Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.

Hegel Marx Heidegger

Costanzo Preve,
Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea.
1999, pp. 64, Euro 7 – Collana “Divergenze”

indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös

Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea

di Costanzo Preve

Un contributo ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità

***

Il saggio di Costanzo Preve Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea si propone di analizzare alcuni aspetti fondamentali relativi al pensiero di Hegel, Marx e Heidegger, allo scopo di far luce sul problema della padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità. La decisione di “interrogare” i suddetti pensatori sul problema in questione non è arbitraria, poiché si fonda sull’idea che essi «parlino in fondo della stessa cosa» (p. 6), ovvero delle contraddizioni che definiscono l’universo borghese-capitalistico – cosa che li rende, proprio per ciò, confrontabili.
Analizzando il pensiero di Hegel, Preve evidenzia che esso può essere interpretato come un grande tentativo di comprendere filosoficamente le caratteristiche e le contraddizioni della modernità – un intento implicito nella sua stessa visione della filosofia, intesa come «il proprio tempo appreso col pensiero» (Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione). Esso si esprime con «il recupero positivo dell’esperienza storica del negativo» – al centro della Fenomenologia dello Spirito – da un lato, e, dall’altro, con «la salvaguardia di un orizzonte trascendentale di tipo logico ed ontologico» (p. 13) – tema cardine della Scienza della Logica. Tali elementi, sottolinea l’autore, costituiscono la cifra della filosofia hegeliana e risultano imprescindibili per la sua comprensione. Il primo appare di fondamentale importanza per la padronanza filosofica delle contraddizioni che caratterizzano il mondo moderno, vale a dire il mondo borghese-capitalistico. Il «recupero positivo dell’esperienza storica del negativo», infatti, «legittima integralmente il conflitto sociale, le lotte di classe, i contrasti e le contraddizioni fisiologicamente presenti» (p. 21) nel suo modo di produzione, evitando tanto la riduzione a “errore” o “equivoco” di ciò che è conflittuale e contraddittorio quanto la sua ipostatizzazione; così concepito, il «negativo» non si determina affatto come «il luogo di un rovesciamento mistico o automatico nella positività», giacché «senza mediazione dialettica […] non c’è mai “rovesciamento” del negativo in positivo» (pp. 21-22). Il secondo elemento, invece, è ciò che per l’autore più consente di chiarire come il pensiero di Hegel non sia interpretabile né come una forma di storicismo né come una forma di giustificazionismo storico. Per quanto riguarda la prima, Preve fa notare come «il riconoscimento di un orizzonte trascendentale veritativo di tipo logico ed ontologico» sia radicalmente incompatibile con lo storicismo, «che si basa appunto sulla negazione di questo orizzonte» (p. 14). Per quanto concerne la seconda, egli mette in luce come la difesa di una realtà razionale entro un orizzonte trascendentale logico-ontologico ben indichi come il «reale», per Hegel, non coincida con «l’insieme di “tutto ciò che accade”», bensì con «ciò che corrisponde adeguatamente al proprio concetto razionale costruibile solo in via logica» (p. 20). In definitiva, per lo studioso, nella misura in cui il modello hegeliano di comprensione filosofica della modernità si fonda tanto sulla valorizzazione del «negativo» nella storia quanto sull’assunzione di un orizzonte trascendentale veritativo ad un tempo logico e ontologico, si deve riconoscere che la filosofia di Hegel non è affatto “superata”. Lungi dall’appartenere ad un orizzonte filosofico a noi estraneo, Hegel appare come un pensatore «pienamente ed integralmente contemporaneo» (p. 21).

Il pensiero di Marx, secondo Preve, segna un vero e proprio “progresso scientifico” rispetto a quello di Hegel. In esso si dà infatti una “concretizzazione” dell’esperienza storica del «negativo», che viene identificato col modo di produzione capitalistico. Con «la costruzione categoriale del concetto di modo di produzione capitalistico», spiega l’autore, il «negativo» positivamente recuperato da Hegel «finalmente si determina, si storicizza, prende forma compiuta e coerente, cessa di essere un magma amorfo in cui si fa faticosamente strada la coscienza nel suo cammino verso l’autocoscienza» (p. 26). L’identificazione del «negativo» col capitalismo è all’origine di un’altra identificazione marxiana: quella del «positivo», cioè di ciò che scaturisce dal rovesciamento storico-dialettico del «negativo», col comunismo, che appare non solo come una possibilità, ma anche come una necessità. E tuttavia, allo stesso tempo, la filosofia di Marx, rispetto a quella hegeliana, rappresenta per Preve un “regresso filosofico”, determinato dal rifiuto di salvaguardare quell’orizzonte logico-ontologico che Hegel ha avuto il merito di ri-porre al centro del pensiero. Tale negazione è dovuta principalmente a due ragioni: «sul piano congiunturale, [Marx] ha modellato il proprio progetto anticapitalistico all’interno di una visione antireligiosa, e respingeva dunque la salvaguardia di un orizzonte trascendentale come un aspetto teorico di una visione conservatrice, moderata e clericale della vita» (p. 28); «sul piano strutturale, egli riteneva evidentemente del tutto superfluo e pleonastico qualunque riferimento trascendentale, perché pensava che l’immanenza sociale fosse già integralmente portatrice del rovesciamento della Natura in Spirito e dello Spirito in Natura, cioè del rovesciamento della necessità economica anonima in libertà individuale comunista» (ivi). Un’abolizione siffatta, rileva l’autore, non costituisce una forma di “liberazione” da concetti o dogmi di marca teologica, poiché implica «una diminuzione della padronanza concettuale sul mondo sociale» (ivi), che rinviene il proprio punto di approdo nello storicismo, nel positivismo e nel nichilismo.

Per quanto riguarda Heidegger, Preve afferma che egli può essere ritenuto a buon diritto «il più noto e geniale successore di Hegel nel Novecento» (p. 34) nella misura in cui, da un lato, recupera, sia pur in modo diverso, l’orizzonte trascendentale di tipo logico ed ontologico che domina la filosofia hegeliana e, dall’altro, concepisce la storia della filosofia occidentale come una «storia unitaria delle avventure della metafisica»: una rappresentazione che, sebbene assuma un significato del tutto differente, si configura di fatto come la «prosecuzione tematica e metodologica della concezione hegeliana della storia della filosofia non come disordinata filastrocca di opinioni causali, ma come manifestazione storica di oggettività logiche ed ontologiche» (p. 36). Non mancano neppure legami con Marx: infatti, «sebbene egli non parli mai di “modo di produzione capitalistico”, probabilmente a causa dei suoi pregiudizi politici ed ideologici verso Marx ed il marxismo», con l’elaborazione del concetto di «tecnica», Heidegger «di fatto descrive lo spossessamento integrale dell’uomo sui risultati delle sue azioni che risulta dai meccanismi anonimi ed impersonali di riproduzione dei rapporti economici capitalistici» (p. 35). È in ogni caso indubbio che il suo pensiero manifesta «una diminuzione della padronanza concettuale sul mondo rispetto a quanto avveniva in Hegel ed in Marx» (p. 44). Il recupero dell’orizzonte trascendentale logico-ontologico da parte di Heidegger ha un senso del tutto diverso da quello di Hegel. Infatti, se il pensiero di quest’ultimo avanza in un certo senso l’esigenza di un “ringiovanimento del mondo”, che solo la padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità rende possibile, la filosofia di Heidegger riflette invece l’«impasse tragica dei processi di trasformazione razionale del mondo» in cui sembra trovarsi l’uomo contemporaneo: «una impasse filosoficamente trasfigurata […] nelle analisi della triade metafisica-tecnica-antropologismo» (p. 43).

Il presente studio di Costanzo Preve ha il merito di avviare un confronto con questi giganti della filosofia contemporanea prescindendo sia dagli “-ismi” cui il loro pensiero è solitamente ricondotto, sia da ogni “filtro” ideologico finalizzato a connotarli politicamente. Si tratta di un’operazione che dà luogo ad un autentico mutamento prospettico, in virtù del quale si delinea non solo una diversa rappresentazione della storia del pensiero contemporaneo, ma anche una nuova interpretazione dei singoli autori considerati, la cui grandezza e il cui valore appaiono strettamente connessi al prezioso contributo che essi offrono alla comprensione filosofica delle contraddizioni della modernità. In ogni caso, il percorso tracciato da Preve non è volto solo a delineare una diversa immagine della filosofia degli ultimi due secoli. Questo tentativo di «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea, reso possibile dall’attenzione rivolta alla padronanza concettuale delle contraddizioni del mondo moderno, non è fine a se stesso, ma costituisce per l’autore la premessa necessaria per avviare una «grande rivoluzione filosofica» (p. 51) che permetta di acquisire la padronanza delle contraddizioni del presente, ponendo sul cammino che conduce al loro superamento.

Alessandro Dignös

 

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Paul Kalanithi (1977-2015) – Il medico ha a che fare con il nucleo dell’esistenza: lavora nel crogiolo dell’identità. La domanda non è semplicemente se vivere o morire, ma che genere di vita valga la pena di vivere.

Kalanithi Paul 01

Dopo avere letto il libro che voi state per leggere, confesso di avere provato un senso d’inadeguatezza: l’onestà e la verità che trovai in questo scritto mi tolsero il fiato.
Tenetevi pronti. Mettetevi seduti. Scoprite che suono ha il coraggio. Scoprite quanto è eroico mettersi a nudo in questo modo. Ma, soprattutto, scoprite cosa significa continuare a vivere, influenzare profondamente le vite degli altri dopo essere scomparsi, con le proprie parole.
In un mondo di comunicazioni asincrone, dove troppo spesso ci ritroviamo sprofondati in uno schermo, gli occhi fissi sugli oggetti rettangolari che vibrano nelle nostre mani, l’attenzione che si consuma nell’effimero, fermatevi e provate a entrare in dialogo con il mio giovane collega che se n’è andato, ormai senza età e immortale nella memoria.
Ascoltate Paul. Nei silenzi tra le sue parole, ascoltate quello che voi avete da dire a lui. Sta proprio lì il suo messaggio. Io l’ho colto. Spero ci riuscirete anche voi. È un dono. Ora è tempo che vi lasci soli con Paul.

dalla prefazione di  Abraham Verghese

Tu che nella morte ricerchi la vita,
Trovi che il respiro si è fatto aria.
I nuovi nomi ignoti, i vecchi svaniti:
Finché il tempo annienterà il corpo, non lo spirito.
Lettore! Fa’ di questo tempo, ora che puoi,
Un cammino verso la tua eternità.

SIR FULKE GREVILLE, Caelica 83

Qual è il significato della vita umana? O meglio, che cosa la rende significativa e degna di essere vissuta? A farsi queste domande non è un filosofo o un teologo, ma il neurochirurgo americano di origine indiana Paul Kalanithi, che a soli 37 anni, al culmine del successo professionale, deve affrontare la disperata battaglia contro un cancro in fase terminale e guardare negli occhi l’avversario che ha già sfidato tante volte in sala operatoria: la morte.
Animato fin dall’infanzia da passioni apparentemente inconciliabili (letteratura, psichiatria, filosofia, ricerca scientifica), che lo avevano portato a scegliere la neurochirurgia come facoltà chiave per conoscere l’«intreccio di cervello e coscienza» e strada maestra per «inseguire la morte, afferrarla, smascherarla», Paul vive l’esperienza soggettiva della malattia come l’occasione per cominciare a vedere le cose con quello sguardo da paziente che aveva a lungo cercato e per riflettere sul destino che ci accomuna a ogni organismo vivente che nasce, cresce e muore.
E mentre racconta il rapido decorso del tumore, accompagnato da un continuo alternarsi di consapevolezza, accettazione, paura e determinazione, ci invita a entrare nel suo universo di affetti, desideri, sogni, delusioni e speranze: la valle desertica dell’Arizona dov’è immersa Kingman, la cittadina natale, la brillante carriera accademica, l’incontro con Lucy al primo anno di medicina, il compianto collega Jeff, l’oncologa Emma che lo prende in cura, l’ambizione mai saziata di trovarsi davvero in empatia con chi soffre, e infine lo shock, dopo la diagnosi fatale.
Nel ripercorrere le ultime tracce di un’esistenza vissuta con quel coraggio che gli ha permesso di affrontare la malattia con «grazia e autenticità», come dice la moglie Lucy nel dolente e radioso epilogo, Kalanithi non cede mai all’autocommiserazione, ma ci parla del nostro essere mortali facendoci appassionare alla vita. Perché per lui, medico-letterato, la scrittura era un dono di sé, un lascito necessario, come lo è stata la figlia Cady, voluta per costruire un futuro là dove c’era solo presente, e la cui vitalità ha illuminato e riempito di gioia i suoi ultimi mesi.


