Salvatore Bravo – «Indonesia 1965». Il capitalismo genocidiario oggi si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica

Salvatore Bravo

Il capitalismo genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo.

Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica.

 

Capitalismo genocidiario

Il capitalismo non è mai sufficientemente compreso nelle sue dinamiche distruttive e negatrici della natura umana e della vita. La sua azione globale non può che incontrarsi e scontrarsi con i limiti delle conoscenze personali e, specialmente, con le censure dirette e indirette a cui siamo sottoposti. Riorientarsi in una realtà organizzata secondo la forma del capitale mediante il “velo dell’ignoranza” è operazione non semplice. Se ci poniamo nell’ottica del cittadino medio e delle nuove generazioni possiamo ben comprendere quanto “il capitalismo dello spettacolo” riduca il pianeta ad uno strumento da usare e da consumare: in tal modo la vita dei popoli e la storia del capitalismo sono obliati. Il capitalismo senza la mediazione umana della storia può continuare la sua corsa nelle comunità e negli individui; può continuare a bruciare vite e popoli e a percepirsi come “assoluto”.

Il capitalismo si autopresenta come “assoluto” e costruisce di sé una immagine ipostatizzata, in quanto coltiva l’ignoranza di sé. Le esistenze organizzate in stile “reality” consentono ai crimini del passato e del presente di perpetuarsi. Il capitalismo dello sfruttamento e genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Anche il linguaggio è divenuto finzione filmica, non a caso la parola “capitalismo” è stata abilmente sostituita con le espressioni “liberale e liberista”, le quali ammiccano alla libertà. Si ha l’impressione di essere dalla parte giusta, e di vivere nella libertà: naturalmente la libertà “capitalistica” deve essere intesa come la possibilità di affermare il proprio “io” usando il mondo e riducendo ogni incontro a mezzo per accrescere l’ego-idolatria. La storia del capitalismo riportato alla sua verità storica e ai suoi crimini è paideutica per accrescere qualitativamente la crescita umana e politica delle soggettività e delle comunità.

 

Il genocidio dei comunisti in Indonesia

Il genocidio dei comunisti in Indonesia, sconosciuto a molti e mai presente nelle “cronache liberali”, dimostra quanto il sistema liberale agisca per manipolazione e censure in modo da impedire la coscienza collettiva sulla realtà sociale ed economica in cui viviamo. Lo sterminio del PKI, del partito comunista indonesiano, oggi è genocidio non riconosciuto, al punto che la ricerca storica è ancora agli albori. Il numero di questo genocidio comunista oscilla tra i 500.000 e i 3.000.000 di morti. Tra gli assassinati non pochi furono gli esponenti di minoranze etniche, tra cui i cinesi, con cui l’Indonesia riformista intratteneva ottimi rapporti.

Gli assassini sono rimasti “stranamente” impuniti e sul tragico destino di tante vittime è sceso il silenzio della storia e dei media. Se si utilizza wikipedia si può leggere quanto segue alla voce “Responsabili” di questo genocidio:

“Esercito indonesiano e squadroni della morte, aiutati e incoraggiati dagli Stati Uniti d’America e da altri governi occidentali”.

 

Nuovo Ordine capitalistico

Le informazioni sono poca cosa, se non sono sostenute dalla coscienza politica ed etica. Il nostro tempo è caratterizzato dal velo dell’ignoranza nella forma dell’indifferenza e del narcisismo dello spettacolo che non incoraggia la ricerca e la formazione. Le informazioni essenziali non si trasformano in ricerca storica, non riescono a collocarsi a distanza collettiva razionale ed empatica dalla “verità” del “sistema liberale”, in quanto il capitalismo coltiva l’ignoranza politica e storica e insegna che la rete informatica è solo un mezzo per il libero scambio.

Il genocidio si consumò tra il 1965 e il 1966 prima che fosse attuata la riforma agraria già avviata dal Presidente riformista Sukarno. In realtà le immense ricchezze minerarie dell’Indonesia e la posizione strategica dell’isola furono la causa del sostegno della CIA e di altri stati europei, tra cui l’Olanda, all’eliminazione del PKI. Il Presidente degli Stati Uniti Nixon affermò:

«Con il suo patrimonio di risorse naturali, il più ricco della regione, l’Indonesia è il tesoro più grande del Sud-est asiatico[1]» .

L’Indonesia era, dunque ad un bivio, Sukarno fu rovesciato da Suharto sostenuto dalle potenze occidentali; iniziò per l’Indonesia l’epoca del genocidio e dell’eliminazione dell’opposizione politica:

«Nel 1965 l’Indonesia era a un bivio. La Guerra Fredda era al culmine nel Sud-Est asiatico e sembrava essere solo questione di tempo prima che il PKI, il più grande partito comunista del mondo al di fuori dell’URSS e della Cina comunista, salisse al potere. L’esercito indonesiano – una forza armata altamente politicizzata che aveva costituito parte integrante della vita politica indonesiana sin dalla rivoluzione nazionale indonesiana – era, tuttavia, determinato a fermare l’ascesa del PKI e a porre lo stato indonesiano sotto la propria direzione. Dall’inizio degli anni ’60 la leadership militare indonesiana cominciò a fare piani specifici per “riorientare” lo stato indonesiano[2]».

Il governo Suharto non aveva i mezzi per operare il genocidio in tempi brevissimi e instaurare il Nuovo Ordine con cui riorientare il popolo indonesiano verso il nuovo corso della storia, per cui le potenze occidentali organizzarono e diedero i mezzi per procedere all’eliminazione di uno dei più grandi partiti comunisti del mondo (il terzo al mondo). Con il riorientamento del Nuovo Ordine le potenze europee rientravano nel mercato indonesiano e, in cambio, appoggiarono le oligarchie indonesiane:

«Il genocidio indonesiano ha avuto luogo nel contesto della presa di potere militare dello stato indonesiano da parte del maggiore generale Suharto. Il risultato fu un completo riorientamento della società indonesiana e l’ascesa di un regime dominato dai militari autodefinito Nuovo Ordine. La leadership anticomunista dell’esercito fu assistita durante il genocidio da sostenitori occidentali con armi ed equipaggiamenti, e incoraggiata attraverso la comunicazione diretta e l’assistenza con la propaganda, soprattutto da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, a effettuare un’epurazione approfondita delle forze armate. gruppi di sinistra nella società (Simpson,2008). Studi recenti hanno evidenziato anche la complicità o l’indifferenza dei governi europee dell’Unione Sovietica all’attacco al PKI e ai suoi affiliati in Indonesia, dovuto in gran parte alla decisione del partito di schierarsi con la Cina comunista (vedi Schaefer & Wardaya, 2013). Il nuovo regime guidato dai militari fu accolto sulla scena politica dai paesi occidentali e presto iniziarono i negoziati tra i leader di questi paesi e i nuovi leader militari e tecnocrati dell’Indonesia per ripristinare l’accesso straniero ai mercati indonesiani (Simpson, 2008)[3]».

 

Genocidio o Strage?

Il genocidio indonesiano è stato declassato a strage dalla giurisprudenza occidentale, in quanto per “genocidio” si intende la formula adottata del 1948 dall’ONU che esclude l’eliminazione totale di un gruppo politico avversario. La conseguenza della formula ristretta di genocidio alla sola eliminazione etnica consente, allora come oggi, di procedere alla eliminazione totale di un gruppo politico avversario e non incorrere nel crimine genocidiario, il quale ha una attenzione mediatica e giurisprudenziale maggiore rispetto alle stragi di massa; inoltre ha una serie di implicazioni legate ai risarcimenti per i sopravvissuti e per i discendenti:

«Quando si considera la violenza di massa che si diffuse in tutta l’Indonesia alla fine del 1965, c’è in gioco una questione polemica fondamentale, definitiva e concettuale.1 Questa questione si riferisce all’identità del gruppo target che fu sradicato in Indonesia. È stato spesso sostenuto che le vittime degli omicidi furono prese di mira principalmente in termini di affiliazione reale o percepita con il PKI o con una delle sue numerose organizzazioni associate (vedi Capitolo 1 di questo volume). Come in molti di questi dibattiti concettuali nel campo degli studi comparativi sul genocidio, la questione se un gruppo di vittime definito dalla loro affiliazione socio-politica di per sé possa essere vittima di genocidio deriva direttamente dalla definizione giuridica di genocidio contenuta nella Convenzione sul genocidio. il crimine. Come recita l’Articolo II della Convenzione, “per genocidio si intende [una serie di] atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico [sic], razziale o religioso, in quanto tale” (Convenzione sulla prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio, 9 dicembre 1948, 78 UNTS a 280, Articolo II). Questa definizione esclude implicitamente i gruppi politici dalla tutela prevista dalla Convenzione. Tuttavia, come verrà discusso più avanti, il rifiuto automatico degli omicidi del 1965-1966 come caso il genocidio su questa base è prematuro[4]».

Il genocidio di un gruppo etnico o politico ha lo scopo di rinnovare completamente uno Stato. Il genocidio sperimenta la possibilità di un Nuovo Ordine, trasforma la nazione in un immenso laboratorio. Distruggere un gruppo umano è il mezzo mediante il quale trasformare la totalità. Si cancella la presenza di una prospettiva politica e culturale per realizzare una palingenesi criminale e assoluta. Cancellare la presenza culturale o fisica è modalità efficace ed efficiente per ottenere un “nuovo prodotto sociale”. La tecnocrazia capitalistica può essere applicata in larga scala o in modo ridotto, ma ha sempre la finalità di “riorientare” eliminando culture e politiche. Mutilare per rinnovare e sterilizzare culturalmente, e non solo: conservare e preservare gli interessi delle oligarchie è lo scopo finale. Il caso indonesiano rientra all’interno della “distruzione creativa”, nella quale l’altro è negato nella sua verità di soggetto umano:

«Nel caso indonesiano, sulla scia della propaganda disumanizzante dell’esercito in cui i sostenitori comunisti venivano descritti come nemici pericolosi e infidi, la violenza ha funzionato sia per classificare questi pericolosi nemici interni sia per rendere necessario lo sradicamento del PKI, riformando quindi la politica sociale indonesiana (vedere il capitolo 1, questo volume; Pohlman, 2012). Una serie di studiosi ha evidenziato questa funzione trasformativa del genocidio indonesiano, mostrando come non solo il sistema politico indonesiano ma anche il suo fondamentale panorama sociale, culturale e religioso siano stati cambiati per sempre dalla violenza (ad esempio, Dwyer & Santikarma, 2003; Hearman, questo volume; Ida Bagus, 2012). Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73). la società viene rifatta di nuovo (vedi, ad esempio, Appadurai, 1998; Dunn, 2009; Mamdani, 2001). Per Feierstein, questa concettualizzazione del genocidio come processo socialmente creativo lo porta a rivalutare il modo in cui comprendiamo la distruzione di un gruppo “nazionale”, il che a sua volta porta al nostro terzo argomento in questo capitolo. In sostanza, riconsidera cosa si intendesse con il termine gruppo “nazionale” ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione sul Genocidio nella sua analisi della repressione contro la sinistra politica in Argentina sotto la giunta militare. Feierstein sostiene la comprensione del genocidio come “essenzialmente una distruzione parziale del gruppo nazionale dei perpetratori – una distruzione intesa a trasformare i sopravvissuti attraverso l’annientamento delle vittime” (2013, p. 68). Il caso argentino, come egli sostiene, in cui lo sterminio di un gruppo politico era parte di un gruppo nazionale (la sinistra nel gruppo nazionale argentino) evidenzia come il genocidio non sia tanto il risultato di scontri tra gruppi (es. Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73)[5]».

 

Smembrare i corpi per cancellare

La cancellazione fisica deve condurre a cancellare dalla memoria “l’esperienza comunista”. Una delle peculiarità del genocidio indonesiano fu lo smembramento dei corpi. Il fine era disumanizzare allo sguardo dei sopravvissuti i comunisti e rimuovere dalle coscienze la prospettiva comunista. I corpi sezionati e smembrati riducevano i comunisti ad animali da macello, era così possibile associare il comunista al corpo di un animale o di un oggetto infranto. Il capitalismo agisce per cosalizzare l’altro: la punta estrema di tale logica è svelata nel genocidio. Il vertice del dolore rivela la verità nascosta del capitalismo:

«Ha notato come i bambini si allineavano lungo il ponte per vedere il fiume, esortando gli altri a unirsi, mentre gli adulti si tenevano a distanza (Juadi, comunicazione personale, 12 agosto 2015). Nel suo studio sulla politica del ferimento e dello smembramento dei corpi nella post-colonia più in generale, Achille Mbembe (2003, p. 35) sostiene che tale violenza funziona “per tenere davanti agli occhi della vittima – e delle persone intorno lui o lei: lo spettacolo morboso della recisione”. A Surabaya, i bambini e le vittime avevano maggiori probabilità di vedere la divisione, mentre gli adulti erano più propensi a vedere quelle che Membe chiama le “tracce” attraverso le quali “l’integrità corporea è stata sostituita da pezzi”. Sia che si vedessero le divisioni o i pezzi, si vedeva una forma incarnata di comunicazione politica che formava quella che Benedict Anderson (2004, p. 1) definì la “fase selvaggia iniziale” del Nuovo Ordine[6] ».

 

La caduta nella continuità

Nel 1998 Suharto è caduto, non serviva più. L’Unione Sovietica e il comunismo erano solo un ricordo, ma l’Indonesia non si è confrontata con la sua memoria. L’anticomunismo è ancora vivo, anzi i comunisti sono ancora oggetto di violenza, in quanto il genocidio non è stato nei fatti riconosciuto e non vi sono state reali e solide azioni giudiziarie. La memoria storica non è ancora emersa nella sua verità:

«Sembra ora che questa ondata di anticomunismo durante la campagna elettorale del 2014 e il cinquantesimo anniversario delle violenze nel 2015 abbiano rappresentato l’inizio di una nuova fase di politica anticomunista più intensa. Nel 2016, ad esempio, l’anticomunismo si è ulteriormente intensificato (Manan et al., 2016; Tempo, 2016; Trianita & Farmita, 2016).11 Questa intensificazione è in parte correlata alle crescenti richieste di giustizia per i sopravvissuti alla violenza ( vedere i capitoli 16 e 17 di questo volume). Tuttavia non si limita alle questioni direttamente collegate alla storia comunista o alla politica progressista in generale. Ad esempio, all’inizio del 2015 è venuto alla luce che la vincitrice del concorso Puteri Indonesia (Miss Indonesia) del 2014 aveva in precedenza, durante una ripresa in Vietnam, indossato innocentemente una maglietta regalatale da un amico vietnamita che aveva un martello e simbolo della falce su di esso[7]».

 

Al momento l’Indonesia è prigioniera del suo passato; ogni iniziativa legislativa per confrontarsi con il genocidio è congelata, in quanto le attuali classi dirigenti sono nei fatti le medesime che avviarono e realizzarono la “distruzione creativa”. L’Occidente dei diritti tace e occulta il passato e il presente indonesiano, in quanto sarebbe costretto a guardarsi nella sua verità:

«Ciò è reso più chiaro in un’altra area in cui l’attuale bozza rivista della TRC avrebbe potuto essere rafforzata rispetto alla Legge TRC del 2004, ovvero nelle disposizioni per le misure di conciliazione. Nella Legge del 2004, le potenziali misure di conciliazione per i sopravvissuti e le famiglie delle vittime riguardavano: il risarcimento, fornito dallo Stato e che comprendeva disposizioni monetarie e sanitarie; riabilitazione attraverso il ripristino del nome, della dignità e dei diritti delle vittime; e la restituzione, che è stata definita come “risarcimento dato dagli autori del reato o da un terzo alle vittime o alle famiglie delle vittime” (vedi Articolo 1, Undang-Undang Nomor 27 Tahun 2004, nostra traduzione). Nella versione attuale non si fa menzione di eventuali atti di restituzione da parte di autori o di terzi. Di per sé, la mancanza di disposizioni specifiche per la restituzione non è così significativa, né è probabile che abbia alcun impatto complessivo sui risultati del risarcimento per i sopravvissuti. Ciò, tuttavia, indica ancora una volta che, in qualsiasi TRC prevista da questa bozza attuale, gli autori e qualsiasi ruolo che potrebbero svolgere in tale Commissione sono stati quasi completamente rimossi. Come sottolineato in precedenza, ciò viola direttamente i diritti delle vittime a un rimedio efficace e alla giustizia, come garantito dall’adesione dell’Indonesia a una serie di strumenti internazionali sui diritti umani[8]».

Uno dei compiti dell’umanesimo comunista è rendere denunciare le pratiche capitalistiche, in modo che “l’assoluto” del capitalismo si riveli nella sua verità apocalittica. Il nichilismo strumentale, vero fondamento del Capitalismo, è la verità da svelare con le sue consustanziali tragedie che minacciano i popoli e il pianeta.

