«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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331 Diego Lanza, La disciplina dell’emozione.Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti. ISBN 978-88-7588-235-8, 2019, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [107]. In copertina: Alcesti, i figli e altri personaggi, Loutrophòros apula vicina al Pittore di Laodamia, 340 a.C. circa., Basel, Antikenmuseum.
332 Enrico Berti, Luciano Canfora, Bruno Centrone, Franco Ferrari, Francesco Fronterotta, Silvia Gastaldi, La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti. Nota di Fiorinda Li Vigni. Prefazione di Giovanni Casertano e Lidia Palumbo. ISBN 978-88-7588-237-2, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Il giogo” [108]. In copertina: Mario Vegetti.
333 Antonio Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente. ISBN 978-88-7588-239-6, 2019, pp. 80, formato 170×240 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [64]. In copertina: V.V. Kandinskij, Giallo, rosso, blu (1925), Musée National d’art Moderne, Centre Georges Pompidou.
334 Enrico Berti, Scritti su Heidegger. ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
335 Maura Del Serra, Altro Teatro. Introduzione di Marco Beck. ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, formato 130×200 mm., Euro 18 – Collana di Teatro “Antigone” [12]. In copertina: Beato del San Andrés de Arroyo, El fuego de Babilonia, iluminación sobre pergamino. Folio 147, Paris, Bibliothèque Nationale de France.
336 Jules Vallès, L’insorto. Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli. ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, formato 140×210 mm., Euro 27. In copertina: Jules Vallès.
337 Giangiuseppe Pili, Anche Kant amava Arancia meccanica. La filosofia del cinema di Stanley Kubrick. Prefazione di Silvano Tagliagambe. ISBN 978-88-7588-230-3, 2019, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [4]. In copertina: Stanley Kubrick sullo sfondo di una sequenza di 2001. Odissea nello spazio, con l’astronauta David Bowman (interpretato da Keir Dullea). In quarta: il monolito nero.
338 Sergio Rinaldelli, Vento di sogni. Note di pittura (1976-2018). ISBN 978-88-7588-170-2, 2020, pp. 120, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Sergio Rinaldelli, Vento di sogni sulla parete antica, 2005, olio su faesite, 70×80.
339 Carlo Carrara, Essere e Dio in Heidegger. ISBN 978-88-7588-234-1, 2020, pp. 200, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [110]. In copertina: Robert Ryman, Twin (1965).
340 Livio Rossetti, Parmenide e Zenone, sophoi ad Elea. Presentazione di Mariana Gardella Hueso. ISBN 978-88-7588-256-3, 2020, pp. 160, formato 130×200 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [112]. In copertina: Parmenide e Zenone alla porta di Elea.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Solo l’esito infelice della Comune e il successivo esilio a Londra fecero di Jules Vallès uno scrittore e, anzi, uno dei più singolari del suo tempo. Prima era stato un giornalista di estrema sinistra sotto Napoleone III detto il Piccolo, collaboratore di fogli più o meno effimeri quali La Rue e poi fondatore di un giornale, Le Cri du peuple (chiaro omaggio all’archetipo di Jean-Paul Marat), che della Comune sarebbe divenuto l’emblema. Alverniate di origine, allevato in una famiglia piccolo-borghese che in realtà è un universo concentrazionario (suo padre insegnante contegnoso, ligio al governo, sua madre contadina prodiga di castighi e di pregiudizi), Vallès fa parte della generazione che esce dalla sconfitta del 1848 e dalle barricate parigine di giugno di cui dicono le pagine più tese di Herzen in Passato e pensieri. Nella capitale fin dal 1851, che è l’anno del 18 brumaio di Luigi Bonaparte, non ha un preciso apprendistato politico se non quello che gli viene dalla inquietudine degli studenti e, in clandestinità, dai propositi rivoltosi di taluni circoli operai: Vallès è un libertario o in sostanza un socialista rivoluzionario (e, va anche detto, un anti-marxista dichiarato), i suoi autori sono Proudhon e lo storico Jules Michelet di cui è assiduo alle lezioni di storia nel Collège de France. Quella che appare già sua, viceversa, è una scrittura che gli deriva dagli autori di un tribolatissimo baccalaureato, specie Sallustio e Tacito, una scrittura rapida, ritmica, scandita da inversioni, impennate, brucianti aforismi e perciò lontana dalla tipica retorica umanitaria con accenti calligrafici degli autori della II Internazionale.
Le inchieste nei «Refrattari» Argomento pressoché esclusivo di Vallès giornalista (che non ama la politica politicante e malvolentieri, durante la Comune, accetta la elezione a deputato del XV arrondissement) è l’esistenza quotidiana degli individui marginali e reietti, la folla di umiliati e offesi di cui la dittatura fondiaria e/o bancaria dell’Impero sta affollando le strade di Parigi: nel 1865 (l’ultima edizione italiana, da SugarCo, risale invece al 1980) riunisce le sue inchieste in un volume dal titolo programmatico e persino autobiografico, I refrattati, che chiude virtualmente la vicenda di giornalista. Testimone fino all’ultimo della Comune nella cosiddetta «settimana di sangue», sottrattosi rocambolescamente alla caccia all’uomo dei versagliesi di Thiers, poco incline alle diatribe dei reduci e alla frequentazione degli altri comunardi in esilio, è dunque a Londra che Vallès progetta qualcosa che combini il suo tracciato autobiografico, insomma un memoir, con il meccanismo di un romanzo di formazione scritto da chi peraltro non si vuole un letterato à la page ma solo un fervente lettore di Balzac, di Victor Hugo e di Charles Dickens. Titolo complessivo è un nome assonante con il suo, ]acques Vingtras, e si tratta di una trilogia aperta da L’enfant (1879) che prosegue con Le bachelier (1881) e si conclude con L’insurgé (1886) immediatamente postumo. Ora, dopo una assenza lunghissima, escono in contemporanea, grazie a due appassionati studiosi e a due piccoli benemeriti editori, Il diplomato (a cura di Enrico Zanette, edizionispartaco, «Dissensi», pp. 309, € 16.50) che è una princeps italiana in assoluto, e L’insorto (a cura di Fernanda Mazzoli, Petite Plaisance pp. 318, € 27.00) la cui versione precedente di Giacomo Cantoni uscì nel 1953 per la Universale Economica, libretti dalla copertina gialla o arancione immancabili nelle sezioni dei partiti operai. Nel primo, Vingtras è già a Parigi e vive la vita di bohème che Henri Murger, ai propri occhi, ha edulcorato e di fatto ha tradito. Tra infime bettole e sottotetti di fortuna, egli è alla ricerca disperata di un impiego da scritturale, da insegnante o da giornalista, ma quando lo ottiene (e al quotidiano Le Figaro, addirittura) se lo gioca rifiutando di piegare la schiena e di adattarsi, parlando d’altro, ai tabù del regime napoleonico: epicentro è il Quartiere Latino, che il protagonista draga nel suo dedalo di miseri ritrovi come un uomo di continuo risucchiato tra la folla di reietti come lui ma nel frattempo delegato a loro portavoce nella clandestinità di quanti si oppongono, ancora mutamente, alla dittatura. Romanzo della miseria piccoloborghese e della etimologica viltà di un ceto che la lotta di classe sta per annientare, Il diplomato è il luogo di fermentazione di «un’opera di lotta», così la definisce Enrico Zanette, che culmina nella partitura oramai polifonica de L’Insorto. Vallès qui ripercorre la parabola della Comune, il suo sguardo è al solito portato dal basso e il luogo del protagonista è collocato a latere: chi dice «io» in effetti dice «noi», senza doverlo proclamare con enfasi perché qui la scrittura – nota puntualmente Fernanda Mazzoli – è un «riconoscimento di sé che, per realizzarsi pienamente, passa attraverso il riconoscimento della propria gente».
Il «ragazzo» latitante Infatti lo scrittore può persino permettersi un finale avventuroso, da racconto picaresco. E qui va detto che è un peccato continui a latitare dal 1973 (catalogo di Feltrinelli, versione magnifica di Lisli Basso) l’incipit della trilogia, Il ragazzo, un autentico capolavoro. Scritto stavolta al chiuso di una monodìa della sofferenza adolescente e nello stile esplosivo di quella che Vallès chiamava langue verte (cioè gergale ma anche ruvida, acerba), il romanzo rappresenta un atto di accusa contro la famiglia tradizionale e le altre istituzioni, a partire dalla scuola, che assortiscono l’universo disciplinare dell’infanzia. Ambientato nei borghi della Alvernia nativa, il piccolo Jacques Vingtras vi conosce la pedagogia delle gifles, le sberle, le atroci penombre di una provincia ignorante e bigotta, infine il sussiego di una piccola borghesia che si immola per imitare, vanamente, le grandigie della classe superiore; ma Vingtras qui può anche vivere, almeno a momenti, l’estasi di un contatto carnale con la natura, errando per i boschi e le vaste praterie lontano dalla ferula dei suoi istitutori. Memore di Hugo (in particolare di Gavroche, le gamin, il monello de I Miserabili) e anche dell’Oliver Twist di Dickens, Il ragazzo ha ispirato espressamente il personaggio di Bardamu ne il Viaggio al termine della notte (e Céline, di solito avaro di riconoscimenti, ranunenta Vallès ancora nelle tarde interviste di Meudon) ma ha influenzato anche un paio di capolavori della cinematografia francese, Zéro de conduite (1933) di Jean Vigo, piccola bibbia della ribellione impubere, e il folgorante esordio di Francois Truffaut, Les Quatre Cents Coups (1959) il cui protagonista Antoine Doinel è quasi un redivivo Jacques Vingtras, una vittima sacrificale della famiglia e della scuola. «Vi si vedrà come il pane, il denaro, l’habitat, la promozione sociale, i valori borghesi e rivoluzionari, la ricchezza e la povertà, l’oppressione e la rivolta, le classi sociali siano solo investimenti in cui i genitori hanno il ruolo di agenti di produzione e di antiproduzione particolari, sempre là a prendersi per l bavero con altri agenti che essi esprimono tanto meno in quanto sono alle prese con loro nel cielo e nell’inferno del bambino. E il bambino dice: perché?»: sono parole tratte da un libro molto amato dalla generazione antagonista, L’anti-Edipo (Einaudi 1975) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, e sono scritte giusto a proposito del capolavoro di Jules Vallès.
Massimo Raffaeli, Vallès. Ruvida lingua di un io che parla per gli infelici noi, «Alias», il manifesto, 27-12-2020, pp. 3-4.
Nei giorni eroici e tragici della Comune un giornalista squattrinato ed insofferente all’ordine costituito fa sua la causa degli insorti, condividendone speranze, battaglie, sofferenze, entusiasmi ed errori fino alla sanguinosa sconfitta. Storia collettiva e destino individuale si incontrano, si confondono e si alimentano reciprocamente in una narrazione serrata dal ritmo incalzante, capace di restituire lo spirito di un tempo grande e terribile e l’umana verità di quanti, vittime dell’ingiustizia sociale, osarono sperare e progettare un mondo diverso.
Libro della Comune e nella Comune, espressione di una profonda fedeltà alle sue ragioni, e per questo relegato ai margini della letteratura, L’insurgé trova nella sua apparente inattualità il punto di forza del suo incontro con il lettore di oggi, costringendolo ad uscire dal perimetro del “migliore dei mondi possibili” tracciato dal pensiero dominante per confrontarsi con la passione durevole per una prassi di emancipazione comunitaria. «Rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (F. Engels) è opera di cui non si è detta l’ultima parola.
Massimo Raffaeli, filologo e critico letterario, è nato a Chiaravalle nel 1957. Scrive su quotidiani (La Stampa, il manifesto) e collabora con le riviste Nuovi Argomenti, Il Caffè illustrato. Ha scritto testi per programmi radiofonici di Rai Radio 3 e della Radio Svizzera Italiana (RSI). Ha curato testi di autori del Novecento (fra cui Primo Levi e Paolo Volponi) e ha tradotto opere di Antonin Artaud, René Crevel, Louis-Ferdinand Céline, Jean Genet, Roger Nimier e Tony Duvert. Si è interessato dell’intreccio tra calcio e letteratura in L’angelo più malinconico (2005) e Sivori, un vizio (2011). Parte della sua produzione è raccolta, da ultimo, nei volumi I fascisti di sinistra e altri scritti sulla prosa (Aragno 2014), Il pane della poesia. Epicedi 1994-2013 (Cadmo 2015) e L’amore primordiale. Scritti sui poeti (Gaffi 2016). Nel 2019 è uscito Marca francese, frutto di un ventennale confronto con gli autori e le pagine più belle della letteratura francese moderna e contemporanea.