 

Paul Kalanithi, neurochirurgo e scrittore, si è diplomato alla Stanford University e ha conseguito un master in storia e filosofia della scienza e della medicina alla University of Cambridge. Laureatosi cum laude alla facoltà di medicina di Yale, nel 2007 è ritornato a Stanford per completare il tirocinio di specializzazione in neurochirurgia e come titolare di una borsa di studio post-dottorato in neuroscienze, e in quel periodo ha ricevuto il più alto riconoscimento per la ricerca da parte dell’American Academy of Neurological Surgery. È morto per un cancro al polmone nel marzo 2015, all’età di 37 anni.


Prefazione

di Abraham Verghese

Mi rendo conto, mentre scrivo, che la prefazione a questo libro andrebbe considerata piuttosto come una postfazione. Quando si tratta di Paul Kalanithi, infatti, la concezione del tempo è ribaltata. Tanto per cominciare – o forse, per finire – ho conosciuto davvero Paul solo dopo la sua morte. (Abbiate pazienza.) Ho potuto conoscerlo più intimamente quando ha cessato di esistere.

Lo incontrai la prima volta a Stanford nel 2014, in un memorabile pomeriggio d’inizio febbraio. Aveva appena pubblicato un articolo sul «New York Times» dal titolo How Long Have I Got Left? (Quanto tempo mi resta?), che aveva riscosso un enorme interesse e attirato una marea di lettori. Nei giorni successivi si era diffuso in modo esponenziale. (Sono uno specialista in malattie infettive, perciò mi perdonerete se non ho scelto l’aggettivo virale come metafora.) Sulla scia di questo successo, aveva chiesto di incontrarmi per una chiacchierata, perché gli dessi qualche consiglio in merito ad agenti letterari, editor, e al processo di pubblicazione: desiderava scrivere un libro, questo libro, quello che ora avete tra le mani. Ricordo il sole che filtrava tra i rami della magnolia fuori dal mio ufficio, a illuminare la scena: Paul seduto davanti a me, le sue splendide mani esageratamente immobili, la sua folta barba da profeta, quegli occhi scuri che mi prendevano le misure. Il quadro, nella mia memoria, somiglia a un Vermeer, con quella sua nitidezza da camera oscura. Ricordo di avere pensato: «Imprimitelo nella mente», perché l’immagine che colpiva la mia retina era preziosa. E perché la diagnosi di Paul mi aveva reso consapevole della mia mortalità, oltre che della sua.

Parlammo di molte cose, quel pomeriggio. Paul era uno specializzando capo in neurochirurgia. Probabilmente le nostre strade si erano già incrociate in qualche momento, ma non ricordavamo di avere avuto pazienti in comune. Mi disse di avere conseguito una laurea di primo livello in inglese e biologia a Stanford, e di esservi rimasto per seguire un master in letteratura inglese. Parlammo del suo amore per la scrittura e la lettura, che durava da sempre. Senza dubbio avrebbe potuto benissimo diventare un professore d’inglese, e a un certo punto della sua vita, in effetti, sembrava che avrebbe preso quella strada. Poi però, proprio come il suo omonimo sulla via di Damasco, aveva sentito la chiamata. E così era diventato medico, pur continuando a coltivare il sogno di tornare alla letteratura, in qualche forma. Con un libro, magari. Un giorno. Era convinto di avere tempo… perché non avrebbe dovuto? E invece, adesso, era proprio il tempo che gli mancava.

Ricordo il suo sorriso ironico, gentile, con un accenno di malizia, benché il suo viso fosse smunto e macilento. Il cancro lo aveva messo a dura prova, ma una nuova terapia biologica aveva dato buoni risultati, consentendogli di guardare avanti, almeno un po’. Disse che mentre studiava medicina era convinto che sarebbe diventato psichiatra, ma poi si era innamorato della neurochirurgia. Era molto più di un amore per le complessità del cervello, molto più della soddisfazione di insegnare alle sue mani a compiere imprese straordinarie: il suo era un sentimento di amore e di empatia verso i malati, la loro sofferenza, e verso tutto ciò che avrebbe potuto fare per loro. Questa sua qualità credo di averla scoperta non da lui ma dai miei studenti, che erano suoi accoliti. Questa fede incrollabile nella dimensione morale del suo lavoro. Poi parlammo del fatto che stava morendo.

Dopo quell’incontro restammo in contatto via mail, ma non ci rivedemmo mai più. Non solo perché mi ritirai nel mio mondo di scadenze e responsabilità, ma anche perché sentivo il dovere di rispettare il suo tempo. Spettava a lui decidere se voleva vedermi. Sentivo che l’ultima cosa di cui aveva bisogno era l’obbligo di coltivare una nuova amicizia. Tuttavia pensavo spesso a lui, e alla moglie. Avrei voluto chiedergli se stava scrivendo. Ne aveva trovato il tempo? Per anni, pieno di impegni come medico, avevo faticato a ritagliarmi il tempo per scrivere. Avrei voluto raccontargli della volta in cui un famoso scrittore, crucciandosi per questo eterno problema, mi aveva detto: «Se fossi un neurochirurgo e annunciassi ai miei ospiti che devo lasciarli per una craniotomia d’urgenza, nessuno direbbe una parola. Ma se dicessi che devo lasciare i miei ospiti in soggiorno per salire a scrivere…». Mi domandai se Paul lo avrebbe trovato divertente. In fondo, lui poteva dire davvero che stava andando a fare una craniotomia! Era plausibile! E poi avrebbe potuto scriverne.

Mentre lavorava a questo libro, Paul pubblicò un breve saggio, davvero notevole, sulla rivista «Stanford Medicine», in un numero dedicato al concetto del tempo. C’era anche un mio pezzo, proprio accanto al suo, eppure seppi del suo contributo solo quando ebbi la rivista tra le mani. Leggendo le sue parole, colsi una seconda e più profonda traccia di qualcosa che nel saggio del «New York Times» era solo accennato: la scrittura di Paul era semplicemente straordinaria. Avrebbe potuto scrivere di una cosa qualsiasi, e il risultato sarebbe stato altrettanto potente. Ma non stava scrivendo di una cosa qualsiasi, stava scrivendo del tempo e di quello che significava per lui, in quel momento, alla luce della sua malattia. Questo rendeva tutto incredibilmente toccante.

Mi preme sottolinearlo di nuovo: la sua prosa era indimenticabile. Da quella penna stillava oro.

Rilessi il pezzo più volte, per capire come fosse riuscito a ottenere quel risultato. Innanzitutto era musicale. Aveva echi di Galway Kinnell, quasi una prosa poetica: «If one day it happens / you find yourself with someone you love / in a café at one end / of the Pont Mirabeau, at the zinc bar / where wine stands in upward opening glasses…» (Se un giorno ti capitasse / di trovarti con qualcuno che ami / in un bar in fondo / al Pont Mirabeau, al bancone zincato / dove il vino giace in calici svasati…), per citare alcuni versi del poeta statunitense, da una poesia che gli ho sentito recitare a braccio in una libreria di Iowa City. Ma c’era anche un sentore di qualcosa d’altro, un rimando a una terra antica, a un tempo in cui non esistevano ancora i banconi zincati. Qualche giorno dopo, quando ripresi in mano il suo saggio, finalmente capii: la scrittura di Paul richiamava quella di Thomas Browne. Browne aveva scritto la Religio Medici nel 1642, con una prosa arcaica in termini di linguaggio e varianti ortografiche. Quando ero un giovane medico mi ero lasciato ossessionare da quel libro, e perseveravo nella sua lettura come un contadino che affronta la palude che suo padre non è riuscito a bonificare. Era un compito futile, eppure volevo disperatamente apprenderne i segreti, lo accantonavo per la frustrazione e poi lo riprendevo, e scandagliando le parole sentivo che conteneva qualcosa per me, pur non avendone la certezza. Sentivo che mi mancava qualche ricettore fondamentale perché le lettere cantassero, svelando il loro significato. Per quanto mi sforzassi, il testo rimaneva oscuro.

Perché? vi chiederete. Perché perseveravo? A chi importava della Religio Medici?

Be’, al mio eroe William Osler importava, eccome. Osler, morto nel 1919, è stato il padre della medicina moderna. Amava quel libro. Lo teneva sul comodino. Aveva chiesto di essere sepolto con una copia della Religio Medici. Non riuscivo proprio a capire cosa ci trovasse. Dopo vari tentativi – e qualche decennio – il libro mi si era infine rivelato. (A tal proposito era tornata utile un’edizione più recente, con un’ortografia moderna.) Avevo scoperto che il trucco era leggerlo ad alta voce per non lasciarsi sfuggire il ritmo: «noi portiamo in noi le meraviglie che cerchiamo fuori di noi: C’è tutta l’Africa e i suoi prodigi, in noi; noi siamo quell’audace e avventurosa opera della natura, che chi la studia saviamente impara in un compendium ciò intorno a cui altri s’affaticano in opere diverse e infiniti volumi». Quando giungerete all’ultimo paragrafo del libro di Paul, leggetelo ad alta voce e sentirete quello stesso, lungo verso, un ritmo che proverete a scandire con il piede… ma, come con Browne, andrete fuori tempo. Mi resi conto che Paul era un Browne redivivo (o forse, considerando che l’avanzare del tempo è una nostra illusione, era Browne a essere un Kalanithi redivivo. Roba da far girare la testa).

E poi Paul morì. Presenziai al suo funerale nella chiesa di Stanford, un luogo incantevole dove vado spesso a sedermi quando è vuoto, per ammirare la luce, il silenzio, e nel quale mi sento sempre rigenerato. Era gremita per la cerimonia. Mi sedetti in disparte e ascoltai una serie di racconti commoventi e a tratti rauchi di commozione da parte dei suoi più cari amici, del suo pastore, del fratello. Sì, Paul se n’era andato, ma stranamente avevo la sensazione di cominciare a conoscerlo meglio di quanto lo conoscessi dopo quell’incontro nel mio ufficio, dopo avere letto i suoi pochi saggi. Stava prendendo forma in quelle storie raccontate nella Stanford Memorial Church, sotto la sua cupola svettante, il posto migliore in cui ricordare un uomo il cui corpo giaceva ormai nella terra e che tuttavia restava così palpabilmente vivo. Prese forma nella sua adorabile moglie e nella figlioletta, nei genitori e nei fratelli in lutto, nei volti di quella moltitudine di amici, colleghi ed ex pazienti che affollavano la chiesa; lui era lì anche più tardi, al ricevimento che si tenne all’aperto e riunì moltissime persone. I volti di tutti erano calmi, sorridenti, come se in chiesa avessero assistito a qualcosa di profondamente bello. Forse anche il mio viso era così: avevamo trovato un significato nel rituale di una funzione, nel rituale degli elogi, nelle lacrime condivise. E un ulteriore significato albergava anche in quel ricevimento, durante il quale placammo la nostra sete, nutrimmo i nostri corpi, e parlammo con perfetti estranei ai quali eravamo intimamente connessi tramite Paul.