Ed ecco, in ultimo, che le ricchezze della famiglia Suharto rimangono incalcolabili e non sono state minimante intaccate dalla caduta: pertanto l’Indonesia vive la sua tragica continuità, la quale è la nostra verità nascosta.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Citado no livro de John Pilger, «The new rulers of the world», Verso 2002, p. 15.

[2] AA. VV., L’indonesiano genocidio del 1965, Studi Palgrave nella storia del genocidio, 2018, pag. 53.

[3] Ibidem, pp. 34-35.

[4] Ibidem, pag. 29.

[5] Ibidem, pag. 35.

[6] Ibidem, pag. 150.

[7] Ibidem, pag. 302.

[8] Ibidem, pag. 323.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Luca Grecchi – «Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele». Con una prima recensione di Salvatore Bravo e una intervista su «Letture.org».



Salvatore Bravo

Filosofia/Filosofie

La ricerca filosofica di Luca Grecchi è ricerca dell’umano e del suo senso. In questi nostri tempi di sola ragione strumentale, vi sono autori che ci rammentano – con la loro testimonianza – che la filosofia non è soltanto ricerca teorica, ma anche prassi: teoria e prassi, in armonica unità, con il compito di promuovere lo sviluppo delle molteplici dimensioni dell’essere umano, così che ogni soggetto possa esprimere la propria eccellenza, nella luce che si irradia allora dalla ritrovata essenza della propria natura etica e razionale. Si tratta di una trasgressione all’ordine del discorso vigente, una rara postura, la cui presenza ci è sostegno e di incoraggiamento.

La ricerca filosofica non è da chiudere in un forziere come gioielli e diamanti[1], metafora utilizzata da Platone, ma essa è un seme che per svilupparsi necessita del buon terreno e dunque di uomini e donne disponibili all’ascolto dialettico. La filosofia è dunque un bene comunitario, può nascere in qualsiasi tipo di terreno-comunità, purché vi siano uomini e donne orientati alla verità e al bene.

La filosofia è comunità in cammino che trae da sé l’orizzonte etico e razionale verso cui tendere. Ci si salva assieme, per questo il seme della filosofia necessita di buoni terreni da curare e coltivare, mai singolarmente, ma in una relazione paideutica ed etica. Nel suo percorso di ricerca Luca Grecchi ha chiarito il concetto di “Filosofia”. Non è una banalità. In una realtà accademica dominata dalla frammentazione della Filosofia in specialismi, definire la Filosofia significa trascendere divisioni e dispersioni che inevitabilmente hanno condotto la disciplina verso la sua “crisi”. Senza identità non vi è la razionalità del senso. La Filosofia assimilata a qualsiasi altra scienza specialistica, per piacere al mondo, finisce con annichilirsi in una pletora irrazionale di campi specialistici, in cui è rimosso l’essenziale della prassi filosofica. La filosofia è tale se risponde a tre paradigmi, i quali sono tra di loro in una feconda relazione dialettica:

«Per quanto concerne l’analisi che ho cercato di effettuare del concetto di philosophia nel pensiero greco originario, giunsi già nel 2008, come ricordato, ad elaborare una definizione che ho sostanzialmente mantenuto invariata fino ad oggi. In base ad essa la philosophia, nella sua essenza, costituisce, sin dall’inizio, un sapere caratterizzato da tre elementi essenziali: a) come contenuto la ricerca veritativa sull’intero della realtà; b) come fine la buona vita degli esseri umani; c) come metodo principale la dialettica[2]».

La Filosofia sin dalle origini tratta dell’interalità, essa ha come oggetto l’analisi critica e valutativa della realtà storica per verificarne la sua conformità alla natura umana. L’intero (to holon) non è il “tutto” (to pan)[3], in quanto l’interalità pone le parti in relazione, mentre il tutto è semplice giustapposizione delle parti. Lo sguardo filosofico per poter far emergere la verità storica e valutarla con il paradigma della natura umana deve relazionare le parti, in modo da dimostrare dialetticamente il giudizio valutativo e far emergere le connessioni dinamiche. L’infelicità di molti nell’odierno sistema capitalistico è il risultato delle relazioni competitive e crematistiche che muovono il sistema. La buona vita non è mai solitaria, è pratica che si coltiva in comune, in quanto ogni essere umano per “natura” è parte di un intero con il quale si relaziona. La rimozione della Filosofia, e la messa in campo delle Filosofie, ha la sua ragion d’essere nell’occultamento pianificato della valenza etica e valutativa della Filosofia. Il sistema capitalistico si sottrae al giudizio qualitativo, in modo da neutralizzare l’elaborazione di modelli sociali ed economici alternativi. Pertanto la Filosofia sopravvive solo nella forma depotenziata delle Filosofie, le quali sono la riproduzione delle scienze, che colgono, per loro statuto epistemico, la parte e mai l’intero.

 Sophia

La filosofia nei manuali è definita “amore per la sapienza”. La banalizzazione della Filosofia spesso conduce a non pensare la relazione tra l’amore-desiderio e la sapienza. Anche in questo caso lo sguardo filosofico di Luca Grecchi ci offre non solo una descrizione fenomenologica, ma anche una valutazione critica con notevoli risvolti etici. La philia è il desiderio-amore, ma se il desiderio-amore prevale sulla sophia rischia di essere desiderio-passione del male e dell’irrazionale. Il nostro sistema crematistico spinge l’umanità al desiderio dei consumi, in questo caso il desiderio è dimensione funzionale agli interessi del capitale. Si tratta di desideri anche di “cose cattive” ma percepite come buone. Per questo il termine philosophia implica, in primis, la ricerca (theorein) della sophia, in modo che il soggetto sia sottratto al caos e al tumulto dei desideri indotti o pulsionali e possa orientarsi verso (“il bene”). La felicità è nella pratica del desiderio mediato dalla sapienza: ecco trovata la ragione dell’infelicità nel capitalismo, in esso è il desiderio a prevalere fino a cancellare la sapienza critica e dialettica:

«Quando, in effetti, la philia assume il primato, si può facilmente desiderare di divenire philoi di ogni cosa, anche dannosa. Platone parla infatti, in un noto esempio, dei philotheamones, ossia degli amanti degli spettacoli, i quali, nonostante vi siano molte occupazioni utili, tendono ad appassionarsi a tutti gli intrattenimenti inutili che offre il mondo crematistico, finalizzando male il proprio desiderio, pertanto utilizzando male il proprio tempo, quindi vivendo male la propria vita. Chi attribuisce preminenza alla philia rispetto alla sophia, in effetti, si comporta come i Sofisti, i quali “vanno errando tra le molte realtà che sono in molti modi, e per questo non sono filosofi”[4]».

La Filosofia è un sapere teoretico sempre in relazione con la prassi. La felicità è governo delle passioni, ma queste possono assumere una forma etica solo nella chiarezza della verità-bene. La storia della Filosofia, palesa Luca Grecchi, è caratterizzata dalla relazione teoria-prassi con modalità e gradualità differenti, ma sempre all’interno dello stesso canone:

«La philosophia, infatti, si presenta sin dagli inizi della cultura ellenica come unità di pensiero e azione, in quanto l’anthropos, per realizzare la propria natura razionale e morale, deve insieme pensare e agire. Esso deve, meglio, pensare ricercando sul piano teoretico la verità, ed insieme agire ricercando sul piano pratico il bene. È vero, infatti, che la conoscenza teoretica della verità consente la migliore azione pratica finalizzata alla realizzazione del bene, ma è vero anche che la realizzazione di azioni pratiche finalizzate al bene consente al contempo un migliore rivolgimento teoretico alla conoscenza veritativa. Per questo motivo fra verità e bene, così come fra teoria e prassi, vi è circolarità. Una buona prassi di vita consente di conoscere con maggiore verità, così come conoscere con maggiore verità favorisce una buona prassi di vita[5]».

Thauma

Lo Thauma come condizione del filosofare è presente sia in Platone che in Aristotele. Il terrore-meraviglia (thauma) dinanzi all’incerto e all’aporia conduce all’infelicità. L’incerto e la precarietà in ogni loro aspetto conducono all’instabilità e alla passività. L’essere umano ricerca con la verità-bene la stabilità per poter progettare ed essere soggetto attivo della sua esistenza comunitaria. La sophia risponde a tali esigenze, essa non è un sterile domandare, essa è ricerca delle risposte che scaturiscono dalle domande da porre. Sapere perfettibile in quanto dialettico e comunitario non si arena nelle sabbie mobili delle sole domande, ma è risposta all’angoscia dell’esistenza. La Filosofia è prassi, e ciò è testimoniato dalla costante relazione tra teoria e prassi presente sin dalle origini:

«Se è vero, dunque, che il thauma derivante dalla mancata sophia produce la philia verso la sophia, come tale benefica, è vero però anche che, finché si rimane in una situazione di thauma, ossia di mancanza, ci si trova in una condizione di infelicità. Così è sia per la sofferenza di non conoscere le risposte a problemi importanti, sia per la fatica di doverle ancora cercare, sia per l’incertezza di non sapere se si riuscirà a trovarle. È infatti solo quando il desiderio di sophia risulta compiutamente appagato, nei limiti umanamente possibili, che si può giungere ad una condizione, almeno temporanea, di felicità. Per la natura finita dell’anthropos, in effetti, lo spazio per un appagamento definitivo, ossia per l’estinzione totale del desiderio di sophia, con tutto ciò che ne consegue, non è mai per Platone destinato a verificarsi. Il logos, infatti, per quanto si incrementi, in un ente finito come l’anthropos non può mai conoscere infinitamente, ossia non può mai concludere il proprio compito, come già aveva compreso Eraclito (22 B 45, B 115)[6]”.

Sophia e desiderio

La sophia è desiderio raggiungibile e realizzabile. Non è un vano desiderio adolescenziale che si perde e disperde nel gioco delle domande, ma è risposta che trasforma le esistenze e pone le condizioni per “la buona vita”. La felicità è una relazione tra sapienza, bene e desiderio. Solo la conoscenza della verità e del bene è apportatrice di desideri che nel loro realizzarsi pongono in prassi la felicità:

«Il tema della ricerca del bene risulta dunque strettamente connesso, per Platone, con il tema della felicità. I philosophoi, infatti, desiderano conoscere il bene non per curiosità teoretica, ma per l’efficacia pratica che questa conoscenza porta con sé nel favorire una vita felice. Come ripete in effetti più volte il filosofo ateniese, chi conosce con verità il bene è portato a fare il bene, anche il proprio, dunque ad essere felice. Non a caso l’espressione eu prattein, la quale indica lo svolgimento di una buona prassi, è traducibile sia con “agire bene”, sia con “stare bene”. Una vita in cui si agisce bene è infatti una vita in cui si sta bene, ossia in cui si è felici. Per questo nella Repubblica si afferma che il filosofo, ossia la persona che conosce meglio la felicità, facendone quotidianamente esperienza, è anche colui che sa meglio giudicare in merito a questa tematica[7]».

Lo Stagirita affermerà nel frammento “Sulla Filosofia” che la Filosofia è una luce che pone in chiarezza ciò che è nascosto. Essa non vive tra le ombre, ma le pone in fuga, in modo da mostrare-dimostrare non solo com’è la realtà, ma anche come “dovrebbe essere”. È in questa relazione olistica e dialettica che l’essere umano si ritrova e può realizzare compiutamente la sua natura etica:

«La testimonianza attestata da questo frammento, come noto, assai discussa, riporta che per lo Stagirita ”la sophia fu chiamata così come se fosse una specie di chiarezza (sapheia), in quanto rende chiare tutte le cose”. Essa sarebbe, cioè, «una specie di luce», in grado di illuminare le realtà più nascoste, ossia quelle che stanno alla radice di tutto, ovvero le cause prime. Esse, infatti, pur chiarissime in sé, risultano, almeno inizialmente, oscure per noi, a causa dei limiti della umana conoscenza. La sophia rappresenta dunque, per Aristotele, il sapere più profondo, in grado di mostrare non solo come le cose sono, ma anche come devono essere[8]».

La Filosofia nasce per Aristotele per rispondere ai problemi della vita, e affinché ciò possa essere non è necessaria solo la phronesis, ma essa è tale solo se guidata dalla sophia:

«Così è in quanto la phronesis, ossia la capacità di deliberare in maniera efficiente scegliendo i mezzi più idonei alla realizzazione di un fine buono, risulta attività strumentale al bene dell’anthropos, non attività fine a sé stessa, dunque libera, quale è appunto la sophia. Poiché una attività strumentale risulta sempre inferiore rispetto a una attività libera, così come uno strumento risulta sempre inferiore rispetto al fine cui tende, la phronesis risulta subordinata alla sophia. Aristotele utilizza spesso, in merito, l’analogia fra la phronesis/medicina e la sophia/salute, per indicare che la prima può solo essere un mezzo in funzione della seconda, che è fine105. In particolare, egli afferma che la phronesis “non è signora della sapienza (oude kuria … tes sophias)”, per cui può dare “ordini in vista di quella, ma non a quella”[9]».

Il testo di Luca Grecchi ci guida a trascendere i pregiudizi verso la Filosofia, poiché nel nostro tempo “all’ombra del capitale” si censura il corpo vitale della Filosofia mediante l’occultamento del suo senso e con la produzione pianificata di pregiudizi-chiacchiere su di essa. Il testo di Luca Grecchi è catartico, contribuisce a liberare la Filosofia dalle sovrastrutture che ne inibiscono il volo dialettico verso il bene e ci riconcilia con una disciplina che non è mero esercizio di domande, ma è ricerca della “buona vita” per ogni essere umano.

[1] Luca Grecchi, Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, Scholè Morcelliana 2023, pagg. 162-163.

[2] Ibidem, pag. 12.

[3] Ibidem, pag. 128.

[4] Ibidem, pag. 101.

[5] Ibidem, pag. 39.

[6] Ibidem, pag. 95.

[7] Ibidem, pag. 139.

[8] Ibidem, pag. 181.

[9] Ibidem, pag. 201.



Intervista a Luca Grecchi su «Letture.org»

Prof. Luca Grecchi, Lei è autore del libro Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, edito da Scholé-Morcelliana: innanzitutto, quale definizione è possibile dare della filosofia?

Direi, prima di tutto, che occorre interrogarsi sul fatto se sia o meno possibile dare una definizione della filosofia. In un libro-dialogo di qualche anno fa (Tra teoria e prassi, Petite Plaisance, 2020), composto con l’amico Maurizio Migliori, riflettevamo sul fatto che quasi tutti i manuali di Filosofia, a differenza di quelli delle altre scienze, non definiscono la propria disciplina. Alcuni di essi, addirittura, lasciano intendere che tale definizione è impossibile, in quanto la filosofia, che è un continuo farsi, non potrà mai assumere una forma compiuta, quindi definita. Nel libro esprimo la mia distanza da questa tesi, la quale, oltre che a mio avviso non corretta, ottiene l’indesiderabile effetto di far passare col nome di filosofia ogni contenuto cui si riesce ad applicare questa etichetta, col risultato, a lungo termine, di deformare, nel sentire comune, il nostro amato sapere, il quale ha invece assunto forma compiuta, dunque definita, già con Platone e Aristotele.

Da aristotelico quale penso di essere, ritengo sempre opportuno cercare di favorire, nei limiti del possibile, una univocità del linguaggio che superi l’ambivalenza di cui, già in epoca antica, la retorica sofistica faceva largo uso nel rappresentare la realtà. Ad ogni nome, infatti, è bene che sia associato uno ed un solo significato, per evitare confusione. La filosofia, come ogni altro concetto concepito – appunto – dagli esseri umani, è un ente definito, e pertanto va definita, ossia le va data forma compiuta mediante un significato chiaro, se si desidera comprenderla in maniera chiara. Nella Metafisica (1006 b 6-10), lo Stagirita affermava che “se si dicesse che le parole hanno infiniti significati, non sarebbe più possibile alcun discorso: infatti, il non avere un determinato significato equivale a non avere alcun significato; e, se le parole non hanno alcun significato, allora non ha luogo neppure la possibilità di discorso”, quindi di pensiero.

Perché allora, fino ad oggi, della filosofia non si è quasi mai fornita una definizione esplicita, o comunque non si è mai trovato un accordo su quale sia la definizione più corretta? A mio avviso, per almeno due motivi. Il primo è che la definizione di enti, soprattutto se complessi, è difficile, per cui è facile sbagliare, e nessuno vuole sbagliare, soprattutto oggi. Il secondo motivo è che ogni definizione, una volta formulata, impegna ad essere coerenti, per cui, per fare filosofia, se la si definisce in un certo modo, occorre poi fare quella determinata cosa, non qualunque altra cosa che vagamente le assomigli; ciò riduce molto le possibilità di azione, e pochi nel nostro tempo, anche in campo filosofico, desiderano subire tale riduzione.