«La franchezza di Vallès lascia sconcertati». Julien Gracq
Jules Vallès
Studenti della Sorbona, è ora di ribellarsi
Erano le sette meno cinque, la Sorbona era circondata. Da rue Saint-Jacques e rue Victor-Cousin affluivano plotoni di scolaretti e liceali della capitale, scortati ai fianchi, guidati da sorveglianti scolastici con la barba nera o con basettoni rossi, sotto un sole rovente. Avevano l’aspetto meno stupido di quanto non l’avessero gli studenti della mia generazione. La loro età era compresa fra i quattordici e i diciotto anni, ed erano tutti là, in attesa che aprissero le porte e potessero finalmente tradurre in francese moderno un testo in greco antico o unire qualche emistichio tradizionale a un esametro latino, come si attacca una coda di carta al posteriore di un insetto. Mi è parso che non avessero alcuna fiducia, quelle giovani creature, e non credo fossero davvero convinte che le operazioni che si apprestavano a compiere potessero effettivamente metterli al sicuro dal diventare, da grandi, uomini inutili, anche nel caso in cui avessero strappato il primo premio. Alcuni erano tristi, altri preoccupati. Erano soprattutto quegli studenti che, vivendo in un pensionato, sapevano quanto il loro destino fosse legato ai risultati ottenuti. Erano figli di povera gente, i loro genitori si dissanguavano per farli studiare, pensando che un giorno quei figli avrebbero ripagato e mantenuto l’intera famiglia. Talvolta i genitori li accompagnavano direttamente alla porta, buttando là un ultimo incoraggiamento, o confessando una angoscia segreta e lo scolaro, allora, il cuore gonfio, il cervello teso, cominciava a salire le scale che conducono alla sala comune.
[…]
Nel mucchio era facile riconoscere quelli che parevano nati per diventare maestri di scuola e a scuola sarebbero rimasti per tutta la vita, il collo stretto nei colletti di crine della pedanteria, votati al nero, con pantaloni rigonfi sulle ginocchia, una barbetta da smorfiosi, rigidi e inflessibili in qualunque luogo o circostanza, nella vita privata come in quella pubblica, con gli amici, i figli, le mogli, in classe, a tavola, per la strada e persino a letto! Mi tornava alla mente il tempo in cui, io stesso, riponevo qualche speranza nei versi latini. Un tempo triste, che non rimpiango di certo. Mai mi sarei annoiato tanto come in quello stanzone quasi vuoto della mensa di un convitto. Un giorno venni rimproverato e mi fu detto di stare bene attento, perché, continuando di questo passo, sarei finito alla ghigliottina prima dei trent’anni. […]
Quanti penosi ricordi mi tornano alla mente, davanti a questa casa squadrata che si chiama Sorbona, fra quegli scolari che portano i loro dizionari, i lessici, e se ne vanno carichi di sportine di cibo e di gavette come i soldati in una campagna di guerra, pronti a difendersi e a salire in alto, su quell’albero di cuccagna che dovrebbe essere l’università.
In alto? Ma cosa c’è lassù in alto? Come premio, ci sono dei bicchierini forati, dei frutti pieni di cenere. Inutile farsi illusioni, dall’università non si può trarre profitto che a condizione di indossare una livrea o di avere un bel maggiordomo al proprio servizio, ovvero se si è figli di gente ricca o di agenti di cambio. A chi ha gradi e diplomi, lo stato concede volentieri, come pane, la croce. Per quanti pochi libri uno abbia letto, basta conoscere una signora della buona società e, pure senza idee, senza talento, e persino senza troppi compromessi morali, e si può intraprendere una carriera piena di onori e di profitto. Ma i posti sono pochi e per «arrivare» bisogna se non inchinarsi, quanto meno rimpicciolirsi.
Bisogna lusingare l’uno e abbandonare l’altro, bisogna giocare con malizia, mettendoci dentro tutti gli assi disponibili, come a carte. Questa, in sintesi, è la storia di tutte le amministrazioni pubbliche passate, presenti e future. Ecco che cosa offre l’università ai suoi impiegati e ai suo privilegiati. Vale la pena affaticarsi sui libri e sui banchi di scuola per dieci anni, al fine di prendere parte a questa corsa a ostacoli, quando il premio di tutto è tanto misero, e sulla pista ci sono così tante barriere, buche, insidie, e al traguardo vi aspettano giudici che, palesemente, barano? A meno che uno non si chiami Girardin, Laboulayé o Littré! Ma chi? Chi tra loro ha davvero provato l’umiliazione della sconfitta? Avrebbero avuto tanto successo e tanta popolarità se un qualsiasi ministro non avesse dato loro una spintarella? Tutto diventa facile, quando si gode di una buona rendita economica e si può ambire a una buona poltrona universitaria. Basterà prendere una specializzazione dopo avere conseguito uno o due dottorati. Questi vecchi baroni, ingrigiti sotto il peso della scienza, si inorgogliscono quando vedono schiere e schiere di volontari occuparsi di materie delle quali sono loro le vestali e, nel loro intimo, forse provano persino stupore nell’osservare la retrograda e sterile curiosità di certi giovanetti. Ma, a parte questi uomini che nell’università trovano il loro scopo, e quegli altri che vi cercano la gloria, chi trae dunque beneficio da questo sistema di educazione? Bisognerebbe radere tutto al suolo, prendere a picconate questa bastiglia del Ministero dell’Educazione nazionale che tiene le sue assemblee in rue de Grenelle-Saint-Germain, ed espone le bandiere della Francia alle finestre.
Forse mi spiego male: chiedo libertà per tutti. Lascio al ministro la sua facoltà di dare ordini a chi gli pare, ma pretendo per me e per i miei figli il diritto di istruirmi come meglio ci pare. Non serve che ci si trascini come bestie alla Sorbona per prendere una laurea, o ci si porti in galera per oltraggio alla religione, non serve a nulla una educazione che renda chi la riceve vanitoso o miserabile.
Così, il mattino scorso, guardando tutti quei ragazzi che, sotto il sole cocente, se ne andavano a riempire una aula impestata d’inchiostro, mi dicevo che no, non siamo ancora degni della libertà. La società deve apportare alcune correzioni al sistema, ora che alimenta in se stessa, nei suoi collegi, una fiamma eterna di sommossa! È necessario che questi declassati si sistemino o si vendichino, ecco da dove viene tutto l’assenzio che scorre nei petti e tutto il sangue che cola sulle pietre, nelle strade. I figli abbandonati diventano alcolizzati o omicidi. Quando mi capita di incrociarne uno, come fosse un malato in un letto di ospedale, lo rialzo e gli mostro dove sta il suo nemico, dove si trova l’assassino che lo ha ridoto to in quello stato. Ho ascoltato molta gente che si dichiarava atterrita da «questo spettacolo». A ogni angolo di strada, vedremo sempre più miseria, più fame. Le vittime di questa educazione sterile e inconcludente, le vittime della Sorbona riempiranno presto prigioni e ospedali.
Spero che una nuova generazione, reclamando la propria libertà, spazzi presto via questi vecchi stracci che ancora ci legano, facendo dei nostri ragazzi degli uomini e che, invece di imbrattare ogni intelligenza con ammuffite versioni di greco e latino, impari a parlare la sola lingua che serve e che può parlare alle aspirazioni e ai bisogni dell’umanità.
il manifesto, 29-08-2007, p. 12 (Traduzione di Marco Dotti)
Nei giorni eroici e tragici della Comune un giornalista squattrinato ed insofferente all’ordine costituito fa sua la causa degli insorti, condividendone speranze, battaglie, sofferenze, entusiasmi ed errori fino alla sanguinosa sconfitta. Storia collettiva e destino individuale si incontrano, si confondono e si alimentano reciprocamente in una narrazione serrata dal ritmo incalzante, capace di restituire lo spirito di un tempo grande e terribile e l’umana verità di quanti, vittime dell’ingiustizia sociale, osarono sperare e progettare un mondo diverso.
Libro della Comune e nella Comune, espressione di una profonda fedeltà alle sue ragioni, e per questo relegato ai margini della letteratura, L’insurgé trova nella sua apparente inattualità il punto di forza del suo incontro con il lettore di oggi, costringendolo ad uscire dal perimetro del “migliore dei mondi possibili” tracciato dal pensiero dominante per confrontarsi con la passione durevole per una prassi di emancipazione comunitaria. «Rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (F. Engels) è opera di cui non si è detta l’ultima parola.
Introduzione
Perché proporre al lettore italiano, a più di sessant’anni dall’ultima traduzione nella nostra lingua,[1] questo testo di Jules Vallès, scrittore che anche il suo Paese ha messo all’indice già quando era in vita e, in seguito, ben volentieri relegato nella semioscurità di quegli autori di cui si possono salvare alcune pagine – la testimonianza sulla bohème parigina, per esempio – per meglio rimuovere il fondo che anima e sostiene l’insieme dell’opera e che proprio ne L’insurgé trova la sua espressione più compiuta?
Non certo per un recupero di tipo filologico (considerate le traversie del manoscritto che fu pubblicato postumo), o per offrire una rarità da bouquiniste alla curiosità di un lettore alla ricerca di qualcosa di originale.
Il punto è che L’insurgé continua ad interpellarci al di là del silenzio che lo ha avvolto, della sufficienza dei critici che l’hanno espulso dalle storie della letteratura, del crollo decretato dal pensiero unico liberista delle grandi istanze ideali che nutrirono la rivolta della Comune di Parigi, la quale alimentò, a sua volta, i successivi movimenti per l’emancipazione del XX secolo.
Ci parla di qualcosa di essenziale, di uomini e di storia e di libri e di come un uomo diventa quello che è, passando attraverso l’esperienza della storia e della scrittura. Di uomini che, non riconoscendosi in «un mondo malfatto», si misero all’opera – con serietà, semplicità e generosità – per rivoltarlo dalle fondamenta, e dare alla vita – la loro e quella collettiva – un respiro più grande, restituendole dignità e libertà; di storia che è la presenza costante che infonde senso a questo tentativo, stendendo un ponte – più accidentato che lineare – tra il passato ricco di reminiscenze rivoluzionarie dall’89 al ’48 e un futuro ancora da inventare, ma che comincia faticosamente a maturare nel travaglio del presente; di libri dove sia l’autore, sia il lettore si ritrovano e mangiano lo stesso pane, impastato di sofferenza, disgusto, miseria, speranza, rivolta.
Libro del riconoscimento, L’insurgé, e di un duplice riconoscimento: l’autore riconosce i suoi compagni, e loro riconoscono se stessi – la propria vita e la propria ansia di riscatto – nelle sue pagine. Libro partigiano, dunque: Vallès ha scelto la sua parte – i refrattari che rifiutano l’inquadramento nei ranghi della società del Secondo Impero, il minuto popolo di operai e artigiani che abita i sobborghi parigini, gli insoumis, eredi delle rivolte sociali del 1848, brutalmente represse nel sangue dagli stessi repubblicani.
Il libro contiene in sé un altro libro, quello che Jacques Vingtras – alter ego di Vallès protagonista di una trilogia che si apre con L’enfant, prosegue con Le bachelier e si conclude con L’insurgé – riesce finalmente a pubblicare dopo avere ingaggiato una personale battaglia contro la fame e il freddo che rischiano di avere la meglio sulla sua volontà di scrivere e contro gli editori piuttosto sospettosi nei confronti di un giovanotto in fama di irregolare e sovversivo.
Il libro ha successo, i critici riconoscono che l’autore ha stile, ma questo riconoscimento del nemico di ieri, pronto oggi ad incensarlo, Vallès-Vingtras non può che rifiutarlo, proprio perché negherebbe quella possibilità di riconoscersi che si è appena dischiusa e che si dispiega all’interno di una comunità, di un vincolo più forte di quelli del sangue, stretto dalla sofferenza, dalla miseria, dall’ingiustizia, dal rifiuto di un ordine sociale iniquo. Non intende venire meno alla promessa fatta pubblicamente, nei caffè popolari che frequenta, che il giorno in cui sarebbe riuscito a sfuggire all’oscurità della sua condizione, sarebbe saltato al collo del nemico.
Una scelta di campo definitiva, dunque, fino all’impegno nella Comune, dai suoi primi passi alla semaine sanglante, malgrado le divergenze anche profonde che lo separano dalla maggioranza “giacobina” e che ne L’Insurgé non nasconde. Il ricorrere della metafora dell’oscurità da cui il suo lavoro di scrittore e di giornalista lo ha strappato, per lanciarlo nel vivo dei conflitti sociali e politici dove la sua voce può finalmente risuonare, farsi ascoltare e dare voce ad altre voci condannate, altrimenti, al silenzio invita ad andare oltre l’interpretazione della letteratura come arma nella lotta politica, pure presente in Vallès (conformemente, del resto, ad una tradizione ben radicata nelle lettere francesi), che coglie solamente l’aspetto superficiale della sua scrittura.