Ma solo quando ricevetti le pagine che ora avete tra le mani, due mesi dopo la morte di Paul, sentii finalmente di conoscerlo meglio di quanto lo avrei conosciuto se avessi avuto la fortuna di chiamarlo amico. Dopo avere letto il libro che voi state per leggere, confesso di avere provato un senso d’inadeguatezza: l’onestà e la verità che trovai in questo scritto mi tolsero il fiato.

Tenetevi pronti. Mettetevi seduti. Scoprite che suono ha il coraggio. Scoprite quanto è eroico mettersi a nudo in questo modo. Ma, soprattutto, scoprite cosa significa continuare a vivere, influenzare profondamente le vite degli altri dopo essere scomparsi, con le proprie parole. In un mondo di comunicazioni asincrone, dove troppo spesso ci ritroviamo sprofondati in uno schermo, gli occhi fissi sugli oggetti rettangolari che vibrano nelle nostre mani, l’attenzione che si consuma nell’effimero, fermatevi e provate a entrare in dialogo con il mio giovane collega che se n’è andato, ormai senza età e immortale nella memoria. Ascoltate Paul. Nei silenzi tra le sue parole, ascoltate quello che voi avete da dire a lui. Sta proprio lì il suo messaggio. Io l’ho colto. Spero ci riuscirete anche voi. È un dono. Ora è tempo che vi lasci soli con Paul.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Emily Dickinson (1830-1886) – Ti racconto quello che vedo. Il Paesaggio dello Spirito ha bisogno di polmoni.

Emily Dickinson Paesaggio dei polmoni

«Oggi il vento soffia allegramente e le Ghiandaie abbaiano come Terrier Azzurri.
Ti racconto quello che vedo.
Il Paesaggio dello Spirito ha bisogno di polmoni, ma non della Lingua».

Emiliy Dickinson, Lettera a Mrs. J. G. Holland, inizio marzo 1866, traduzione di G. Ierolli.

Emily Dickinson – Un’anima al cospetto di se stessa
Emily Dickinson (1830-1886) – La parola comincia a vivere soltanto quando vien detta.
Emiliy Dickinson (1830-1886) – Ciò che è lontano e ciò che è vicino
Emily Dickinson (1830-1866) – Semi che germogliano nel buio
Emily Dickinson (1830-1866)  – Dedicata agli esseri umani in fuga dalla mente dell’uomo
Emily Dickinson (1830-1866) – Distilla un senso sorprendente da ordinari significati
Emily Dickinson (1830-1886) – La bellezza e la verità sono una cosa sola. Bellezza è verità, verità è bellezza.
Emiliy Dickinson (1830-1886) – Molta follia è saggezza divina, per chi è in grado di capire. Molta saggezza, pura follia. Ma è la maggioranza in questo, in tutto, che prevale. Conformati: sarai sano di mente. Obietta: sarai pazzo da legare, immediatamente pericoloso e presto incatenato.
Emiliy Dickinson (1830-1886) – Questo era un poeta: distilla straordinari sensi da significati ordinari e Essenze così immense dalle specie familiari che davanti alla porta perirono e ci meravigliamo che non fummo noi ad afferrarle, prima.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.

Luciano Canfora-Un mestiere pericoloso

Alessandro Dignös

Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci

di Luciano Canfora

Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia

 

«Se si pone mente al caso dei filosofi greci (per lo meno di alcuni), il motto celebre, e celebrato, di Marx, secondo cui i filosofi si sarebbero sinallora limitati a “interpretare il mondo” astenendosi dall’imperativo inderogabile di “cambiarlo”, non sembra corrispondere al vero. Giacché quegli antichi inventori del filosofare, in verità, operarono. E in una piccola comunità, quale fu la città antica, la loro azione risultò sommamente visibile: tanto da diventare non di rado il bersaglio della più popolare forma d’arte, la commedia. Più avanti di tutti si spinse Platone, il quale tentò addirittura di costruire la “città nuova”; e perciò patì la cattiveria e rischiò il peggio. Molto dopo di lui, uno stoico, Blossio di Cuma, fu dapprima coi Gracchi. Una volta persili, andò a morire combattendo al fianco di Aristonico e dei suoi ribelli, i quali chiedevano uguaglianza e adoravano il sole. La loro parola era dunque azione. Contro Socrate – l’uomo che forse meglio rappresenta gli antichi pensatori nella fantasia dei posteri – fu lo stesso ceto politico a mobilitarsi per neutralizzarlo. E lo colpirono: con lo strumento, talvolta cieco, ma ognora onnipotente, del verdetto di un tribunale» (quarta di copertina).

 

 

Il saggio di Luciano Canfora Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, uscito vent’anni fa per i tipi di Sellerio Editore, si pone l’obiettivo di indagare la relazione che intercorre tra la parola filosofica di alcuni fra i maggiori pensatori antichi – come Socrate, Platone, Aristotele e Lucrezio – e la prassi cui essa dà luogo, richiamando l’attenzione sulle conseguenze da esse prodotte e sulle ragioni alla base delle ostilità suscitate dalla speculazione e dall’insegnamento di tali filosofi. Dalla presente ricostruzione ben emerge come la filosofia, lungi dal costituire un mero gioco o un innocuo affare di soli addetti ai lavori, intrattenga necessariamente una relazione con il potere costituito (o con i poteri costituiti) e, più in generale, con le vicende sociali e politiche – una relazione che si rivela assai sovente problematica. Se, infatti, la filosofia non può esimersi dal calarsi nelle convulse dinamiche che definiscono il proprio tempo storico e dall’appartenervi, scendendo talora inevitabilmente – realpoliticamente – a compromessi con l’ordine vigente allo scopo di farsi valere con i fatti e «non apparire solo parola» (Platone, Settima lettera, 328E), essa, per il suo carattere antiadattivo e potenzialmente sovversivo, espone costantemente se stessa e coloro che la praticano a gravi pericoli. Allo stesso tempo, il “bisogno di filosofia” nasce, in modo apparentemente paradossale, proprio là dove il potere si fa dispotico e, tuttavia, non per caso: il «bisogno di consenso intellettuale», infatti, «è un bisogno primario del potere, soprattutto del potere totalitario» (p. 85). È dunque il potere stesso a volere e a chiamare a sé i filosofi, che però finisce per accusare di essere “corruttori”, “cospiratori”, quinte colonne o, in ogni caso, “nemici dello Stato”. Quello del “filosofo” si rivela così un “mestiere pericoloso” in un duplice senso: lo è per i reggitori, i quali non possono non sospettare di coloro che liberamente indagano sui problemi che, in un modo o nell’altro, riguardano ogni uomo; lo è per i filosofi stessi che, proprio per la loro coraggiosa e radicale scelta di vita, si trovano di fatto in perenne pericolo.
La relazione tra la riflessione di tali filosofi e la prassi che da essa deriva è chiarita ripercorrendo i momenti cruciali della loro vicenda biografica. È infatti sul terreno della vita, delle scelte – più o meno filosofiche – che essi si trovano costretti a compiere e delle reazioni che la loro maniera di vivere e pensare provoca in chi detiene il potere, che si fa evidente la pericolosità della loro attività.
Se c’è una figura che, meglio di altre, può rendere l’idea del pericolo cui i filosofi sono esposti, essa è senza dubbio quella di Socrate. Egli è colui che, per le proprie idee e per la propria condotta, è assassinato dalla propria città, Atene. Sarebbe però un errore vedere in costui un uomo che, con coraggio, resta fedele ai propri princìpi di fronte all’estremo pericolo della condanna a morte: tutta la sua vita è infatti irradiata dall’idea che non si debba fare nulla che non sia conforme alla legge; non solo dinanzi alla morte, dunque, ma in ogni momento della sua vita Socrate si muove coraggiosamente contro corrente, rifiutandosi più volte di assecondare i desideri sia del demo sia di coloro che si ritengono migliori. Il suo grande merito è quello di smascherare l’inconsistenza della tesi secondo cui la “giustizia” coinciderebbe necessariamente con gli interessi della maggioranza; in aperto contrasto con la maggior parte degli Ateniesi, egli testimonia il primato del nomos sul demos.
La vita (filosofica) di Socrate rappresenta una sfida continua nei confronti dei pericoli cui un filosofo va inevitabilmente incontro. Diverso è invece, per Canfora, l’atteggiamento del suo allievo Platone. La sua filosofia nasce infatti, per certi aspetti, dal desiderio di evitare il pericolo di una condanna analoga a quella di Socrate, ed è questo a rendere il suo filosofare differente da quello del suo maestro: «se […] sceglierà di filosofare “al chiuso”, in una cerchia remota e separata, lontano dagli occhi dei concittadini, se cioè farà l’esatto contrario del continuo incontrarsi e scontrarsi con la città caratteristico di Socrate, questo sarà dovuto anche, se non essenzialmente, alla tragica conclusione dell’esperienza socratica» (p. 68). La morte del maestro, com’è noto, ha un’importanza decisiva per lo sviluppo del pensiero filosofico-politico di Platone: «il vero trauma, indelebile», per costui, è non la guerra civile che fa seguito alla sconfitta contro Sparta, ma «il processo mostruoso con cui la democrazia restaurata aveva messo a morte Socrate. È a quell’evento che dedica una riflessione altissima», poiché da esso «scaturisce la sua scelta di vita: la rinuncia a misurarsi con la democrazia e la ricerca di altre strade» (p. 69). L’assassinio di Socrate determina la rottura tra Platone e Atene: «è da allora che, giudicato irriformabile il modello politico rappresentato (per eccellenza!) dalla sua città, cerca altre strade, fa esperienze che saranno anch’esse alimento, e banco di prova, del suo pensiero politico» (pp. 69-70). La fondazione dell’Accademia sancisce, in seguito, la definitiva separazione dei filosofi dalla città. La comunità di Platone, infatti, «era una comunità che mostrava di non aver bisogno della città, e che tuttavia osava anche occuparsi della città» (pp. 80-81); questa è una delle ragioni per cui essa «non faceva che insospettire e irritare i “buoni” ateniesi. Cosa tramava quella gente al chiuso?» (p. 81) Il desiderio di «non apparire solo parola di fronte a me stesso» (Settima lettera, 328E) e dunque di modificare lo stato di cose presente è, osserva Canfora, il tarlo che tormenta Platone. È questo tormento, unito alla convinzione «che la prova decisiva alla quale ad un certo punto si è chiamati non è, come pensano molti, lontana e di là da venire o relegata in un passato (ormai mitizzato) di cui non potemmo essere protagonisti, ma è qui, a portata di mano, in un immediato presente dal quale è vile tirarsi indietro» (p. 84), a spingerlo alla collaborazione con i tiranni di Siracusa. E tuttavia, è in questo che, secondo lo studioso, consiste «il vero fallimento di Platone: nell’essere caduto nella spirale del potere, fallendo l’obiettivo di pilotarlo» (pp. 84-85). Ed è qui che, a conti fatti, la vicenda filosofica di Platone assume i tratti del paradosso: se è vero, infatti, che egli ha deciso di tenere la pratica della filosofia lontana dagli occhi degli Ateniesi per sfuggire al pericolo di una condanna a morte, è altrettanto vero che la decisione di venire a un’intesa con la tirannide siracusana lo pone (per più volte!) dinanzi al medesimo pericolo.
Di grande interesse è anche l’intrigante ricostruzione della vita di Aristotele, compiuta da Canfora con l’intento di portare alla luce la complessa trama che lega saldamente lo Stagirita alla monarchia macedone. L’autore rileva come il suo stesso desiderio giovanile di recarsi ad Atene per studiare presso l’Accademia di Platone sia, a ben vedere, riconducibile al sovrano di Macedonia, Filippo. La Macedonia, infatti, «era un paese che guardava alla cultura ateniese con interesse, anzi con avidità. […] Mandare il promettente figlio del medico di corte alla scuola di Platone era dunque, per la casa regnante macedone, innanzi tutto un investimento: Aristotele, l’adolescente promettente, veniva messo a contatto col centro di pensiero più avanzato della grecità continentale. […] Si nutriva a quella educazione da re per portare a sua volta, o trapiantare, nel suo paese, e soprattutto nell’educazione del giovanissimo principe ed erede, i frutti di quello straordinario apprendistato» (pp. 97-98). La decisione di lasciare Atene dopo un soggiorno ventennale va intesa considerando ciò che avviene tra il 348 e il 347 a.C.: la città di Olinto, sostenuta da Atene per volere di Demostene, si arrende a Filippo; Demostene diviene il leader della politica ateniese. È chiaro come in tali condizioni non convenga a un suddito macedone rimanere ad Atene. La scelta di andare in Troade, ad Atarneo, su invito del suo dinasta Ermia, anziché in Macedonia, si spiega per Canfora tenendo a mente che Ermia, benché protetto dal Gran Re di Persia, è in verità un agente di Filippo avente il compito di preparare l’attacco contro la Persia; in gioventù è stato allievo di Platone ed è presso la sua scuola che ha conosciuto Aristotele, divenendo suo amico e, in seguito, addirittura suo parente. In Troade, Aristotele fonda una scuola patrocinata dallo stesso Ermia che, tuttavia, segnala lo studioso, non è illecito ritenere che si tratti in realtà di un “organo” dell’intelligence macedone. In generale, secondo Canfora, è lecito pensare che Filippo abbia «infiltrato suoi uomini nella scuola di Platone» e che questi «stessero accanto ad Aristotele sotto l’eccellente copertura della frequentazione di studio presso quella scuola dove tutto avveniva al chiuso, al riparo dagli occhi della città» (pp. 109-110). Quanto ad Aristotele, quando diviene precettore del giovane Alessandro, figlio ed erede di Filippo, solo pochi possono sospettare che costui, che è ormai noto come una delle più grandi menti viventi, sia in realtà un agente macedone. Il suo successivo ritorno ad Atene, nei primi mesi del 334, può essere compreso alla luce di alcuni eventi connessi ai successi della politica macedone, come la distruzione di Tebe, che dà ad Aristotele la certezza che coloro che sono stati sconfitti nella guerra contro i Macedoni – come gli Ateniesi – non riservino sorprese. Ad ogni modo, anche la sua amicizia con Antipatro, reggente di Macedonia per conto di Alessandro dallo stesso anno, permette di fare luce tanto sulle ragioni del suo rientro quanto «sui rapporti ininterrotti e profondi di Aristotele con i livelli supremi del potere macedone. Un dato del genere», osserva l’autore, «consente di cogliere i fili che, dietro la scena, muovono i personaggi: Antipatro e Aristotele si muovono all’unisono quando vengono, entrambi, in Grecia durante l’assenza prevedibilmente non breve di Alessandro» (ivi). È addirittura proprio quest’ultimo a patrocinare il Liceo, la scuola che Aristotele, in quegli anni, fonda ad Atene. «Il legame che, anche a distanza, univa Alessandro al suo maestro», evidenzia Canfora, «era impersonato fisicamente da Callistene, il nipote di Aristotele» (p. 126), lo storico al seguito di Alessandro nella sua spedizione in Asia. Ed è per certi versi sempre Callistene la causa della rottura tra il Conquistatore e lo Stagirita: dopo l’uccisione di Callistene (327 a.C.) – accusato di aver congiurato contro di lui –, infatti, l’ira di Alessandro si scatena sul vecchio maestro, considerato il suo mandante. Dopo la morte improvvisa di Alessandro, molte personalità a lui vicine sono sospettate di averlo avvelenato; tra queste vi è anche Aristotele. Anche sulla morte di quest’ultimo (322 a.C.), per lo studioso, è lecito formulare alcune ipotesi. Fuggito da un’Atene nuovamente guidata da Demostene e in guerra contro Antipatro, forse anche per evitare un processo per empietà, egli si rifugia nella città di Calcide, controllata dai Macedoni, dove poco dopo muore. Non è dato sapere se la sua morte sia dovuta a malattia o avvelenamento, come sostengono alcuni storici antichi. «In tal caso», suggerisce Canfora, «ci dovremmo chiedere chi avesse provveduto a far fuori il filosofo a quel modo: degli Ateniesi esasperati dalla sconfitta che mal sopportavano di non averlo potuto processare, o dei “vendicatori” macedoni della morte di Alessandro?» (p. 138). In ogni caso, nonostante la vicenda di Callistene, è forse ancor prima, sul piano filosofico-politico, che si consuma la rottura tra Aristotele e Alessandro: l’ideale politico di Aristotele, infatti, «non si identifica con la monarchia dei suoi sovrani», ma con una polis «retta da leggi e avente come fulcro la classe media possidente» (p. 121) – un modello evidentemente distante da quello della basileia universale di Alessandro. Atene è, in questo senso, non solo un luogo particolarmente stimolante in cui fare ricerca e insegnare, ma anche «un punto di osservazione privilegiato per la sua riflessione politica» (pp. 120-121). È dunque il suo pensiero che forse, più di altri fattori, può spiegare cosa lo abbia indotto a lasciare Pella, la capitale macedone, per stabilirsi ad Atene.
Quanto esaminato costituisce solo una parte dell’opera di Canfora, alla quale vanno riconosciuti almeno due grandi meriti: da una parte, essa porta alla luce il carattere pratico della filosofia greca, indicando, nel confronto con la vita di alcuni suoi protagonisti, quali siano i pericoli cui un filosofo va o rischia di andare incontro; dall’altra, essa lascia intendere come, in ogni tempo, chiunque aspiri non solo ad “interpretare il mondo”, ma anche a “trasformarlo”, non cessi di imbattersi in analoghi pericoli, dimostrando come ogni vero filosofare rappresenti, in definitiva, un “mestiere pericoloso”.