In ogni caso, per chi – con la tesi della necessità di definire la filosofia – non concorda, dico subito che può cercare di confutare tale tesi, in quanto il metodo principale della philosophia, sin dal suo nascere, è il metodo dialettico. Esso si basa proprio sul riconoscimento della possibilità dell’errore, ed al contempo della possibilità di correggere, nel dialogo, gli errori, per giungere alla soluzione migliore in rapporto ai temi affrontati. La filosofia non è, infatti, attività adatta per persone narcisiste e permalose, che non accettano di poter sbagliare, e che si pongono dunque in modo dogmatico, ma per persone umili e generose, che si rendono disponibili a porre in comune una idea, anche accettando di essere criticate, pur di giungere più facilmente alla comprensione della verità e alla realizzazione, in questo modo, del bene.

Nel libro scrive: «La philosophia, per come emersa nel primo pensiero greco, risulta strutturalmente in opposizione con le modalità riproduttive della totalità sociale in cui viviamo»: perché è dunque ancora utile studiarla?
Proprio per questo motivo. La totalità sociale in cui viviamo è crematistica (chremata, in greco, sono i beni materiali), ossia è finalizzata alla massima acquisizione di ricchezza privata da parte dei soggetti che detengono la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale. Tutto ciò che è prodotto lo è solo se, in esso, si ravvisa la possibilità di realizzare il massimo profitto privato, altrimenti no. Per questo, ad esempio, vengono prodotti gioielli e auto di lusso, ma non cibo e medicine per i poveri, che pure sarebbero più utili. Miliardi di persone sono condannate, da questo sistema, ad una dolorosa povertà materiale, ed altri miliardi ad una talvolta ancor più dolorosa povertà spirituale.

In una totalità sociale siffatta tutto, ossia gli esseri umani e la natura, viene considerato solo, o prevalentemente, come merce, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Essendo, tuttavia, gli esseri umani non merci, ma enti comunitari – come dimostra il fatto che stiamo bene in contesti amicali, non in contesti conflittuali –, le regole della felicità sono per noi quelle della comunità, non quelle del mercato. Più si dona, infatti, più si ottiene, in termini di felicità. Chi desidera soltanto avere senza mai dare, invece, alla fine primeggerà sicuramente, ma solo in termini di infelicità. Lo aveva già compreso Esiodo in Opere e giorni (vv. 201-212): gli esseri umani si differenziano dagli animali feroci in quanto stanno bene se si aiutano fra loro, non se si divorano l’un l’altro. Il nostro modo di produzione sociale è invece massimamente conflittuale: per questo, per cercare di modificarlo in senso comunitario, serve la filosofia.

Quali sono gli elementi costitutivi della philosophia?
Innanzitutto, devo dire che non vi è, purtroppo, nemmeno nella cultura greca una definizione esplicita, unanimemente condivisa, di philosophia. La parola inizia a comparire in epoca presocratica, almeno a quanto risulta da alcune testimonianze, discusse nel libro, riferite soprattutto a Pitagora ed Eraclito. Fu in ogni caso principalmente con Platone e Aristotele, coi quali non a caso si ritiene – stavolta in maniera pressoché unanime – costituita la filosofia, che il termine philosoph* ha cominciato a registrare centinaia di occorrenze scritte. Queste presenze lessicali, unite ad ulteriori ricorrenze terminologiche anch’esse significative (episteme, dialektike, sophia ed altre), segnalano indubbiamente l’avvenuta formazione della philosophia. Ogni concetto si forma infatti solo dopo che “la cosa” che esso rappresenta ha iniziato ad esistere, e “la cosa” philosophia, almeno in potenza, esisteva già nel mondo ellenico prima dell’epoca classica (mi permetto di rinviare, in merito, agli altri miei due volumi per Morcelliana: Leggere i presocratici, 2020 e La filosofia prima della filosofia, 2022).

Per porsi compiutamente in atto occorreva però che essa divenisse pienamente formata, dunque chiaramente strutturata nella sua essenza, il che accadde solo con la riflessione sul suo concetto realizzata soprattutto da Platone e da Aristotele. Proprio dalle centinaia di occorrenze del termine presenti nella loro opera – che in questo libro ho tentato, nei limiti del possibile, di esaminare – ho tratto infatti quelli che, a mio avviso, sono i tre elementi costitutivi della philosophia. Essi, in estrema sintesi, sono: a) il contenuto, costituito dalla ricerca della verità dell’intero; b) il fine, costituito dalla ricerca della buona vita degli esseri umani; c) il metodo principale di analisi della realtà, costituito dalla dialettica (nel senso in precedenza precisato).

Io penso che questa sia la definizione migliore, ma, appunto dialetticamente, sono consapevole che essa è la mia sintesi di quelli che ritengo essere i tre elementi costitutivi della philosophia. In questo tentativo di definizione potrei avere dimenticato un elemento, o averne aggiunto uno di troppo, o formulato male quelli esposti. La cosa bella è che, proprio per il suo prevalente metodo dialettico, anche le definizioni, in filosofia, non sono da considerare dogmi, bensì possono sempre essere modificate. Come dicevamo prima, la filosofia non è fatta per chi ritiene di non sbagliare mai, in quanto è sempre, anzitutto, esercizio di umiltà, soprattutto quando si esprimono tesi forti, maggiormente a rischio errore. Non è un caso che Socrate – di cui non abbiamo scritti, ma che molti considerano il “primo filosofo” – discutesse spesso di grandi temi con persone arroganti, assolutamente convinte di conoscere un certo contenuto, mostrando loro, appunto, che le cose non stavano proprio in quel modo.

Quale concezione della philosophia emerge dalle opere dei primi pensatori ellenici, i cosiddetti Presocratici?
Come accennavo poco fa, se la definizione corretta di philosophia è quella che ho dato – ossia un sapere caratterizzato dai tre elementi costitutivi poc’anzi menzionati –, tale, se c’era, essa era, almeno implicitamente, anche nelle opere dei Presocratici, naturalmente tenendo conto delle loro specificità rispetto ai classici, oltre che delle diversità presenti fra questi stessi autori.

Mi soffermerei tuttavia un poco, in merito, sul fatto che, se la filosofia deve davvero contenere tutti tre questi elementi essenziali, allora un pensiero che ne escluda anche uno solo non può, a stretto rigore, definirsi compiutamente filosofico. Questo vale per il pensiero dei singoli autori presocratici, ma vale anche per il pensiero dei nostri contemporanei. Siamo infatti sicuri che l’attività denominata filosofia, oggi, per come svolta nelle varie Università mondiali, comprenda sempre tutti tre questi elementi, ovvero sia realmente filosofia? Siamo, cioè, sicuri che Platone e Aristotele riconoscerebbero molti degli attuali testi accademici di filosofia come tali, in base alla loro concezione, costitutiva della disciplina? In fondo, come dicevamo poco fa, la nostra totalità sociale crematistica, che informa anche l’istruzione universitaria, non è affatto favorevole alla diffusione della filosofia, come dimostra il fatto che il termine, ancora oggi, non gode certo di buona stampa (“filosofia” è spesso usato come sinonimo di “discorso inconcludente”). All’attuale totalità sociale, in effetti: a) la verità dell’intero disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni riflessione onto-assiologica complessiva, la quale potrebbe portare ad una progettualità alternativa sulla stessa totalità sociale; b) il fine della buona vita disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni fine differente da quello della massimizzazione del profitto; c) la dialettica disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni democratico confronto comunitario, essendo l’orizzonte crematistico dogmaticamente dato.

Siamo sicuri, dunque, che gli approcci sempre più particolari (non rivolti all’intero), descrittivi (non valutativi), compilativi (non dialettici) degli attuali prevalenti scritti “scientifici” – come nelle facoltà di Filosofia vengono ormai chiamati anche i saggi filosofici – sarebbero riconosciuti, da coloro che hanno originariamente concepito la philosophia, come vera e propria filosofia? Nessuno di noi, naturalmente, è Platone o Aristotele, ma, quando facciamo filosofia, dovremmo sempre cercare di pensare in grande, come facevano appunto Platone e Aristotele. Lo sguardo teoretico non è infatti un orpello superfluo, ma una abilità necessaria anche per lo storico della filosofia antica, come dimostrano appunto i grandi maestri di questa disciplina (pensiamo solo, fra gli italiani, a Enrico Berti, Giovanni Reale, Mario Vegetti). Ho il sospetto che, se fosse vivo oggi Aristotele, di fronte a molti articoli accademici di ambito filosofico, direbbe che essi sono filosofici solo per analogia, così come è medico solo per analogia il medico dipinto, o è occhio solo per analogia l’occhio di vetro, o è piede solo per analogia il piede di marmo di una statua. Noto peraltro che questi esempi aristotelici riguardano tutti una entità artificiale in rapporto ad una entità naturale, viva, quale appunto per lo Stagirita era, in certo senso, la philosophia, intrinsecamente finalizzata alla comprensione dialettica veritativa dell’intero per favorire la buona vita degli esseri umani.

Che significato assume, nei testi di Platone e Aristotele, il concetto di philosophia?
Assume il significato in precedenza sintetizzato. Circa due terzi del libro sono dedicati a Platone e Aristotele, per cui mi è davvero difficile porre in essere, in poco spazio, una sintesi di tutti i molteplici rimandi che mi hanno portato, per ambedue i pensatori, a ritenere adeguata la definizione di philosophia che ho poc’anzi fornito.

Può però essere interessante sostare ancora un poco su questo concetto di philosophia, che Platone e Aristotele, pur senza darne una definizione univoca, hanno ottimamente contribuito a delineare. Ebbene: per i parametri accademici attuali, lo stesso concetto di philosophia in epoca classica, ossia il tema del libro, potrebbe paradossalmente essere ritenuto un contenuto troppo ampio da trattare filosoficamente in maniera “scientifica”. La filosofia oggi, in Università, procede infatti con criteri molto simili a quelli delle scienze particolari (che come tali, appunto, si occupano di descrivere – non di valutare – solo parti – non l’intero – della realtà), ossia, se mi si passa l’immagine, procede, in ogni analisi, cercando di porre un puntino sempre più piccolo sotto il microscopio. Il livello di precisione che si raggiunge in questo modo risulta sicuramente, così facendo, molto elevato. Di questi articoli scientifici è doveroso essere grati ai rispettivi autori. Ciò nonostante, considerando il concetto di philosophia presente in Platone e Aristotele, è possibile anche domandarsi quale sia l’effettivo contributo alla comprensione complessiva del senso e del valore della realtà – l’ambito, appunto, da sempre proprio della filosofia – che molti di questi articoli forniscono.

Non è mia intenzione, come detto, criticare l’attività di tanti giovani studiosi, che semplicemente si adattano, nel loro modo di fare ricerca, alle modalità dominanti, che hanno ormai introiettato essere, anche in campo filosofico, le uniche funzionali al percorso accademico. Ciascuno può fare ricerca nelle forme che ritiene opportune, sui contenuti che ritiene opportuni e con le finalità che ritiene opportune, ma – occorre dirlo – ciò non è senza effetto per i risultati della ricerca. Rimango in ogni caso amareggiato quando mi accorgo, in merito, che la medesima apertura non risulta talvolta essere presente, in alcuni studiosi, nei confronti della legittimità del fare ricerca filosofica anche sui grandi temi, richiedendo necessariamente quest’ultima, come ben sapeva Aristotele, un approccio più generale, a maglie più larghe.

Risulta significativa, a tal proposito, la terminologia utilizzata, in ambiente accademico, per definire i testi filosofici caratterizzati da un argomento molto ampio, spesso qualificati come “divulgativi” (ricordo il disappunto con cui l’amico Enrico Berti accolse una recensione di un importante studioso, in cui il suo splendido In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, edito da Laterza nel 2007, venne definito tale). Bisognerebbe allora, in primo luogo, chiarire che “divulgazione” non è una brutta parola. Se leggiamo, infatti, l’Enciclopedia Treccani, per “divulgazione” si intende la diffusione di teorie “attraverso esposizioni piane e compendiose, senza tecnicismi, e insieme sufficientemente sistematiche, (..) con lo scopo di interessare un sempre più largo strato sociale”. È in effetti possibile essere insieme “scientifici” e “divulgativi” – i due termini non si oppongono –, ossia al contempo accurati ed essenziali, come era appunto il caso del libro di Berti. Vi è anzi grande bisogno, a mio avviso, di opere di questo tipo in filosofia. Esse tuttavia, in vario modo, sono scoraggiate dalle attuali tendenze dominanti, per motivi che di passaggio, nel libro, provo a spiegare, riferibili sempre, in ultima analisi, al fatto che il nostro tempo ha interesse a reprimere la vera attitudine filosofica.

Ritenere a priori “scientifico”, nel senso di accurato, solo uno studio iperspecialistico su una piccolissima parte di realtà, e “non scientifico”, nel senso di poco accurato, un testo monografico su un grande tema della filosofia, mi sembra davvero l’esito di una conformazione del sapere contraria allo stesso concetto di philosophia per come elaborato dai classici. Sostenere questo equivale infatti – mi si conceda una provocatoria analogia zoologica, che assume come implicito riferimento ancora Aristotele, larga parte del cui corpus è dedicata, come noto, alla zoologia – a considerare “scientifico”, ad esempio, lo studio della riproduzione delle formiche rosse del Madagascar orientale nel luglio del 2023, ed a considerare “non scientifico” lo studio del mondo animale nel suo complesso. Per quale motivo chi osserva, pur con grande acribia, la riproduzione di un campione di formiche per un mese dovrebbe compiere uno studio “scientifico”, ossia accurato, e chi, come lo Stagirita, opera un gigantesco sforzo teoretico per anni analizzando le strutture biologiche di oltre 500 specie animali non dovrebbe compierlo? Tutto dipende, ovviamente, da quale significato si vuole attribuire al termine “scientifico”. Faccio peraltro notare che, come sempre Aristotele ha mostrato, l’intero risulta ontologicamente anteriore alle parti – l’esistenza delle parti richiede l’esistenza dell’intero, non viceversa –, per cui chi non si occupa anche dell’intero non può nemmeno dire di avere ben compreso la parte che analizza, mancandogli le strutture generali mediante cui porre in relazione quella stessa parte con le altre parti (la realtà è interconnessa, quindi queste relazioni vi sono, pertanto vanno conosciute).

Tutto questo solo per dire, soprattutto ai giovani studiosi, di essere benevoli – ossia di orientarsi anche loro, nei limiti del possibile – verso i testi filosofici generali, i quali, per quanto sempre migliorabili, risultano spesso utili per inquadrare anche gli studi particolari.

Un’ultima domanda relativa alla dedica del suo libro, “Ai ragazzi con qualche difficoltà, e a chi sta loro accanto”: c’è qualche collegamento con il tema del libro?
La ringrazio molto per questa domanda. Il collegamento, in effetti, c’è. Dicevamo prima che la nostra totalità sociale è molto competitiva. Nel libro, ogni tanto, faccio riferimento alla ideologia del merito che permea – talvolta in maniera poco attenta nei confronti di chi ha invece qualche difficoltà – anche il mondo della scuola. Penso ai campionati di filosofia, alle gare retoriche dei debates, alla eccessiva attenzione ai voti, e a molto altro ancora. La scuola riflette, naturalmente, i processi della nostra totalità sociale conflittuale. La filosofia però, come abbiamo detto, fu sin dal suo inizio comunitaria, in quanto ricerca comune del vero per il fine della realizzazione comune del bene, ossia del bene di tutti, anche di quelli solitamente considerati ultimi, i quali spesso fanno molta più fatica dei “primi” anche solo per arrivare ultimi.