Sarebbe fargli l’ultimo torto, quello di attribuirgli la concezione di una funzione strumentale dell’opera letteraria: essa è piuttosto il grembo fecondo in cui un groviglio contraddittorio, lacerato e dolorante di sentimenti, aspirazioni, ripulse, collere, paure, speranze si dischiude per mettere al mondo uno scrittore che si riconosce tale per avere saputo domare questa materia ribollente – senza rinnegarla – e sublimarla fino a farne la sua forza, una forza messa a disposizione di coloro che continuano a dibattersi nell’oscurità e a cercare faticosamente di allargare le pareti anguste delle miserabili case in cui sono stati confinati, per scorgere un lembo di cielo e ritrovare il gusto di respirare un poco di aria pura. Dunque, la scrittura come incisivo travaglio di riconoscimento di sé che, per realizzarsi pienamente, passa attraverso il riconoscimento della propria gente.[2]
D’altra parte, il Libro – l’esperienza libro, l’oggetto libro – si è imposto presto e con forza alla riflessione di Jules Vallès, ne ha guidato il modo di rapportarsi con la condizione umana. Già nel 1862, una ventina d’anni prima che la sua trilogia lo consacrasse romanziere, ne proclama la presenza, ovunque. Dove crediamo di vedere emozioni, passioni, amori, felicità, angosce, in realtà è nel libro che inciampiamo, o meglio, affondiamo, ci invischiamo. È inchiostro quello che galleggia su «questo mare di sangue e di lacrime» che è l’esistenza degli uomini.[3] Basterebbe questa consapevolezza della partita disseminata di trappole, sorprese e invasioni di campo che si gioca tra realtà e finzione romanzesca per risparmiare a Vallès l’infausto destino di essere annoverato tra i cultori di un ingenuo realismo sociale.
L’Insurgé è un testo che si legge d’un fiato, spinti dal vento di libertà e di passione che lo ispira, ma non è un testo semplice, quanto a collocazione negli scaffali di una biblioteca attenta alle classificazioni per generi. Non è un romanzo nel senso tradizionale, per quanto sia costruito sull’io narrante di un personaggio di cui il lettore viene a conoscere alcune peripezie che sono, tuttavia, riconducibili quasi esclusivamente alla sua dimensione pubblica. Non conosciamo nulla, per esempio, della sua vita sentimentale, tranne un breve e più che pudico accenno ad una vicina di pianerottolo con la quale Vingtras è in amichevole relazione.
Lo stesso si può dire per i personaggi che lo affiancano: sono colti, e con una profondità psicologica sorprendente affidata a qualche pennellata talmente efficace da avere un’evidenza pittorica, sempre sulla scena della Storia che costituisce la trama profonda di un romanzo senza trama.
Tuttavia, non ci troviamo davanti ad un romanzo storico: mancano i grandi quadri d’insieme, all’interno dei quali si dipanano i destini individuali di personaggi ben caratterizzati. D’altra parte, chi cercasse di ricostruire la complessa vicenda della Comune parigina su queste pagine, se ne farebbe un’impressione certamente molto parziale, anche se, probabilmente, riuscirebbe a catturare lo spirito che la animò più che attraverso i tanti saggi ad essa dedicati. E nemmeno a un romanzo corale od epico, per la robusta presenza di un io, quello del narratore, che tutto filtra – personaggi e situazioni – e per il frequente procedimento della messa a distanza attraverso il registro ironico.
Non è una cronaca puntuale degli eventi succedutisi, malgrado l’inserzione di interi pezzi tratti da Le cri du peuple, il giornale fondato da Vallès e che conobbe una grande diffusione nei mesi convulsi, tragici ed eroici della Comune, se non altro per la presenza di numerosi capitoli che precedono la sua proclamazione e per l’onnipresenza dell’io narrante, che toglie ogni pretesa di oggettività a quanto raccontato.
Non è nemmeno un’autobiografia, dietro la finzione di Jacques Vingtras, alter ego di Jules Vallès, perché, come già si è sottolineato, il materiale narrativo è stato sottoposto ad una drastica selezione che, della vicenda del narratore-autore, coglie solo determinati aspetti.
Ci sono sicuramente elementi appartenenti a tutti questi generi, ma è più la loro sottrazione che la loro somma a dare L’Insurgé. Che può ambire a rappresentare il testo nella sua primitiva accezione: è trama, intreccio, fili o legnetti messi assieme con sapienza, perché essi perdano nell’insieme colore e forma originari e costruiscano un tessuto unitario che non lascia facilmente scorgere i materiali di partenza. Lo scenario perfetto per la storia di un uomo che della propria avventura esistenziale ritiene valga la pena di trasmettere solo ciò che è in rapporto con la Storia.
È, in un certo senso, un romanzo di formazione di un giovane uomo che diventa se stesso, approdando dall’istintivo rifiuto dellasocietà – «cette gueuse» –[4] maturato nel corso di un’infanzia infelice e di una giovinezza di stenti ed umiliazioni, minacciata dal rischio di perdersi in una bohème distruttiva per i suoi accoliti ed innocua per il potere, ad una consapevole e convinta adesione alle ragioni della rivolta sociale, culminate nella Comune.[5]
Il che non significa che il nostro insorto sia un dottrinario: a più riprese Vingtras confessa la propria ignoranza delle teorie sociali che ormai da anni infiammavano le discussioni nei circoli democratici e repubblicani. Troppo preso dall’esigenza di guadagnarsi il pane con una serie di lavori saltuari – compilatore di voci per i dizionari, ripetitore, collaboratore di giornali che lo mettono alla porta, o vengono soppressi dalla censura dell’Impero – il tempo gli è mancato per affinare una coscienza teorica che vada oltre l’adesione ad un socialismo con qualche eco di Proudhon, grande simpatia per l’Internazionale salutata come il nuovo Parlamento in abiti da lavoro e molta inclinazione anarchica, più per predisposizione personale che per meditata rielaborazione intellettuale.
Pagina dopo pagina, Jacques Vingtras, ex baccelliere che ha cercato di arringare la folla il 2 dicembre e che ha preso parte ad una cospirazione studentesca contro Napoleone III, matura un distacco sempre più forte rispetto alla tradizione rivoluzionaria di impronta giacobina, sostanzialmente sorda alla questione sociale, contro la quale rivolge i suoi ironici strali, per buttarsi a capofitto nei circoli della democrazia socialista che si rifa alle sommosse operaie del 1848. Certo, gli mancò una teoria della rivoluzione, come osserva Gaston Monmousseau nella sua prefazione a L’enfant,[6] ma è altrettanto vero che Vallès non ha minimamente aspirato, con la sua trilogia, a costruirne una da offrire ai suoi compagni di lotta e non è sotto questa lente che la sua opera va avvicinata. Non nutrì mai pretese di teorico e nemmeno di politico; pur avendo scelto di impegnarsi a fondo nella vita pubblica, fu sempre consapevole che il meglio di sé lo poteva dare come scrittore.
Ed è attraverso la sua scrittura che egli cerca di dare corpo, voce e gesti a questa rivolta divenuta rivoluzione: la voce e i gesti di Jacques Vingtras e dei suoi compagni. Alcuni dei loro ritratti sono indimenticabili: Briosne, un Cristo strabico; Blanqui, freddo matematico della rivolta; Vermorel, prete rosso; Rouiller che calza la gente e scalza i selciati; Ranvier che, nella magrezza e nel pallore, porta già il segno della sua fine tragica. È la loro verità umana – non la giustezza delle loro teorie – che lo scrittore cerca di penetrare e di restituire, per offrire loro un’altra possibilità di vita, perché la morte sulle barricate o lungo il Muro dei Federati, la deportazione, il carcere e l’esilio non li seppelliscano definitivamente e, con loro, lo spettro della rivoluzione che tentarono, con disperazione, con coraggio, con entusiasmo, con freddezza, con imperizia, con generosità, con determinazione, con ingenuità, con rabbia, con amore.
Romanzo di formazione sui generis, L’insurgé, focalizzato com’è su una dimensione pubblica, dove ardore politico ed indignazione sociale catalizzano ed assorbono tutte le altre passioni. La Bildung di Vingtras ha come perno – fulcro, ma anche passaggio fondante – il momento della scelta che funziona pure da ressort narrativo. Da un lato, una certa sicurezza economica garantita da modesti impieghi statali comportanti la rinuncia a manifestare le proprie idee, il successo nell’attività giornalistica e letteraria, cui lo destina l’indubbio talento, le occasioni di carriera politica socchiuse dalla stessa militanza fra le fila dell’opposizione e di cui molti raccoglieranno il frutto alla caduta del Secondo impero, la possibilità di sottrarsi al tragico destino cui sa destinati i suoi compagni di barricata, tanto più che non condivide alcune delle posizioni prese dalla Comune in materia di repressione dei fiancheggiatori del governo di Versailles; dall’altro, la necessità di restare fedeli non solo alle proprie convinzioni sociali e politiche, ma ad un’idea molto severa, che confina con l’intransigenza, di cosa siano dignità ed onore personali, tanto più notevole in un uomo sempre pronto a prendersi gioco dell’inflessibilità dottrinaria di molti suoi compagni. La scelta è fatta, sin dalle prime pagine de L’insurgé, in cui Jacques Vingtras, lasciatosi per un momento tentare dall’inaspettata tranquillità offertagli da un posto di istitutore in un collegio di provincia, si ritrova per le strade di Parigi più povero e disperato di prima, per non avere saputo e voluto continuare a giocare la commedia dell’ipocrisia a cui avrebbe dovuto piegarsi per non morire di fame.
Due sono i momenti culminanti in cui il suo destino si gioca irrevocabilmente e lo scrittore li affida a scarne, taglienti frasi che disegnano con precisione geometrica tutta la portata della scelta. Licenziato da un giornale per i suoi articoli oltraggiosi per il gusto di un pubblico in cerca di distrazioni, il narratore rifiuta il consiglio del direttore che vorrebbe continuare a garantirsi la collaborazione di una penna di prim’ordine. «“Se voleste, tuttavia, con il vostro colpo di pennello!”. “Se volessi … Sì, ma ecco, non voglio! Ci siamo sbagliati entrambi. Voi volete un intrattenitore, io sono un ribelle. Ribelle resto, e riprendo il mio posto nel battaglione dei poveri”» (cap. VII). E qualche anno più tardi, nel corso dell’ultima settimana della Comune, quando i Versagliesi sono ormai entrati in città e panico e disperazione stanno spingendo alcuni alla fuga, altri a propositi di resa ed altri ancora ad azioni sconsiderate che Vallès-Vingtras non approva, il ribelle divenuto comunardo prende la sua decisione. «Resto con quelli che sparano – e che saranno fucilati!» (cap. XXXII).
Inutile nasconderlo: le passioni che trovano spazio in queste pagine – orgoglio, fierezza, senso dell’onore, della dignità e dell’integrità personali, coerenza e coraggio fino all’abnegazione, rifiuto dei compromessi, intransigenza morale di fronte alle seduzioni del potere e del denaro, bisogno di identificare amici e nemici – sono fortemente inattuali in un mondo come il nostro che esalta come principale qualità individuale la capacità di adattamento e come massimo orizzonte collettivo l’inclusione. Vingtras-Vallès è un disadatto che rivendica fieramente la propria inadattabilità e che rinvia al mittente ogni invito – che sia vergato con l’inchiostro solenne della retorica repubblicana classica o con quello allusivo dell’apprezzamento delle sue doti intellettuali – ad includersi nel sistema.
Un réfractaire irriducibile, insomma, che, a differenza di molti confratelli caduti nella trappola della bohème che lui si incaricherà di smascherare,[7] invece di consumare una rivolta solitaria, intraprese il cammino della Storia. E un antidoto salutare contro il mito di una pretesa pacificazione che nega ed esorcizza il conflitto sociale, nel tentativo di attribuire caratteri di inevitabilità, naturalità ed universalità al dominio del capitale e agli assetti politici che lo garantiscono. C’è chi non esita, fra i suoi avversari, ad ascrivere i suoi incitamenti alla ribellione ad istinti banditeschi; oggi, qualcuno potrebbe additarlo alla pubblica esecrazione come “odiatore”, hater armato d’inchiostro, e come tale emarginarlo nella “spirale del silenzio” auspicata nei confronti di questa nuova colpa sociale. Che è, poi, quanto già fecero gli ambienti letterari dell’epoca, prima espellendolo dalla Société des gens de lettres (1874), poi relegando la sua opera nelle soffitte della letteratura, fra gli abiti fuori moda, buoni a suscitare qualche curiosità fra i cultori delle stranezze e i nostalgici dei moti di piazza.
Jules Vallès, dunque, si impone come una voce tanto più urgente, quanto più inattuale: di fronte ad una conclamata “fine della storia” che è solo assolutizzazione e naturalizzazione del presente, nel congelamento di ogni altra possibilità, e ad un ripiego minimale sulla quotidianità, L’insurgé ci proietta in un paesaggio completamente diverso, occupato a tutto tondo dalla Storia, la cui presenza fisica si impone al lettore lungo l’intero testo, con l’odore della polvere da sparo, il profumo delle mattine di rivolta, l’affollamento delle sale dei club rivoluzionari, il risuonare delle parole degli oratori, il fremito di bandiere cucite in fretta, o recuperate da vecchi nascondigli, il sussurro dei cospiratori, le grida della folla esasperata, il fumo degli incendi, il contorno irregolare delle barricate. E sopra tutto ciò, «il mormorio di questa rivoluzione che passa, tranquilla e bella come un torrente limpido» (cap. XXVI): la rivoluzione degli straccioni ha allure da regina, disegna uno spazio rinnovato dove si lava la vergogna dell’impero e si prepara la gestazione di un mondo nuovo.
