Angelo Tonelli – La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero. Priva di una cultura della saggezza, la democrazia si sfalda. Dobbiamo evolvere culturalmente e spiritualmente, ripensando i cardini della consociazione planetaria.

Angelo Tonelli 01
Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.

In epoca moderna il filo-sophós, decadimento del sophós, decade ulteriormente a intellettuale, che non solo ha perduto come il primo ogni contatto con la sfera della sophia, ma anche è diventato incapace di pronunciare una visione del mondo dotata di una profonda radice sapienziale, e si è ridotto a ermeneuta del pensiero precedente o esegeta del costume contemporaneo, attraverso l’esercizio di una ratio ben diversa, per esempio, dal lógos unificante e intuitivo eracliteo.

La sfida che si pone è lavorare per una civiltà della consapevolezza, della pace, della solidarietà e dell’equilibrio ecologico

A. Tonelli


 


Come in alto, Teatro Andromeda, opera di Lorenzo Reina. Santo Stefano Quisquinia, Sicilia. Foto di Christian Reina.

«La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero, o l’accumulo di informazioni corrette intorno alla vita, ma con la stabilizzazione di livelli di coscienza illuminati, attraverso una costante disciplina interiore.
I cardini di questa Sapienza che rigenera la vita individuale e quindi collettiva vanno restaurati nella psiche dell’umanità di oggi attraverso un viaggio alle radici della sua cultura, e dunque in direzione delle tradizioni iniziatiche originarie e dello sciamanesimo, che sono la prima manifestazione di spiritualità umana: noi occidentali dobbiamo rivolgere lo sguardo ai Misteri Eleusini, alle iniziazioni orfiche, e a quei pensatori che Platone definiva sophoí, ovvero Sapienti, e che hanno nome Eraclito, Empedocle, Parmenide, Pitagora, ma anche ai grandi maestri della conoscenza tragica (páthei máthos, “patendo conoscere”), Eschilo, Sofocle, Euripide, per non citare che i maggiori tra i Greci.
E guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla Sapienza d’Oriente, perché anche di essa (oltre che dello sciamanesimo iperboreo e della spiritualità egiziana, persiana e mesopotamica) era pervasa la Sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone.
Questo tragitto “sulle tracce della Sapienza” a cui ho dedicato un omonimo libro [Sulle tracce della Sapienza, Moretti & Vitali, Bergamo 2009], consente di fare collidere e colludere la grande esperienza conoscitiva originaria occidentale-orientale con le domande di rinnovamento culturale e interiore poste dalla crisi della civiltà contemporanea, di gettare uno sguardo non intellettualisticamente filosofico o scientistico sulla vita e i suoi enigmi, e di apprestare strumenti insieme antichi e nuovi per attraversarla con il massimo possibile di serenità, creatività e consapevolezza» (p. 14).

«Nella prospettiva di una conoscenza che culmina nella possibilità di illuminazione a cui tutti, prima o poi, possono attingere, la riflessione si volge al luogo della relazione tra gli esseri umani, ovvero la civitas collettiva, perché la meta terrestre e la misura concreta dell’evoluzione individuale coincide proprio con la capacità di concorrere alla realizzazione di una società etica, solidale, illuminata, che si compone di individui etici, solidali, illuminati […].
Questa […] la sfida per le donne e gli uomini dei prossimi decenni, perché finalmente la Storia impone la più severa delle alternative: evolvere culturalmente e spiritualmente, ripensando i cardini della consociazione planetaria, o sprofondare nella barbarie e nella devastazione irreversibile e già in atto dello habitat naturale e umano» (p. 15).