Mi piacerebbe concludere raccontando una piccola storia. La vostra redazione è giovane, ma forse sapete che, negli anni in cui io ero piccolo, quindi molti anni fa, andò in classifica per diverso tempo una simpatica canzone di Enzo Jannacci, Vengo anch’io. No tu no. Con la sua ironia, il cantautore milanese aveva messo in scena, con quel brano, la storia di un ragazzo con qualche difficoltà che, semplicemente, voleva fare le stesse cose che facevano gli altri. Come evidente, in quel brano c’era molto più dell’ironia, ma io allora, essendo piccolo, non lo capivo. Capivo però che a me quella canzone non divertiva. Il perché l’ho compreso bene molti anni dopo, quando ho avuto la fortuna di conoscere, e poi di diventare amico, di uno dei maggiori critici musicali italiani, Andrea Pedrinelli, autore, fra le altre cose, di una bella monografia su Enzo Jannacci (Roba minima, Giunti, 2014). Fu lui, infatti, ad indicarmi una intervista in cui il grande Enzo diceva più o meno queste parole: “Quello lì, quello che chiedeva Vengo anch’io? e a cui gli altri rispondevano sempre no tu no!, ero io. Anche io infatti, quando ero ragazzo, volevo andare, come gli altri, allo zoo comunale, o con la bella sottobraccio a parlare d’amore, ma nessuno mi voleva, perché ero piccolo, brutto e povero”. Ho edulcorato un poco le parole di Jannacci – mentre lui lo faceva raramente quando rappresentava i suoi personaggi esclusi, sempre in parte autobiografici: in questo, anche, la grandezza della sua arte –, ma il segreto del saper voler bene, del saper accogliere, sta tutto lì, ovvero nella capacità di sapersi mettere nei panni degli altri, di vederli un poco come se fossimo noi. Se infatti “quello lì”, escluso dal “bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore”, fossimo noi, o nostro fratello, o nostro figlio, forse saremmo più sensibili nel “vedere di nascosto l’effetto che fa” l’esclusione. La filosofia aiuta a capirlo, mostrando come tutti possono dare il proprio contributo alla realizzazione del bene comune, anche chi ha qualche difficoltà, in quanto spesso possiede risorse di umanità meravigliose, di cui semplicemente la nostra società ipercompetitiva, purtroppo, non si accorge.




Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
Luca Grecchi – L’etica di Aristotele e l’etica di Democrito: un confronto
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Luca Grecchi – Multifocal approach. Una contestualizzazione storico-sociale. Occorre porsi con critica consapevolezza progettuale all’interno della totalità sociale.
Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.
Luca Grecchi – Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica.
Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.
Luca Grecchi – Intervista sulla «Ricchezza».
 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Pesantezza e leggerezza in Italo Calvino


Salvatore Bravo

Pesantezza e leggerezza in Italo Calvino

 

È il centenario della nascita di Calvino (1923-1985), si susseguono le manifestazioni in suo ricordo, il dibattito sull’autore cede il passo alla vendita dei suoi testi, per cui “niente di nuovo per noi che viviamo nella società di mercato”. Si ricorda in modo costante che Italo Calvino ruppe con il Partito comunista dopo l’invasione d’Ungheria del 1956, per cui ben si presta ad essere eletto come letterato che si è battuto per la libertà in nome dei diritti individuali e che ha abbandonato il PCI al suo destino con una lunga lettera sull’Unità il 7 agosto 1957. Nel 1985, nell’anno della sua morte improvvisa, scrisse Lezioni americane per i seminari che avrebbe dovuto tenere ad Harvard. Il testo vorrebbe essere un manifesto che enumera le qualità che dovrebbe avere la letteratura contemporanea: si tratta di una serie di paradigmi posti in ordine decrescente di rilevanza. La morte gli impedì di completare le lezioni, non a caso la settima sulla “concretezza” non fu che abbozzata.

 

Leggerezza

Il primo paradigma è la “leggerezza” che deve opporsi alla “pesantezza”. Lo stile dev’essere leggero, deve sublimare in lievità ciò che grava sulle esistenze. Si tratta di rappresentare ciò che è insostenibile con figure, simboli, immagini e parole che possono filtrare la tragedia e renderla lieve al lettore. La leggerezza è “terapeutica” consente di sopportare l’insopportabile:

“Nei momenti in ci il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica. Le immagini che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…[1]

La leggerezza, questo è il sospetto, è un criterio che può essere letterario, ma che può celare il disimpegno e la rappresentazione falsata della realtà. Le contraddizioni sociali e le inquietudini metafisiche della contemporaneità necessitano di “pesantezza e di ingombranti concetti”. Nell’epoca del disimpegno e della derealizzazione tutto è divenuto talmente “leggero” da evaporare.

 La letteratura, afferma Italo Calvino, deve condurre alla lievità e a “guardare-vivere” la realtà con immagini che smorzano la “pesantezza”. Come Perseo, il quale guarda sul suo scudo l’immagine della Gorgone per evitare di essere pietrificato. Perseo, lieve sulle nuvole, decapita la Gorgone e dal suo sangue nasce Pegaso, cavallo alato, simbolo della leggerezza[2].

 La letteratura in un tempo di tragedia come il nostro dominato dalle immagini che hanno sostituito il concetto e la realtà deve rappresentare il “nudo vero”, in modo da muovere le coscienze fuori dalla società dello spettacolo. Abbiamo bisogno di pesantezza che possa indurci a pensare e a progettare, le immagini mediate e posticce favoriscono l’abbassamento della soglia di allarme. Italo Calvino riporta – tra i non pochi modelli di leggerezza – Leopardi come poeta e filosofo della leggerezza; ma in Leopardi la gravità è in un equilibrio stupefacente con la bella forma; Leopardi non è poeta della pesantezza né della leggerezza; svela il “crudo vero” senza fraintendimenti fantastici:

“Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna[3]”.

 

 

Velocità

La letteratura dev’essere veloce nel secolo della motorizzazione. La letteratura che si ispira al “mondo” e alla “tecnica” non può che essere accolta con favore nei circoli salottieri e dalle case editrici che pubblicano prodotti a misura delle richieste del mercato. Esse sono solo aziende che vendono il prodotto libro. La velocità è un requisito fondamentale per vendere, i concetti devono essere pochi, se ci sono e abbozzati, in modo da non stancare il lettore abituato al ritmo compulsivo della contemporaneità:

“Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini. Ma la velocità mentale non può essere misurata e non permette confronti e gare, né può disporre i propri risultati in una prospettiva storica. La velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere, non per l’utilità pratica che si possa ricavarne. Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro; ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza[4]”.

 

Abbiamo bisogno di velocità o di reimparare a indugiare sui concetti e dunque a leggere con lentezza? La capacità di lettura e di comprensione dei testi è sempre più modesta in giovani e meno giovani, la letteratura della velocità piace al mondo, alla tecnica e al mercato. Essa ha dismesso la sua funzione paideutica del pensare-indugiare. La velocità è penetrata nella letteratura e l’ha resa superflua, in quanto ha subito l’incanto della tecnica, non si è mostrata autonoma e critica, ma l’ha duplicata. La letteratura contemporanea è governata da una pletora di velocisti che nulla sanno dire, ma sono capaci di inseguire il gusto manipolato dalla velocità del pubblico. La letteratura dev’essere lenta, deve con la sua pensosa lentezza riportarci nella concretezza del quotidiano per guardarlo con lo sguardo del concetto.

 

 

Esattezza

L’esattezza, criterio scientifico-matematico, è il mezzo con cui le belle parole divengono una traccia verso l’invisibile, afferma Italo Calvino nella sua bella definizione della parola. Il problema è l’invisibile, la letteratura è una traccia che dovrebbe condurre alla realtà storica e alle contraddizioni del sistema socio-economico. In Calvino l’invisibile è altro, è l’immaginazione con cui filtrare la realtà e ricondurla ad un livello impalpabile, in cui la tragedia perde la sua consistenza reale:

“Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana. La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata e temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato nel vuoto. Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza le parole[5]”.

 

All’esattezza la letteratura dovrebbe prediligere la “verità”. È preferibile una letteratura vera ad una letteratura che persegue l’esattezza. Non a caso lo scrittore si pone la domanda cruciale, constata la crisi dell’immaginazione e del concetto che ne consegue, ma la risposta è aggirata. La crisi dell’immaginazione è associata alla tecnica, si evita di nominare la causa da cui tutto si origina: la struttura economica che usa la tecnica per sorvegliare i suoi sudditi e addomesticarli nella mente e nel corpo. La pedagogia dell’immaginazione proposta da Calvino non può risolvere il problema radicale, Calvino evita di indicare con parole precise la causa prima della crisi dell’immaginazione: il capitalismo. La pedagogia dell’immaginazione dovrebbe curare i sintomi senza incidere nel corpo del problema, la verità pare così occultata:

“Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dell’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini. Penso a una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente <<icastica>>. Naturalmente si tratta d’una pedagogia che si può esercitare solo su se stessi, con metodi inventati volta per volta e risultati imprevedibili[6]”.

 

 

Molteplicità

Il romanzo deve rispecchiare la vita interiore degli uomini, la quale è costituita da una “combinatoria” di esperienze. Le variabili sono tante, ma il problema è l’unità, se ci si sofferma solo sulla “combinatoria” vi è il rischio di perdersi nel caos del mondo, di cui non si coglie l’unità che spiega il proliferare delle variabili con i loro urti e con le loro plastiche associazioni:

“Sono giunto al termine di questa mia apologia del romanzo come grande rete. Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili[7]”.

 

Ricordare è sicuramente un modo per onorare chi ci ha preceduti, ma il rammentare senza concettualizzazione critica non è cultura, è solo una operazione commemorativa che non ci orienta a decodificare il presente, ma a duplicarlo e a renderlo eterno.
La letteratura è l’altro volto della filosofia, deve insegnarci ad indugiare sull’insostenibilità del mondo per poter elaborare percorsi di emancipazione. Ricordiamo Calvino riconoscendo il valore della sua opera.
Bisogna commemorare per reimparare a dissentire; all’occultamento della realtà che si inabissa velata da immagini e fantasmagorie, bisogna opporre più realtà e più verità: di questo necessitiamo.
l giudizio che Italo Calvino diede nella lettera d’addio al PCI sulla letteratura marxista per la sua pesantezza, oggi appare “severo”, se si considera valida la “leggerezza” dell’attuale letteratura:

“Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero”.

 

La pesantezza, ovvero l’impegno e il realismo, è ciò che manca alla letteratura attuale che compiace il mercato e non fa pensare. Non possiamo che guardare come a dei maestri autori come Bertolt Brecht, Walter Benjamin, Hanns Eisler, Ernst Bloch, György Lukács, Johannes R. Becher, Andor Gabor e Alfred Kurella e al nostro Gramsci. Lo smantellamento del PCI e delle ideologie afferenti ha condotto ad una leggerezza nichilistica, è diventata la morte della letteratura che si è nutrita solo di banalità, e non è più al servizio dei popoli e della verità, ma è organica al mercato. Italo Calvino non è certo responsabile della mercificazione della letteratura del nostro tempo, ma Lezioni americane sono il prodromo della letteratura al servizio del capitale e degli intellettuali del disimpegno. Non abbiamo bisogno di scrittori organici alla “società dello spettacolo”, ma di dissidenti ed eretici che si oppongono al turbocapitalismo che annienta con la politica il pensiero critico e l’emancipazione di classe.

 

[1] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 11-12.

[2] Ibidem, pp. 8-9.

[3] Ibidem, p. 28.

[4] Ibidem, p. 47.

[5] Ibidem, p. 76.

[6] Ibidem, p. 94.

[7] Ibidem, p. 121.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Hannah Arendt del politicamente corretto.

Costanzo Preve
Hannah Arendt


Salvatore Bravo

Hannah Arendt del politicamente corretto

 

Il totalitarismo del politicamente corretto ha i suoi eroi e le sue eroine. Hannah Arendt è tra le antesignane della filosofia decaffeinata, al punto da essere insapore. La filosofia è per sua fondazione radicale, essa è “contropotere” con la funzione etica e politica di neutralizzare le forze che minacciano la comunità e le singole soggettività. A tal fine il metodo filosofico è dialettico e concreto. Esso risponde ai drammi e alle potenzialità trasformatrice della propria epoca mediante l’approccio olistico: il dato è riportato al contesto, e in tal modo si affinano gli strumenti critici e si smascherano posture ideologiche. La filosofia non abita nelle stanze del potere, vive nella comunità, è concretezza dialettica, ha lo scopo di ricostruire relazioni di giustizia su fondamenta veritative. Il potere teme la giustizia sociale e il suo inevitabile antagonismo, al punto da far scomparire dallo spazio pubblico ogni riferimento ad essa.

Il potere oscura i filosofi non spendibili dal circo mediatico. La filosofia addomesticata regina dei salotti trasforma i concetti in chiacchiere e il concreto in astratto. Lo scopo è l’irrazionale, la comprensione degli eventi storici e il giudizio qualitativo sul sistema è sostituito dagli slogan e dalla chiacchiera colta. Nei luoghi della formazione e nei media si segue l’astratto discorrere, pertanto si selezionano i “filosofi” che rafforzano e consolidano con l’irrazionalità l’ipostatizzazione del presente.

Hannah Arendt è largamente utilizzata in tal senso, al punto da essere una icona del politicamente corretto. Il suo impegno filosofico e i suoi scritti non turbano il liberismo, ma ammiccano ad essi.

Le categorie del liberismo sono proiettate nella storia, i Greci appaiono allo sguardo del lettore della Arendt come gli antenati dei liberisti inglesi. La Arendt proietta categorie del suo tempo nell’interpretazione dei Greci addomesticandoli e rendendoli conformi al “politicamente corretto”, ne disinnesca le potenzialità critiche e divergenti per gli uomini e le donne del nostro tempo. La storia diviene una lunga conferma del presente.

Costanzo Preve filosofo controcorrente e radicale è esplicito nel suo giudizio: per la Arendt i Greci sono gli antenati imperfetti degli anglo-americani, in quanto discriminavano le donne e possedevano gli schiavi. La storia ha dunque due modelli positivi: i Greci e gli inglesi. I Greci sono i precursori degli inglesi. Naturalmente “l’imperfezione greca” non è spiegata razionalmente con la cornice storica ed è risolta dal liberismo, in tal modo si plana “nel migliore dei mondi possibili”. Il paradigma liberista è usato per giudicare i popoli antichi e contemporanei, con questa modalità il liberismo diviene non un modello storicamente situato con le sue contraddizioni, ma il discrimine con cui dividere il bene dal male:

 

«La Arendt, evidentemente, si immagina i greci come dei liberali anglosassoni moderni, sia pure ancora imperfetti perché possedevano ancora degli schiavi e tenevano chiuse in casa le loro donne, i quali effettivamente discutono liberamente di politica presupponendo che la cosiddetta “economia” sia un dato che funziona e si riproduce per conto suo».[1]

 

Logos

Il termine logos è tradito e misconosciuto nella sua verità storica. La filosofia è dispositivo anticrematistico. Lo scandalo per i liberisti di ogni partito è la filosofia, di conseguenza essa dev’essere deformata e mutilata della sua capacità di dare-donare risposte agli effetti distruttivi del liberismo. La Arendt si presta a tale operazione di occultamento della filosofia. Il logos per la Arendt è “semplicemente la parola” da usare all’interno di formalismi giuridici. Il logos, invece, rileva Costanzo Preve è emancipazione dalle forza economiche e crematistiche che vogliono strumentalizzare i cittadini, oscurarne la coscienza e il senso critico. Il logos è attività critica che rende la coscienza individuale luogo di resistenza e attività in opposizione alla manipolazione persuasiva. Il logos ha una valenza politica e veritativa e coincide con il filosofare, è prassi sociale senza la quale guerre e ingiustizie divorano comunità e individui in un fatale destino di dolore:

 

«Per la Arendt il termine logos significa unicamente parola, libera parola che convince, decisione presa in base al convincimento delle sole parole. […] La filosofia, anzi, è nata proprio sulla base della messa in discussione problematica del potere di convincimento della parola in nome di una istanza veritativa esterna al puro potere di convincimento della parola stessa (Socrate contro Gorgia, Platone contro Isocrate, eccetera). La Arendt evidentemente cerca di comprendere la polis combinando idealmente Gorgia e Rorty: il logos si riduce alla parola che convince, e dal momento che la verità non esiste la democrazia prevale sempre sulla filosofia».[2]

 

Il logos è misura delle giuste proporzioni, è il katechon che deve contenere derive dissolvitrici nelle quali popoli e individui sono reificati dai processi economistici. Sfruttamento e indebitamento sono il risultato delle logiche crematistiche, i popoli sono sospinti all’indigenza e sono saccheggiati del loro lavoro e della loro capacità creativa e comunitaria.