Proiezione quasi mitica, sicuramente, dell’ansia di riscatto di chi non ha collezionato che disfatte, sullo sfondo di una palingenesi collettiva, ma a cui fa da contrappunto, qualche pagina più avanti, la lucidità del narratore che non distoglie lo sguardo dalle ombre della sua rivoluzione, o che non rinuncia all’ironia sulle sue scarse capacità militari o su certa retorica della grandezza e dell’eroismo professata da alcuni compagni. E non perché egli sia estraneo alle sue suggestioni, ma preferisce declinarle nei termini della semplicità, della parola efficace e del gesto preciso, come il tiro del giovane artigliere dell’ultima barricata che resiste a Belleville.
Ed è questo gusto per la semplicità che lo spinge a legarsi di fraterna amicizia con diversi operai dei sobborghi di Parigi, decisi a resistere ad oltranza ed indifferenti alla spartizione degli incarichi. È quel popolo che dal ’48 si fa massacrare nei moti di strada, con il risultato di aprire con il proprio sangue generosamente versato la via agli abili politicanti dell’opposizione borghese – liberali e repubblicani moderati, ai quali Vallès-Vingtras riserva tutto il suo sarcasmo e tutto il suo disprezzo – e che ora, con la Comune, ha preso in mano il proprio destino. E con lui il nostro scrittore, doppiamente scrittore, portando in grembo L’insurgé di Jules Vallès – storia di un uomo che trova se stesso nella temperie di una rivolta collettiva in cui le ragioni del cuore si saldano con quelle dell’intelligenza – il libro di Jacques Vingtras, proiettile lanciato contro l’ipocrisia, la stupidità, la meschinità e la ferocia di una società che costringe a fame, disperazione ed oscurità chiunque non sappia o non voglia conformarsi all’ordine stabilito.
Certo, la narrazione si sviluppa intorno ad un unico io, ma questo io diventa tale solo attraverso l’incontro con loro, riconosciuti come i propri.
Se L’insurgé partorisce un libro, esso è, a sua volta, figlio dei due libri della trilogia che lo precedono, anche se il rapporto è molto più indiretto di quello che stabilirebbe una lineare successione cronologica, un ordinato succedersi di vicende. Il legame è più sottile: qui giungono a scioglimento una serie di nodi – psicologici, morali, politici, esistenziali ed estetici – rimasti irrisolti nei due precedenti.
Così, la conquista di una duplice, matura dimensione letteraria e politica – d’altronde strettamente intrecciate – riscatta l’enfant poco amato e per niente capito e il bachelier sconfitto, confuso e disperato all’indomani della disfatta del 2 Dicembre. Né é casuale – e non è solo espediente narrativo – che L’insurgé si apra sulle ultime battute del romanzo precedente che vedono un Vingtras costretto a cercarsi un lavoro per vivere incorrere nell’accusa di viltà da parte di alcuni compagni. Come nota giustamente Roger Bellet, che all’autore ha consacrato studi illuminanti, L’insurgé diventa allora una risposta al Bachelier.[8]
D’altronde, il futuro insorto ha ben intuito che la libertà della bohème cela le sabbie mobili pronte ad inghiottire – dopo un’agonia più o meno lunga – energie creative e determinazione a lottare. Una trappola mortale, contro la quale il libro faticosamente venuto alla luce in una cameretta fredda e lugubre mette in guardia quei giovani generosi, ingenui e idealisti, pronti a scambiare per libertà la caduta nell’abisso della miseria senza ritorno, della follia, dell’insignificanza.
L’ex studente ribelle ad ogni sistemazione scopre la libertà offertagli da un modesto posticino in un municipio di periferia che gli lascia la possibilità di dedicare alcune ore del suo tempo alla scrittura, senza doversi porre il problema assillante di cosa mettere sotto i denti o quale tetto mettersi sopra la testa. E scopre anche la complessità del mondo che ha deciso di sfidare e intanto incammina la sua libertà dalla negazione individuale di ogni vincolo sociale imposto verso l’istanza di un comune operare in quell’atelier delle guerre sociali che lo vedrà operaio – e non dei più fannulloni –[9] in mezzo ai suoi amici operai. Allo stesso tempo, avvia irrevocabilmente il giovane scrittore che, secondo il giudizio dei critici all’indomani dell’uscita del suo travagliato libro, «andrà lontano», su una strada che lo porterà davvero lontano da quel successo profetizzatogli, per condurlo diritto verso il muro delle fucilazioni – evitato per una fortunosa combinazione –, l’esilio, durato nove anni, e la solita miseria che gli è compagna, a Parigi, come a Londra.
E l’espulsione dalla società letteraria, disposta a perdonare gli scarti di percorso di una giovinezza bohémienne, se non ad acclamarli come espressione di uno spirito orginale che da essi trae ispirazione per scavarsi il proprio posto all’interno di quella stessa società, ma non l’adesione incondizionata alla Comune.
È proprio essa a segnare il punto d’approdo della Bildung di Jacques Vingtras che, costretto a nascondersi nei mesi successivi alla semaine sanglante, in attesa di un’occasione propizia per varcare la frontiera, solo di fronte a se stesso, ripercorre la propria esperienza in quei mesi decisivi e riconosce di avere avuto la sua ora, di avere vendicato l’infelicità dell’infanzia e la fame della giovinezza. La sua sofferenza non gli appartiene più, è uno dei tanti rivoli confluiti nella «grande federazione dei dolori» che fu la rivolta della Comune.
Morti i rancori personali nell’azione collettiva, la maturità raggiunta, lontano dal rappresentare il porto sicuro di un’esistenza pacificata, è condizione per continuare quella battaglia che la repressione dei Versagliesi non ha certo stroncato, ma solo costretto a muoversi sottotraccia. È quanto fa scrivere a Roger Billet[10] che L’insurgé è il libro di come una lunga rivolta si trasformi in Rivoluzione, là dove il salto è dato dal passaggio dal rifiuto individuale dell’ordine sociale e della sofferenza su cui si fonda alla sua messa in discussione collettiva.
La dedica iniziale ai morti del ’71 e a tutti coloro che si riconobbero nella Comune, oltre a segnare senza possibilità di equivoci quella scelta di campo di cui già si è detto, si rovescia dialetticamente nella chiusa, dove i vinti di ieri sono coloro che porteranno di nuovo domani la loro battaglia nelle strade di Parigi.
Si istituisce così una simmetria in un testo fortemente asimmetrico sotto il profilo temporale. I due mesi della Comune – per quanto centrali per raccogliere le fila di tutta la narrazione – occupano non più di un terzo del libro e si concentrano in particolare sull’ultima settimana. I capitoli precedenti si dispiegano nell’arco temporale di una decina d’anni in cui si consuma la parabola discendente del Secondo Impero, dalla rinascita di una prudente opposizione liberale alla disfatta di Sedan, seguita dalla proclamazione di una “repubblica” talmente timida da non osare proclamarsi tale e desiderosa innanzitutto di firmare una resa incondizionata con i Prussiani, giunti alle porte della capitale.
Il punto è che è proprio in questo lungo periodo che il ribelle affina le sue armi e la sua coscienza, matura la propria forza espressiva e le proprie convinzioni politiche, sperimenta la censura sui suoi articoli, il licenziamento dai giornali su cui ha osato toni troppo forti e la prigione per le opinioni pubblicamente espresse, denuncia la finta opposizione e la sostanziale connivenza nella difesa dell’assetto sociale dei «galli della sinistra», frequenta i circoli socialisti e i sopravvissuti della rivolta del giugno ’48, conosce coloro che gli saranno compagni nei due intensi mesi in cui si riassumerà tutta la sua vita.
Non libro “della” Comune, L’insurgé, quanto libro “nella” Comune, proteso verso la Comune, orizzonte in cui confluisce la materia narrativa antecedente, tempo qualitativamente diverso, concentrato di conoscenze e di esperienze che vengono alla luce dopo un travaglio ventennale. Non è casuale che il presente sia il tempo verbale dominante, a sancire il presente storico dell’evento. Ad esso il testo deve un suo ritmo particolare, dettato dall’urgenza di imporre la presenza della Comune, affinché non corra il rischio di restare congelata nei magazzini della storia. Né è casuale che Vallès scriva i suoi veri libri dopo il 1871 – le sue prime pubblicazioni essendo costituite da una serie di articoli intorno ad un tema di fondo –, a confermare che maturità artistica e maturità politica procedono di pari passo, innervandosi vicendevolmente e finiscono per incontrarsi nelle opere scritte nell’esilio londinese, dopo che si è conclusa l’esperienza fondamentale della sua vita.
Scrittura dell’urgenza, dunque, alle prese con il tempo e con la materia. Cè un gusto molto pronunciato di Vallès per la fisicità della parola e per la materialità dell’atto dello scrivere. È il manoscritto sporco di macchie d’inchiostro, disseminato di aggiunte e cancellature, ferito da colpi di forbici e spilli che l’aspirante scrittore Jacques Vingtras riesce a confezionare dopo avere lottato per giorni e giorni contro il freddo della sua tetra stanza che gli congela l’ispirazione e il caldo della biblioteca dove si è rifugiato che gli ammollisce e scolora il pensiero.
Ne esce un testo che morde, alla lettera: un istrice che punge a causa degli spilli che lo tengono assieme e pronto a scagliare i suoi aculei nel bel mezzo della società letteraria. È l’opera di un sarto che ha cucito pezzi della sua vita ai pezzi della vita degli altri e questa materia ribollente e tagliente gli è entrata nel corpo, gli ha graffiato le ossa, lo ha scorticato, fino a farlo sanguinare (cap. III).
Quel sangue si è fatto inchiostro, ma l’inchiostro non sfugge alla metamorfosi e può ritrovarsi sangue: sangue che scorre sotto la penna dello scrittore lungo tutta l’opera sino all’immagine finale, la nuvola rossa, simile ad un camiciotto da operaio insanguinato, che corre nel cielo limpido sopra Parigi, mentre Vingtras varca la frontiera belga.[11]
Non creda il lettore di trovarsi davanti a un gusto pulp per il truculento: invano cercherebbe in Vallès il compiacimento appena mascherato esibito da romanzi e film di vario genere, nemmeno nella scena della corsa in calesse del narratore in mezzo ad una Parigi trasformata in macello, dopo l’entrata dei Versagliesi (cap. XXXIV).
Il discrimine sta innanzitutto proprio nel carattere metamorfico del sangue, oltre che nel suo valore simbolico che richiama la vita, più forte della sua negazione di cui si faranno carico le truppe governative durante la semaine sangalnte: esso è anche pianto, l’enorme sofferenza umana, e vino che riscalda i cuori e acqua che scorre limpida nell’alveo del torrente e passa attraverso i campi come la rivoluzione di marzo attraverso la città risvegliatasi alla libertà. E inchiostro, naturalmente: tutto quel fluire si trasforma in una materia più densa e più scura, decisa a fissarsi sul bianco della pagina. Ma con una certa riserva: Vallès doveva davvero diffidare dell’inchiostro, quello dei manoscritti e quello della stampa,[12] in ragione del suo carattere artificiale e della sua pretesa a essere definitivo.
Come spiegare gli spazi bianchi che tagliano la narrazione, interrompono le descrizioni, rinviano le considerazioni, frammentando il corpo de L’insurgé? Ha voluto, forse, lasciare respirare la pagina e, con essa, il lettore, obbligato a correre dietro il suo stile rapido, a saltare in lungo tra un evento e il successivo, a incontrare una moltitudine di personaggi, resi attraverso qualche magistrale tocco? O è l’abitudine contratta dal giornalista al testo breve e conchiuso? E la punteggiatura, con la sua profusione di punti e di virgole, che, incidendo solchi profondi nel periodare, ne alimenta il ritmo discontinuo? C’è una punteggiatura che raccorda, costruendo un edificio che assicura l’agevole passaggio da una stanza all’altra e ce n’è una che erige muri, per isolare e sottolineare una parola, un’espressione, una frase.[13] La punteggiatura de L’insurgé appartiene sicuramente a questo secondo tipo. Pause e tagli forniscono, forse, allo scrittore la possibilità di districarsi da una materia oggettivamente pesante – lacrime e sangue – e dalla pretesa dell’inchiostro di domarla e sublimarla?
Come il libro-istrice di Jacques Vingtras, anche il testo che lo partorisce ha conosciuto le forbici e gli spilli, è passato attraverso rimaneggiamenti e correzioni, dalla prima versione, maturata negli anni dell’esilio londinese e pubblicata in parte sulla Nouvelle Revue nel 1882 (due anni dopo l’amnistia per i comunardi), fino alla definitiva, uscita postuma nel 1886, grazie alla disponibilità della collaboratrice di Jules Vallès, Séverine, e rivista, comunque, dall’autore.
Una gestazione sicuramente tormentata, a riprova che una certa impressione di spontaneità e immediatezza che può cogliere il lettore de L’insurgé è, in realtà, il frutto di scelte stilistiche e lessicali molto meditate. Vivacità della lingua e ricchezza delle immagini rappresentano gli esiti più riusciti di questa ricerca. Alla prima concorre in modo determinante la capacità dello scrittore di giocare con registri linguistici diversi, da quello popolare che non indietreggia di fronte a certa crudezza a quello colto, con echi di reminiscenze classiche dagli sbocchi imprevisti che operano inversioni di significato rispetto a quello consolidato dalla tradizione. Locuzioni gergali, ripresa di espressioni del compagnonnage – le antiche associazioni di mestieri – calembours che riconducono la generalità di una situazione alla concretezza degli elementi che la definiscono, neologismi dalla connotazione sovente ironica, termini della vita quotidiana, ma anche attinenti alla sfera pubblica si inseriscono con naturalezza nel quadro di un periodare ora conciso, ora movimentato, caratterizzato dal gusto per la precisione dell’aggettivo e l’incalzare dei verbi che sovente si snodano uno dopo l’altro, quasi a spingere il lettore nel bel mezzo dell’azione.
