità, senza l’io che si incontra con il tu non vi è che il nulla, solo dall’incontro razionale nella dualità il bene si eleva dai singoli verso l’universale, il male resta sul fondo, lo sguardo del bene, mentre si magnifica sull’universale dev’essere puntato sul male, poiché permette la consapevolezza della differenza.

La storia e la resistenza al male
Todorov ha posto il problema del male al centro della sua storia filosofica. La storia è manifestazione della Spirito dell’umanità, nella storia l’universale si palesa nella contingenza: esperienza in movimento la storia consente di filtrare le esperienze, di cogliere nella concretezza delle vite la resistenza o il cedimento al male. Dinanzi al male si può fuggire oppure resistere. Molti hanno resistito al male, ricordare la loro testimonianza favorisce processi di identificazione e discernimento del bene e del male. La storia assume una valenza educativa e critica non sostituibile, in essa possiamo trovare e ritrovare le ragioni per resistere nell’esempio testimoniale degli eroi silenziosi, ma anche imparare, nelle differenze contestuali e dei quadri storici, a riconoscere il male:

«Mi resta qui da riunire alcune delle lezioni che ho creduto di poter trarre e domandarmi: che cosa ci insegnano sul futuro? La memoria stessa, innanzitutto. La scelta, innanzitutto. La scelta che si presenta davanti a noi non è fra dimenticare e ricordarsi perché l’oblio non deriva da una scelta, sfugge al controllo della nostra volontà ma fra differenti forme di ricordo. Non esiste dovere di memoria in sé; la memoria può essere mesa al servizio del bene come del male, utilizzata per favorire il nostro interesse egoista o la felicità altrui. Il ricordo può restare sterile, addirittura fuorviarci. Se si sacralizza il passato, ci si impedisce di capirlo e di trarne lezioni che concerneranno altri tempi e altri luoghi, che si applicheranno a nuovi protagonisti della storia. Ma se al contrario lo si banalizza, applicandolo a situazioni nuove, se vi si cerca soluzioni immediate alle difficoltà presenti, i danni non sono minori: non solo si traveste il passato, ma si disconosce anche il presente e si apre la via dell’ingiustizia. […]. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione».[1]

L’Umanesimo moderno
Nella storia ritroviamo l’effettualità del bene come del male. Riconoscere il male nella forma dell’illimitatezza razziale, sessista o economica consente un mutamento della coscienza, da quel momento nulla sarà come prima. Il male è l’illimitatezza che nega la razionalità dialogica, la negazione dell’alterità è rottura del limite, senza quest’ultimo si assimila l’altro, si mettono in pratica processi di cannibalizzazione violenta. Il bene è l’esercizio del limite, è la pratica di ascoltare la presenza dell’altro, capacità che esige la razionalità profonda in cui l’argomentazione logica si coniuga con l’empatia, con la percezione tutta carnale che lo sguardo dell’altro è su di noi e con noi:

L’Umanesimo moderno, un Umanesimo critico si distingue per due caratteristiche, senza dubbio entrambe banali, ma che traggono la loro forza dalla loro stessa compresenza. La prima è il riconoscimento dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani. L’umanesimo, qui, non consiste affatto nel culto dell’uomo, in generale o in particolare, in una fede nella sua nobile natura; no, il punto di partenza, qui, sono i campi di Auschwitz e della Kolyma, la prova più grande che ci sia stata in questo secolo del male che l’uomo può fare all’uomo. La seconda caratteristica è un’affermazione della possibilità del bene; non del trionfo universale del bene; non del trionfo universale del bene, dell’instaurazione del paradiso in terra, ma di un bene che conduce a prendere l’uomo, nella sua identità concreta ed individuale, a prediligerlo ed amarlo. Si rinuncia dunque a sostituirlo con un essere soprannaturale, Dio; o al contrario con le forze della natura subumana, le leggi della vita; o anche con i valori astratti scelti degli uomini, si chiamino prosperità, rivoluzione o purezza e, al di là, le leggi della storia».[2]

La testimonianza del bene
Il bene è nella storia, nei suoi innumerevoli esempi silenziosi ed eroici, Todorov tra le testimonianze presenti nel suo testo Memoria del male, tentazione del bene riporta il caso di Grossman lo scrittore di Vita e destino dedicato alla madre che dinanzi allo sterminio (Grossman era ebreo) seppe mantenere la sua umanità. È riuscita a resistere al male conservando la sua razionalità profonda, ha continuato a provare pietà anche per coloro che l’avrebbero uccisa. L’esempio della madre, il bene concreto che resiste al male, alla sussunzione, ha permesso a Grossman di continuare a credere nel bene, a resistere al male. Nella Russia sovietica ha vissuto l’esperienza della persecuzione, dell’isolamento, ma la fonte del bene è stato il ricordo della madre, ancora una volta per resistere al male è necessario ritrovare nella storia o nella nostra storia la fonte testimoniale che ci permette di resistere, perché il male per radicarsi esige il silenzio della ragione e della storia:

«Alla base della società totalitaria si trova, secondo Grossman, un’esigenza: quella della sottomissione dell’individuo. Il fine a cui aspira questa società non è infatti il benessere degli uomini che la compongono, ma l’espansione di un’entità astratta che si può designare come lo stato, e che si confonde anche con il partito, o addirittura con la polizia. Nello stesso tempo gli individui devono cessare di percepirsi come la fonte della propria azione, devono rinunciare all’autonomia e obbedire alle leggi impersonali della storia, compitate dai poteri pubblici, come alle direttive promulgate giorno dopo giorno dai vari servizi. Si può dire in questo senso che lo stato sovietico “ha come principio essenziale di essere uno stato senza libertà”». [3]

 

Il male nell’epoca della globalizzazione
Il male è sempre uguale vuole la sussunzione totale del soggetto. Oggi il male che minaccia il mondo è la globalizzazione nella forma dell’integralismo economicistico che vuole negare il destino dei popoli in nome dell’economia. L’omologazione dei popoli permette di ipostatizzare l’economia e specialmente indebolisce ogni resistenza: in assenza di sovranità nazionale il potere diffuso è divenuto impalpabile, è ovunque eppure sfugge ad ogni localizzazione, in tal modo si debilita la resistenza, si indebolisce la motivazione all’universale per favorire forme di atomismo planetario, le cui ingiustizie sono vissute come fatali, inevitabili:

«Noi ci rallegriamo del crollo dell’impero totalitario tedesco; ciò non significa che il dominio solitario degli Stati Uniti sia in sé augurabile. Il pericolo non è minore quando la superpotenza si accorge che in realtà le mancano i mezzi per giocare al guardiano della pace ovunque e che deve limitarsi a intervenire solo nelle situazioni in cui sono in gioco i suoi interessi vitali. Per queste ragioni l’equilibrio è preferibile all’unità. La globalizzazione economica a cui oggi assistiamo non deve essere seguita da una mondializzazione politica; gli stati o gruppi di stati autonomi sono invece necessari per contenere gli effetti negativi del movimento di unificazione».[4]

Il linguaggio del male
Dobbiamo imparare a riconoscere il male ed a vivere per il bene, la storia ci insegna ad individuare i sintomi del male. Todorov analizza il linguaggio del nazionalsocialismo, per comprendere come il male si diffonde mediante architetture linguistiche neutre, confondendo l’umano con il disumano:

«Un altro mezzo per dissimulare la realtà ed eliminare ogni traccia dalla memoria consiste nell’uso degli eufemismi. Presso i nazisti, essi sono particolarmente abbondanti riguardo al segreto centrale dello sterminio; il senso di certe formule celebri è ormai divenuto trasparente “soluzione finale”, “trattamento speciale”, ma anche all’epoca erano, esse erano sufficientemente suggestive (“il trattamento speciale è applicato all’impiccagione”. Non appena è conosciuto il loro senso segreto, esse chiedono di essere sostituite con nuove espressioni, ancora più neutre, che rischiano tuttavia di divenire inutilizzabili a loro volta: evacuazione, deportazione, trasporto; numerose circolari danno istruzioni precise al riguardo. Lo scopo di questi eufemismi è impedire l’esistenza di certe realtà nel linguaggio e, con ciò facilitare agli esecutori la realizzazione del loro compito».[5]

 

Il lessico del male continua ad operare, a confondere per poter veicolare con i suoi messaggi la manipolazione delle coscienze.
Il linguaggio attuale cela il male, i tagli alla spesa pubblica sono chiamati tagli lineari, gli esseri umani sono chiamati consumatori, finanche consumatori di cultura, gli alunni sono divenuti clienti, i lavoratori risorse o capitale umano, lo sfruttamento è denominato lavoro flessibile ecc. Il linguaggio quotidiano ci svela nei suoi eufemismi i processi di sottomissione cognitiva e delle coscienze, eppure malgrado il tamburellare della lingua unica, anche nel presente ci sono ragioni per resistere nell’esempio di persone anonime che resistono alla disumanità del nichilismo passivo imperante. La storia ed il presente anche hanno nei loro archivi nomi di uomini e donne che hanno resistito, non sono passati invano, per cui resistere è ricordare, ma anche capire il ripetersi di modelli simili, ma mai uguali. L’arretramento degli studi storici è un ulteriore sintomo del male che in nome della prestazione economica perfetta ed assoluta avanza ed a cui dobbiamo fare resistenza propositiva.

Salvatore A. Bravo

 

[1] Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2015, pag. 370.

[2] Ibidem, pp. 373-374.

[3] Ibidem, pag. 77.

[4] Ibidem, pag. 343.

[5] Ibidem, pag. 141.

 


Tzvetan Todorov (1939-2017) – La letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La letteratura amplia il nostro universo, apre all’infinto la possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce infinitamente.

 


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