 Il pensiero greco è modello eterno da ripensare, in quanto definisce la natura umana e stabilisce la stabilità della comunità sulla giustizia e sulla verità “mostrate e dimostrate”. Non è sufficiente vivere secondo la verità, per il greco il logos è la parola con cui si dimostra la necessità di una vita conforme alla natura umana. La scissione tra pensiero ed essere è trascesa, sicché il logos pensa il proprio tempo storico, lo giudica qualitativamente al fine di porre in essere la prassi trasformatrice. Il logos della Arendt ridotto a espressione vocale astratta non può che contraddire la sua funzione emancipatrice per divenire chiacchiericcio colto che conserva gli equilibri-squilibri sociali in atto:

 

«Il termine logos significa calcolo (loghizomai), e più esattamente, calcolo delle proporzioni delle corrette proprietà ispirato alla misura (metron), alla giustizia (dike), alla concordia fra i cittadini (omonoia), all’equilibrio fra i beni in una comunità (isorropia), all’istituzione di un freno sociale (katechon) per impedire l’accumulazione infinita-indeterminata (apeiron) delle ricchezze private (chremata) potesse portare alla corruzione-dissoluzione del corpo sociale (phthorà)».[3]

 

 

Destoricizzare

La destoricizzazione e la desocializzazione usate come metodo d’indagine finiscono con deformare non solo i Greci ma anche il tempo contemporaneo. La storia finisce con diventare una fiaba aspaziale e atemporale. La storia per la Arendt è una lunga corsa verso il liberismo, i totalitarismi riconosciuti e giudicati come tali sono solo i sistemi politici avversi al liberismo. Quest’ultimo, invece, è giudicato il regno della libertà. Per evitare gli ostacoli storici e la sua dura realtà la Arendt destoricizza l’essere umano in modo da fondare una antropologia organica allo scopo della sua opera, tutto è abilmente neutralizzato, non mette in campo le categorie interpretative che potrebbero destabilizzare la sua “filosofica visione”.

 

«In primo luogo, l’antropologia della Arendt è completamente destoricizzata, in modo quasi incredibile (e per questo piace nell’epoca postmoderna di rifiuto della coscienza storica). Non c’è traccia di Polany, per cui l’antropologia umana del comportamento privato e pubblico non si sviluppa in correlazione con le forme di rapporto comunitario reciproco (reciprocità, ridistribuzione, scambio eccetera). Non c’è traccia naturalmente di Hegel, per cui è proprio attraverso il lavoro (e cioè prima di lavorare, e poi l’operare) che l’uomo prende coscienza prima di se stesso (e cioè la sua coscienza libera), e poi dei suoi rapporti di asservimento (il servo che si rende conto che lo stesso signore dipende dal suo lavoro). Non c’è ovviamente traccia di Marx, per cui lo stesso “metabolismo dell’uomo con la natura” (definizione marxiana) è una pura astrazione del tutto inesistente se non è immediatamente concretizzata con i rapporti sociali di produzione dentro i quali questo metabolismo uomo-natura avviene».[4]

 

L’unica diade individuata dalla Arendt è l’opposizione uomini-donne. La lotta di classe è rimossa dalla storia e dai modi di produzione, su tutto campeggia la storia pacificata dalla vittoria del liberismo anglosassone. Non potrebbe essere altrimenti, poiché il liberismo è per sua costituzione lotta tra le classi, tra le nazioni e tra gli individui, è “guerra perenne”. La diade uomo-donna la rende particolarmente spendibile per il sistema capitale che ha velato i conflitti sociali e di classe con il femminismo e i soli diritti civili, la diade uomo-donna è l’oscuramento della verità storica e catalizzatore del consenso pianificato a livello mediatico:

 

«Insomma, non ci sono tracce di Polany, Hegel e Marx, ma non c’è un briciolo di storia. Abbiamo un Uomo, anzi la diade Uomo-Donna (la sola in cui avviene evidentemente una dialettica biunivoca, il che fa della Arendt, assai più della Simone de Beauvoir, la vera fondatrice del femminismo filosofico, o più esattamente della sostituzione del femminismo al marxismo), che entra in rapporto diretto con la Natura, e che prima lavora per riprodursi, e poi opera per costruire strumenti artificiali».[5]

 

 

Morte e Natalità

Non vi è traccia nelle opere della filosofa della genealogia dei modi di produzione, e in generale, della genetica della divisione in classe con l’evolversi in senso crematistico dell’economia. Le classi sociali sono ipostatizzate, sono tali da sempre, per cui sono intoccabili, non c’è politica che possa intervenire per rigenerare nella giustizia le comunità. La speranza ha il suo succedaneo nel formalismo della parola. La democrazia diviene uso della parola in un sistema formale di regole che compensa il vuoto veritativo. Non a caso la Arendt tratta della “condizione umana” e non della “verità”:

 

«In secondo luogo, l’antropologia della Arendt non è soltanto destoricizzata, ma anche del tutto desocializzata. Non c’è traccia nella Arendt del fatto che all’interno della divisione sociale del lavoro nascono le classi sociali antagonistiche, gli sfruttatori e gli sfruttati».[6]

 

La filosofia al femminile è la frontiera da contrapporre alla filosofia maschile. Non vi sono altre contrapposizioni. Heidegger è simbolo del filosofare maschile. Gli uomini non possono generare la vita, pertanto perseguono la morte. L’Heidegger della Arendt è banale fino al semplicismo. Costanzo Preve dimostra che l’essere per la morte di Heidegger non è finalizzato ad affermare la morte, ma è giudizio sul modello liberista. La reificazione è una forma di morte, mentre si è in vita. La vita inautentica è vita dominata dalla tecnocrazia (Gestell), la tecnica capitalistica si impianta nella carne viva e deforma la natura umana. Il logos è sostituito dal calcolo e dal vuoto ciarlare. L’antitesi della natalità della Arendt alla morte di Heidegger non ha dunque ragion d’essere:

 

«Secondo, la Arendt contrappone la sua teoria della centralità della natalità alla teoria heideggeriana della mortalità, provocando lodi dal concerto del politicamente corretto e del buonismo universale (chi infatti – potendolo fare – non sceglierebbe la natalità alla mortalità?). Ma il Vivere-per-la-Morte di Heidegger non c’entra nulla con una (presunta e inesistente) centralità della cosiddetta Mortalità. Centrale per Heidegger è soltanto l’autenticità, e cioè il vivere autentico (parlo solo del cosiddetto “primo Heidegger”, nel secondo centrale diventa il rapporto degli enti storici con l’Essere».[7]

 

Malgrado i filosofi del politicamente corretto, la natura etica e razionale dell’essere umano non può essere congelata dall’inverno dello spirito sostenuto dagli oratores e dai filosofi di regime. Per poter riportare la storia e la verità dove impera l’astratto è necessario l’esodo dalle Accademie e dai filosofi da salotto. Un concetto radicale e vero può muovere a trasformazioni inaspettate che la pletora dei libri prodotti in serie non potranno mai causare. Il tempo che verrà esattamente come l’attuale momento storico è lavoro dello spirito-concetto da contrapporre all’aggressività della menzogna pianificata. La prassi è innanzitutto verità da definire e tradurre in agire politico, Costanzo Preve ci rammenta con le sue critiche al pensiero della Arendt il senso del filosofare e denuncia le storture e gli occultamenti ideologici del sistema capitale.

 

[1] Costanzo Preve, La Scuola di Francoforte Adorno e lo spirito del Sessantotto, Schibboleth, Roma 2023.

[2] Ibidem, pag. 286.

[3] Ibidem, pag. 287.

[4] Ibidem, pag. 281.

[5] Ibidem, pagg. 281-282.

[6] Ibidem, pag. 282.

[7] Ibidem, pag. 283.

Salvatore Bravo – Il fine della «Metafisica umanistica» è rispondere ai processi di disumanizzazione, è intenzionalità veritativa che si storicizza nella difficile pratica del bene e della cura, è la risposta filosofica all’indifferenza del nichilismo crematistico.

V. Van Gogh, “Un paio di scarpe”.


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Gli scritti di Foucault testimoniano un’attenzione rara alla vita che scorre ai margini: folli, mendicanti, prostitute, omosessuali, oziosi popolano molti dei suoi saggi, in particolare Storia della follia e Sorvegliare e punire.

Vi è uno spostamento della prospettiva attraverso cui leggere il potere; tradizionalmente il potere risiede in una figura (ad es. il sovrano), una classe, un’istituzione. L’analisi tradizionale del potere individua il soggetto attivo depositario del potere, si pensi al Principe di Macchiavelli, ed un soggetto che ne subisce l’azione: il suddito.

Il potere è studiato mediante la ‘posizione della rana’, affermazione del filosofo. Il potere è analizzato da Foucault nel suo costituirsi, non dal vertice ma dalle forze interagenti dal basso il cui effetto è il potere.

 


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Il modello di razionalità è parte integrante della prassi di una comunità, la riflessione su di esso è necessaria per un’operazione “archeologica” di consapevolezza, ovvero le strutture cognitive sono segnate nella lingua come nei modelli di comprensione. La pastorale dell’incontro, tanto in voga riesce solo parzialmente a portare nuova vita nell’atto del pensare, tale operazione dev’essere completata con un’analisi-riflessione dei fondamenti del pensiero. L’interrogativo a cui dovremmo rispondere è il perché tanto sapere critico abbia prodotto risultati tanto parziali, finanche a volte reazionari.

 


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La fame dei desideri, l’assenza continua di una pienezza ontologica, spinge in modo compensativo molti alla fame di cose, di un tempo vuoto, ripetitivo e riproduttivo da colmare con spazi ingombri di materia. La fame denuncia un’assenza, è la perversione di una fame di giustizia ed autenticità resa perversa dall’impazzimento razionale della crematistica. Il compito che spetta alla filosofia, come afferma Ernst Bloch, è ridare speranza, reintrodurre con la speranza l’utopia e dunque trasformare la fame delle cose in una spinta trasformatrice collettiva della storia.

La storia non è terminata e l’impensabile è nel presente, sbiluccica nei malesseri dell’umanità ricca come in quella deprivata di tutto: il futuro non è fatalità, ma sistema aperto che attende tutti.

L’impegno è restituire dinamicità alla storia e con essa reintrodurre la categoria della speranza non come attesa messianica ma come attività progettante radicata nell’attualità:

 

“Lì dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti. Dove invece si ha costantemente di mira anche l’orizzonte prospettico, il reale si manifesta come ciò che esso è in concreto: come intreccio di processi dialettici, che si svolgono in un mondo incompiuto, in un mondo che non sarebbe assolutamente mutabile senza il gigantesco futuro della possibilità reale in esso” (E. Block Il principio speranza, Garzanti, 2005, p. 262).


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Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. L’epoca attuale destina ricchezza materiale ai pochi e povertà linguistica ai molti: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nel liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. Novello Crono, il capitale divora – con i figli – le parole, al fine di colonizzare ogni comunità e renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda, ed ha il suo centro nella competizione.

La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, che si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato della compravendita delle pseudo relazioni virtuali. Il nichilismo di massa è alimentato e vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica arretra per lasciare spazio unicamente alla naturalizzazione del solo presente.

 


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Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto è onnivoro, ha smarrito la strada del bene e del male, è solo interno al visibile, alla merce ed alle sue immagini che ne colonizzano la carne privandola della sensibilità della comunicazione. Vive nell’immediatezza, consuma ogni prodotto nell’irrilevanza critica ed etica: ha fatto dell’attimo consumante l’ontologia della consolazione. Il mercato è il fondamento ontologico che si rispecchia nel suo pensiero. È l’automa cartesiano realizzato, privo di anima ma pronto all’azione imitativa. Vive l’imperio del caos, insegue i flussi dell’economia diventandone parte fino ad esserne parte indifferenziata, non pensa il suo tempo, lo insegue, lo annusa in cerca di selvaggina: la merce.

La vita allora si disfa in una temporalità segnata dal tempo liturgico del consumo senza limiti, e la chiamata al consumo non conosce soste. Vive l’incontro solo come occasione per soddisfare i suoi biologici interessi, divora l’altro.

Con questo saggio l’autore vuole contribuire a pensare l’epoca presente, a porre delle domande sul dominio del nulla sull’essere, sempre più incombente, sull’avanzare del deserto spirituale, nel dolore silenzioso dei tanti senza voce, senza destino. E chiama in causa la necessità di elaborare una filosofia capace di progettualità sociale e comunitaria.

 


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La metafora assume una polisemia di significati formativi: è l’immagine che porta al concetto; è configurazione di tensioni concettuali dal forte contenuto emozionale, non estranee alla razionalità nella sua processualità radicata in piani differenti. È totalità umana: fantasia, sentimento e razionalità sono un trittico imprescindibile per l’uomo teoretico. La metafora “trasporta” il concetto, è libertà antitetica alla riduzione dell’essere umano ad ente senza autentica progettualità, è l’affacciarsi dell’essere umano fuori dal corpo. La metafora educa al possibile. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente. Creare e ripensare concetti con la metafora rompe la successione sempre eguale della linea del tempo. «Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore», in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di «portare l’oggetto sotto gli occhi» (Aristotele,  Retorica, III, 10, 1411a).

 


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L’ospite inquietante, il nichilismo, è fra di noi.

Perché possa esserci vita degna d’essere vissuta è necessario riportare il fondamento veritativo nella vita degli esseri umani. Costanzo Preve ha fatto dell’esodo dal nichilismo economicistico il telos del suo filosofare. Dalla periferia in cui si è posto ha guardato la complessità del problema e il suo volto meduseo, senza distogliere lo sguardo. Ha testimoniato con la vita e le opere che il nichilismo non è un destino, ma una condizione trasmutabile. Sentiamo l’assenza di uomini dalla passione durevole.

Questo testo è dedicato a Costanzo Preve e a coloro che vogliono accostarsi al problema avendo deciso di non distogliere lo sguardo, di non voler più vivere nell’indifferenza, in un mondo di sole merci.


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Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e po­litico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.

 Questi i temi discussi

Prologo / L’uroboro / Nichilismi / La tirannia del presente: l’isola di Pasqua / Il verme nel nocciolo / Il pensiero debole / Massimo Bontempelli / L’olismo come paradigma irrinunciabile / La bicicletta di Bontempelli / La metafora della caffettiera / Concreto ed astratto / Lo sguardo contro il nichilismo / Destra-Sinistra / Pedagogia della passività / Le categorie della quantità e della qualità / La categoria della quantità e la morte / Modelli metafisici / Il regno dei lupi / La libertà / La derealizzazione / La sussunzione / Il bene / Il narcisismo-derealizzazione / Perché educare? / A scuola di nichilismo / Filosofia e Storia / La storia come necessità / Tempo e memoria / Masssimo Bontempelli / Costanzo Preve / Narcisismo, concretismo e arbitrarismo / Le miserie dell’abbondanza / La metafora della valle / Verità e libertà / “Ex ducere” / Mutazione antropologica / La Storia come asse culturale / Il Gesù di Bontempelli / La società del disprezzo di sé / Bontempelli interprete di Marx / Marx ed Hegel / L’esperienza della decrescita / Umanesimo integrale.

 


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I filosofi ci accompagnano nel tempo della nostra vita, e imprimono svolte creatrici ai concetti che noi stessi formuliamo. Il presente testo è il risultato del tempo trascorso assieme agli scritti di Costanzo Preve, della sua presenza nelle mie riflessioni, del confronto dialettico e dello scontro vivo, alimento continuo e condizione sine qua non, perché emergessero i temi, le problematiche, le riflessioni sull’ordito del mondo storico. L’indugiare assieme con lo sguardo dialettico è la cifra del pensiero vivo, mai schematico o prefabbricato, e questo è realmente comunità. Mi piace ricordare la metafora dello sguardo della civetta con la sua profondità orizzontale e verticale, che tematizza il noto, e consente al reale di diventare razionale. Se tutto ciò manca, il pensiero resta spoglio, e l’essere umano animalizzato, involuto nel suo abbandono etico. Ciò che, invero, può consentire di trascendere tale tragica condizione è una maturazione del pensiero, di quello che si configura, prende forma, in maniera solare, dal caos latente che nutre le nostre azioni.

 

Prologo / Introduzione / Il tempo del gregge / La perversione di Spinoza / Il regno dello spazio-materia uniforme / La religione abramitica della merce / Empatia negativa / Il Sessantotto / Solo materia… / Il “no” che non fu detto / Pedagogismo senza pedagogia / La pedagogia della resistenza contro l’antiumanesimo del pedagogismo / La glebalizzazione della scuola / La scuola aptica / “Sinistra” di governo e globalizzazione / Pensiero cerimoniale e pensiero critico / Linguaggio e globalizzazione / Verstand – Vernunft / Verità – esattezza / La società del niente / PCTO / Formare alla plebe / Organico orientamento / Pensare come una macchina / Coding: la definizione degli esperti / Populismo pedagogico / Formazione alla complessità-difficoltà / Democrazia e formazione / La sussunzione linguistica / Emancipazione / Preside manager / A scuola di politicamente corretto / A scuola di Ponzio Pilato / Automatismi / Dignità del docente / Che cos’è la scuola? / Esodo / Educazione filosofica e filosofia dell’educazione / La scuola come presidio contro l’alienazione / Scuola “senza classi” / L’ontologia dell’essere sociale / Disumanizzare donne e uomini / Post-modernismo nichilista / Esemplificazione e dominio / Femminismo di tradizione / Femminismi / Inclusione / Post-femminismo / Maschile femminile / La compiuta peccaminosità / Capitalismo logofobico / Metafisica e politica / Il tempo includente / Che fare?