È, ancora una volta, lo stile di Jacques Vingtras, fatto di «pezzi e bocconi che si direbbero raccolti, a colpi di uncino,[14] in angoli sporchi e desolati. Eppure, lo vogliono, questo stile!» (cap. VII). L’esito dell’operazione alchemica tentata da Vallès è di avere ottenuto con questa materia sporca una frase pulita, che scorre spesso impetuosa, talora grave e calma, limpida sempre. La drammaticità stessa di alcuni snodi narrativi è costretta entro il quadro di una voluta essenzialità linguistica che esalta la serietà dell’evento, proprio nel rifiuto della teatralità e della declamazione, oppure è stemperata nel liquido benefico dell’ironia che salva dalla tentazione del solenne e dell’eroico, sempre in agguato in momenti decisivi, in cui vive la consapevolezza di muoversi sotto i riflettori della Storia. Unico cedimento, l’abbondanza dei punti esclamativi che se, da un lato, sottolineano l’urgenza del dire, dall’altro pagano un debito d’enfasi ad una tradizione tribunizia non priva di implicazioni romantiche cui la formazione dello scrittore non poteva essere del tutto estranea.
Lingua che scorre, dunque, e che scende in profondità, scavando il suo alveo, per attingere la verità di fondo di uomini ed eventi, di convinzioni ed azioni. Sono le immagini a perforare la crosta, a rompere l’opacità del reale, a forzare la parola al limite delle sue possibilità. Se alcune sono di evidente segno politico (come quella su cui si conclude il romanzo), molte – e non fra le meno efficaci – sono radicate nel terreno aspro di un quotidiano fatto di stenti, lavoro, fatica, umiliazione, dolore, violenza.
Che sia la selvaggina da camera ammobiliata (cap. I), o la miseria dalle mani di mammana (cap. II), o il flutto umano che ha trascinato un uomo come fosse una briciola di carne (cap. XXX), Vallès-Vingtras non si rifugia nei cieli del simbolismo, ma resta ancorato alla fisicità di quel fardello che la sua esperienza esistenziale gli ha posto sulle spalle. Il fatto è che questo insorto parigino, questo giornalista pronto a salire sulle barricate ha dietro di sé generazioni di contadini e ama calcar bene i suoi piedi per terra, come se dovesse piantare un albero (cap. XXVIII). E le sue immagini mantengono un legame carnale con il fondo esperienziale, dove si intrecciano e talora si scontrano natura e cultura, che le nutre.
La scrittura di Vallès è di quelle che fanno grande uno scrittore, ma ho motivo di ritenere che il nostro si rivolterebbe nella tomba a sentirsi definire un grande scrittore. La vita non gliene lasciò né il tempo (morì relativamente giovane, a cinquantatre anni), né l’opportunità, avendolo messo alle strette, a districarsi fra povertà, persecuzioni, sommosse, fughe, esilio. E poi gli mancò l’aura del grande scrittore, lo sguardo superiore che si eleva sulle miserie del mondo e tutto comprende e sublima e riporta all’universale. Fu uomo di parte, volle prendersi il suo carico di infelicità e portarlo fino in fondo assieme agli altri infelici.
Amò e coltivò il libro, ma con la consapevolezza che un vasto continente si stendeva tutt’attorno e che venti molto forti ne sfogliavano le pagine, né lui aveva alcuna intenzione di chiudere le finestre della sua casa. Questo soffio porta nella sua opera un ritmo ineguale – accelerazioni e rallentamenti – che se da un lato le conferisce un tono tutto peculiare, dall’altro rischia di minarne l’impianto unitario.
Al di là della morte prematura, che lo colse mentre rivedeva il manoscritto de L’insurgé, la sua opera trasmette un senso di incompiutezza, per un piccolo tarlo che la rode dall’interno, per una tensione irrisolta – non poté o non volle mettervi mano – fra il presente dell’azione e la durata della scrittura. Uno scarto che custodisce il segreto ultimo di questo anomalo romanzo, un’incrinatura feconda in cui il lettore può introdurre il suo sguardo per intravedere il luogo nascosto da cui muove il libro.
Un libro imperfetto è un libro che si può continuare a scrivere, che ne custodisce un altro, proprio come L’insurgé di Jules Vallès racchiude il libro di Jacques Vingtras.
Fernanda Mazzoli
[1] È quella pubblicata nel 1953 dall’Universale Economica di Milano, a cura di Giacomo Cantoni. Essa era stata preceduta nel 1927 da una traduzione di A.G. Blanche per i tipi della Sonzogno e nel 1945 da quella proposta dalle Edizioni Sociali Internazionali di Roma. Da tempo fuori catalogo, queste edizioni sono rinvenibili nelle biblioteche.
[1] Risuona davvero ingiusta l’accusa di individualismo piccolo-borghese mossagli da Giacomo Cantoni nella sua, peraltro pregevolissima, introduzione all’edizione del 1953 e che è, evidentemente, debitrice dell’ortodossia ideologica di stampo marxista imperante in quegli anni. Confonde, a mio giudizio, i limiti della consapevolezza teorica di Vallès, di cui l’autore per primo era conscio, e il suo accentuato spontaneismo con la rivendicazione della propria centralità di unico rivoluzionario puro, dimenticando che contro tale pretesa, qualora anche si affacciasse occasionalmente, Vallès disponeva dell’arma profusa a piene mani dell’ironia, contro se stesso innanzitutto. In realtà, ci sembra che Cantoni, pur contestualizzando correttamente l’esperienza politica di Vallès all’interno di un nascente movimento socialista ancora fortemente influenzato da blanquismo e proudhonismo, non riesca, comunque, a perdonargli il fatto di non essere stato marxista, come, d’altra parte, la stragrande maggioranza degli uomini della Comune, ciò che non impedì a Marx – il quale, come è noto, non si riteneva un marxista – di rendere un omaggio vibrante all’esperienza comunarda e al suo significato, nel suo La guerra civile in Francia che resta, ad oggi, un testo insuperabile di analisi storica delle vicende che culminarono nella proclamazione della Comune.
[1] Cfr. l’articolo Les victimes du livre, uscito sul Figaro il 9 ottobre 1862, e che verrà ripreso in J. Vallès, I refrattari, Sugarco, Milano 1980, pp. 133-151.
[1] «questa miserabile», ma anche «furfante, disgraziata e prostituta».
[1] Per le vicende biografiche, rimando a http://blog.petiteplaisance.it/fernanda-mazzoli-jules-valles-1832-1885-jules-linsurge-aveva-scelto-di-essere-un-refractaire-e-tale-rimase-per-tutto-il-corso-della-sua-vita-prima-durante-e-dopo-la-comune-di-par/, all’introduzione di Raffaele Fragola a J. Vallès, I refrattari, op. cit. e all’articolo di Giuseppe Scaraffia, Vallès, un provocatore, pubblicato l’8 settembre 2019 su Il Sole 24 Ore.
[1] Citato da G. Cantoni nell’introduzione a L’insorto, op. cit., p. 15.
[1] Cfr. J. Vallès, I refrattari, op. cit.
[1] Cfr. il commento a J. Vallès, L’insurgé, Le Livre de Poche, Paris 1986, p. 344.
[1] Cfr., infra, cap. XXXV.
[1] J. Vallès, L’insurgé, op. cit., p. 345.
[1] Roger Bellet ha analizzato l’importanza, tematica e stilistica, dell’elemento liquido – inchiostro e sangue, innanzitutto, ma anche acqua, latte, vino – nell’opera di Vallès nel suo saggio, Jules Vallès et le Livre: l’encre et le sang, in Romantisme. Revue du dix-neuvième siècle, 1984, n. 44, Le livre et ses mythes, pp.57-63.
[1] Cfr. ivi, p. 58.
[1] In questo senso, la traduzione ha rappresentato per il traduttore, piuttosto incline alla prima possibilità, una vera e propria sfida, nel corso della quale ha inferto al testo originario qualche colpo a tradimento, soprattutto nella soppressione della virgola prima della congiunzione e, costante in Vallès.
[1] Strumento usato all’epoca dagli spazzini.
[1] È quella pubblicata nel 1953 dall’Universale Economica di Milano, a cura di Giacomo Cantoni. Essa era stata preceduta nel 1927 da una traduzione di A.G. Blanche per i tipi della Sonzogno e nel 1945 da quella proposta dalle Edizioni Sociali Internazionali di Roma. Da tempo fuori catalogo, queste edizioni sono rinvenibili nelle biblioteche.
[2] Risuona davvero ingiusta l’accusa di individualismo piccolo-borghese mossagli da Giacomo Cantoni nella sua, peraltro pregevolissima, introduzione all’edizione del 1953 e che è, evidentemente, debitrice dell’ortodossia ideologica di stampo marxista imperante in quegli anni. Confonde, a mio giudizio, i limiti della consapevolezza teorica di Vallès, di cui l’autore per primo era conscio, e il suo accentuato spontaneismo con la rivendicazione della propria centralità di unico rivoluzionario puro, dimenticando che contro tale pretesa, qualora anche si affacciasse occasionalmente, Vallès disponeva dell’arma profusa a piene mani dell’ironia, contro se stesso innanzitutto. In realtà, ci sembra che Cantoni, pur contestualizzando correttamente l’esperienza politica di Vallès all’interno di un nascente movimento socialista ancora fortemente influenzato da blanquismo e proudhonismo, non riesca, comunque, a perdonargli il fatto di non essere stato marxista, come, d’altra parte, la stragrande maggioranza degli uomini della Comune, ciò che non impedì a Marx – il quale, come è noto, non si riteneva un marxista – di rendere un omaggio vibrante all’esperienza comunarda e al suo significato, nel suo La guerra civile in Francia che resta, ad oggi, un testo insuperabile di analisi storica delle vicende che culminarono nella proclamazione della Comune.
[3] Cfr. l’articolo Les victimes du livre, uscito sul Figaro il 9 ottobre 1862, e che verrà ripreso in J. Vallès, I refrattari, Sugarco, Milano 1980, pp. 133-151.
[4] «questa miserabile», ma anche «furfante, disgraziata e prostituta».
[5] Per le vicende biografiche, rimando a http://blog.petiteplaisance.it/fernanda-mazzoli-jules-valles-1832-1885-jules-linsurge-aveva-scelto-di-essere-un-refractaire-e-tale-rimase-per-tutto-il-corso-della-sua-vita-prima-durante-e-dopo-la-comune-di-par/, all’introduzione di Raffaele Fragola a J. Vallès, I refrattari, op. cit. e all’articolo di Giuseppe Scaraffia, Vallès, un provocatore, pubblicato l’8 settembre 2019 su Il Sole 24 Ore.
[6] Citato da G. Cantoni nell’introduzione a L’insorto, op. cit., p. 15.
[11] Roger Bellet ha analizzato l’importanza, tematica e stilistica, dell’elemento liquido – inchiostro e sangue, innanzitutto, ma anche acqua, latte, vino – nell’opera di Vallès nel suo saggio, Jules Vallès et le Livre: l’encre et le sang, in Romantisme. Revue du dix-neuvième siècle, 1984, n. 44, Le livre et ses mythes, pp.57-63.
[13] In questo senso, la traduzione ha rappresentato per il traduttore, piuttosto incline alla prima possibilità, una vera e propria sfida, nel corso della quale ha inferto al testo originario qualche colpo a tradimento, soprattutto nella soppressione della virgola prima della congiunzione e, costante in Vallès.
Jules Vallès è stato espulso dalle storie della letteratura, dai manuali scolastici, dal Panthéon degli scrittori il cui nome continua a brillare nel firmamento delle glorie durature della République. Lui, repubblicano convinto e coerente, ne sarebbe stato contento, perché aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita accidentata e irregolare, fino alle esequie sul carro funebre dei poveri. D’altronde, le espulsioni erano il suo pane, quello che non gli mancò mai in mezzo secolo di un’esistenza che conobbe la fame e il tetto incerto del fuggiasco.