Alessandro Dignös

 

 

 

Indice del volume

Socrate ovvero l’infallibilità della maggioranza
L’esule: vita randagia del cavaliere Senofonte
Platone e la riforma della politica
Aristotele uno e due
Epicuro e Lucrezio: il senso degli atomi
Un mestiere pericoloso

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) – Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è la fame né la peste; è invece quella malattia spirituale – la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli – che è la perdita del gusto di vivere

Pierre Teilhard de Chardin

«Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è la fame né la peste; è invece quella malattia spirituale – la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli – che è la perdita del gusto di vivere».

Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano [1955], Queriniana, 2010.

Pierre Teilhard de Chardin
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva

Fernanda Mazzoli-Antonio Fiocco

Antonio Fiocco

Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

ISBN 978-88-7588-239-6, 2019, pp. 80, Euro 10 – Collana “Divergenze”

indicepresentazioneautoresintesi
Fernanda Mazzoli

L’inesausta tensione progettuale per il bene comune,
mai da considerarsi come acquisizione definitiva

Ho letto il recente saggio di Antonio Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente,[1] con la lente un po’ particolare di un lettore privo di rigorosa formazione filosofica, ma sinceramente interessato ad orientarsi nella realtà contemporanea con strumenti interpretativi solidi, nella prospettiva di pensarne una radicale trasformazione che coincida, come principio generale, con la fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico e dal tipo di relazioni sociali che esso comporta. La questione indicata dall’autore come centrale – ovvero quella della progettualità, intesa come necessità di elaborare a livello prima di tutto teorico un percorso che vada in tale direzione e un’idea di società seriamente alternativa all’attuale – mi riguarda dunque da vicino.
La riflessione di Antonio Fiocco non ha pretesa di sistematicità od esaustività, ma il merito (e non è poca cosa, dati gli attuali scenari politici e culturali) di individuare con chiarezza due aspetti imprescindibili del problema: da un lato, l’insufficienza e la contraddittorietà di una messa in discussione dell’attuale assetto sociale che non tocchi la questione di fondo che il capitalismo è irriformabile (anzi, come ben sottolineato da numerosi studi degli ultimi anni, è capace di assorbire e fare proprie molte istanze critiche nei suoi stessi confronti) [2] e che occorre dunque contrapporgli la visione di una società completamente diversa quanto a fondamenti e finalità, e dall’altro il fallimento sostanziale di esperienze rivoluzionarie che non si siano fatte carico pienamente – a partire da un’elaborazione teorica coerente – di tale esigenza di progettualità. Una carenza in tal senso finisce, infatti, per consegnare un processo di grande rinnovamento politico e sociale al gioco delle contingenze, alle pressanti esigenze pratiche con il rischio che esso venga snaturato, o esaurisca la sua spinta rivoluzionaria. L’autore pensa in particolare alla Russia sovietica e al corso involutivo susseguito all’«assalto al cielo» tentato dalla rivoluzione bolscevica.
La inadeguata attenzione alla progettualità appare, pertanto, ad Antonio Fiocco come il vulnus che ha logorato dall’interno sia esperienze storiche grandiose, sia costruzioni filosofiche ambiziose (basti pensare a quella di Sartre) e che, nella odierna fase del capitalismo avanzato, vanifica la possibilità stessa non solo di di costruire, ma anche di pensare un’ alternativa credibile al capitalismo. La non-progettualità finisce per legittimare e rinforzare l’attuale stato delle cose, poiché, mancando una proposta complessiva di ampio respiro, restano solo contestazioni parziali facilmente neutralizzabili o riforme chiamate a correggere gli squilibri del sistema alfine di meglio conservarlo.
Si impone, quindi, la necessità di progettare una nuova idea di comunismo, necessità resa ineludibile non solo da istanze filosofiche, maturate anche nel confronto con la prassi rivoluzionaria, ma pure dalla constatazione che ogni epoca storica ha elaborato un suo concetto di comunismo (da Gesù a Babeuf, da Marx a Stalin, secondo la suggestiva ipotesi di Costanzo Preve qui richiamato), mentre la post-modernità sembra non avere alcuna intenzione di metterne in cantiere uno. Compito oggi più difficile che mai, perché sembra difficile dare torto a Fiocco quando osserva che «ormai anche chi è sinceramente, soggettivamente, rivoluzionario e marxista, corre il rischio di non saper più pensare la realtà personale e sociale se non all’interno delle coordinate dettate dal capitale».[3]
E qui irrompe l’altra grande questione che l’autore si limita ad accennare e che pure il suo lavoro non può fare a meno di evocare con forza: quale soggetto – individuale e/o collettivo – può progettare questa idea di comunismo per una società a capitalismo avanzato all’epoca della globalizzazione? Se Fiocco rimanda per una possibile articolazione del problema ai fondamenti umanistici del comunismo,[4] dal suo testo emerge, tuttavia, con chiarezza che solo un pensiero che attribuisca alla filosofia un ruolo veritativo autonomo può superare quel limite di universalismo che ha inficiato precedenti teorie radicate sul Partito o la Classe, le quali hanno finito per piegarsi all’urgenza delle condizioni storico-sociali, fino a compromettere seriamente la loro incidenza sui processi di trasformazione sociale. La questione è enorme, mobilita sia un’elaborazione concettuale che ha segnato due secoli di pensiero europeo, sia un pezzo importante della storia dell’umanità e finisce per combaciare con l’enormità della nostra miseria attuale, che è assenza di teoria e assenza di prassi, mentre le contraddizioni stridenti del sistema capitalistico finiscono sempre per ricomporsi in un suo rafforzamento, in virtù anche di questo vuoto.
La pesante sconfitta del comunismo storico – che non è solo crollo di regimi che già da tempo avevano perlomeno esaurito la loro spinta emancipativa, ma anche disgregazione di istanze, lotte e movimenti capaci di proporre una visione antagonistica complessiva – ha minato l’idea stessa che sia possibile concepire un altrove rispetto alla società di mercato e alla razionalità liberista. E ha finito inoltre per orientare il superstite discorso sul comunismo, relegato ai margini della cultura e rimosso dalla vita politica, quando non criminalizzato, nella direzione di una sorta di teologia negativa, attenta a dire come non dovrà essere il comunismo del futuro, piuttosto che a progettarne le linee di fondo, operazione necessaria per uscire dalla subordinazione politico-culturale al capitale. Se è, infatti, evidente che non è possibile (e nemmeno auspicabile) costruire da cima a fondo e con materiali predisposti le osterie dell’avvenire, la scrivente concorda con Fiocco sulla necessità di elaborare una nuova idea di comunismo, quale condizione per uscire, prima di tutto sul piano intellettuale, dall’impasse di un ordine sociale contrabbandato come naturale, eterno ed unico.