«Già il filo-sophós greco – un Platone, un Aristotele – era frutto di un decadimento della figura del sophós (sapiente), che incarna uno stato di coscienza-verità (sophia) e non un insieme di metodi e contenuti di pensiero (filo-sophia): si pensi a Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, per citare solo i maggiori del nostro Occidente preplatonico; e in Oriente a Buddha e ai grandi maestri della sapienza upanishadica, taoista, yogica eccetera. Potremmo anche affermare che la sophia ha dimora nel Sé, la filo-sophia nell’Io.
In epoca moderna il filo-sophós, decadimento del sophós, decade ulteriormente a intellettuale, che non solo ha perduto come il primo ogni contatto con la sfera della sophia, ma anche è diventato incapace di pronunciare una visione del mondo dotata di una profonda radice sapienziale, e si è ridotto a ermeneuta del pensiero precedente o esegeta del costume contemporaneo, attraverso l’esercizio di una ratio ben diversa, per esempio, dal lógos unificante e intuitivo eracliteo. Le conseguenze di tutto questo sono estremamente gravi, perché la civitas umana si è evoluta a livello tecnico-scientifico, ma è rimasta priva di maestri di verità che non fossero reclutati nei vari miti-istituzioni religiosi (cristiano, islamico, buddhista) o ideologici (marxismo, liberismo, fascismo ecc.), e fossero liberi da questi blocchi di potere ideologico-politico-religioso: insieme sacrali e laici, capaci di testimoniare e ispirare i valori fondamentali dell’etica civile – solidarietà, giustizia, consapevolezza, compassione, onestà, spirito di servizio – e di indicare i contenuti e soprattutto i metodi adatti per formare popoli e reggenti eticamente saldi e consapevoli.
Se pensiamo che la crisi ecoantropologica in atto è frutto di una scorretta gestione del pianeta, che a sua volta deriva da una carenza della mente collettiva e dei suoi rappresentanti nella amministrazione della civitas, risulta evidente la responsabilità di quanti si occupano del pensiero e della sua comunicazione nel collasso di un sistema fondato su tutto fuorché su una gestione sapienziale – vale a dire consapevole – della cosa pubblica: sono figli della cultura controsapienziale i politici corrotti e inadeguati, e gli economisti che speculano sulla povertà degli altri, tutti incapaci di limitare, in primis nella propria interiorità, gli impulsi della avidità, della prevaricazione e dell’ignoranza, attraverso i metodi che la Sapienza ha approntato nel corso dei millenni, ma che vengono occultati dalle armi di distrazione di massa. E di élite.
Priva di una cultura della saggezza, dell’equilibrio e dell’illuminazione che la sostenga, la democrazia si sfalda perché non esiste più il démos (ovvero il popolo dotato di una propria identità), ma solo una sorta di ochtos (folla, insieme di individui mimetici), manipolata dai mass media consciamente o inconsciamente asserviti ai poteri e al dio denaro, e incapace di esprimere il proprio disgusto o dissenso con metodi che non siano manifestazioni violente, o adesione a caricature della demagogia o a apparati ideologici e partitici di destra, di sinistra o di centro, cattolici, marxisti o liberisti: congreghe che, ottenuto il potere grazie ai metodi della sofistica massmediatica imperante, lo gestiranno svincolandosi da coloro stessi che li hanno eletti a propri rappresentanti. La sfida che si pone è lavorare per una civiltà della consapevolezza, della pace, della solidarietà e dell’equilibrio ecologico, riunendo le origini antiche del pensiero con le nuove acquisizioni, per fornire strumenti culturali adeguati a chi, cittadino o professionista della politica, deve traghettare la società al di fuori delle acque tempestose della crisi ecoantropologica e gestire la rischiosa rivoluzione cibernetica in atto» (pp. 191-192).

Angelo Tonelli, Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, Bergamo 2019.



 