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Rileggere Pinocchio è come trovarsi palesate, senza per questo cadere nella disperazione e nel pessimismo, le armi più efficaci che il potere usa per dominare. Le avventure di Pinocchio sono le nostre avventure, sono l’inquietudine che non si rassegna ad una vita anonima, sono l’incessante tensione per uscire dalla “caverna platonica degli inganni”. Pinocchio, sintomo di un mondo disumanizzato, è altresì la vitalità di colui che cerca la guarigione. I processi di identificazione con il burattino favoriscono il riattivarsi di energie critiche, per cui rileggere Pinocchio può significare l’inizio di un processo di emancipazione dalla “banalità del male” in cui siamo immersi, e che spesso rimuoviamo per cedere agli automatismi senza concetto. Il testo di Collodi ci invoca al dialogo, ci sollecita ad affinare lo sguardo nella profondità del buio delle “caverne in cui siamo inconsapevoli prigionieri”. All’antiumanesimo del pessimismo è necessario contrapporre la forza storica della vita, la quale non si lascia prosciugare dal sole nero del potere, ma sa leggere il presente utilizzando le categorie del pensiero, generatrici di possibilità. Solo la parola libera: ne è testimonianza la storia di Pinocchio. Il burattino insegna a bambini e adulti che l’avventura della vita esige partecipazione, che la salvezza è sempre possibile, se si rinuncia ad un individualismo senza storia e bellezza. La maieutica filosofica necessita di simboli che favoriscano il logos. L’opera di Collodi, quindi, si presta ad esse­re un insospettato veicolo di consapevolezza comunitaria.


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La filosofia è una pratica ermeneutica. La ricostruzione genetica della particolare postura filosofica di Costanzo Preve è un’operazione complessa, e certamente esercizio quanto mai laborioso, a causa della copiosa produzione di scritti e dell’ordito di mezzi da lui scelti per portarla a noi. Malgrado tali difficoltà, può senz’altro affermarsi che la filosofia di Costanzo Preve è stata costantemente dialogica, aliena all’innalzamento di sterili palizzate ideologiche, poiché al contrario mirava – facendo leva sulla forza del concetto – a scanalare brecce nelle cinte fortificate di purismi e ideologie rinchiuse in se stesse. È questa una capacità che gli ha consentito di elaborare una sintesi tra tradizioni e filosofi differenti, divergenti, allo scopo di ritrovare un sentiero che conducesse fuori dalla palude del nichilismo. Tale genesi composita fa sì che l’addentrarsi nel suo pensiero sia un’esperienza di “straniamento”, perché egli sa mettere proficuamente in crisi le facili e sterili dicotomie su cui reggono quei poteri sclerotizzati nell’abitudine, assieme a quei pregiudizi ideologici che favoriscono il consolidamento dei totalitarismi ideali, siano questi confessi e riconosciuti o meno.


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La comunità è linguaggio, e senza lingua viva non vi è politica. Il conflitto politico è in tal senso dialettica generativa, crea nuovi linguaggi e struttura significati condivisi. Identità e saperi sono a loro volta codici, che si commisurano, integrano e completano l’un l’altro. Infine, l’Umanesimo è il filo d’Arianna linguistico dell’ingegno, sulla scorta del quale l’umanità dà forma alle pratiche della vita. Il regredire dei linguaggi e l’agorafobia per tale generatività connotano la fase apicale del capitalismo: la parola si ritrae, e da momento aurorale dello spirito degrada a semplice trasmissione dati. Il linguaggio è storia, poiché presenta concetti che rompono l’ossificazione dei saperi.

Al contrario la trasmissione dati è la negazione stessa della storia, poiché il dato economico è mera conferma del sistema e rifugge l’autentico, in una fobia della generazione di senso. Il dispositivo del potere lavora a neutralizzare la volontà veritativa dei saperi, per sostituirla con una coazione a ripetere dati. Svanendo una riflessione condivisa sul “ben vivere”, l’essere umano regredisce, e diventa più simile ad animali di altre specie, dotati della voce ma non del logos. Per emanciparsi dall’oblio della parola, occorre sottrarsi alla negazione del linguaggio, tallonando il dispositivo di dominio nella sua opposizione quotidiana ai linguaggi e contrastando la microfisica della guerra mossa al logos.


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Perché la Metafisica, e con essa la filosofia, sembrano scomparse dall’ordine del discorso? È questo il sintomo di una patologia cha attraversa il corpo sociale. La Metafisica pone al centro l’essere umano e la complessità concettuale e ambientale da cui emerge. Resecare la Metafisica significa porre la merce al centro e con essa lo scientismo con il quale l’economicismo trionfa. L’essere umano, addestrato al mero specialismo, non sa più porre in relazione le parti: la realtà così diviene irrazionale. La Metafisica strappa l’essere umano dalla passività: lo emancipa dal giogo delle passioni tristi. Insegna a correlare: solo dalla relazione può emergere il senso delle parti. La tempesta dell’irrazionale non lo abbatte, poiché media con il logos la realtà sociale e storica, ne scorge le contraddizioni, condizione prima per poter ridiventare attore della storia. La Metafisica insegna a guardare ciò che la quantificazione occulta, ricostruisce genea-logie e genetiche. L’irrazionale non è subìto, ma è riconfigurato con la categoria della totalità. Dove regna la separazione, il dominio trionfa. La Metafisica svela e rileva i processi di ipostatizzazione dell’economia e dello scientismo.


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Il nichilismo è crisi dell’immaginazione e della fantasia etica. Auschwitz non era solo un luogo di concentramento di assassini e di assassinati, ma un’immensa macchina atta a lavorare e a trasformare la materia. Anders descrive tale crisi scorrendo in parallelo le biografie contrapposte di A. Eichmann e C. Eatherly. Il primo rinuncia all’immaginazione etica, diviene adattivo con convinzione, abdica alla relazione con l’altro e con la storia. Come l’ultimo uomo descritto da Nietzsche, è manager dello sterminio, ed è l’emblema del modo in cui la tecnocrazia plasmi uomini deprivati di una grammatica interiore. Il secondo, invece, è testimonianza viva, per un verso, della capacità della mega-macchina tecnocratica di manipolare corpi, di calare una cortina di ignoranza presentandola come la verità, ma per un altro anche del fatto che l’essere umano conserva sempre un nucleo metafisico indistruttibile: il lògos. Il pensiero è immaginazione razionale, rottura della foschia opprimente del politicamente corretto, e consente un accesso a una rielaborazione della storia e una riapertura dei suoi chiavistelli. Eatherly trasforma la propria partecipazione al bombardamento atomico di Hiroshima in prassi politica ed etica: uomo dotato di immaginazione e fantasia etica, costui palesa la capacità umana di fuoriuscire dalla tagliola del sistema, di rischiare un nuovo inizio. La crisi nichilistica dell’immaginazione induce Anders ad elaborare vie di fuga dalla crisi metafisica che attanaglia l’Occidente, attestandosi su un livello etico all’altezza della crisi storica in cui siamo situati. A questo autore non è mai stato perdonato l’aver alzato il velo dell’ignoranza sul bombardamento atomico: chi ha l’immaginazione cui si accennava non dispone su variegate gerarchie le diverse vittime dei diversi totalitarismi, perché ogni essere umano incenerito dalla violenza totalitaria non può che indurci a una prassi di indignazione, conditio sine qua non per qualsiasi progettualità comunitaria.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Con le parole di Gianni Rodari domandiamoci perché la terra è ridotta a “pezzettini”. Cambiare paradigma è l’unico modo per salvare vite, territorio e pianeta, con un nuovo umanesimo che coniughi la vita con il territorio e che abbia nella “cura” preventiva il centro dell’agire. La natura non è matrigna, sono i modelli economici e di gestione delle comunità ad esserlo.

Paolo Pileri (docente di Pianificazione territoriale e Ambientale al Politecnico di Milano),
L’intelligenza del suolo. Piccolo atlante per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile, Altreconomia, 2022.

Il suolo è la pelle del Pianeta, pochi centimetri brulicanti di vita senza i quali non sarebbe possibile produrre il cibo necessario per l’uomo e gli animali. Il suolo è generoso: dona questi e altri benefici gratis. E noi lo distruggiamo. Questo libro spiega perché è indispensabile proteggerlo. Il suolo è bello e vivo: è un ecosistema straordinario, un consesso di miliardi di esseri viventi in pochi centimetri, un laboratorio che trattiene e cede l’acqua, sequestra la CO2 più di qualsiasi pianta, crea l’humus che rende fertile la terra e che permette la nostra vita e quella degli animali ed è una vera farmacia a cielo aperto. Come scrive Henry David Thoreau il suolo è “poesia vivente”. Il suolo – insomma – non è una superficie, ma uno “spessore”. Il suolo non è solo intelligente ma soprattutto generoso, perché ci dà tutto questo gratuitamente. Ma purtroppo è anche molto fragile, ed è inerme di fronte alla stupidità e all’avidità di chi lo considera una “risorsa” da sfruttare. Non è rinnovabile né resiliente: quando viene cementificato, impermeabilizzato, eroso o inquinato è perso per sempre. Un libro che lancia un vigoroso appello, per riflettere su quello che abbiamo sotto i piedi e mobilitarci per proteggerlo. Perché non basta inserire la parola ambiente in Costituzione se ogni secondo che passa in Italia vengono distrutti due metri quadrati di suolo e la politica ignora il pensiero ecologico. Non è un caso che manchi ancora una giusta legge nazionale sul consumo di suolo.


In Emilia-Romagna ci sono quasi centomila persone a rischio frane. Statistica ISPRA 2017.

La minaccia dei fiumi “tombati”. Una rete di 12 mila chilometri

Fiumi tombati

Consumo di suolo, in 60 anni persa un’area come l’Emilia Romagna

Salvatore Bravo – La «Metafisica umanistica» di Luca Grecchi: … sfregando insieme, non senza fatica, queste realtà – ossia nomi, definizioni, visioni e sensazioni –, le une con le altre, e venendo messe a prova in confronti sereni, e saggiate in discussioni fatte senza invidia … … dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce nell’anima …

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Sommario

Estratto

I suoi libri

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo -Günther Anders tra Auschwitz e Hiroshima. Le vite parallele di Adolf Eichmann e Claude Eatherly come scandaglio filosofico.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Che tipo di umanità è l’umanità incapace di donare il proprio tempo? Parliamo del libro di Simone Lanza: «Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale».

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Ricorre, tra le pagine di questo intenso scritto, la domanda rousseauiana, se sia ancora possibile perdere tempo per educare le nuove generazioni. Come si può uscire dallo schiacciamento sul presente dando futuro con il passato? Partendo dalla quotidiana esperienza pratica di docente e formatore, l’autore sviluppa una riflessione teorica sulle difficoltà dell’educazione odierna segnata sempre più dalla velocizzazione, dalla perdita di autorità delle figure educanti, dalla perdita di mediazione umana dovuta all’espansione del tempo-schermo, del démariage e della crisi del matrimonio, tutti aspetti che mostrano le conseguenze sulla salute psico-fisica dei più giovani. Il saggio propone di risemantizzare parole quali autorità, testimonianza, limite, mediazione, ordine, disciplina, regole in una pedagogia dell’utopia. Pensate lontano dall’accademia e dalla formazione come scienza, ma scritte con spirito divulgativo e rigore scientifico, le riflessioni si rivolgono a insegnanti, genitori, nonne, educatori, animatrici, logopedisti, catechisti, e allenatrici, a chiunque, nella comunità educante, abbia ancora a cuore la questione politica della relazione tra generazioni

Simone Lanza, Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale. Prefazone di Serge Latouche, Editore Writeup, 2020, pp. 170.


Presentazione Streaming del 11 dicembre 2020. Discute con l’autore Piero Flecchia.


 

Intervista Radio Popolare, 1D2 del 9 dicembre 2020:

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Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.

Simone Lanza

Perdere tempo per educare

Frontespizio della prima edizione dell'Émile ou de l'éducation (1762) copia

Frontespizio della prima edizione dell’Émile ou de l’éducation (1762).

«Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Jean Jacques Rousseau, Emile, 1762


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comrpessionespaziotemporaleLa compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è» (Harvey).

compressionespaziotemporaleViviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale.[1] Nella nostra epoca tutto sembra schiacciarsi sul presente. Il futuro, anziché essere portatore di Progresso, come fu almeno dall’Illuminismo, è per la prima volta vissuto dalle nuove generazioni come minaccia. Viviamo in un’epoca di passioni tristi che al futuro promessa ha sostituto il futuro minaccia – ci spiega Benasayag.[2] La questione del tempo, la percezione soggettiva del tempo, è importante per capire la crisi dell’educazione oggi: mi chiedo infatti se alla luce della nuova percezione del tempo sia ancora valido l’ideale di Decroly e di tanti pedagogisti?

La crisi della modernità

La crisi della modernità

«Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre […] i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue».[3]

L' epoca delle passioni tristi

Il futuro minaccia sta investendo anche l’educazione? Quali sono i principali ostacoli e problemi nel tempo della globalizzazione in cui sono ingabbiate le sfide pedagogiche? Parlerò della questione del tempo affrontando la questione delle nuove tecnologie e della crisi dell’autorità.

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Una scuola per la vita attraverso la vita

Una scuola per la vita attraverso la vita

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La velocità delle bolle di sapone nell’epoca del tasto play

La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazionViviamo nell’epoca della pedagogia del tasto play.[4] Gli oggetti educano e le cose hanno da sempre avuto un potere educativo. Le bambole educano, le macchinine educano. I giocattoli di legno educano. È attraverso gli oggetti, i giocattoli, che si differenziano i generi. Adesso hanno persino inventato il Lego per bambine. Purtroppo non posso affrontare il tema di come ancora oggi gli oggetti servano a differenziare i generi. «Se gli oggetti educano – si chiede Laffi – qual è la pedagogia messa in atto da un ambiente materiale governato dal tasto play?». Si «indebolisce l’idea di una mediazione riflessiva come premessa dell’agire» e si rischia di formare al delirio di onnipotenza e al cinismo.

Ecco i rischi maggiori:

«A fare play non è il bambino ma il giocattolo, letteralmente è il giocattolo che gioca, suona e recita, chi è di fronte schiaccia e assiste, come davanti a un televisore. […] Quale idea del mondo, quindi: la realtà come spettacolo, noi come pubblico, l’eliminazione della fatica o dell’apprendimento, la promessa implicita che tutto ci è dato, ed è qui per noi, non per intrinseca necessità o autonoma esistenza, l’impossibilità di incontro e casualità, sotto il nostro primato di spettatori a cui il mondo deve la sua recita».

E ancora:

«Il consumo tecnologico disattiva la ricerca informativa: se le cose devono funzionare, non importa nemmeno il come e il perché, l’approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che ci precede – Chi l’ha inventato? Chi l’ha costruito? Da dove viene? Di che materiale è? – perché tutte quelle voci del sapere le archiviamo, delegando ai marchi di sicurezza una generica garanzia sull’utilizzo. Tutta la tensione dell’utilizzatore tecnologico è invece su ciò che segue da qui a poco, sull’incantesimo del funzionamento, sulla magia dello scatto. È anche così che si forma un rapporto con il mondo disinteressato alle origini, indifferente alla natura delle cose, che non interroga ma aspetta, che non chiede ma guarda ciò che arriva».

Senza pensarci mi sono imbattuto nel tasto play quando mi sono posto la domanda se regalare o meno una pistola elettrica che spara bolle di sapone. L’effetto è eccezionale: in pochi secondi uno spazio enorme si riempie di migliaia di bolle. Immaginatevi un bambino che con la sua pistola riempie una sala enorme come questa, immaginatevi gli sguardi di bimbe e bimbe spettatori che guardano in alto e ovunque le migliaia di bolle. Ma quale fatica, quali capacità sviluppa rispetto alle tradizionali bolle che con fatica e insuccessi uscivano due o tre alla volta e che bisognava rincorrere una a una? Si schiaccia un tasto e si guarda l’effetto. Quelle tradizionali sono un gioco, anche faticoso. Inutile dire che la durata del barattolo della pistola elettrica è dieci volte inferiore e che quindi spenderai dieci volte tanto: velocità e consumo.

La questione qui è però un’altra ancora: a quale idea di mondo ci educa questo oggetto elettronico che non è più un gioco ma uno spettacolo? La velocità degli oggetti della cameretta del tasto play cosa modifica a livello antropologico? Laffi ci chiede: che ruolo gioca nella capacità di aspettare e che tipo di concentrazione sviluppa?