Da dove ripartire, dunque? Antonio Fiocco in questo testo non traccia una strada maestra che attraversi la notte del presente, come si è detto, ma sicuramente lascia cadere diversi sassolini che costringono il lettore, anche non filosofo di professione come chi scrive, a fermarsi, raccogliersi e pensare a come disegnarla questa strada e per andare dove. Al netto di ogni illusione su un possibile paradiso futuro – aggiungo – proprio per non cadere nella micidiale trappola liberista della fine della storia, in un improbabile (e sinistro) mondo conciliato e pacificato, dove i cerchi dei beati ospitino indifferentemente e a scelta profluvi di merci e uomini tutti d’un pezzo impegnati a gareggiare virtuosamente in bontà, solidarietà e reciproco amore.
Il sassolino nel quale la sottoscritta è inciampata è quello della natura umana, caratterizzata come morale e razionale, posta a fondamento del possibile comunismo del futuro. Ora, rispetto agli amici di Koiné che, ormai da anni, hanno sviluppato una seria ricerca teorica su questo concetto, sono piuttosto incline a sottolineare la curvatura tragica di tale natura, l’ineludibile e insuperabile conflittualità ad essa congenita, suscettibile per il convergere di molteplici e svariati fattori di tendere verso il bene, ma mai come acquisizione definitiva, quanto come inesausta tensione. Ciò che non esclude il riconoscimento del suo carattere morale e razionale (da cosa, altrimenti, potrebbe scaturire tale tensione?), ma sposta l’attenzione sul non-compiuto, non-finito e sul suo incessante farsi. Condivido pienamente, comunque, la centralità accordata alla nozione di natura umana nella elaborazione della progettualità, nella ferma convinzione che su questo concetto, su una sua meticolosa ed articolata definizione, si giochi la possibilità di ricostruire dalle macerie un percorso di liberazione dalle logiche del capitale. La bussola capace di guidare questo arduo processo dovrebbe infatti, a giudizio della scrivente, cercare di dare una risposta, rigorosa quanto a fondamenti teoretici, ma sempre aperta alla ricerca, al dubbio e al confronto, a una domanda fondamentale: “Che idea di uomo abbiamo?”.
Il punto è dirimente, perché il capitalismo, e la sua attuale variante liberista, un’idea molto precisa in merito ce l’ha ed è anche grazie alla forza e alla capacità di irradiazione di quest’idea che ha, per adesso, vinto. Ancora una volta, la questione cruciale è quella dell’egemonia che investe innanzitutto il piano intellettuale. Porre con chiarezza questa dimensione antropologica e affrontarla in profondità significa individuare il cuore di una riflessione teorica capace di progettualità.
Altro grande merito di questo libro – che in una sessantina di pagine compendia una materia estremamente densa, offrendo ricchezza di spunti e di indicazioni, anche bibliografiche – è di affermare il primato, che è ontologico prima che cronologico, della teoria sulla prassi, della filosofia sulla sua applicazione, principio corroborato dalla stessa esperienza storica che mostra abbondantemente come «una elaborazione teorica coerente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti».[5] Se, in proposito, Fiocco riprende la tesi di altri pensatori, in particolare di Preve, giova però ricordare quanto la ripresa e la riproposizione di questo concetto siano rese necessarie dalla sua inattualità. La ragione liberista dominante inneggia infatti al sapere immediato, alla competenza spendibile sul mercato – il grande bazar delle merci, ma anche del lavoro, della cultura, delle relazioni interpersonali, merci tra le merci – e confina il sapere teorico nella soffitta delle anticaglie, bollandolo come inutile, privo di presa sulla realtà, noioso ed antidemocratico per la sua complessità. Non è un caso, e l’autore lo ricorda, che la scuola sia divenuta il terreno di manovra privilegiato di questa vasta operazione ideologica. La didattica delle competenze, ultimo ritrovato di pedagogisti in salsa ministeriale, suggella efficacemente l’ impianto culturale della buona scuola. Essa costituisce la matrice entro la quale modellare un nuovo profilo educativo che assume una specifica concezione dell’uomo, che è quella dell’imprenditore di se stesso e del consumatore informato. L’emarginazione delle conoscenze teoriche e la riduzione dei processi di astrazione alle tecniche del problem solving spacciate come innovazione metodologica contribuiscono molto efficacemente ad addestrare le nuove generazioni a compiti semplici, ripetitivi in quanto risolvibili all’interno di determinate procedure e specifici, attinenti, cioè, al particolare piuttosto che allla totalità. Degli individui atomizzati privi di progettualità sociale, adattati al grande ingranaggio sistemico nella speranza di trovarvi una nicchia il più possibile comoda per se stessi, incapaci di togliere al mondo in cui vivono le vesti dello spettacolo di cui si ammanta, ottime pedine per la sua riproduzione: uno scenario che non autorizza certo facili ottimismi, ma sollecita l’urgenza di una risposta forte, di un pensiero – imperniato su uomo e polis e la loro reciproca relazione – che sappia rimettere in moto la storia.

Fernanda Mazzoli

[1] A. Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente, 2019, Petite Plaisance.

[2] Cfr. in particolare L. Boltanski- E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, 2014, Mimesis.

[3] A.Fiocco, op. cit., p. 52.

[4] C.Fiorillo, L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del comunismo, 2013, Petite Plaisance.

[5] A. Fiocco, op. cit., p. 5.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Coronavirus- covid 19

Salvatore Bravo

Il disprezzo come modalità di governo

Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.
La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza. Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.
Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.

Multe
Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?
Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.

Linguaggio
Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.
Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.

Religione come oppio dei poveri
Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.

Eroi della didattica mediatica
I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.

Tempi moderni
Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.

Nichilismo passivo
È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo

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Gherardo Ugolini – Ricordo di Diego Lanza. Gli amici, gli allievi, i colleghi che ne portano avanti l’eredità intellettuale gli sono debitori di molti insegnamenti.

DiegoLanza-Gherardo Ugolini

Si può scaricare e stampare il PDF (14 pagine) del testo aprendo il file sottostante:

Gherardo Ugolini

Tra le molte pubblicazioni di Gherardo Ugolini

D. Lanza – G. Ugolini (a cura di), Storia della filologia classica, Carocci, Roma 2016. Premio Nazionale di Editoria Universitaria nel 2016.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

Bontempelli Massimo 01

La conoscenza del bene e del male

Massimo Bontempelli

La conoscenza del bene e del male

indicepresentazioneautoresintesi

***

Tanta fretta.
Perché?
Per prendere la barca
che non va da nessuna parte.
Amici miei, tornate!
Tornate alla vostra sorgente!

Non abbandonate l’anima
nel bicchiere
della morte.