Angelo Tonelli, poeta, performer, autore e regista teatrale è tra i massimi studiosi e traduttori italiani di classici greci.
Edizioni di classici: Oracoli caldaici, Coliseum 1993 – Rizzoli 1995 e 2005; Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli 1993 e ristampa riveduta 2005; Properzio, Il libro di Cinzia, Marsilio 1993 (4 edizioni); T. S. Eliot, La Terra desolata e Quattro Quartetti, Feltrinelli 1995 (6 edizioni, con ristampa riveduta per il 2005); Seneca, Mondadori 1998; Zosimo di Panopoli, Coliseum 1988, Rizzoli 2004; Eschilo, Tutte le tragedie, Marsilio 2000 (vincitore Premio Città dei Trulli per la traduzione); Empedocle, Origini e Purificazioni, Bompiani 2002; Sofocle, Tutte le tragedie, Marsilio 2003. Euripide, Tutte le tragedie, Marsilio 2007. I lavori sui tragici sono raccolti in un unico cofanetto di 1750 pagine: Tutta la tragedia greca, Marsilio 2007.
Opere di poesia: Canti del Tempo (vincitore premio Eugenio Montale), Crocetti 1988; Dell’Amore, Abraxas 1994; Dall’Ade, Abraxas 1995; Poemi per l’era dell’Acquario, Abraxas 1996; Della morte, Abraxas 1997; Frammenti del perpetuo poema, Campanotto 1998; Alphaomega, variazioni per violino e voce, Abraxas/Keraunós 2000; Poemi dal Golfo degli Dèi/Poems from the Gulf of the Gods, Agorà 2003; Canti di apocalisse e d’estasi, con appendice di traduzioni in inglese, tedesco, ungherese, latino (Campanotto 2008, vincitore assoluto Premio Città di Atri; menzione d’onore premio Lorenzo Montano 2009).
Tra la letteratura critica sulla sua opera poetica si segnalano giudizi positivi sulla sua opera in lettere di Vittorio Sereni (non datata) e di Attilio Bertolucci (6/ 2/1988); M. Bacigalupo, Angelo Tonelli, un neoromantico poeta estivo, “Il Secolo XIX”, 22/10/1998; S. Crespi, L’eterno canto dell’amore là dove stridono i gabbiani, “Il Sole 24 ore”, 10/07/1988 e Il frammento e il perpetuo, “Il Sole XIV ore” 12/7/1998; G. Galzio, Angelo Tonelli, in G. Galzio, a cura di, Gli Argonauti. Eretici della poesia per il XXI secolo, Milano, Archivi del Novecento, 2001, pp. 199-202. E. Grasso, Nota su Canti del tempo, “Cenacoli esoterici”, 4, 1989 (Benevento, Ripostes); J. Marban, Closing Remarks in M. Maggiari, a cura di, “The Waters of Hermes”, II, Agorà, La Spezia 2002; S. Verdino, Angelo Tonelli, in S. Verdino, a cura di, La poesia in Liguria, Forum – Quinta generazione, Forlì 1986; M. L. Vezzali, Peregrinare nella luce, “Steve 21. Rivista di poesia”, Edizioni del Laboratorio, Modena autunno 2000.
Tra i testi filosofici si segnalano: Apokalypsis, pensieri intorno all’ apocalissi in atto nel pianeta Terra. E altro; Il dio camaleonte (Abraxas 2009).
Opere teatrali: Apokálypsis, 1995; Katábasis, 1996; Máinomai, 1997; Mysterium, 1998; Eleusis, 1999; Drómena, 2000; Alphaomega, 2002 (da Sette contro Tebe di Eschilo); New World Order, 2003; V.I.T.R.I.O.L.U.M. Alchimia per Edipo re, 2004; Orghia, ovvero il trionfo della sapienza sul potere (da Baccanti di Euripide), 2005 e 2009; La terra desolata di T. S. Eliot, 2005; Orestea, 2006; Alcesti, mysterium mortis mysterium amoris, 2007; Antigone, ovvero la legge del cuore contro la logica spietata del potere, 2008; Baccanti, 2009; Christus rediens, 2009.
E’ intervenuto in programmi culturali della RAI tra cui, nel dicembre 2000 Tutti dicono poesia (Rai 1) con una performance mistico-apocalittica. Dal 1998, su incarico della Città di Lerici, è Presidente della Associazione Culturale Arthena e della omonima Scuola di Arti e Mestieri, e Direttore Artistico di Altramarea, Rassegna Nazionale di Poesia Contemporanea e di Argonauti nel Golfo degli Dèi. Nella primavera del 2005 ha pubblicato Per un teatro iniziatico, un libro sui primi dieci anni del teatro, e del genere di teatro, da lui stesso fondato. Nell’ottobre del 2007 ha dato alle stampe Alla ricerca del Sé (Tipografia Stella-Edizioni dell’Arthena) una miscellanea di saggi e conferenze intorno ai temi della sapienza, della psicoanalisi e della meditazione. Suoi testi, con una nota introduttiva di Roberto Bertoni, compaiono in Sei poeti liguri, Bertolani, Bugliani, Conte, Giudici, Sanguineti, Tonelli, a cura di Roberto Bertoni (Trauben, 2004) e nella antologia dedicata a 9 poeti liguri e curata da Roberto Bertoni e Roberto Bugliani, Voci di Liguria, Manni editore, 2007. Di recente pubblicazione Sulle tracce della Sapienza (Moretti e Vitali editore 2009), un libro in cui sintetizza trenta anni di ricerche sulla sapienza presso i Greci, in Oriente, in Jung e in Eliot; il primo volume, Parmenide Zenone, Melisso, Senofane di Le parole dei Sapienti, in sette volumi per Feltrinelli, sul pensiero dei sapienti greci preplatonici; Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale (Armando 2010). Si segnala l’edizione Bompiani con testo greco a fronte di Tutta la tragedia greca già pubblicato con Marsilio; Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.



Tra i libri di Angelo Tonelli


Zozimo di Panopoli, Coliseum, 1988.


Eraclito. Dell’Origine, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, 1993.


 

Oracoli caldaici,  cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.


Oracoli caldaici,  cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.


 

Thomas S. Eliot, La terra desolata. Quattro quartetti, Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 1995.


Frammenti del perpetuo problema, Camparotto editore, 1998.


Altramarea. Poesia come cosa viva. Antologia di poesia contemporanea,
a cura di A. Tonelli, Camparotto editore, 1998.