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Tempo-schermo

Il dispositivo pedagogico che educa al mondo dello spettacolo è lo schermo. Con schermo bisogna intendere la TV, ma anche la console di gioco, gli smartphone, i computer, i tablet. Mentre il fascino degli schermi aumenta, il danno si estende: al tempo davanti alla TV si somma quello di fronte ad altri schermi. Lo schermo è l’oggetto davanti a cui adulti (e quindi anche minori) stanno la più parte del tempo. La questione diviene problematica non tanto perché lo schermo in quanto tale abbia caratteristiche negative ma perché un eccesso di tempo-schermo in età evolutiva è dannoso. Non perché lo schermo sia in sé neutrale e quel che conta sia l’uso (individuale) che se ne fa, come se ci fosse un uso buono e un uso cattivo delle tecnologie. Esiste un uso sociale delle tecnologie e le tecnologie riflettono e proiettano un modo concreto di stare al mondo: in questo caso educano a stare al mondo come spettatori e spettatrici. Lo schermo inoltre sviluppa, nell’età dello sviluppo, un tipo di concentrazione e di attenzione che inibisce lo sviluppo di altre capacità tra cui l’empatia e le capacità relazionali, la riflessione, il senso critico.

Al di là del fatto che la pubblicità (che è la condizione e il fine dello schermo) è stata giustamente definita da Latouche «inquinamento spirituale»,[5] quando si considera la questione dello schermo-educatore ci chiediamo quali sono gli aspetti pedagogici che l’esposizione a schermi pone in un’epoca in cui sembra – dalla ideologia dominante – che i nativi digitali abbiano propensioni quasi naturali a padroneggiare le tecnologie?

Miseria umanaLa più parte di pediatri e psicologi dello sviluppo, ritiene che in età prescolare non si debbano esporre a schermi prima di 3 anni e che fino ai 10 occorra parlare comunque di minuti al giorno. L’Associazione pediatri del Canada e degli Usa sconsigliano assolutamente l’esposizione di bambini/e prima di 2 o 3 anni. Siamo quindi di fronte a studi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e non da opinioni di sette luddiste anti-capitalistiche. Nella sua pratica una ricercatrice che lavora nei servizi sociali francesi ha riscontrato due motivazioni molto radicate nelle famiglie che per la grande maggioranza non seguono queste indicazioni: 1) lo schermo è un buon baby-sitter che riduce conflitti in famiglia; 2) lo schermo rende più intelligenti i bambini (per es. imparano persino le lingue).

Le conseguenze sono abbastanza note ma è utile riepilogarle.

  1. a) La sedentarietà. Tutti i programmi di lotta all’obesità segnalano la TV e gli schermi come un elemento negativo; lo schermo è un guinzaglio alla mobilità infantile.
  2. b) La mancanza di tempo per la conversazione: le stime parlano di un raddoppiamento dagli anni Ottanta del Novecento all’inizio del secolo XXI – da 15-20 ore settimanali alle 40 ore settimanali a cui corrisponde un dimezzamento del tempo di conversazione in famiglia in nord America e Europa.
  3. c) Forti limiti allo sviluppo psicomotorio. Per i bambini e bambine prima di 10 anni esposti a un tempo-schermo superiore a 1 ora la giorno c’è un impatto globalmente negativo a livello emozionale e intellettuale che – a seconda dei casi individuali e delle ore di eccesso – comportano: problemi di attenzione, problemi di lettura, problemi di sonno, di aggressività, incapacità di giocare da solo/a, ridotte capacità di immaginazione. In particolare, in età prescolare è essenziale lo sviluppo di capacità manipolatorie per le quali si rende importante usare quanti più materiali e supporti diversi: è la fase della scoperta senso-motoria in cui lo sviluppo di un solo senso (quello visivo) è limitante e anche inibente perché il tipo di attenzione richiesta è diversa e minima. L’attenzione è infatti capacità che si articola in due livelli: primaria e secondaria. È la capacità attentiva secondaria e volontaria quella prettamente umana intorno a cui si sviluppa, tra l’altro, la capacità di attenzione congiunta, la capacità di cooperazione e di empatia. Finora si sono segnalati i danni a prescindere dal contenuto a cui sono esposti/e.
  4. d) Problemi maggiori intervengono quando il tempo-schermo si riempie (come spesso succede) di pubblicità e contenuti violenti e machisti. I danni comprendono, in particolare, sviluppo di comportamenti quali:

– Disconnessione dalla realtà, intossicazione da internet.
– Bullismo, inciviltà, verbale e abusi fisici, criminali e non.
– Rischi di dipendenza, caso limite il gioco d’azzardo on-line.
– Ossessione dell’apparenza, disturbi alimentari, anoressia.
– Omofobia e misoginia.
– Ipersessualizzazione della vita, pornografia, esibizionismo, atteggiamenti sessuali a rischio.
– Lesioni dell’autostima, isolamento, depressione, suicidio.

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Invisibilità della gerarchia

Le meraviglie del possibile

Le meraviglie del possibile

Se deleghiamo il tempo per educare a macchine elettroniche e schermi, come possiamo pretendere il riconoscimento di autorità? L’analisi di Laffi si conclude con una splendida e tragica novella di fantascienza – Il Veldt – di Ray Bradbury,[6] che ci disegna un quadro preoccupante del destino dell’autorità quando molto tempo educativo viene affidato alla tecnica sostituendo alla relazione umana quella bambino/a – schermo o tasto play. La splendida cameretta computerizzata comprata apposta per i figli, in cui ogni desiderio si concretizza come vero spettacolo, finisce per inghiottire i genitori. I figli riconoscono come genitori solo la tecnica. Un 2001 Odissea nello spazio in versione pedagogica.

Siamo oggi di fronte a un fattore nuovo e assolutamente inedito. Educati in un mondo di pari, trattati come prìncipi e principesse, trattati da amici dai genitori, trattati da piccoli adulti capaci di scegliere i propri acquisti dal marketing e dalla pubblicità, enfatizzando smisuratamente la loro volontà, i bambini e le bambine di oggi non vedono la gerarchia. A me è capitato che una bambina di dieci anni mi chiedesse perché dovesse dare del Lei agli adulti se gli adulti continuavano a darle del tu. Ci sono un’infinità di aneddoti che si potrebbero raccontare al riguardo. Quel che conta è che siamo di fronte a quella che Marco Vinicio Masoni ha definito l’invisibilità della gerarchia. Consapevoli del proprio diritto al rispetto, sono anche consapevoli di essere individui e si percepiscono – perché vengono fatti percepire come tali – come individui alla pari con gli adulti. Consapevolezza strana che stride con quanto di più caratteristico ha l’essere dei nuovi venuti al mondo. Nella venuta al mondo si disvela la dipendenza e la socialità dell’essere umano, che invece oggi viene negato in nome del primato ontologico dell’individuo (mito su cui si fonda la pseudo-scienza economia; qualcuno non a torto parla di invenzione tutta moderna dell’individuo). Ovviamente non è solo la pedagogia del tasto play e il rapporto con le tecnologie che ha spinto il processo di individualizzazione e l’interiorizzazione del neoliberismo fin nella più tenera infanzia. Possiamo nominare almeno: la riduzione della mortalità infantile, l’idealizzazione dell’infanzia, le metamorfosi contemporanee della coppia e dei ruoli genitoriali. Questioni che qui non tocco.

Quella che dal punto di vista del bambino e della bambina è l’invisibilità della gerarchia è – per gli adulti – la crisi dell’autorità.

Tra passato e futuroPer Arendt[7] il secolo dell’infanzia avrebbe dovuto emancipare il bambino liberandolo dall’imposizione del mondo adulto. E Arendt si chiede quindi come è stato possibile che il fanciullo fosse esposto alla pubblicità. Anziché essere protetto e cresciuto in un mondo a misura di bambino, il bambino del XX secolo è stato infatti ridotto a piccolo individuo. La questione è così posta:

«[…] la crisi dell’autorità che educa ha un nesso strettissimo con la crisi della tradizione, ossia del nostro modo di considerare il passato. Sotto questo aspetto la crisi pesa soprattutto sull’educatore, il quale ha il preciso compito di mediare tra il nuovo e il vecchio, per cui il massimo rispetto del passato viene richiesto dalla sua stessa professione».

Perché, in realtà, il problema che ci pone Arendt è non solo che l’autorità dei genitori è in crisi, così come l’autorità religiosa, ma che questa autorità genitoriale viene meno quando i genitori non si sentono più responsabili del mondo in cui vivono, quando i valori del passato non servono a spiegare il presente. L’essere umano del XX secolo

«non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”».

In questo processo di deresponsabilizzazione, l’adulto/a perde autorità. Il bambino e la bambina vengono quindi in realtà esposti al pubblico. Arendt, parlando della crisi dell’istruzione della società statunitense degli anni Cinquanta del Novecento, coglie in realtà alcune questioni essenziali della crisi dell’educazione nella società di massa. Oggi, per me, l’esposizione al pubblico è soprattutto (ma non solo) esposizione allo schermo. In particolare, per Arendt questa esposizione al pubblico è il nuovo problema che a sua volta ne genera di nuovi. Perché, in realtà: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza». Ne sa qualcosa il Mercato e, ancor meglio, il Marketing.

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L’antiautoritarismo del mercato

Ne trae infatti vantaggio chi ha capito che psicologia e pedagogia possono servire anche al Marketing. Si chiama Kids Marketing. Il bambino viene infine incoronato dal mercato che «ha capito quanto vale la sua quota e come può influenzare le decisioni anche degli altri consumi famigliari».[8] Il Kids Marketing, senza alcuna remora etica, con la consulenza di psicologi e pediatri dello sviluppo, ha l’obiettivo di forgiare i desideri dei bambini. Sempre più spots pubblicitari sono infatti rivolti a loro nel tentativo di fidelizzare fin dalla più tenera infanzia e utilizzare i bambini e le bambine per influenzare i consumi familiari: si è calcolato che arrivano a modificare fino al 33% dei bilanci familiari. Il Mercato è quindi un agente “anti-autoritario” che fa leva su quella dittatura della maggioranza dei pari di cui parlava Arendt (salvo poi avere la sua autorità Suprema, il Dio, che per dirla con Marx, non ne tollera altri: il Denaro). La dittatura della maggioranza genera infatti conformismo sociale: il conformismo è usato dai Brand per promuovere prodotti e i prodotti sostengono il conformismo. Insomma anche se non guardi la pubblicità rischi di essere un “looser” se non hai l’ultimo paio di scarpe di marca, e senza che te lo chieda alcun marchio rischi l’emarginazione sociale.

Ci sono poi veri e propri stratagemmi usati dal Mercato che entrano nella relazione genitore/trice-figlia/o. Il potere esercitato per guadagnare l’acquisto di un bene che poi i piccoli consumeranno in prima persona, è conosciuto come Nag Factor. Il nag (brontolio e tormento) factor è quell’insieme di azioni assillanti che bambini/e mettono in atto durante l’infanzia (e anche nella prima adolescenza) per convincere/costringere i parenti ad acquistare uno specifico bene di consumo (dal famoso ovetto Kinder posizionato alla cassa all’altezza giusta nel momento giusto alla consolle di giochi).

Nati per comprareC’è poi il ricatto per chi non ha tempo da perdere in conflitti con i propri figli. È il Guilt Money, quella disponibilità a spendere ed essere vulnerabile ai capricci del bambino che è inversamente proporzionale al tempo. Secondo Judith Shor,[9] è ormai dimostrato da dati empirici che i genitori che passano più tempo al lavoro si sentono in colpa e comprano più giochi dei genitori che trascorrono più tempo con i loro figli.

Se confrontiamo il tempo-schermo con il tempo di dialogo in famiglia ci possiamo rendere conto di chi sta educando le nuove generazioni.[10] La tirannia della maggioranza di cui ci parlava Arendt è quindi rafforzata da un potere della società attraverso il conformismo e la pubblicità (che ha un ruolo chiave perché si serve del senso comune per promuovere un logo e rinforza il luogo comune). Un potere esercitato fortemente fin dalla tenera età sui bambini per indurli al consumo. Manca il tempo per esercitare il conflitto, manca il tempo per stare in relazione. Questo tempo viene riempito da oggetti che divertono e intrattengono nello spettacolo. Educano spettatori/trici e non cittadini/e.

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Vie di uscita

Il gioco libero oggi deve essere programmato. Anche se può sembrare un paradosso, lo è soltanto in apparenza. Purtroppo, vivendo in una società che programma tutto, bisogna pensare a lasciare tempo libero. Questo vale per la scuola, per le famiglie, per ogni istituzione educativa. Il gioco libero permette l’apprendimento. In primo luogo del saper giocare. Lasciateli liberi di giocare, di sbagliare, di cadere, di farsi male, di autogestirsi almeno i giochi! Nel gioco si impara a stare nelle regole, a divertirsi, a vincere, a perdere, a stare nelle regole del gioco, a inventare giochi, a fantasticare. Nel gioco libero si sta in relazione. Oggi manca il tempo libero. È tempo di ricrearlo almeno per loro! Meglio la noia, piuttosto che tante attività strutturate. Insegna di più a stare al mondo.

Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e feliciNel gioco e nelle attività senza adulti i bambini e le bambine imparano a litigare e gestire i propri conflitti. Per Daniele Novara la proposta contenuta nel libro Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e più felici,[11] riassume tutto il suo lavoro ormai più che ventennale. Il conflitto è il principale antidoto alla violenza (e non l’origine):

«[…] l’educazione alla socialità passa piuttosto attraverso l’educazione al litigio: è fondamentale insegnare a stare insieme anche quando è difficile; a gestire i problemi e le prepotenze senza utilizzare la violenza; a reagire ai comportamenti vessatori trasformando la relazione e il gruppo in occasioni di apprendimento e creatività piuttosto che in ambiti di paura e conformismo».

La proposta metodologica è molto interessante per genitori e insegnanti. Lasciate che i bambini litighino fra loro! Il litigio tra bambini sviluppa le capacità di mediazione, relazione e rinuncia che saranno necessarie da adulto/a. Per aiutare i nostri figli a gestire i conflitti e per crescere adulti più competenti nelle relazioni interpersonali occorre lasciare litigare i bambini, non cercare il colpevole, non imporre né fornire la soluzione, ascoltare e legittimare tutti i punti di vista, favorire l’accordo creato dai bambini stessi. Al primo accenno di litigio infantile la maggior parte degli adulti tende a intromettersi e reprimere il conflitto, nella convinzione che sia necessario imporre immediatamente una rappacificazione. Se lasciati liberi di agire, i più piccoli imparano a gestire le relazioni. Del resto il vissuto dei bambini è spesso diverso: «non stavamo litigando, stavamo solo giocando…».

Spesso i bambini trovano da soli l’accordo o comunque la soluzione. È quanto emerge da diverse ricerche sul campo: si è scoperto che lasciandoli litigare si sono ridotti i litigi e gli interventi degli insegnanti. Sono aumentati gli accordi spontanei e le rinunce. Lasciare litigare liberamente presenta quindi notevoli vantaggi: i bambini si autoregolano, i maschi usano più le parole della fisicità, tutti/e imparano a confrontarsi con altri punti di vista e sviluppano l’empatia, imparano a trovare un’alternativa e a lasciare perdere se necessario, sviluppando in compenso autostima e creatività.

La scuola e l'arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici

La regolazione del conflitto può anche essere facilitata e insegnata. Per questo bisogna perdere molto più tempo. L’ascolto, benché sia la capacità basilare per ogni materia, non è insegnato in nessun livello scolastico. Solo pochi insegnanti perdono tempo e non concludono il programma per ascoltare i/le propri/e alunni/e. La proposta di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli[12] prevede di insegnare l’ascolto attivo che è molto importante e si distingue dall’ascolto normale perché presuppone una relazione e la volontà di stare in relazione, di riconoscere che la persona che abbiamo di fronte è intelligente e ha le sue ragioni. È importante pensare che il conflitto sia inevitabile perché siamo diversi e non ne dobbiamo avere paura. Così il conflitto si può trasformare in risorsa e il punto di vista diverso può aiutare a dare maggiore profondità, come la visione binoculare. Per questo bisogna intendere il conflitto come qualcosa di creativo ed entrare in conflitto senza prefigurarsi l’esito ma prestando ascolto. C’è anche bisogno di una autoconsapevolezza emozionale, capace di cambiare l’idea comune di emozione. Solitamente infatti siamo soliti concepire le emozioni come qualcosa da controllare per evitare di perdere il controllo. Oggi sappiamo che le emozioni non sono nulla di naturale, tanto meno di istintuale: come il linguaggio le emozioni vengono apprese. Quindi, per ascoltare, occorre abbandonare il mito della spontaneità delle emozioni e incontrare qualcuno/a che pratichi l’arte di ascoltare. Si perde molto tempo, ma i risultati sono importanti.