Federico Garcia Lorca

***

L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE

[…] C’è stato […] nell’Occidente degli ultimi secoli un processo direzionalmente univoco, anche se differentemente articolato nei differenti tempi e luoghi, e variamente accidentato da ritorni e deviazioni, di razionalizzazione irrazionale delle forme di conoscenza.
Le forme di conoscenza, cioè, si sono gradualmente ristrutturate in relazione alla ridefinizione dei loro oggetti teorici. Questa ridefinizione è sempre andata nella direzione di un restringimento e di un isolamento dell’oggetto teorico. Ad esempio la nozione di moto, diventando oggetto teorico della nuova fisica galileo-newtoniana, subisce un restringimento di significato rispetto alla cornspondente nozione platonico-aristotelica: ora i processi di germinazione, di invecchiamento, di alterazione qualitativa non rientrano più nel moto fisico. Questo moto è ora solo spostamento nello spazio nel corso del tempo. Ad
esempio la nozione di ricchezza, diventando oggetto teorico della nuova economia di Quesnay, va a designare uno spettro molto più ristretto di fenomeni: ora è ricchezza soltanto il prodotto netto economico di una società, e non sono una sua ricchezza i livelli di intelligenza e di moralità dei suoi membri. Ad esempio le nozioni di rivoluzione e di reazione acquistano con Constant un significato molto più ristretto che in passato: ora esse indicano soltanto un mutamento forte delle istituzioni che organizzano la società.
La costituzione di un oggetto teorico dal significato più ristretto e maggiormente separato dagli altri, rispetto ad un precedente oggetto da cui è derivato, rappresenta un progresso nel possesso razionale del mondo, è cioè un momento di razionalizzazlone delle cose. Definire un oggetto teorico attraverso il restringimento e il maggiore isolamento di un oggetto anteriore significa infatti migliorare la precisione con cui esso identifica un aspett.o
della realtà. Quando ad esempio Quesnay restringe il significato della ricchezza a quello del prodotto netto sociale, fa emergere una nozione di ricchezza meno vaga e meglio identificabile che in passato. D’altra parte ragionare è distinguere, come spiegava Croce, e per distinguere occorre astrarre. Il restringimento e l’isolamento dei significati sono il processo stesso dell’astrazione, e per questo costituiscono sempre un momento di razionalizzazione. La rivoluzione scientifica cinque-seicentesca ha rappresentato un formidabile salto in avanti nello sviluppo dei procedimenti razionali proprio perché ha ridefinito gli oggetti teorici attraverso nettissime astrazioni dai significati dell’esperienza comune. Inoltre, ogni riduzione e maggiore separazione di un oggetto teorico accresce la sua efficacia come strumento di previsione, e quindi di azione. Ciò è mostrato, a livello molto banale, da qualsiasi esperienza pratica quotidiana, in cui quanto più numerose e indiscriminate sono le cose che si vedono, tanto minore è l’efficacia con cui le si possono controllare. Nella scienza ciò è ancora più vero: quanto più un oggetto teorico è ritagliato dal suo sfondo, e quanto più sono isolate le sue singole relazioni con gli altri oggetti, tanto più risultano prevedibili e riproducibili determinati suoi effetti particolari.
La consapevolezza della crescente precisione ed efficacia che la ragione può ottenere frammentando e separando i suoi oggetti è molto antica. Già Platone, infatti, nel Sofista e nel Politico guida il lettore in faticose e progressive scomposizioni e separazioni di concetti. In età moderna Hegel ha scritto, nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, che «il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un’esistenza propria ed una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo, che è l’energia del pensiero». L’energia del pensiero è definita negativa perché consiste, per così dire, nell’irrealizzare la realtà, scindendone la totalità in elementi teorici separati, resi irreali, cioè estranei alla totalità che sola è reale, appunto dalla loro separazione. Ma, osserva Hegel, «l’elemento scisso e irreale è tuttavia essenziale: il concreto, infatti, è automovimento solo perché si scinde e si fa irreale». La negatività dell’astrazione, dunque, è positività razionale nella prassi.
Platone ed Hegel sapevano, però, che la negatività che frammenta il campo teorico e separa i suoi oggetti tra loro scissi, pur generando l’analisi, la precisione, l’efficacia e la potenza della razionalità, è in se stessa irrazionale.
Perciò Platone, nel Fedro, pone accanto alla divisione la sinossi, come momento essenziale di un equilibrato sviluppo della facoltà razionale. Perciò Hegel, nella Scienza della logica, fa valere l’esigenza che, accanto ad un intelletto «astraente e con ciò separante, che permane nelle sue separazioni», operi una ragione che riunifichi l’intero campo teorico mediante la congiunzione dialettica dei concetti separati. Là dove l’oggetto teorico è costituito in modo da poter essere pensato soltanto dall’intelletto astraente, e non anche dalla ragione dialettizzante, allora, scrive Hegel nella Introduzione alla Scienza della logica, «in questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto della verità va perduto, la ragione viene ristretta a conoscere una verità soltanto soggettiva, a conoscere cioè soltanto qualcosa cui la natura dell’oggetto non corrisponda. Il sapere torna ad essere l’opinione» .
Questo è stato appunto l’epilogo della razionalizzazione irrazionale della modernità. Si tratta di un epilogo di non facile lettura, sia perché vi siamo ancora completamente immersi, e ci manca quindi quella distanza cronologica ed ideale che consentirebbe di metterlo meglio a fuoco, sia perché è costituito dalla massima intensificazione di elementi intrinsecamente antinomici. Abbiamo simultaneamente raggiunto, in primo luogo, il massimo della razionalità ed il massimo della irrazionalità storicamente prodotte, ed alla ragione non risulta facile pensare congiuntamente, come deve, entrambi questi aspetti della situazione.
D’altra parte, se essa non comprende l’irrazionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna a sottomettersi alle corrispondenti forme di vita come ad una fine della storia, a pensare come inconoscibile ciò che è più importante per la condizione umana, a veder emergere questo inconoscibile come sentimento primitivo, disperato, nichilistico. Se non comprende, invece, la razionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna ad una critica antiscientifica, regressiva ed impotente della modernità.
È dunque importante capire che la modernizzazione delle idee è stata […] un’opera simultaneamente di razionalizzazione e di irrazionalizzazione.
La costituzione di oggetti teorici sempre più astratti, tipizzati, parziali e separati ha potenziato al massimo la razionalità come precisione, previsione, calcolo ed efficacia settoriale. Ma questa stessa costituzione ha potenziato al massimo anche l’irrazionalità come incapacità di dialettizzare concetti separati, come impotenza di fronte al movimento della totalità sociale, come demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, come perdita della conoscenza del bene e del male.
Questo epilogo è antinomico anche perché da un lato esalta al massimo l’individualità, separandola come non mai nella storia da ogni matrice socializzante, e dall’altro la deprime al massimo con la serializzazione dei comportamenti e degli stessi pensieri. Ed è antinomico perché porta a compimento e invera la modernità, abbandonando nello stesso tempo tutte le sue promesse emancipatrici, tanto che si è parlato, in contrapposizione al moderno, di un postmoderno.
Il processo di razionalizzazione irrazionale è stato alimentato […] dai processi sociali di generalizzazione della fonna di merce e di universalizzazione delle relazioni tecniche. Anzi, è stata proprio la razionalizzazione irrazionale progressivamente diffusasi nelle relazioni sociali che ha generato quegli snodi nelle idee. […]
Ebbene: il modo di produzione moderno, la cui logica si dispiega nella circolazione delle merci, è sempre più penetrato, nel corso degli ultimi secoli, nello spazio sociale. Negli ultimi decenni lo spazio sociale ne è stato quasi interamente pervaso, cosicché oggi viviamo, per fare un paragone fisico anziché biologico, in un universo le cui masse interagenti sono merci e galassie di merci.
Dove tutto è merce, tutto è quantificabile, e, su scala locale, tutto diventa calcolabile, prevedibile, manovrabile: la razionalità trionfa. Ma il movimento globale, frutto di innumerevoli interazioni, diventa incontrollabile, e valori, vincoli e sentimenti perdono qualsiasi visibilità: l’irrazionalità trionfa.
L’universalizzazione delle relazioni tecniche è l’altro processo sociale che ha prodotto e plasmato la razionalizzazione irrazionale. Tecnica è, in senso proprio, una capacità di produzione data dall’uso di determinati strumenti in conformità a determinate regole. Si parla più specificamente di tecnologia quando le regole, o addirittura gli strumenti, della tecnica, sono la concretizzazione di nozioni scientifiche. Lo sviluppo dei mezzi tecnici e dei concetti scientifici nel corso dell’età moderna ha dato un’impronta sempre più tecnica, e tecnologica, alle relazioni sociali.
Oggi viviamo infatti in un universo tecnico. Ciò significa non tanto che viviamo in mezzo ad apparecchi tecnici, quanto piuttosto che le regole tecniche da un lato sono condizioni di efficacia di tutte le nostre azioni, e dall’altro non sono estrinseche agli strumenti, ma sono incorporate in strumenti, i quali sono a loro volta semplici articolazioni di un apparato complessivo. Questo apparato scientifico-tecnologico è dunque l’apparato di comando dell’azione sociale, che determina la divisione sociale del lavoro e i corrispondenti rapporti sociali. […]
In un siffatto universo tecnico si realizza il paradigma, proprio della razionalità, dell’unità della molteplicità. Innumerevoli interazioni sociali hanno infatti un unico apparato come luogo di coordinamento (sia pure di un coordinamento che amplifica, invece di comporre, gli antagonismi). Ogni azione, inoltre, viene esattamente predeterminata dalla tecnica, in conformità al criterio razionale della precisione e del rigore. Infine si determina la prevedibilità di catene, lunghe quanto mai in passato, di cause e di effetti. La razionalità, insomma, trionfa.
Nell’universo tecnico, d’altra parte, il soggetto non è più sorgente di azioni, in quanto le azioni si trovano già prescritte nel complessivo apparato scientifico-tecnologico. La libertà, quindi, perde di significato, e con essa la ragione. Prendersi la libertà di compiere un’azione contraria alle prescrizioni implicite nelle relazioni tecniche significa farla scadere dall’efficacia all’inefficacia, e quindi spogliarla del suo carattere attivo. Un’azione inefficace, cioè, non è più un’azione. Né è possibile farle attribuire un valore di altro genere, perché il riconoscimento di un valore presuppone l’accoglimento di un messaggio, e nell’universo tecnico gli unici messaggi di cui è possibile la trasmissione sono quelli conformi alle regole tecniche delle relazioni sociali, sono cioè quelle regole stesse. Nell’universo tecnico, dunque, cade la distinzione, paradigmatica della ragione, tra valore ed efficacia, perché il valore viene a coincidere con l’efficacia. L’irrazionalità, insomma, trionfa.
Una razionalità irrazionale non è affatto, come potrebbe sembrare, una contraddizione in termini. Si tratta, invece, di un modello di razionalità, che possiede, cioè, caratterizzazioni proprie della ragione (precisione, rigore, calcolabilità, prevedibilità, efficacia), ma che non ha scopi, e che perciò include tutte quelle caratterizzazioni in un orizzonte di irrazionalità. Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi.
Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre, il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo.
La storia degli ultimi secoli, dunque, da un lato ha potenziato ininterrottamente la razionalità, e dall’altro ci ha condotto, per la prima volta nella storia, ad una razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale. Il terreno a questo epilogo è stato preparato, sul piano delle idee, da tutti quegli autori che hanno dissociato la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana. […]
Il modello di una razionalità divenuta priva di scopi, a cui è approdato il processo di razionalizzazione irrazionale degli ultimi secoli, annulla qualsiasi possibilità di distinguere la vita dalla morte, il bene dal male. Abbiamo visto infatti, nel secondo capitolo, come la vita e la morte, il bene e il male, siano connessi alla intrinseca natura teleologica dell’esistenza. Un modello di razionalità come quello dell’attuale epilogo della razionalizzazione irrazionale, costruito separando la ragione dalla teleologia, è perciò necessariamente cieco di fronte alla vita e al bene. Esso si rispecchia, quindi, in uno stile di
vita e di pensiero in cui l’orizzonte della morte è rimosso, oppure nichilisticamente contemplato, in cui l’operare della morte è scambiato per espressione di vita e di conoscenza, in cui il bene è ineffabile, e sostituito in pratica dall’efficacia.

L’universo sociale contemporaneo, risultato dal processo di razionalizzazione irrazionale della modernità, è realmente l’inferno dello spirito. Dirlo non è elegante, non
fa fare buona figura nell’ambiente sedicente colto della sinistra intellettuale e dell’intellettualità accademica e mediatica, e suscita il sarcasmo riservato, da ogni buon scientista o detentore del potere culturale, alle nostalgie premoderne e alle visioni apocalittiche. Lo si deve però dire, se si vuol dire la verità. Come altrimenti definire un mondo in cui la produzione economica, cresciuta e “razionalizzata” al punto da avvelenare sempre più la terra, l’acqua e l’aria con i suoi rifiuti, tiene tuttavia i tre quarti del genere umano in una penuria superiore a quella dei secoli precedenti?

Massimo Bontempelli,
La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, 1998, pp. 115-125.

Filosofare

Il 31 luglio 2011 veniva improvvisamente a mancare, a Pisa, Massimo Bontempelli. Chi ha avuto la fortuna di leggere i suoi libri, sa che, con lui, è venuto a mancare uno dei pensatori italiani più originali, autore di opere filosofiche, storiche e politiche che trovano raramente degli uguali fra quelle più note ai contemporanei; essendo pensatore critico verso il modo di produzione capitalistico, ed estraneo alla università, né in vita né in morte i suoi meriti gli sono (almeno per ora) stati adeguatamente riconosciuti. Queste pagine non ripagano il debito, né ne ricostruiscono l’opera, ma vogliono semplicemente essere un ricordo filosofico.

 ***

 

Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».


 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.

Georges Perec, Les choses

Il romanzo di Georges Perec Les choses,[1] pubblicato nel 1965, realizza un singolare paradosso: tanto è esiguo il volumetto, tanto esso pesa. Pesa di lunghe liste di oggetti, mobili, cibi, vestiti, aggeggi di ogni sorta che riempiono il vuoto in cui si dipana l’esistenza dei due protagonisti, Jerôme e Sylvie. Lo spazio della narrazione è disegnato da questo succedersi di pieni e di vuoti: pieno di cose e di desideri, vuoto di vita e di storia.
A partire dalla stessa vicenda narrata che avrebbe destato l’invidia di Flaubert per la sua semplicità, la sua banalità, la sua quotidianità, condizioni ottimali perché l’autore riesca a fare “un livre sur rien” (“un libro sul nulla”).
Una vita come tante, quella dei due protagonisti, senza éclat e senza infamia: un’origine sociale modesta, studi frettolosi e poco convinti, ma sufficienti per farne dei semi-colti con qualche aspirazione culturale e molte ambizioni, lavori precari in un settore di terziario avanzato (le ricerche di mercato, la pubblicità) che se non garantisce sempre, nell’immediato, un reddito soddisfacente avvia a un futuro di promettenti carriere, una cerchia di amici che gravita nello stesso ambiente professionale, un tentativo fallito di dare una svolta ad un’esistenza che ristagna con un trasferimento nella Tunisia da poco indipendente, la scelta di tornare in Francia e di accettare un lavoro fisso e ben remunerato a Bordeaux.
Nessuna azione degna di nota, nessuna passione travolgente: il ménage di Jerôme e Sylvie si installa ben presto sulle vie discretamente oliate della routine quotidiana; ad unirli è una complicità cameratesca, una condivisione di gusti ed aspirazioni e a dividerli qualche volta le momentanee difficoltà economiche.
Romanzo-non romanzo abitato da antieroi, nel solco di un ripensamento radicale del genere, sulla scia del nouveau roman? C’è molto altro in questo libriccino e non solo perché Les choses si distanziano da quest’ultimo per la linearità della narrazione e la persistenza dei personaggi, ancora dotati di stato civile e caratterizzazione se non psicologica almeno affettiva e “ideale”, ma in ragione, innanzitutto, del sottotitolo: une histoire des années soixante (una storia degli anni ‘60).
La non-storia di questa coppia è, insomma, profondamente radicata in un periodo ben preciso nel quale i molteplici possibili della storia sembrano avere imboccato una impasse che ha, però, tutta l’apparenza di un viale scintillante di luci e vetrine, di insegne allettanti di cinema e ristoranti. È nella società dei consumi di massa che Jerôme e Sylvie muovono i loro passi, e in modo letterale: le loro avventure sono quelle di cavalieri erranti del consumo, spinti a percorrere le vie di una capitale scrigno di tutte le ricchezze del mondo, alla ricerca degli oggetti dei loro sogni.