Questo non è un libro di poesia nel senso vulgato del termine, perché i testi che compongono la raccolta sono giunti al curatore attraverso la comunicazione orale, diretta, formulata in un adeguato “témenos”, proprio come accadeva agli albori della poesia, nelle corti micenee di Omero, o nei giochi sacri di Pindaro, o nel tiaso di Saffo, o ancora, più vicino a noi nel tempo, nelle conversazioni dei poeti decadenti francesi, o dei futuristi. Questo non è un libro in senso stretto e tipico, ma – per usare un termine con cui Giorgio Colli rendeva “Erlebnis” – l’eco di “vissutezze” poetiche reiterate nel corso degli anni – e destinate a reiterarsi ancora, a ogni solstizio d’estate, con “Argonauti” nel Golfo degli Dei, e nell’agosto rovente, con “Altramarea” – che a quella “vissutezza” intende alludere, perché è in essa che la poesia si è fatta vita e sguardo sulla vita, ha acceso entusiasmi e presagito orrori planetari, creato incanto e graffiato con stridori metallici, nella circolazione vivente della parola incarnata dal suo autore, a rispecchiarsi nell’anima di un uditorio vivo. […].


María Zambrano, Seneca,
Traduzione di Angelo Tonelli,
Bruno Mondadori, 1998.


Properzio, Il libro di Cinzia. Elegie. Testo latino a fronte. Vol. 1,
trad di A. Tonelli, Marsilio, 1999.

“Cinzia fu l’inizio, Cinzia sarà la fine”: con questo impegno di fedeltà il ventiduenne Properzio fissava in una formula emblematica l’essenza dell’amore elegiaco, assoluto e totalizzante. Con l’autorità e il fascino della donna bella, colta e raffinata, Cinzia segna il primo libro delle elegie properziane, il libro che rappresenta in modo esemplare la complessità di sentimenti del poeta innamorato: gelosie, tradimenti, riconciliazioni, momenti di tenerezza e di dedizione, di freddezza e di rifiuto. La sincerità della passione si unisce alla finzione letteraria, spesso filtrata attraverso la rievocazione del mito. Scelta di vita e scelta di poesia tendono a identificarsi creando un codice letterario, quello del genere elegiaco, che nella sua perfezione formale e nella sua breve vitalità rimase modello insuperato di poesia d’amore e specchio della vita mondana della società augustea.


Eschilo, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2000.

Miti eterni, storie immortali che sfidano ogni epoca con la loro poesia e con il loro mistero, legami inestricabili con un passato che in modo immutato ancora ci seduce e ci angoscia con i suoi enigmi. Una voce poetica, tesa e vibrante, ci canta il lutto del re di Persia sconfitto dai greci, la disperazione del Prometeo crocifisso per amore, la tragedia dei figli di Edipo che si uccidono in un estremo duello alla settima porta di Tebe, il delirio di Cassandra e la furia di Clitennestra uxoricida, la vendetta, la follia e l’assoluzione di Oreste per l’assassinio della madre.


Sofocle, Le tragedieLe tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2004.

Celebrato per la purezza dello stile e per la perfezione della struttura drammaturgica, Sofocle è il più limpido ma anche il più complesso ed enigmatico dei tre grandi tragici greci. Ateniese, innamorato della sua città, ne esaltò la bellezza, ne difese le istituzioni, ma intravide anche i pericoli del passaggio epocale dall’individualismo conservatore delle famiglie aristocratiche all’egualitarismo democratico dello stato di diritto. Cantore della polis, ma anche di eroi perdenti e sfortunati, di donne assetate di giustizia e di vendetta, Sofocle è soprattutto il creatore del personaggio di Edipo re di Tebe, metafora esemplare delle alterne vicende della vita e della cieca crudeltà del caso.


Zozimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di Angelo Tonelli, Rizzoli, 2004.

Personaggi misteriosi, mostri crudeli, sacrifici rituali e “riti terribili” popolano questo testo complesso e affascinante che con la violenza delle sue visioni ha sedotto lo stesso Jung, a cui si deve il merito di averlo sottratto a un oblio millenario. Scritto agli inizi del IV secolo, Visioni e risvegli raccoglie quattro brevi trattati di alchimia, il più famoso dei quali, Sulla virtù, descrive con toni onirici e fantasiosi i diversi gradi di un rito di iniziazione. Dell’antica storia di questi testi, ricchi di aneliti mistici ed echi religiosi, parla nell’introduzione Angelo Tonelli, che analizza anche i legami tra l’alchimia greca e la psicologia dell’inconscio di Jung.


 

Euripide, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio 2007.