Su come il corpo delle donne sia rappresentato dagli schermi televisivi italiani sta svolgendo un eccellente lavoro educativo Lorella Zanardo. Prima ha girato il documentario Il corpo delle donne. Ora sta girando per le scuole con il suo staff. Un esperimento molto interessante è quello promosso da Brodeur, che ormai si è diffuso in quattro paesi. Nel convegno Maitrise des écrans – Parigi il 30 aprile 2014 – insegnanti, alunni, genitori, studiosi hanno confrontato le loro esperienze di spegnimento degli schermi sperimentate in Francia dal 2006 e in Canada dal 2003. I tre risultati maggiori sono l’aumento del tempo della conversazione in famiglia, l’aumento del tempo dedicato allo sport (bicicletta soprattutto), l’aumento del tempo dedicato alla lettura. Sono i risultati sul lungo periodo, quando gli alunni tornano ad accendere gli schermi con maggiore senso critico. In questi esperimenti la settimana è vissuta come una partita sportiva. Nessuno è obbligato a spegnere la TV. Sono i bambini il vero motore, i giocatori entusiasti. Molto spesso è la prima volta che hanno questa possibilità di scelta. Nella testimonianza dei genitori mi ha colpito moltissimo sentire che molte famiglie avevano proprio il desiderio che ci fosse una istituzione pubblica e dei professionisti che offrissero finalmente ai propri bambini delle alternative agli schermi. Insegnanti e istituzioni danno invece la colpa alle famiglie come se il tempo-schermo fosse una questione individuale. Dobbiamo parlare di corresponsabilità educativa? La sociologa Sophie Jehel è per una regolazione pubblica e un intervento dei poteri pubblici, almeno per le pubblicità e le trasmissioni per bambini/e. In tale prospettiva gli attori del controllo dovrebbero essere tre: le famiglie, l’autoregolazione dei canali con codici etici, il controllo pubblico.[13]

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Per concludere

Non mancano educatori ed educatrici che danno importanza al rallentare il tempo: alla pedagogia della lumaca, alla pedagogia della lentezza, alla pedagogia slow, genitori e scuole slow.[14] Pedagogie che sono l’opposto del tasto play e degli schermi. Rallentare il tempo come esperienza di felicità. Pedagogie che banalmente ci ricordano che prima viene l’obiettivo, poi l’attività e poi il tempo (mentre oggi prima viene il tempo, che si riempie con attività di cui poi forse si esplicita l’obiettivo, se qualcuno proprio lo richiede).

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta


Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Elogio dell’educazione lenta

Elogio dell’educazione lenta


Slow school. Pedagogia del quotidiano

Slow school. Pedagogia del quotidiano

Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita

Pedagogia della decrescita

Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più.[15] Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci: «Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione?

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Oggi forse è importantissimo educare contro corrente con lentezza, perdendo tempo. Non si tratta di una pedagogia rivoluzionaria ma conservatrice ancorata ad antichi valori etici. Per parafrasare la Arendt si tratta oggi di educare in modo da conservare nei nuovi venuti la capacità di amare il mondo, di rinnovarlo e mettere in ordine il mondo.

Possiamo forse ancora credere nell’ideale dell’educazione di Decroly osando una pedagogia orientata dall’autorità della testimonianza? Non si può essere autoritari. Questa è la sfida. Le nuove generazioni fuggono questa autorità. Immediatamente. La fiutano da lontano, la riconoscono, la deridono. Di questo non possiamo dolerci e per fortuna non possiamo ricorrere a forza e violenza. Rimane invece per fortuna la possibilità bella e difficile di richiamarci alla autorità della testimonianza. Seguire le testimoni illuminate. Bell Hooks e Alice Miller[16] propongono proprio la figura del testimone illuminato capace di educare all’amore e trasmettere speranza rompendo le catene della pedagogia nera e di contesti familiari disfunzionali.

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Solo nella misura in cui in cui vediamo i nostri limiti e i limiti di questo mondo, la resurrezione (intesa non come il prolungamento della vita dopo la morte ma come la pienezza della vita e la dilatazione del presente) ci dà l’autorità di educare. È come se ci fosse un’altra realtà, noi sappiamo che c’è e la desideriamo perché ci è stata testimoniata e sentiamo che abbiamo un destino ulteriore. Quando mettiamo al mondo il mondo, quando scegliamo una relazione educativa lo facciamo per amore non tanto di questo mondo (né per avere un figlio, né per prolungare noi stessi) ma per amore della vita che è oltre questo mondo. Qualunque bambino/a ci rallegra perché cogliamo la figura di un futuro in cui riporre il meglio che ci è stato tramandato. La crisi dell’autorità disvela quindi anche il carattere religioso (spirituale o esistenziale, a seconda delle visioni) dell’atto educativo. Abbiamo fede/fiducia che le generazioni nuove venute potranno fare meglio, potranno migliorare il mondo – secondo la testimonianza dell’amore. E quindi nell’educazione amiamo la vita e non il mondo, o quel mondo che è oltre (prima? dopo?). L’educazione, così intesa, sarà una guida alla coscienza, alla coscienza (ma non di un qualcosa – questa sarebbe ideologia) bensì alla consapevolezza dello scarto tra il mondo così come è e il mondo di amore per cui educhiamo. L’educazione, quando faticosamente cerchiamo di seguire i maestri e le maestre testimoni illuminati d’amore – altro non è che un perdere tempo nel cercare (spesso errando) di dare una mano o di passare il testimone.

Simone Lanza

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Intervento di Simone Lanza alla giornata teologica Giovani Miegge, Pratiche di resurrezione tra speranza e predicazione, 21/8/2015 Torre Pellice, aula sinodale. Testo già pubblicato sul blog 400 colpi alla pagina: https://400colpi.net/2015/11/08/perdere-tempo-per-educare/

[1] Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993.

[2] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Feltrinelli, Milano 2004.

[3] Ovide Decroly, Una scuola per la vita attraverso la vita [1921], Loescher, Torino 1971: «Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre la cause di malintesi, i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».

[4] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014.

[5] È nota la dichiarazione di un direttore della televisione francese che spiegò molto chiaramente il ruolo della TV e il suo rapporto con al pubblicità: «Per fare sì che un messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore […] ciò che vendiamo alla CocaCola è tempo di cervello umano disponibile»; citato in: Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo [2004], Elèuthera, Milano 2006.

[6] Ray Bradbury, Veldt, in Meraviglie del possibile [1950], Torino: Einaudi, 1959.

[7] Hannah Arendt, Crisi dell’educazione [1961], in Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970.

[8] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[9] Juliet Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità [2004], Apogeo Editore, Milano 2005.

[10] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[11] Daniele Novara, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, Milano 2013.

[12] Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli, La scuola e l’arte di ascoltare: gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano2014.

[13] Convegno Les enfants face aux écrans, Paris, 30 aprile 2014 (video completo su youtube).

[14] Ecco alcuni tra più interessanti studi sull’importanza di una educazione lenta: Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna 2008; Carl Honoré, Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza, Rizzoli, Milano 2009; Joan Domenéch Francesch, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia 2011; Penny Ritscher, Slow school. Pedagogia del quotidiano, Giunti, Firenze 2011; Valerio Pignatta & Paolo Ermani, Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terranuova Edizioni, Roma 2011; Fabrizio Manuel Sirignano, Pedagogia della decrescita: l’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2012.

[15] Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio Editore, Palermo 2014.

[16] Bell Hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni [2000], Feltrinelli, Milano 2003.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Salvatore Bravo – Dove prende forma la felicità se non nell’incontro? Scopriamo allora in noi la virtù dello sguardo profondo che guarda nell’altro la “totalità” dove i più, invece, vedono solo “frammenti”. Saper guardare è “tenerezza” del logos che non rifiuta i suoi inciampi e i suoi limiti, ma ha fiducia nell’approssimarsi all’alterità, perché ha rinunciato all’autoreferenzialità e a ogni narcisistica postura.



«Nella domanda che nasce, si alimenta e dimora la filosofia. Invece, soprattutto in ambito accademico, perplessità e domande sembrano essere diventate qualcosa da temere a fronte della minacciata ostracizzazione da parte della comunità scientifica, che pretende una produzione “in serie” della conoscenza, oltre alla coerenza, alla verificabilità, e alla ripetibilità di procedure calcolabili: operazioni senza resto. […] Io parlo di quel resto, e cioè di quanto del riferimento antico eccede l’utilità scientifica, anche solo su un piano intuitivo, abitando invece una dimensione più simbolica e sacra, più umana o, anche, spirituale. […] Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile […]. La filosofia del tragico riguarda una spinta tutta simbolica e mitologica di aderenza alla vita. […] Questo lavoro intende dimostrare come per praticare la filosofia sia assolutamente inevitabile e necessario sporcarsi le mani immergendole nella materia mitologica, rivelando uno sguardo diverso anche su materie settoriali e molto ben standardizzate, che non siamo soliti trattare con un orientamento filosofico. […] La filosofia del tragico ci costringerà inevitabilmente a mettere in discussione tutto ciò che viene avulso dal mondo, nel parlare del mondo, e cioè, avulso dal divenire».

Alessandra Filannino Indelicato, Introduzione



Alessandra Filannino Indelicato

Per una filosofia del tragico

Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco

Prefazione di Claudia Baracchi

Mimesis Edizioni, Milano 2019, pp. 216, Euro 20




«Pochi sanno che Dioniso, il nume tutelare del teatro antico, è padre tanto della tragedia quanto della commedia, e che nel teatro della vita, proprio come durante uno spettacolo, abbiamo il compito di guardare, capire e fare spazio a ciò che succede, nostro malgrado. […] Coprendo e ricoprendo l’autentica densità del mito in se stesso, ammutolendolo e assottigliandone la profondità, non facciamo che seguire una modalità consumistica, anche di ricercare e di studiare».

Ancora sentiamo levarsi dall’Antica Grecia il terribile pianto di un capro sacrificale. Alle urla strazianti di dolore si uniscono i canti commossi e le danze sfrenate in onore di Dioniso: la tragedia nasce come un sacro rituale di compartecipazione al ciclo di vita, morte e rinascita. Nell’epoca del consumismo e del “tutto subito”, abbiamo urgente bisogno di una filosofia del tragico, aperta alla complessità simbolica della vita. In questa direzione, l’Euripide di Baccanti ci consegna un Dioniso δαίμων (daimon), mediano, misterioso e contraddittorio; incarnazione dell’eccesso panico così come maestro di una puntuale presenza all’istante – l’autentico compito di ogni filosofia. Dioniso lo Straniero, ma secondo soltanto ad Atena nei festeggiamenti; Dioniso l’Androgino, l’irrazionale, l’addolorato: molteplici nomi tentano di definirlo, nessuno riesce mai a comprenderlo. Perché la filosofia dovrebbe dunque, e provocatoriamente, occuparsi del tragico? Cosa significa rispondere a una vocazione al dionisiaco? E perché questo ci riguarda?



Indice

Prefazione. Nello specchio di Dioniso
di Claudia Baracchi

Introduzione
Filosofie del tragico, mitologie e scienze umane

Prima parte

Capitolo I

La filosofia del tragico: scenografie rapsodiche, panorami insoliti

  1. Al cuore della filosofia del tragico: etica comefilosofia prima e vita filosofica
  2. Il tragico dell’origine: spinte genealogiche e miti originari a partire da Esiodo
  3. Appunti su μῦθος (mythos) e ἀλήθεια (alḕtheia) nellaRepubblica di Platone
  4. Sulla μίμησις (mìmēsis), sulla vita: Aristotele e l’arte omeopatica delle passion
  5. Cantando il capro, cantare la vita:Nietzsche e la tragedia come paesaggio d’anima
  6. Per un tragico entelechiale: il contributo di Ernst Bernhard
  7. Tracce e risonanze junghiane e kerenyane per una filosofia del tragico
  8. Nicole Loraux e la voce addolorata della tragedia antica

Capitolo II

Introduzione a Dioniso, il nume tutelare del teatro antico

  1. Dioniso il tragico, Dioniso il comico: una scelta di campo
  2. Feste rituali e festeggiamenti in onore di Dioniso
  3. Morte e rinascita come πολυμορφία (polymorphìa)

11.1 Il Polinomio: innumerevoli nomi, innumerevoli identità

11.2 L’animale, l’agreste e il vegetale: simboli sacri e rappresentazioni mondane

11.3 Δίγονος (Dìgonos) e Πενθεύς (Penthéus):il “nato-due-volte” e il “dio dalle insopportabili sofferenze”

11.4 Sussurri e segreti sui misteri dionisiaci: gli ἀπòῤῥητα (apòrrhēta)

Seconda Parte

Capitolo III

Ermeneutica simbolica e filosofia del tragico Dioniso nelle Baccanti di Euripide

  1. L’esercizio e il suo contesto
  2. Leggere il tragico

13.1 “Eccomi a Tebe”. Una divinità daimonica

13.2 “Dioniso, chiunque egli sia”. Un’identità inafferrabile

13.3 “Io lo vedevo e lui vedeva me” La disperante ambiguità dei dialoghi

13.4 “Un dio non dovrebbe assomigliare agli uomini nell’ira”. Dioniso, troppo umano

Conclusione. L’uscita danzante

Nel passaggio da εὐδαιμονία (eudaimonìa) a ἐνδαιμονία (endaimonìa)

Postfazione.
La tragedia che siamo, la tragedia che dovremmo essere consapevoli di essere
di Romano Màdera

Bibliografia




«[…] Alessandra Filannino Indelicato nella figura di Dioniso interroga la vita tragica, che è la vita in quanto tale, così come noi la conosciamo. Tragica perché sempre sul punto di andare in pezzi, tenuta insieme soltanto da uno sguardo che ne colga nessi e strutture là dove, nel fitto degli avvicendamenti e dei coinvolgimenti, ci adoperiamo ciecamente. Tenuta insieme da uno sguardo che ne colga l’unità narrativa, la sensatezza, la necessità. […] Ed è qui che la vita tragica, A. Filannino Indelicato ci mostra, si fa una con la vita filosofica, con l’impegno a una vita consapevole. E con la cura, l’accudimento. La vita tragica contemplata, attraversata con consapevolezza, è vita accompagnata, non lasciata allo stato brado ma coltivata, lavorata, esercitata: non lasciata sola ma seguìta, ricordata, riaccordata, raccontata, curata. […] La proposta di Alessandra Filannino Indelicato colpisce per audacia, urgenza e verità. Perché chiama a più livelli a un rinnovamento e a una serietà».

Claudia Baracchi, Prefazione.

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«Questo libro è un contributo serio e generoso alla rinascita e al rinnovamento della filosofia come modo di vivere e, quindi, come insieme di pratiche filosofiche. Un contributo che rinnova ritornando, secondo una lezione classica che riconosce la rivoluzione proprio mentre ne rintraccia la più oscura genealogia. Qui, a differenza del reperto archeologico, portare alla luce, esporre all’aria, non dissolve, ma fortifica e acuisce la capacità di vedere».

Romano Màdera, Postfazione.




RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento speciale va a tutti gli amici che mi hanno incoraggiato a portare a termine questo lungo lavoro, durato quasi sei anni. In particolare, a chi mi ha aiutato nella revisione del testo: Marina Barioglio, Elena Bartolini, Andrea I. Daddi, Donata Feroldi, Luca Grecchi. Grazie a Claudia Baracchi e Romano Màdera, maestri dalla grande anima e insostituibili, ai quali sarò grata per tutta la vita. Agli amici immensi: Amos Badalin, Carmen Cocco, Gloria Diffidenti, Fabio Galimberti, Tommaso Giovenzana, Giusi Negroni. E a tutti gli amici di Philo. Grazie della philia. Un anemone e una viola a D., e un grazie per accompagnarmi alla scoperta di Dioniso, grazie per essere rimasta. Anche a te, Chandra, donna sangue-carezza, alla tasca di cangura, perché le tue poesie salvano me e molte altre, anche se, forse, tu continui a non saperlo davvero. Ermione, quanto ti devo? Mi hai adottato, piccola e selvaggia felina, maestra d’altrove, famiglia. Fabrizio, grande anima, la tua umiltà e il tuo cuore mi hanno insegnato a temere meno l’esposizione, e a legittimarmi l’arrivederci: e ora guarda, guarda tutto questo e il nuovo e l’America e tu, la tua America e le nostre gatte. Alle Filannino, donne che corrono coi lupi, in special modo alle mie sorelle Michela e Manuela, a mia cugina Marilena e, ovviamente, alla grande Lena, mia madre, che avrebbe voluto studiare psicologia e greco antico. Ai miei nipoti, tutti quanti, con la preghiera che si involino all’ascolto appassionato del loro daimōn. In ultimo, un grazie a chi, pur non conoscendomi, deciderà di spendere un po’ del suo tempo per leggermi.

Alessandra


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