«Le loro prime uscite fuori dal mondo studentesco, le loro prime incursioni in questo universo dei magazzini di lusso che non avrebbero tardato a divenire la loro Terra Promessa furono […] particolarmente rivelatrici».

È un vero percorso iniziatico tra i templi del consumismo, da cui traggono una nuova conoscenza di se stessi che ruota intorno al riconoscimento di bisogni inediti, crescenti e spesso fuori della loro portata.

«Fecero a Parigi, in quegli anni, interminabili passeggiate. Si fermarono davanti ad ogni antiquario. Visitarono i grandi magazzini, per ore intere, stupiti, ed anche spaventati, ma senza ancora osare dirselo, senza ancora osare guardare in faccia questa specie di accanimento pietoso che sarebbe divenuto il loro destino, la loro ragione di essere, la loro parola d’ordine, stupiti e già quasi sommersi dall’ampiezza dei loro bisogni, dalla ricchezza esibita, dall’abbondanza offerta».

Non solo: la loro intera esistenza sembra trovare una direzione ed un senso proprio in questa abbondanza scoperta giorno dopo giorno e che si offre ai loro sguardi, modella i loro desideri e si rivela inesauribile, ponendo sempre un poco più in alto l’asticella della soddisfazione.

«Di stazione in stazione, antiquari, librai, commercianti di dischi, menù di ristoranti, agenzie di viaggio, camiciai, sarti, fabbricanti di formaggio, di scarpe e di dolciumi, salumerie di lusso, cartolai, i loro itinerari componevano il loro vero universo: là poggiavano le loro ambizioni, le loro speranze. Là era la vita vera, la vita che volevano conoscere, che volevano vivere: era per quei salmoni, per quei tappeti, per quei cristalli, che, venticinque anni prima, un’impiegata ed una parrucchiera li avevano messi al mondo».

La loro idea di felicità è legata strettamente al possesso delle cose, di cui vorrebbero godere con l’impazienza della giovinezza e quel fondo di innocenza che continuano a serbare e che li spinge ad ambire ad assaporare tutta la ricchezza del mondo come se essa si offrisse naturalmente ai loro appetiti ed aprisse loro le porte ad una vita piena ed armoniosa, dove tutto non è che «luxe, calme et volupté».[2]
Ben presto inciampano, però, in un ostacolo formidabile che impedisce loro di bere dalla coppa dell’abbondanza e di stringere fra le mani la felicità: il denaro, il denaro che manca, che non è mai abbastanza, che si dilegua appena guadagnato, perché possono contare soltanto sui redditi incerti di un lavoro che vogliono precario per non compromettere con un’occupazione stabile una libertà che ogni giorno appare più illusoria. Georges Perec commenterà più tardi, rovesciando il proverbio “chose promise, chose due” (“ogni promessa è debito”) che nella società capitalista “choses promises ne sont pas choses dues”.
In questo senso, Les choses non rappresentano una condanna della società dei consumi, come ha sottolineato l’autore stesso: sia perché, fedele alla lezione di Flaubert, Perec vuole conservare una certa distanza rispetto all’oggetto della narrazione, sia perché, intendendo scrivere una storia che dia conto di quegli anni, non può fare a meno di constatare che esiste «fra le cose del mondo moderno e la felicità un rapporto obbligato».
Il fatto è che questa promessa di possesso rimane solo un possibile: fallimento e frustrazione sono dietro l’angolo, la sua realizzazione mobilita energie smisurate e finisce per consumare il godimento che viene sempre differito, subordinato al raggiungimento di un bene ancora più grande. Infatti, tutto intorno alla giovane coppia è disposto in modo tale da instillare nei loro cervelli «a colpi di slogan, di locandine pubblicitarie, di neon, di vetrine illuminate, che erano sempre un poco più in basso nella scala».
Di modesta estrazione sociale, ma non poveri, sempre a pochi passi dalla riuscita e ad altrettanti dal fallimento, sono affascinati dal lusso e dal confort dei grandi borghesi, cui tradizione familiare e disponibilità economica conferiscono quella sicurezza, quell’eleganza e quella leggerezza che suscita le loro invidie ed alimenta le loro fantasticherie.
Sognano invece di agire, si immergono con voluttà e perseveranza in un sogno galleggiante nel gran mare dell’abbondanza. Sognano le spiagge alla moda, la cucina esotica, le scarpe esclusive, i musei e i pub di Londra, i ristorantini caratteristici, i maglioni di cashmire, le valigie ultimo grido.
Ed un grande, luminoso appartamento, con i suoi mobili e i suoi accessori immaginati e pregustati nei minimi dettagli. Non è casuale che il saggio di Baudrillard Le système des objets[3] (nato come tesi di dottorato discussa nel 1966 davanti ad una commissione di cui facevano parte Barthes, Bourdieu e Lefebvre) che si propone di investigare le modalità con cui le persone entrano in relazione con gli oggetti nella società dei consumi di massa, con particolare riferimento all’arredamento e al mobilio, dedichi un capitolo centrale alla coppia Jérôme et Sylvie e alla loro relazione con le cose che li circondano.
Né è casuale che il romanzo si apra su una lunga descrizione, attenta ad ogni particolare – stanze, mobili, arredi, caratterizzati con precisione quanto a forma, colore, dimensioni, materiale, collocazione – dell’appartamento sognato dai due protagonisti. Il sogno, nel suo minuzioso e lento dipanarsi, cui l’uso esclusivo del modo verbale del condizionale conferisce un ritmo quasi ipnotico, sposta poco per volta l’attenzione dagli oggetti alle fortunate persone chiamate a condividere con loro gli spazi.
Ed ecco che «la vita, là, sarebbe facile, sarebbe semplice. Tutti gli obblighi, tutti i problemi che implica la vita materiale troverebbero una soluzione naturale». Le fastidiose incombenze domestiche sarebbero sbrigate da personale di servizio, a loro resterebbe il godimento di una lunga, calma giornata ove ogni azione – pasti, lavoro, lettura, uscite con gli amici – si inserirebbe armoniosamente in un quadro spazioso, luminoso, elegante, creato apposta per loro. Nulla sembrerebbe impossibile, né alcuna cattiva passione – rancore, amarezza, invidia – turberebbe il loro equilibrio.

«In effetti, i loro mezzi e i loro desideri si accorderebbero, sotto tutti gli aspetti, sempre. Chiamerebbero questo equilibrio felicità e saprebbero, con la loro libertà, la loro saggezza, la loro cultura, preservarlo, scoprirlo ad ogni momento della loro vita comune».

In realtà, i due abitano un appartamentino di trentacinque metri quadri di cui trascurano la manutenzione e la sistemazione di cui avrebbe bisogno per trasformarsi in un interno accogliente, funzionale e non privo di fascino. O tutto o niente: senza autentica presa sulla realtà, essi scelgono di abbandonarsi alla dismisura dei loro desideri, cui fa da contrappunto l’esiguità delle loro azioni reali. Si lasciano modellare con compiacenza da sogni di lusso e ricchezza e rinunciano a dirigere la propria vita, ad assumersi la responsabilità e la fatica di un progetto razionale, scambiando per libertà questa rinuncia.
Eppure, il tempo lavora per loro e finirà per condurli alla decisione che muterà per sempre l’esistenza della coppia. Dopo una deludente esperienza di lavoro in una città tunisina, in cui si consuma nel volgere di qualche giorno ogni loro illusione esotica, al rientro a Parigi finiscono per accettare, come già hanno fatto tutti i loro amici, ciò che si erano ripromessi di evitare: quell’impiego stabile e ben remunerato che aprirà loro la possibilità di nuotare sul serio nel mare dell’abbondanza. Non sarà veramente la fortuna favolosa dei loro sogni.

«Non diverranno Presidenti e Amministratori delegati. Non maneggeranno che i milioni degli altri. Gliene lasceranno alcune briciole, per lo standing, per le camicie di seta, per i guanti in pecari color fumo. Si presenteranno bene. Saranno ben alloggiati, ben nutriti, ben vestiti. Non avranno nulla da rimpiangere. […] Avranno le stanze immense e vuote, luminose, i disimpegni spaziosi, i muri in vetro, le viste assicurate. Avranno le ceramiche, i coperti d’argento, le tovaglie ricamate, le ricche rilegature in cuoio rosso. Non avranno ancora trent’anni. Avranno la vita davanti a loro».

Per traghettare i suoi eroi nel loro nuovo mondo di classe media realizzata, Georges Perec passa dal condizionale al futuro, un futuro che sembra consumarsi mano a mano che il treno che li porta a Bordeaux – dove assumeranno la direzione di un’agenzia di pubblicità – si allontana dalla capitale ed essi, quasi senza accorgersene, prendono congedo dalla giovinezza per approdare ad una maturità abbastanza prevedibile e forse deludente. Con un biglietto di prima classe in tasca, a loro agio negli abiti leggeri, confortevolmente installati alla tavola di un pretenzioso vagone-ristorante, l’impeccabile coperto sembrerà «il preludio di un festino sontuoso. Ma il pasto che serviranno loro sarà francamente insipido».
La conclusione rapida e stringente, una delle rare occasioni in cui l’autore tradisce la sua presenza, suggella con un cenno quasi divertito un destino. Uno spazio bianco e poi una citazione da Marx che ricorda come il mezzo faccia parte della verità, tanto quanto il risultato, ciò che richiede che la ricerca della verità sia essa stessa vera. È al suo stesso lavoro che Perec pensa, al suo tentativo di restituire la verità di un’epoca, o, piuttosto, alla confusa ricerca della felicità da parte dei due protagonisti, probabilmente avviata ad arenarsi nelle sabbie della disillusione?[4]
Certo è che Les choses questo paesaggio degli anni ‘60, in cui il punto di vista è dato dal rapporto stregato tra uomini e cose, riescono a comporlo, se non in tutta la sua complessità, sicuramente in quelli che sono i suoi elementi di punta, ciò che ne costituisce la specificità e la novità. D’altronde, quel paesaggio Perec lo conosceva bene, aveva all’epoca più o meno l’età dei suoi personaggi e non mancano nel libro gli spunti autobiografici. Ed il suo sguardo penetrante e chiaroveggente ha saputo individuare e cogliere nel suo tempo ciò che non era affatto transitorio, ma un modo di vita e di relazione al mondo che, nato sul terreno del boom economico del secondo dopoguerra, era destinato a germogliare con travolgente vigore fino a modellare la vita sociale e la psicologia individuale ben oltre quegli anni.
Rapporto stregato con le cose, si sottolineava: esse esercitano un moderno incantesimo su Jérôme e Sylvie, protagonisti del romanzo solo per semplicità espositiva, in quanto sono le cose stesse le autentiche protagoniste, sono esse ad invadere e strutturare lo spazio della narrazione, ad orientare l’esistenza della coppia, a calamitare i loro pensieri. Le cose non rinviano più a chi le possiede, non aiutano a comprenderne lo statuto sociale o la sfaccettatura psicologica, si fondano su se stesse, acquisiscono una potente individualità, tendono a sganciarsi dall’universo utilitario, dalla dimensione strumentale che dovrebbe essere di loro pertinenza, così come da quella simbolica.