Con la traduzione integrale delle tragedie di Euripide si conclude un progetto di grande rilievo editoriale iniziato da Angelo Tonelli nel 2000 con la versione completa di Eschilo, cui è seguita nel 2004 quella di Sofocle. Per la prima volta e non solo in Italia, si possono leggere tutte le tragedie greche nella traduzione di uno studioso che è un profondo conoscitore del greco antico, esperto di drammaturgia antica e moderna, poeta egli stesso e creatore di eventi.


 

Canti di Apocalisse e d’estasi, Camparotto Editore, 2008.


Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità,
Moretti & Vitali, Bergamo 2009.

Frutto e sintesi di trenta anni di ricerche filologiche intorno alla Sapienza, il libro di Tonelli ne presenta campionature significative, dalla tradizione iniziatica eleusina allo sciamanesimo originario, dai grandi tragici ai Presocratici, a Platone, alla teurgia degli Oracoli Caldaici, alle visioni dell’alchimista Zosimo di Panopoli, fino a un’incursione nel Moderno, con la rilettura di The Waste Land e di Four Quartets di Eliot in chiave mistico-rituale, e della psicologia analitica junghiana in chiave alchemica e gnostica. Per quel che riguarda la Sapienza d’Oriente, l’attenzione si concentra sulla sua dimensione di pratica spirituale, perché il Buddhismo e l’Induismo hanno saputo concretare nell’unità corpo-mente la condizione sapienziale, affinando tecniche meditative adatte a lenire la sofferenza e favorire lo sviluppo delle qualità etiche positive. In chiusura, l’autore riannoda il filo che lega l’inizio della filosofia con il principio della sua fine, ovvero Platone con Kant, per quel che riguarda la possibilità dell’esercizio di una influenza dei pensatori sul potere, rintracciando la causa della loro inefficacia, pur nella nobiltà del gesto, proprio nell’essere filosofi, e non Sapienti, e dunque propagatori di un modo di pensare, e non di un modo di essere totale.


Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso. Testo originale a fronte.
Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 2010.

Sapienza è una condizione dello spirito, un modo di essere, e non un insieme di contenuti che si ritengano veri e saggi. Il Sapiente è radicato nella sorgente delle cose, e dell’esperienza sapienziale possono farsi testimonianza scritta o orale parole, come quelle di Eraclito, Parmenide, Empedocle in Occidente, e delle Upanishad o dello ChuangTzu in Oriente, che vibrano della risonanza mistica da cui sorgono. A differenza della filosofia, la Sapienza è un modo di essere, non di pensare, ed è frutto del sé, mentre la filosofia lo è dell’ego. I Sapienti greci non erano uomini di scrivania, come forse amerebbero dipingerli a propria immagine e somiglianza gli esangui ermeneuti contemporanei, bensì individui che intraprendevano una via di continua ricerca di se stessi, all’insegna del motto delfico gnõthi sautón, e da questa pratica di ricerca spirituale venivano trasformati fin nelle intime midolla, come i Sapienti d’Oriente. Nel versante orientale, la Sapienza è un immenso commentario intorno alle folgorazioni mistiche e alle formulazioni religiose dei Veda, che trovano sistemazione nelle Upanishad. Diversa è la Sapienza greca, in cui fioriscono personalità spiccate, con maggiore differenziazione di linguaggio e di pensiero. Ma i temi di fondo sono gli stessi, e con ogni evidenza la Madre della Sapienza d’Oriente e d’Occidente è una sola e la medesima, benché da essa germoglino frutti ben diversi.


Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale,
Armando, 2010.

Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell.habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli.


 

Poemi dal Golfo degli Dèi, Ediz. italiana e inglese, Agorà & Co., Sarzana, 2011.


 

Sapienza ritrovata, Arcipelago Edizioni, 2011.


 

Tutte le tragedie greche. Testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2011.

Frutto di oltre dieci anni di lavoro, questa edizione di tutta la tragedia greca con testo a fronte, la prima a essere realizzata interamente da un unico curatore, insieme poeta e filologo, consente di cogliere con sguardo unificante la fulgida stagione della tragedia ellenica che vide fiorire il genio creativo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Viene così restituita al lettore moderno, in tutta la sua feconda inattualità, una delle culminazioni dell’arte sapienziale e iniziatica del nostro Occidente, capace di riverberare la spiritualità orfeodionisiaca eleusina nella sua dimensione essoterica: in maniera esplicita, attraverso tragedie vistosamente iniziatiche come Baccanti, Oresteo, Alcesti, Edipo re ed Edipo a Colono; e in maniera indiretta, grazie alla forma apollodionisiaca dell’opera drammatica nella sua espressione scritta. Forma che a sua volta rinvia alla struttura stessa del théatron, che è luogo sapienziale in cui si contempla (theàomai) il gioco delle passioni con empatia e distacco. Con il greco a fronte i capolavori dei tragediografi a noi pervenuti brillano nella lingua in cui furono composti, e consentono di restituire con sufficiente approssimazione la phoné originaria in cui furono pronunciati: nel rito consacrato a Dioniso, alla luce del sole ellenico, sotto lo sguardo della collettività riunita nel nome del dio dell’ebbrezza e della contemplazione.