Respinto all’esame di Maturità, allontanato per indisciplina dal collegio di Caen dove prestava servizio come sorvegliante, arrestato una prima volta nel 1853 per un attentato fallito contro l’imperatore e, negli anni successivi, per gli articoli pubblicati sui pochi giornali disposti ad ospitarlo, mentre i fogli da lui fondati venivano soppressi dopo i primi numeri, imprigionato per manifestazione pacifista durante la guerra franco-prussiana, costretto a fuggire dalla Francia dopo la caduta della Comune, in un esilio durato nove anni, condannato a morte in contumacia ed, infine, espulso dalla Société des Gens de Lettres: una vita coerente cui una gloria postuma non avrebbe aggiunto nulla, se non il sapore di un tardivo pentimento da parte della società letteraria. Così non è stato e Vallès resta ai suoi compagni, «Aux morts de 1871. A tous ceux qui, victimes de l’injustice sociale, prirent les armes contre un monde mal fait et formèrent, sous le drapeau de la Commune, la grande fédération des douleurs» (Ai morti del 1871. A tutti quelli che, vittime dell’ingiustizia sociale, presero le armi contro un mondo fatto male e formarono, sotto la bandiera della Comune, la grande federazione dei dolori»). A loro ha dedicato il suo libro più importante, L’insurgé, (L’insorto), pubblicato postumo nel 1886 a Parigi, dove era rientrato a seguito della legge d’amnistia votata il 10 luglio 1880 e dove aveva continuato ad essere oggetto di attenzione da parte della polizia per la sua incessante attività di pubblicista schierato a fianco degli oppressi. Furono loro a seguire in massa il suo funerale di terza classe (circa 100.000 Parigini e, fra di loro, il pittore Courbet, il genero di Marx, Paul Lafargue, e tanti vecchi compagni sopravvissuti alla “settimana di sangue” della primavera del 1871 e all’esilio nelle colonie francesi oltreoceano), mentre il giornale Le cri du peuple, da lui fondato e che da poco aveva subito una perquisizione a causa di un suo articolo sulla Prefettura di Polizia, gli rese l’estremo omaggio con un annuncio in prima pagina: La Révolution vient de perdre un soldat, la littérature un maître. Jules Vallès est mort. (La Rivoluzione ha appena perso un soldato, la letteratura un maestro. Jules Vallès è morto).
n. 25 du 28 mars 1871.
La une du tout premier numéro, lors de sa reparution en 1883 (Dimanche 28 octobre).
Le Cri du peuple (1885-10-28).
Dunque, le cose sono andate come dovevano andare per un uomo la cui vita fu contrassegnata sin dagli anni della giovinezza da una scelta di campo dove non c’era posto per i compromessi. Al direttore del Figaro che, consapevole del suo non comune talento, vorrebbe trattenerlo al giornale, ma a patto che smussi i toni violentemente antibonapartisti risponde: «Sevolessi… Sì, ma non voglio. Ci siamo sbagliati entrambi. Lei vuole un intrattenitore, io sono un ribelle. Ribelle resto e riprendo il mio posto nel battaglione dei poveri».[1]
Una scelta di campo che porterà Vallès dalla militanza fra le fila dei repubblicani intransigenti oppositori del colpo di Stato del 2 dicembre 1851 di Luigi Napoleone Bonaparte fino all’adesione alla Prima Internazionale e all’insurrezione della Comune. Ed è proprio questa sua scelta decisiva a spiegare l’ostracismo della buona società letteraria, compresa quella progressista, sempre pronta – ieri come oggi – a commiserare la miseria delle classi subalterne, a condizione che queste rimangano tali, in modo da consentire loro il dispiegamento delle sue migliori disposizioni sentimental-umanitarie.
A Jules Vallès non si è perdonato, insomma, non tanto di avere scritto sulla Comune – caso mai deplorandone gli eccessi e salvandone certe istanze sociali con le quali la Troisième République fu costretta a venire a patti – quanto, piuttosto, di essere stato nella e con la Comune. Fino alla fine, negli anni dell’esilio e negli anni del ritorno in Francia.
Vallès presta al suo alter ego Jacques Vingtras, protagonista di un’autobiografia in tre tappe,[2] le sue collere e le sue ragioni, le sue lotte e le sue disfatte, le sue speranze e le sue sofferenze. Un’infanzia triste, segnata dalle difficoltà economiche della famiglia, dal rapporto difficile con genitori severi e distanti, avari di carezze e larghi di punizioni, da una precoce sensibilità alle ingiustizie e all’assurdità del mondo degli adulti, regolato da incomprensibili convenzioni, spingono l’adolescente ad un’embrionale rivolta che maturerà le sue ragioni nell’incontro con un gruppo di repubblicani di simpatie giacobine, conosciuti a Parigi dove, nel frattempo, è stato inviato in pensione per allontanarlo da una scandalosa relazione con una donna sposata.
Il ragazzo è affascinato dai loro discorsi, le loro frasi suonano alle sue orecchie come «un rumore di speroni»; da loro impara che un giornalista è anche un soldato, disposto a mescolare l’inchiostro e il sangue. Gli prestano libri sulla Rivoluzione dell’ 1889; nel giro di pochi giorni l’enfant irrequieto e confuso non è più lo stesso, è entrato «nella storia della Rivoluzione» e non ne uscirà più. Il fatto è che ha riconosciuto i suoi e si è riconosciuto in loro. In quei libri si parla di miseria e di fame, ritrova figure che gli ricordano i falegnami e i contadini del villaggio dove trascorreva le vacanze presso gli zii campagnoli e dove la vita, immiserita nella casa paterna a causa delle liti, delle incomprensioni e delle risibili e sempre frustrate ambizioni sociali dei genitori, gli si dispiegava finalmente davanti con tutte le sue promesse: gli affetti sinceri, i profumi della natura, la semplicità dei costumi. Riconosce in quei libri la sua stessa fame, di pane, ma soprattutto di libertà.
Troppo aveva sofferto nei suoi pochi anni, perché le grida di quella gente che aveva alimentato il fiume della grande Rivoluzione non diventassero le sue. Non a caso, il giornalista Vallès pubblicherà un foglio dalla vita avventurosa e contrastata intitolato proprio Le Cri du peuple. «Era gente con grembiuloni di pelle, bluse da operai, pantaloni rammendati, era il popolo in quei libri che mi avevano dato da leggere e io non amavo che quella gente, perché, soli, i poveri erano stati buoni con me, quando ero piccolo».[3] Il «rispetto del pane» gli veniva da lontano ed era legato ad uno dei rari momenti di intesa stabiliti con il padre che, avendolo sorpreso a sprecarne un pezzo, gli aveva parlato, per una volta, senza la consueta durezza, invitandolo a non gettare quel pane così duro da guadagnare e pregandolo di ricordarsene per tutta la vita. Un’osservazione fatta con calma dignità che era penetrata profondamente nell’animo del bambino che, negli anni a venire, avrebbe sperimentato il valore del pane e la fatica di procurarselo per chi non è disposto a venire a patti con la propria coscienza.
Il sedicenne Vingtras-Vallès, nelle pagine conclusive de L’enfant è costretto a lasciare Parigi – dove sogna di diventare tipografo di giorno e scrittore di notte – per fare ritorno a Nantes e preparare il baccalauréat (la maturità) con il padre, professore al collège e desideroso che il figlio segua le sue orme. Si congeda dai suoi nuovi amici con la promessa di ritornare, casomai per prendere d’assalto l’Elysée. Respinto all’esame, in conflitto con il padre, profondamente deluso dall’inaspettato fallimento scolastico del figlio, già allievo brillante, Jacques Vingtras sogna Parigi, la libertà e la rivolta contro la tirannia dei padri. Eppure, generoso e impulsivo, non esiterà a rischiare la vita in duello per vendicare l’onore del suo, insultato dai parenti di un allievo schiaffeggiato. Questo evento che avrebbe potuto comportare tragiche conseguenze apre, invece, al ragazzo la via verso la tanto agognata libertà che, per lui, coincide innanzitutto con l’allontanamento dalla soffocante atmosfera familiare e il ritorno a Parigi e al suo fervore rivoluzionario.
La lettura degli altri due volumi della trilogia offre un insuperabile affaccio non tanto sugli eventi che contrassegnarono la storia francese tra l’insurrezione del 1848 e quella del 1870, ma, piuttosto, sullo spirito di un’epoca, afferrato dal punto di vista di un uomo di parte e che rivendica con forza e orgoglio questa parzialità. Il bachelier (il diplomato, colui che ha superato il baccalauréat) si propone di diventare portavoce e portabandiera degli «insoumis», dei ribelli. Le vicende vissute dall’alter ego di Jules Vallès si dispongono in un quadro collettivo cui il protagonista presta la sua voce e il suo gesto. Rinchiudere questa trilogia nel genere autobiografico si rivela una forzatura, sia per l’assenza di un certo compiacimento non estraneo al genere, sia, soprattutto, per questa dimensione corale. Essa si sviluppa dalla narrazione stessa, dove episodi della vita dello scrittore si combinano e si amalgamano fino a diventare difficilmente distinguibili da quelli vissuti dai suoi amici e compagni di lotta. I loro ritratti assumono, sotto la penna incisiva di Vallès, una forza visiva che appoggia sulla concentrazione della frase e la capacità di cogliere i suoi soggetti in movimento.
È nell’azione che l’uomo trova e rivela la sua verità, sembra suggerire, e la sua scrittura, dal ritmo veloce, a tratti incalzante, ne sposa lo slancio e ne restituisce il dramma – nel pieno senso etimologico – con un’evidenza plastica. Briosne, oratore e membro della Comune, è «un Cristo strabico – con il cappello di Barabba! Ma per niente rassegnato, si strappa la lancia dal fianco, e si lacera le mani per spezzare le spine che restano sulla sua fronte di vecchio suppliziato di quei calvari che chiamano les Centrales [luoghi di detenzione; n.d.t.]. Condannato per società segreta a cinque anni, liberato qualche mese prima perché sputava sangue, rientrato senza un soldo a Parigi, senza avere potuto cicatrizzare i suoi polmoni, ma con la pelle dura della Rivoluzione! Voce penetrante che esce da un cuore martirizzato come da un violoncello incrinato; gesto tragico: il braccio teso come per un giuramento; scosso talora, dalla testa ai piedi, da un brivido di antica pitonessa; e i suoi occhi che sembrano buchi fatti con il coltello forano il soffitto fumoso dei club come un predicatore cristiano buca, con uno sguardo di estasi, la volta delle cattedrali per cercare il cielo».[4]
Voce e gesto conferiscono un’ intensa fisicità al ritratto, ma rischierebbero di restare nota di colore se non si inserissero in una fitta rete di richiami e corrispondenze che li collocano sulla scena di una storia più vasta, all’interno della quale – per analogie e scarti – il personaggio acquisisce la sua singolarità. Indimenticabile quello di Louis Blanqui che si fa incontro al lettore come un vecchietto non più alto di uno stivale, perso in abiti troppo grandi, con un naso spaccato nel mezzo e una bocca sdentata. Un vagabondo che sembra uscito dalle pagine di un romanzo picaro nasconde nelle pieghe della sua povertà la grandezza, la forza e l’intelligenza del rivoluzionario indomito che ha diviso la sua vita tra carcere (36 anni complessivamente!), cosprazioni e barricate. Questa complessità si rivela per pennelate successive, in un crescendo sapientemente orchestrato da una scrittura che, anche quando palpita di entusiasmo militante, non è mai ingenua e sa avvalersi di tutte le figure di stile faticosamente apprese sui banchi del collège. Il vecchietto male in arnese colpisce il lettore con pupille che «luccicano come schegge di carbone».