Diventano segni, osserverà Baudrillard, esterni alla relazione con il possessore o ad una situazione vissuta. Ed ecco compiersi la logica formale della merce, già analizzata da Marx.

«Come i bisogni, i sentimenti, la cultura, il sapere, tutte le forze proprie dell’uomo sono integrate come merci nell’ordine di produzione, si materializzano in forza produttiva per essere vendute, oggi tutti i desideri, i progetti, le esigenze, tutte le passioni e tutte le relazioni si astraggono (o si materializzano) in segni e in oggetti per essere comperate e consumate».[5]

Baudrillard trova la storia di Jérôme e Sylvie davvero esemplare: la finalità oggettiva della coppia diventa il consumo di oggetti e proprio di quegli oggetti domestici tradizionalmente simbolo della relazione. Anzi, questi oggetti-segni perdono tale ruolo e descrivono piuttosto il vuoto della relazione, ancor prima di sostituirsi ad essa. La relazione è destinata a consumarsi negli oggetti, ad abolirvisi in quanto relazione vissuta. Il potere degli oggetti di riempire il vuoto si rivela un’illusione, perché essi sono presenti essenzialmente come idea ed è la loro idea sola ad essere consumata.
Infatti, le cose che si affollano nelle pagine di questo singolare romanzo-non romanzo sono, innanzitutto, immaginate in estatici sogni ad occhi aperti, ammirate dietro seducenti vetrine o sulle pagine di riviste alla moda, piuttosto che comperate, usate, amate. È, insomma, il rutilante, inesauribile, sempre uguale e sempre diverso spettacolo delle merci che si offre agli sguardi concupiscenti ed ammaliati della coppia e del lettore. È alle immagini delle cose che Jérôme e Sylvie votano il loro culto, più che agli oggetti stessi: in questo senso, Baudrillard evoca «una logica idealista del consumo», tanto estranea alla soddisfazione del bisogno quanto al principio di realtà, un processo sistematico che nasce da un’esigenza delusa di totalità.
Proprio in quegli anni, Guy Debord individua nel feticismo delle merci spinto al parossismo il carattere saliente del capitalismo avanzato e nella società dello spettacolo l’espressione compiuta della mercificazione della vita moderna. L’occupazione totale della vita sociale da parte dell’economico «conduce ad uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima».[6] Persa l’unità sul piano del reale, a causa della frammentazione sociale susseguente al dominio indiscusso di un settore – l’economia – su tutti gli altri, resta lo spettacolo che realizza sul piano delle immagini la ricomposizione dell’unità perduta. Il flusso delle immagini – immagini scelte e costruite da altri – diviene il perno della relazione dell’individuo con il mondo, al punto da sostituirsi alla realtà, mentre la visione dello spettacolo è un surrogato della vita che manca.

«Più egli [il consumatore-spettatore; N.D.A.] contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio».[7]

Non si potrebbe dare definizione più calzante della storia della giovane coppia del romanzo di Georges Perec, costruito sullo stridente contrasto tra l’enormità dei desideri indotti e dei sogni di accumulazione e la pochezza delle azioni messe in atto e condotte a termine per realizzare gli obiettivi agognati. I due psicosociologi (mestiere in voga in quegli anni e consistente nell’intervistare le persone sui soggetti più svariati per indagini di mercato) non sanno, infatti, comprendere la propria vita, né cosa veramente vogliono, al punto da rinviare anno dopo anno l’accettazione del rapporto ineludibile fra denaro e accesso al regno dell’abbondanza. Sognano di improbabili eredità o di miracolosi ritrovamenti di ingenti somme , quando non di spericolate rapine. In fondo, sono tipi simpatici, Jérôme e Sylvie: nessuna arroganza o sicumera, nessuna brutalità o perfidia da arrivisti, sembrano sensibili e alla mano, amano restare a letto sino a tardi a leggere romanzi gialli e di fantascienza e adorano le commedie americane. Prede indifese della società dei consumi nel suo momento di affermazione inziale, quando, rinforzata dal compromesso fordista fra capitale e lavoro, la sua brillante superficie non mostrava ancora le vistose crepe attuali, non sono talmente sprovveduti, tuttavia, da non percepire talora come disperatamente vuoti i loro valori, desideri e ambizioni. È, infatti, ai tesori del mondo intero che essi aspirano confusamente: i prodotti dei fertili campi e il bestiame delle ricche fattorie, i mari pescosi e le fabbriche immense, le vette innevate solcate dalle sciovie e le foreste dove camminare senza mai fermarsi, le camere confortevoli e discrete fatte per l’amore e le pianure percorse da cavalli sfrenati.

«Ma queste immagini scintillanti, tutte queste immagini che arrivavano in folla, che si precipitavano davanti a loro, che scorrevano in un fiotto irregolare, inesauribile, queste immagini di vertigine, di velocità, di luce, di trionfo, sembrava loro per prima cosa che si incatenassero con una sorprendente necessità, secondo un’armonia senza limiti, come se, davanti ai loro occhi meravigliati, si fosse innalzato improvvisamente un paesaggio finito, una totalità spettacolare e trionfale, un’immagine completa del mondo, un’organizzazione coerente che essi potevano finalmente comprendere, decifrare».

Il fatto è che, nel tempo storico in cui essi vivono, questa totalità si offre loro sotto la forma frammentaria e sviata di merce, di un oceano di merci, negando se stessa in quanto totalità. Eppure, questo tempo storico non è poi così piatto ed omogeneo, né esclusivamente dedito al culto mercantilistico: sono gli anni della guerra d’Algeria, con le sue pesanti ricadute sulla società francese. Tuttavia, è proprio il rapporto con questo evento – che avrebbe potuto imprimere una svolta alle loro vite, costituire il punto di non ritorno, orientarli verso una nuova consapevolezza del loro essere sociale – a confermarli nella loro routine desiderante. Studenti di vaghe simpatie gauchistes, hanno partecipato alle proteste contro l’inizio della guerra, per finire, più tardi, per condividere il disprezzo venato di superiorità verso la politica esibito dall’ambiente della pubblicità in cui lavorano, ambiente che si richiama, comunque, ad un generico progressismo. Nondimeno, il conflitto algerino per quasi due anni li ha «protetti da se stessi»: i gravi avvenimenti che segnarono in Francia il biennio 1961-1962 (il putsch di Algeri e i morti nella stazione della metropolitana di Chambronne, le violenze quotidiane) li hanno costretti a mettere in secondo piano le usuali preoccupazioni rispetto al loro avvenire e alle loro possibilità di riuscita. E a prendere posizione, per quanto in modo sporadico e superficiale, al limite del ridicolo per le immagini ingigantite dei pericoli che la partecipazione alle attività di un Comitato antifascista di quartiere avrebbe potuto loro procurare. Nessuna azione significativa, qualche volantinaggio e qualche manifestazione, senza eccessivo coinvolgimento, con la speranza di fare qualcosa di necessario per se stessi, prima ancora che per la causa, ma con la consapevolezza di fondo che la loro vera vita è altrove.
La Storia li sfiora, fa loro intuire le sue potenzialità, anche in rapporto alle loro esistenze individuali, ma essi vi passano a lato, ancora una volta catturati «dalle trappole affascinanti della felicità», prigionieri del loro universo. Rimpiangono di non avere vissuto gli eventi capitali del secolo, di non avere avuto vent’anni all’epoca della guerra di Spagna o della Resistenza, ma ancora una volta si appagano di immagini di un passato glorioso, dietro le quali giustificare le loro tiepide condotte nel presente.
D’altronde, il loro disincanto matura nel confronto con tutti quegli uomini che si sono battuti e continuano a battersi per il pane e a cui vanno le loro istintive simpatie: infatti, come ci si può battere – si chiedono con nascente cinismo – per dei divani Chesterfield? Al massimo, si sfidano i pericoli della viabilità parigina per arrivare sino ai mitici (ed interdetti al loro portafoglio) negozi in cui essi sono esposti …
Appiattiti sul presente, divorati da desideri la cui enormità e proliferazione ingenera una passività di fondo, incapaci di un progetto esistenziale coerente, alla soglia dei trent’anni Jérôme et Sylvie entrano nella vita adulta, lasciandosi alle spalle ogni tentazione bohème e prendendo posto alla tavola apparecchiata per loro dal tempo, dalle circostanze, dalle esigenze produttive della Francia delle Trente glorieuses.

Storia degli anni sessanta, recita il sottotitolo, ma di un’attualità sconcertante, attraversato da una chiaroveggenza che solo la letteratura può avere, il romanzo non si limita a tratteggiare un brillante quadro di un mondo alle prese con l’affermazione dei consumi di massa, ma individua in un processo spinto all’estremo di reificazione i tratti precipui di una nuova antropologia delle società a capitalismo avanzato. La semplicità narrativa, una certa impersonalità di scrittura e la pacatezza del tono, appena increspata qui e là da una vena di divertita ironia, che molto devono al flaubertiano souci d’exactitude sottolineano questa dimensione molto meglio di quanto avrebbero fatto gli accenti dell’apostrofe accorata o della veemente denuncia politica. Arrivano con indubbia efficacia a inoculare una salutare dose di dubbio nello sguardo che il lettore, portato ad identificarsi con i due protagonisti in virtù della loro medietà, proietta sulla quotidianità della sua stessa esistenza. Non solo: Les choses continuano a interrogare, senza concessioni e compiacimento, la coscienza di chiunque voglia esercitare – nella riflessione filosofica, nella prassi politica, nelle scelte di vita – un punto di vista anticapitalista, costringendolo a ripensare con serietà e senza infingimenti il suo stesso rapporto con la forma merce. Non si intende certo arruolare d’ufficio Georges Perec nel campo di coloro che mettono in discussione l’attuale modo di produzione e i rapporti sociali ad esso legati, dimenticando o nascondendo che a più riprese lo scrittore si è detto convinto non esserci alternativa alla società dei consumi di massa. Capita, tuttavia, che i libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicano molto di più di quel che dicono i loro autori.

 

Fernanda Mazzoli

 

Tutte le traduzioni dai testi in francese sono di Fernanda Mazzoli.

[1] G. Perec, Les Choses, Julliard, 1965, Paris.

[2] Cfr. il celebre sonetto di Charles Baudelaire, Invitation au voyage in Les fleurs du mal.

[3] J. Baudrillard, Le système des objets, Gallimard, 1968, Paris.

[4] Che il finale resti, comunque, aperto lo conferma Perec, commentando in un’intervista che lui per primo non sa se la loro sia stata una scelta felice o infelice: cfr. S.Henderson, Etude sur Les choses. Georges Perec, Ellipses, 2007, Paris, p. 41.

[5] J. Baudrillard, Le système des objets, op. cit., p. 278.

[6] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, 1997, Milano, p. 57.

[7] Ibidem, p. 63.

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Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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