 

Ritografie. Opere figurative 1995-2012. Ediz. illustrata, Agorà & Co, 2012.


 

Seminare il possibile. Democrazia e rivoluzione spirituale, Alboversorio, 2015.

Questo pamphlet ha un intento: seminare slancio e speranza nel futuro mentre tutto sembra congiurare contro una possibilità di rinascita collettiva. Urge che si aboliscano i partiti, come già suggeriva Simone Weil, e si catalizzino energie nuove. Questo movimento, che è già in atto e trova già espressione in eventi dedicati alla relazione tra spiritualità, etica e politica, ha il compito fondamentale di preparare la democrazia del futuro, che sorgerà sulle rovine del sistema politico nazionale e internazionale fondato sul dominio del dio denaro.


 

Eleusis e Orfismo. I misteri e la tradizione iniziatica greca.
Testo greco a fronte, a  cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 2015.

A Eleusi, il centro iniziatico maggiore di tutta la grecità, nel mese di Boedromione (il nostro settembre-ottobre) affluivano tutti coloro che avessero i requisiti necessari per ricevere l’iniziazione, ovvero avere “mani pure”, non macchiate da delitto, e parlare la lingua greca. Sicuramente furono iniziati ai livelli più alti Sofocle, Eschilo, Pindaro, Platone. La suprema iniziazione, a cui si poteva accedere dopo avere fatto trascorrere un lungo periodo dalla partecipazione al rituale collettivo dei Grandi Misteri, dischiudeva all’esperienza diretta dell'”unità di tutte le cose” e della morte-rinascita, simboleggiata dalla spiga, che il mistero condivideva con Dioniso, il dio che muore e rinasce, come l’Osiride degli Egiziani. L’Orfismo introduce nella grecità una via ascetica e purificatoria, fondata sulla credenza nella reincarnazione, e nella necessità di un tragitto di progressiva liberazione dalla prigione della materia per ricongiungersi con la propria essenza divina. Le testimonianze consentono di ricostruirne le complesse e suggestive cosmoteogonie, e i miti fondamentali, tra cui la discesa agli Inferi di Orfeo alla ricerca della sposa Euridice e lo specchio di Dioniso, che rivela il mondo visibile come lampeggiamento transimmanente dello sguardo del dio su uno specchio.


 

[Giuliano il Teurgo], Oracoli caldaici, a cura di Angelo Tonelli, Bompiani, 2016.

Composti verso la fine del II secolo dopo Cristo, gli “Oracoli Caldaici” sono attribuiti a Giuliano il Teurgo, figlio dell’altro Giuliano che, secondo Suidas, compose un’opera sui demoni. Poeta e sciamano dei misteri teurgici, in cui la figura del mßntis-doche·s (il nostro medium) coincide con quella del profétes, Giuliano comunica in frammenti oscuri e insieme luminosi, come si addice all’oracolo, un’esperienza visionaria individuale fiorita nell’ambito di un Erlebnis mistico e sapienziale collettivo. Gli “Oracoli caldaici”, che Proclo paragonava per importanza al “Timeo” di Platone, sono una raccolta di frammenti in cui un medium in trance parla con la voce del nume, e ne comunica la Sapienza che conduce gli umani oltre il velo delle apparenze, fino all’intuizione dell’Assoluto e al congiungimento con esso. Unica testimonianza diretta di una tradizione esoterica che associava metafisica e magia in un accordo inscindibile, gli oracoli consentono di guardare dietro le quinte di una esperienza mistica e iniziatica di grande densità immaginale, che viene comunicata in un linguaggio densamente poetico. E’ un viaggio verso l’Assoluto che sta alla radice di tutte le cose, o meglio ancora verso il Divino indicibile che si manifesta attraverso ipostasi e numi, che prendono nome di Padre, Ecate, No³s, e la cui quintessenza brilla nell’animo dei teurghi.


 

Guardare negli occhi la Gorgone. Piccolo vademecum per attraversare le paure,
Agorà & Co., Sarzana, 2016.