A differenza dei tribuni che trascinano le folle con la loro gestualità selvaggia e la loro prestanza animalesca, questo «freddo matematico della rivolta e delle rappresaglie sembra tenere fra le sue magre dita il preventivo dei dolori e dei diritti del popolo». Le sue parole non prendono il largo come uccelli al disopra di piazze che vogliono non pensare, ma farsi addormentare da una musica eloquente. «Le sue frasi sono come spade conficcate nella terra, frementi e vibranti sul loro stelo di acciaio. […] Lascia, con una voce serena, cadere parole taglienti che scavano scie di luce nel cervello degli abitanti dei sobborghi, e scie rosse nella carne Borghese». [5]
Ritratti individuali, di compagni con cui ha condiviso le ore febbrili della Comune, di direttori di giornali costretti a barcamenarsi fra il rispetto per la verità e il rispetto per il potere, di politici opportunisti e di intellettuali prudenti, ma anche ritratti collettivi. Il «nuovo Parlamento», eletto ai primi di settembre, dopo la capitolazione di Sedan, dalle venti circoscrizioni parigine (Vallès vi figurava in qualità di delegato del XIX arrondissement) si riunisce al terzo piano di una modesta casa in Place de la Corderie, in una sala grande e spoglia come un’aula, difesa da una porta che una spallata farebbe saltare. «È la Rivoluzione che siede su quei banchi, in piedi contro quei muri, appoggiata coi gomiti a quella tribuna: la rivoluzione in abiti da operaio!». Questo Comitato Centrale delle venti circoscrizioni della capitale tiene le sue riunioni nella sede dell’Internazionale e nella sala nuda risuonano discorsi che non hanno nulla da invidiare per la loro forza e capacità di mobilitazione a quelli degli antichi fori o a quelli della Rivoluzione dell’89. Dopo avere suggerito una possibile collocazione in una tradizione democratica che affonda le sue radici nell’antichità, è l’elemento di frattura che al narratore preme sottolineare: «I gesti non sono terribili come quelli che si facevano allora, e non si intende vibrare in un angolo il tamburo di Santerre. Non c’è nemmeno il mistero delle cospirazioni, dove si giura con una benda sugli occhi e sotto la punta di un pugnale. È il lavoro in maniche di camicia, semplice e forte».[6] Semplicità e forza che sembrano essere il tratto caratteristico di questi uomini gettatisi in un’impresa disperata che solo la loro straordinaria generosità e capacità di sperare l’impossibile sorregge. Sono, per dirla con Vingtras-Vallès, ottanta poveracci (ogni arrondissement è rapprresentato da quattro delegati eletti in assemblea) scesi da ottanta tuguri, pronti a parlare e agire – colpire, se occorre – in nome di tutte le strade di Parigi, solidali nella miseria e nella lotta. Sono tipografi, rilegatori, imbianchini, sarti, lavoratori a giornata, operai, portinai, un popolo diverso per mestieri e per appartenenze politiche: anarchici, socialisti, internazionalisti, giacobini, blanquisti e proudhoniani… Rifiutano l’occupazione prussiana e le trattative con Bismarck condotte dal governo di Difesa nazionale rifugiatosi a Versailles; quando le truppe tedesche il 1°marzo 1871 entrano a Parigi, Le Cri du peuple diretto da Vallès è il solo giornale ad uscire con la prima pagina listata a lutto. Proclamano, nella capitale assediata dai Prussiani e dai Versagliesi, un governo “federale” del popolo di Parigi e per il popolo di Parigi, scatenando il panico fra i possidenti. Della difesa della Francia invasa e della giustizia sociale fanno una sola battaglia, armati più di coraggio e di fede che di munizioni. Di fronte al tradimento dei generali, sconfitti vergognosamente al fronte e dei politici pronti a mercanteggiare la pace, si assumono con determinazione e semplicità un compito storico, al quale sacrificheranno tutto il poco che possiedono, gli affetti e la vita. «Sotto la pioggia, si aggirano alcuni refrattari come me ed alcuni artigiani come i compagni, si cercano, e parlano della patria sociale, che sola può salvare la patria classica».[7] Era il 5 settembre: l’esperimento sociale e politico della Comune si consumerà nel giro di nove mesi nei quali l’ordinaria misura del tempo non trova posto: troppo veloce perché la Rivoluzione partorisca un nuovo ordine, troppo lento di fronte ai pericoli mortali che lo minacciano dall’esterno e alle contraddizioni che lo minano dall’interno. La scrittura di Vallès vive questa lacerazione: i trentacinque capitoli che compongono L’insurgé segnano un tempo diseguale, soggetto a brusche accelerazioni e a dense dilatazioni. Il tempo oggettivo si trova incalzato e sconvolto dall’urgenza dell’immediato, gli eventi si dipanano dall’angolo visuale del narratore e dei suoi compagni nel presente stesso del loro farsi. Alla «semaine sanglante» (la settimana di sangue) che vide precipitare la situazione in un susseguirsi di disperati tentativi di difesa contro le incursioni dei Versagliesi, fino alla definitiva sconfitta del 28 marzo e al massacro che ne seguì, è dedicato uno spazio di gran lunga maggiore di quello riservato agli eventi che l’hanno preceduta. L’insorto è tale prima ancora di salire sulle barricate, in quegli ultimi anni dell’impero che occupano i primi capitoli del libro e che seguono le alterne vicende di uno scrittore – Jacques Vingtras – il quale, al successo cui potrebbe destinarlo il suo riconosciuto talento, preferisce quella fedeltà alle sue idee e alla sua gente che lo condanneranno ad una povertà e ad una marginalità sociale che nulla hanno a che spartire con una oleografica rappresentazione della vita di bohème.
Non storia della Comune, né cronaca giornalistica e nemmeno autobiografia o diario o romanzo storico o memorie, L’insurgé è il racconto di un’avventura umana colta nel momento del suo farsi storia collettiva. Pur restituendo la verità profonda di un evento e di un clima intellettuale e politico, non è un racconto che si possa inserire a pieno titolo nella grande corrente del realismo ottocentesco (né, tantomemo, della sua variante naturalistica) che, in terra di Francia, ha dato superbi risultati. I personaggi, a partire dall’alter ego di Jules Vallès, sono offerti al lettore non nello svolgimento di un’esistenza, ma nel momento culminante di essa, quando sono confrontati ad eventi, che hanno contribuito peraltro a fare maturare, che richiedono una scelta decisiva. È il momento della crisi, ove tutta una vita si riassume e si risolve nel magma incandescente dell’azione, che il narratore mette in scena con una puntualità e un’efficacia drammatica che avrebbero meritato maggiore attenzione da parte della critica letteraria. È una soluzione narrativa originale che non ha molti altri riscontri in una letteratura di pur straordinaria levatura quale la francese.
Bisognerà attendere gli anni Trenta del Novecento, perché André Malraux, con L’espoir, opera nata nella temperie di un’altra guerra civile – quella spagnola –, intraprenda un percorso per certi versi analogo.
Con una grande differenza, non riconducibile solo ad una questione di tecnica narrativa: mentre Malraux moltiplica i punti di vista, Vallès li riduce ad uno solo, quello dell’insorto Vingtras, nel quale riecheggiano e si fondono le voci degli insoumis in un sentimento totale di fraternità che le divergenze politiche e le accese discussioni non possono incrinare. E talmente indiscussa è questa fraternità, che non c’è motivo di nascondere i contrasti in seno alla Comune, dissidi che videro Vingtras-Vallès battersi contro esecuzioni giudicate non necessarie, contro la soppressione di testate avverse o contro il progetto di incendiare il Panthéon, in un disperato tentativo di difesa, quando tutto era ormai perduto. Il pathos eroicizzante, che avrebbe rischiato di svuotare il racconto di umana verità, si trova ad essere sorvegliato e rintuzzato dall’incontro fra uno stile che adotta scientemente l’ironia e la vivacità del tratto come antidoto ed una limpida onestà intellettuale che, forte delle sue convinzioni, non tralascia di dare conto degli errori commessi dai Comunardi o della loro impreparazione ed improvvisazione. Valga per tutte la galleria dei ministri del governo uscito dalle elezioni del 26 marzo 1871 il quale, oltre a coordinare la difesa della città sottoposta al duplice assedio dei Prussiani e dell’Assemblea nazionale rifugiatasi a Versailles, mise a punto alcune coraggiose misure sociali che non ebbe il tempo di realizzare. «Chi occupa i posti importanti? Nessuno che sia conosciuto. Questo o quello, preso a caso nel Comitato centrale. Non c’è stato il tempo di scegliere, nello scompiglio del combattimento». E a Vingtras che si informa di chi è agli Interni, uno dei capi dell’insurrezione risponde di non saperne niente e di andare a dare un’occhiata e che ci resti lui, se non c’è nessuno, oppure che si fermi a dare una mano se i compagni sono nei pasticci. Il ministro c’è e si chiama Grêlier, un maître à lavoir [artigiano od operaio incaricato della manutenzione di un lavatoio pubblico; n.d.t.], un ragazzo coraggioso che ha preso parte all’insurrezione del 31 ottobre 1870 contro il governo di difesa nazionale e che, nelle sue nuove funzioni, sta organizzando «un’insurrezione terribile contro la grammatica. Il suo stile, il raddoppio delle consonanti, il disprezzo dei participi e del loro concubinaggio, i colpi di penna sulla coda dei plurali gli hanno valso un reggimento e un cannone».[8] D’altronde, Grêlier non vede l’ora di essere sostituito, spera nell’arrivo di Vaillant (ingegnere, medico e filosofo, vicino a Blanqui e membro dell’Internazionale), perché essere ministro è una gran seccatura . All’istruzione è finito Rouiller, calzolaio e filosofo autodidatta che ha coniato per sé il motto «Calzo la gente e scalzo il selciato». Le sue idee si sono formate mentre era chino sul tavolo di lavoro e quando parla in tribuna «sa fare brillare e inarcare la sua frase come la tomaia di una scarpa, affilando la sua battuta come la punta di uno stivaletto o affondando i suoi argomenti come chiodi attraverso i tacchi di rinforzo! […] Tribuno da osteria, curioso per il suo spirito beffardo e le sue collere, maniaco della contraddizione, eloquente al caffé e al club, sempre pronto farsi una bevuta e a difendere tutte le libertà … quella dell’ubriachezza come le altre!». Questo Gavroche quarantenne non manca di saggezza, sa che la partita è disperata, ma ha intuito tutta l’importanza – storica – di questo tentativo. Nel corso di un’accesa discussione sul destino della Comune, lui sbotta: «E che importa? Siamo in rivoluzione e ci restiamo … fino a che qualcosa cambi! Si tratta solo di avere il tempo di mostrare ciò che volevamo, se non si può fare ciò che si vuole!».[9] Il tempo, come è noto, non ci fu, ma nella Comune si riconobbero i rivoluzionari delle generazioni successive, fino alla leggenda di Lenin che improvvisa un passo di danza sulla neve il giorno in cui la neonata rivoluzione bolscevica supera la breve durata del primo governo socialista della storia.
L’ironia finisce per essere la forma pudica in cui si esprime l’omaggio verso questi uomini, un contrappunto indispensabile alla serietà estrema del loro tentativo. Una serietà che affiora appena in certe rapide battute, folgoranti per densità e profondità, un concentrato della storia che gli uomini della Comune stanno scrivendo. È l’ultima settimana, sono stati arrestati dei sospetti, forse delle spie; uno di questi, per scagionarsi e farla franca assicura di non essersi mai occupato di politica. «È per questo che ti uccido», gli risponde un combattente che è appena stato ferito.[10] E continua: «La gente che non si occupa di politica! … ma sono i più vili e i più furfanti! Aspettano, quelli, per sapere su chi sbaveranno o chi leccheranno, dopo la macelleria!».
Maggio sta finendo, il tempo è bello, i pergolati delle viti sfiorano i muri delle barricate, i vasi di fiori fanno da corona alla sommità delle barriere difensive. La Senna scorre scintillante e azzurra, il lungofiume è deserto, ma a pochi passi da questo scenario campestre un manipolo di uomini organizza l’ultima resistenza. Sanno che molti quartieri sono ormai persi, ma hanno deciso di battersi fino alla fine: «“Forse, quiavremo più fortuna … E poi, tanto peggio!… Faremo ciò che bisognerà, ecco tutto!” E le sentinelle si rimettono a sedere, con l’aria di contadini che si riposano verso mezzogiorno e ai quali hanno portato la zuppa nei campi».[11] Quel “voilà tout” contiene il loro destino, la solennità del momento non ha bisogno di proclami o di testamenti, le scelte di questi uomini parlano per loro. E Vingtras-Vallès ha legato il suo destino a quello dei compagni, malgrado la sua netta presa di distanza di fronte alle fucilazioni di certi ostaggi nella ridda di ordini e contrordini della “settimana di sangue”, e non vuole seppellirli sotto il peso della retorica, né vuole finirne schiacciato lui stesso: «Resto con quelli che sparano e che saranno fucilati».[12]
Malgrado il carattere frammentario della sua scrittura, la presenza di Jules Vallès è posta sotto il segno di una duplice unità: quella tra opera e vita (ciò che contribuisce a renderlo sospetto in epoca di minimalismo trionfante) e quella riscontrabile tra i suoi diversi romanzi. Una continuità che non è tanto di ordine cronologico, quanto tematico e che è affidata in maniera trasparente alle tre dediche. Da L’enfant («A tutti quelli che creparono di noia a scuola o che fecero piangere in famiglia, a quelli che, durante la loro infanzia, furono tiranneggiati dai maestri o battuti dai genitori, dedico questo libro»), a Le bachelier («A quelli che, nutriti di greco e di latino, sono morti di fame, dedico questo libro»), fino a L’insurgé (cfr. sopra) un solo libro prende corpo: quello della storia di un’oppressione che si trasforma in rivolta cosciente.
Un libro che, come quello scritto da Vingtras nelle prime pagine de L’insurgé – quando la Comune era solo nella mente di qualche utopista e il narratore cercava disperatamente un editore disposto a pubblicare il suo romanzo – ride e piange come un bimbo appena nato e, muovendo i primi passi nel mondo, incontra «le strette di mano degli ignorati e degli sconosciuti, dei coscritti impauriti o dei vinti sanguinanti»[13] e riconosce in essi la sua famiglia di elezione, capace di dargli quell’amore negatogli nell’infanzia solitaria e nell’inquieta giovinezza. Così, L’insorto diventa il libro di un ri-sorgere alla vita.
Fernanza Mazzoli
Commune de Paris.
Note
[1] Jules Vallès, L’insurgé, Librairie générale française, Paris, 1986, p. 68. Le traduzioni di tutti i testi citati sono della scrivente.
[2] Jules Vallès, L’enfant (1878), Le Bachelier (1881), L’insurgé (1886).
[3] Jules Vallès, L’enfant, L’école des loisirs, Paris, 2013, p. 208.
[10]Ivi, p. 317. L’improvvisato tribunale rivoluzionario deciderà, tuttavia, di non poterlo giustiziare senza prove e lo condurrà al Comitato di Salut public.
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Caricatura firmata André Gill che ritrae il suo amico Jules Vallès
Durante la Comune fecero la loro comparsa innumerevoli pubblicazioni. Tra i giornali più diffusi vanno ricordati: Le Cri du Peuple (con una tiratura di 100 mila copie), Le Mot d’ordre, La Montagne, Le Pére Duchesne, Le Vengeur et la Commune, Le Combat, L’Action, L’Ami du Peuple, Le Tribun de Peuple, La Commune, L’Estafatte, Paris Libre, La Caricature Politique, Le salut public,La Sociale, ecc. In tale periodo assunse grande importanza la caricatura politica come forma di comunicazione e propaganda. «La caricatura non uccide – come ha scritto Jules Vallés –, ma è uno strumento che agisce a due livelli, il livello iconografico e quello verbale, unisce l’evidenza e la comunicazione diretta del disegno, della figura, immediatamente leggibile – e leggibile a tutti! – al testo scritto, alla didascalia, che attraverso il tono epigrammatico, colpisce diritto il bersaglio».
Il combinato disposto di analfabetismo politico ed atrofia etica corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva
di Fernanda Mazzoli
In uno degli ultimi giorni della Comune, un insorto replicò ad un tale il quale, arrestato come sospetta spia dei Versagliesi, rivendicava la propria innocenza e totale estraneità ai fatti, ricorrendo all’argomento che mai si era interessato di politica, che proprio per questo lo uccideva. Ed aggiungeva, dopo che il presunto traditore gli era stato tolto dalle mani per essere ascoltato dal Comitato di salute Pubblica:
«La gente che non si occupa di politica!…: Ma sono i più vigliacchi e ipiù furfanti! Aspettano, ‘sti tipi, per sapere su chi sbaveranno o chi leccheranno dopo il massacro!».[1]
Le parole dell’ignoto combattente delle barricate di Montmartre, che odiava gli indifferenti mezzo secolo prima di Gramsci, accompagnano da qualche tempo le mie giornate come un ritornello sconsolato o un commento tanto risolutivo quanto laconico all’attuale stato delle cose. E non perché io abbia intenzione di ammazzare qualcuno, ma per la loro capacità di individuare e considerare con lucidità quella zona grigia che rende possibile, con la sua indifferenza più o meno compiaciuta ed il ripiegamento sul particulare, il perpetrarsi di violenze ed ingiustizie, sino al massacro che, ai giorni nostri, per il momento prende il volto della messa al bando dalla società.
Quello che sta avvenendo da mesi nel nostro Paese ai danni di una considerevole minoranza di cittadini vittime di provvedimenti punitivi centrati sull’espulsione dal lavoro e misure di apartheid, preceduti e sostenuti da una criminalizzazione morale senza precedenti, non avrebbe potuto realizzarsi se milioni di altri cittadini non avessero voltato lo sguardo dall’altra parte, se non avessero nascosto la testa sotto le tonnellate di paura sparse a piene mani dal potere politico e dai suoi cani da guardia mediatici.
La strumentale divisione delle persone tra sì vax e no vax, funzionale ad uno dei principi cardine delle strategie di dominio, il divide et impera, spostando artatamente il baricentro della questione sui vaccini, ha efficacemente contribuito ad occultare la natura politica delle decisioni prese: una grande rimozione, resa possibile da decenni di abulia civile, a vantaggio dell’adesione, ora entusiastica, ora rassegnata, alla grande abbuffata consumistica in cui ciascuno, ivi compresi i detrattori, si è ingegnato a ritagliarsi un posto, a seconda delle possibilità e delle inclinazioni.
Una volta rimosso, del binomio politiche sanitarie, il primo termine, ciò che resta si presta al riduzionismo più facile e di maggior effetto, ad una nuova declinazione del paradigma salutista – la difesa della nuda vita dai molteplici attacchi che possono minacciarla – particolarmente sensibile a tutte le torsioni securitarie, da sempre fertile humus per le svolte autoritarie.
L’indifferenza, che già forniva la necessaria protezione nella lotta darwiniana per la sopravvivenza o, nei casi più riusciti, per il successo nella società del neoliberismo rampante ha generato altra indifferenza per tutto ciò che non fosse la salvaguardia dal virus che la perdita di qualsiasi senso storico, di qualsiasi concreta contestualizzazione nel più vasto quadro in cui la pandemia si è dispiegata ha promosso a male assoluto, per difendersi dal quale non resta che l’obbedienza alle superiori disposizioni dei governanti e degli esperti a loro allineati.
E così, chi non si è arruolato in questa guerra, chi ha mostrato qualche esitazione o palesato qualche dubbio è incorso in un’esclusione brutale, in un ostracismo sociale impensabile in un Paese che vanta crediti di democrazia e modernità. Molti nostri connazionali, al riparo della loro indifferenza per la politica e tutti assorbiti dalla preoccupazione di saltare fuori il prima possibile e con il minor danno possibile da una situazione che la propaganda di regime ha costruito come apocalittica, con il loro silenzio, quando non approvazione, hanno aperto la strada alla carneficina sociale e psicologica che si sta consumando oggi. Il limbo degli ignavi è l’anticamera dell’inferno dove vengono spediti coloro che i primi hanno ignorato o dimenticato.
Se i presidi si fossero rifiutati di sospendere dal lavoro e dallo stipendio migliaia di lavoratori della scuola, se gli insegnanti avessero inondato i Collegi docenti, la stampa, il Ministero di mozioni di protesta contro l’allontanamento dei loro colleghi, se i negozianti e i ristoratori, o gli impiegati di servizi essenziali si rifiutassero di chiedere il greenpass, se i conducenti dei mezzi pubblici ricusassero di controllare il lasciapassare, se, in breve, si sviluppasse una diffusa campagna di disobbedienza civile, capace di coinvolgere ampi strati di popolazione, le misure coercitive del governo inciamperebbero nello scoglio della loro realizzazione e finirebbero per diventare lettera morta e/o per essere messe in discussione fino al loro ritiro.
Questo non è avvenuto: la maggioranza ha accettato senza fiatare l’emarginazione di milioni di concittadini, i quali, prima ancora di rifiutare un siero sperimentale, rifiutano di accettare l’inedito ricatto che si avvale della sola terapia anti Covid ammessa per introdurre una nuova e pericolosa forma di cittadinanza condizionata e limitata.
Ed è sempre la dimensione politica ad essere in gioco e sono sempre l’indifferenza o l’ignoranza nei suoi confronti a regolare la partita: non si tratta, infatti, di condividere nel merito le ragioni di chi non si è vaccinato, ma di allargare la propria visione delle cose al di là del meschino recinto eretto dalle veline di regime sul terreno delle paure irrazionali per collocare le decisioni governative nell’ambito più vasto di una società che, sull’onda della pandemia, sembra pronta a rinunciare alle libertà costituzionali e al diritto al lavoro, a quanto, cioè, era stato conquistato in due secoli di lotte sul terreno e di battaglie culturali.
Essere vaccinati non significa necessariamente approvare il greenpass e negare a chi ha fatto una scelta sanitaria diversa l’esercizio di diritti civili e sociali primari, come hanno sottolineato a più riprese i portuali triestini, incapaci di accettare che i loro colleghi non vaccinati, e con i quali avevano costruito insieme una trama significativa di relazioni interpersonali, subissero discriminazioni. E non solo per elementare, ma basilare solidarietà umana, ma anche perché i diritti negati oggi agli uni, potrebbero essere domani rifiutati, per ragioni diverse, agli altri.
Invece, apatia ed insensibilità si trincerano nell’orticello del presente, cercando di strapparne qualche frutto avvizzito che, in epoche tribolate come la nostra, può dare l’illusione di avercela comunque fatta. E peggio per chi è restato fuori, avrebbe potuto obbedire invece di opporre sfida o diniego laddove i più hanno seguito la corrente, con minore o maggiore convinzione, ma con la comune voglia di lasciarsi trasportare e chiudere gli occhi per non vedere chi veniva travolto, fosse anche un familiare, o un amico di vecchia data, o un collega di lavoro.
I vincoli comunitari si sono terribilmente allentati e l’intera società è divenuta più fragile, più disperata e più smarrita, banco di prova perfetto per esperimenti di ingegneria sociale atti a traghettare i popoli verso nuove forme di vita, di lavoro, di produzione, di consumo, di cittadinanza, maggiormente funzionali alla distruzione creatrice con la quale il capitale rinnova se stesso.
Analfabetismo politico ed atrofia etica vanno di pari passo, mentre il loro combinato disposto corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva; se a ciò si aggiunge il ben noto conformismo italico, maturato, collaudato ed assimilato nel corso di secoli di storia, il nostro presente assomiglia sempre di più ad un incubo che proietta la sua ombra nera anche sul nostro futuro. C’è da temere che lo sfregio operato sul corpo di un intero Paese (perché è la totalità ad essere lacerata, quando una delle sue parti è così duramente colpita) sia una ferita che continuerà a sanguinare a lungo, dalla cui suppurazione prolifereranno altre cancrene. E l’incubo, tanto per non farci mancare nulla, esibisce i caratteri della distopia, in quanto la bacchetta magica dell’ideologia generosamente dispensata dal governo e distillata giornalmente dai media ha provato a rivestire la vecchia, opportunistica, timorosa, interessata indifferenza delle vesti pulite e ammodo della responsabilità, della subordinazione all’interesse generale, del sacrificio per il Bene comune.
Ma questa è un’altra storia, ancora più inquietante ed ancora più densa di moniti e di riflessioni.
Fernanda Mazzoli
[1]L’episodio è riportato da Jules Vallès nel suo testo largamente autobiografico, L’insurgé. La citazione è presa dalla traduzione italiana, L’insorto, Petite Plaisance, Pistoia, 2019, p. 281.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Nell’immagine in evidenza, a sn.: Rilievo in scisto raffigurante il Buddha, il Vajrapani e alcuni monaci, proveniente da Butkara I (Pakistan) e conservato presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma.
«Non fare ciò che è male / fare ciò che è bene / purificare la propria mente: / questo è l’insegnamento del Buddha», si legge nel Dhammapada, uno dei più influenti testi buddhisti. Studiando i testi del Canone del Buddhismo Theravāda, Antonio Vigilante offre in questo saggio una interpretazione dell’etica buddhista quale etica transpersonale, tesa al superamento del soggetto attraversi tre momenti. Il primo è il passaggio da un sé disperso nella molteplicità dei suoi desideri ad un sé solido e centrato, grazie alla meditazione e ad altre pratiche disciplinari che hanno molte affinità con le tecniche filosofiche greche, in particolare dello Stoicismo. Il secondo è l’apertura di questo sé grazie alle dimore divine, i quattro valori fondamentali del Buddhismo: la benevolenza, la compassione, la gioia partecipe e l’equanimità. Il terzo momento, quello del Risveglio, è l’abbandono del sé e, con esso, della stessa etica, con la sua distinzione tra bene e male. Solo quando il superamento del soggetto è completo l’etica si realizza pienamente e al tempo stesso si estingue, poiché trasceso l’io è spenta la possibilità stessa del male. Centrata sulla negazione della sostanza, l’irrilevanza dell’esistenza del Divino e l’insussistenza del soggetto, la visione del mondo buddhista nega i fondamenti stessi della civiltà occidentale. Ma questi fondamenti, osserva Vigilante, sono venuti consumandosi nel pensiero contemporaneo, da Nietzsche a Sartre, per cui l’etica buddhista sembra indicare oggi una via percorribile da un Occidente in crisi.
Antonio Vigilante vive a Siena. Si occupa di teoria della nonviolenza, pedagogia, filosofia morale e interculturale. Tra i suoi libri: Il Dio di Gandhi (2009), La pedagogia di Gandhi (2010), Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci (2012), L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (2014), A scuola con la mindfulness (2017), La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha (2019). Con Petite Plaisance ha pubblicato: Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore (2018) e L’essere e il tu. Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin (2019).
Indice
Introduzione Nota Abbreviazioni
Il Dhamma del Buddha La via della conoscenza Filosofia e religione Un misticismo ateistico La zattera Il Buddha e la tradizione indiana Śramaṇa Nobili verità La genesi interdipendente L’azione Il nibbāna Razionale e irrazionale
Il sé disperso e il sé dimora La psicologia buddhista I pezzi del carro La nausea La possibilità della gioia L’indicibile Inquinanti
Tecnologie del non sé La cura di sé Enkrateia Il Sāṃkhya Lo Yoga Una pratica di immersione Samatha e vipassanā Lo sforzo Jhāna Lo sguardo profondo Sentieri che si intersecano
Una casa sicura La felicità più alta Dal quotidiano al sublime Etica domestica Non uccidere Non rubare La condotta sessuale Etica della parola Non assumere sostanze inebrianti La via verso il riconoscimento Pacificare le relazioni Genitori e figli Maestri e discepoli Etica coniugale L’amicizia Servi ed operai Asceti e brahmani Essere inclusivi Un’etica concreta Etica e politica
La fortezza dei saggi La via del bhikkhu Lo sciocco e il saggio Artigiani di sé L’amicizia spirituale Dimore stabili Le colpe più gravi
Le colpe meno gravi
L’apertura
Il dimorare divino La benevolenza Controvento Il dolore, la gioia, il distacco Porte aperte sul Risveglio Al di là dei segni Il sé dono Oltre il bene e il male L’abbandono e l’insegnamento
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