L’esperienza della paura è costitutiva della condizione umana, e nessuno ne è mai stato esente: non Cristo, che sulla croce grida il suo “Eli Eli lema sabachthani?”: “Padre Padre, perché mi hai abbandonato?”; non Buddha Sakhyamuni, che prima di imboccare la via dell’ascesi si imbatte, sgomento, nelle figure della vecchiaia, della malattia, della morte. Nessuno ha calcato il suolo di questo pianeta senza avere provato, in misura maggiore o minore, la vampa dell’ansia o l’angoscia dell’incubo notturno, il morso del panico, l’irrequieto aggirarsi del pensiero nelle lande livide del timore di ammalarsi o di morire, o del lutto per il trapasso di una persona preziosa, o per la fine di un grande amore. Qui si indicano alcune vie, tra cui la psicoanalisi junghiana, lo psicodramma, la danzaterapia, la meditazione e altre pratiche spirituali tratte da varie tradizioni, per attraversare indenni questa selva oscura, e trarne stimolo alla crescita spirituale.


 

Sulla morte. Considerazioni sul possibile oltre, La Parola, 2017.

Questo libro è il frutto di molti anni di riflessioni sulla morte e il possibile Oltre, con un approccio non accademico, ma neanche privo di riferimenti alla letteratura scientifica sul tema, nella convinzione che il momento più impegnativo, insieme con la nascita, della nostra permanenza sul pianeta terra, sia evento solenne e culmine di conoscenza, a cui è bene giungere il più possibile consapevoli e preparati. Vi si troveranno riferimenti allo sguardo sapienziale greco (il Fedone di Platone, Le lamine d’oro orfiche) e orientale (Il libro tibetano dei morti) sul grande passo, ma anche alla letteratura relativa alle esperienze di quasi morte (NDE), tra cui quella di C.G. Jung (e anche quella di Er, raccontata ne La Repubblica di Platone), e alle conseguenze che le esperienze documentate di OBE (Out Body Experience), ovvero di fuoriuscita dal corpo durante gli stati di coma, hanno sulla vexata quaestio del rapporto coscienza-cervello, anche alla luce della fisica quantistica. Un excursus esaustivo e indispensabile per farsi un’idea precisa sulla morte e sull’aldilà.


 

La degenerazione della politica e la democrazia smarrita.
Una nuova etica per la sopravvivenza della civiltà,
Armando, 2018.

Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell’habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli. Sarà la Storia stessa in quanto bestemmia alla natura illuminata degli umani a generare dal suo grembo il seme della civitas illuminata: per sopravvivere la specie dovrà abdicare dalla propria tenebra interiore. Sono tre i metodi fondamentali che convergono in una sola via, per risorgere: la meditazione di presenza, l’indagine dell’inconscio e l’integrazione dell’Ombra e la frequentazione di testi ed esperienze sapienziali. In una parola, la vita come iniziazione: alla consapevolezza, alla liberazione, all’immortalità che nasce dall’esperienza óeWunità di tutte le cose (hèn pànta), secondo la folgorante sintesi di Eraclito, che è il mentore metaspaziotemporale di questo libro.


 

Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.

La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero, o l’accumulo di informazioni corrette intorno alla vita, ma con la stabilizzazione di livelli di coscienza illuminati, attraverso una costante disciplina e apertura interiore. Noi Occidentali dobbiamo rivolgere lo sguardo ai Misteri Eleusini, alle iniziazioni orfiche, e a quei pensatori che Platone definiva sophoí, ovvero Sapienti, e che hanno nome Eraclito, Empedocle, Parmenide, Pitagora, ma anche ai grandi maestri della conoscenza tragica (“patendo conocere”), Eschilo, Sofocle, Euripide, per non citare che i maggiori tra i Greci. Guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla Sapienza d’Oriente, perché anche di essa (oltre che dello sciamanesimo iperboreo e della spiritualità egiziana, persiana e mesopotamica) era pervasa la Sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone. Di questa connessione originaria tra Occidente, in particolare la nostra Magna Grecia, e Oriente, a cui Angelo Tonelli ha dedicato trenta anni di ricerche e di cui ha già fornito ampie documentazioni, viene qui presentata, in anteprima assoluta, una testimonianza archeologica di inconfutabile evidenza: la fotografia del ritratto del “Mongolo di Taranto”, raffigurato in una ceramica protolucanica databile al IV secolo a.C., ai tempi di Platone, in cui compare un volto di chiara etnia mongola, a dissipare ogni eventuale dubbio sulla interazione tra Mediterraneo greco e Estremo Oriente, in epoca antica, interazione fino a oggi silenziata o negata da un’Accademia ancora arroccata alle Termopili immaginarie per contrastare la manifesta presenza dell’Oriente nel nostro Occidente sapienziale. E questa obliterazione ha gravato e grava sulla nostra cultura, perché se ne è ignorata la radice eurasiatica meditativa, sciamanica, noetica, condannando gli individui, e con essi la civiltà d’Occidente, a livelli di interiorità, saggezza e consapevolezza infantili, che sono alla base della crisi ecoantropologica in atto: una sorta di “furto d’organo”, il nous, ovvero il luogo di connessione tra l’umano e il divino nella coscienza unitaria e illuminata. Questo tragitto “sulle tracce della Sapienza” a cui l’autore ha già dedicato un omonimo fortunato libro, di cui questo costituisce in qualche modo la continuazione, consente di fare collidere e colludere la grande esperienza conoscitiva originaria occidentale-orientale con le acquisizioni della scienza più avanzata e le domande di rinnovamento culturale e interiore poste dalla crisi della civiltà contemporanea.


 

María Zambrano, Seneca. Con una antologia di testi,
traduttori Claudia Marseguerra e Angelo Tonelli, SE, 2019.

«Seneca non avrebbe potuto essere un martire: fu sempre un intellettuale e niente di più. Un intellettuale per cui la gloria è impossibile. Fedele a una ragione senza trascendenza, a una ragione naturale. La ragione di Platone e di Plotino, l’idea, non era più di questo mondo, come non lo è la pura verità. Seneca celebrava la ragione della mediazione, della relatività. Per questo il suo pensiero, e ancora più del suo pensiero, la sua immagine, la sua figura, è viva in tutti i tempi in cui la ragione, senza fede, vuole mediare tra un mondo irrazionale e il regno puro che ha dovuto lasciare. Seneca tornerà in vita ogni volta che di fronte all’inesorabilità della morte e del potere umano si troverà, tra una fede che si estingue e un’altra che la sostituisce, una Ragione abbandonata».


Galleria di copertine

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Inteviste e altro …

“Voglio un movimento sapienziale-politico capace di formare governatori illuminati”:
dialogo con Angelo Tonelli su poesia e salvezza


L’Apocalisse secondo Angelo Tonelli


Teatro Andromeda: l’Ecuba diretta da Angelo Tonelli


Scoprire Angelo Tonelli. Intervista di Marco Angella


“Le nostre origini sono eurasiatiche, Pitagora era uno sciamano,
dobbiamo insegnare pratiche meditative a scuola”:
dialogo con Angelo Tonelli, che ha scoperto il punto d’unione tra Oriente e Occidente


Angelo Tonelli – Recours au poème


Conversazione di Livio Partiti con Angelo Tonelli



Louise Michel (1830-1905) – Non voglio difendermi e non voglio essere difesa, appartengo completamente alla rivoluzione sociale e mi dichiaro responsabile delle mie azioni. Viva la Comune di Parigi.

Louise Michel 01
F. Roy, libraire-éditeur,  (p. titre-490).
Testo completo

«Quelli, donna, davanti alla tua indomita maestà,
meditavano, e malgrado la piega amara della tua bocca,
malgrado il maldicente che accanendosi su di te,
ti gettava addosso tutte le grida indignate della legge,
malgrado la tua voce fatale e alta che ti accusa,
vedevano risplendere l’angelo attraverso la medusa».
                                                                                    Victor Hugo

Victor Hugo dedicherà a Louise Michel il poema Viro Major dopo il processo subito da Michel nel 1871.

Viro Major

***
*

«Lei ama il Povero aspro e franco
o il timido; lei è la falce
nel grano maturo per il pane bianco
del Povero, e la santa Cecilia,
la Musa rauca e gracile
del Povero e l’angelo custode
a questo semplice, a quest’indocile.
Louise Michel è molto buona».
                                                         Paul Verlaine

Nel 1886 Paul Verlaine le dedicò una ballade: P. Verlaine, Ballade en l’honneur de Louise Michel, in «Œuvres compètes», Paris 1911.

  •  
 Paul Verlaine, Ballade en l’honneur de Louise Michel

 


 

«Non voglio difendermi e non voglio essere difesa,
appartengo completamente alla rivoluzione sociale
e mi dichiaro responsabile delle mie azioni […].
Bisogna escludermi dalla società, siete stati incaricati di farlo, bene!
L’accusa ha ragione.
Sembra che ogni cuore che batte per la libertà
ha solo il diritto ad un pezzo di piombo,
ebbene pretendo la mia parte!».

 

***
*

Louise Michel, Dichiarazione rivolta al tribunale durante il processo contro i comunardi che la giudicava perché era stata arrestata sulle barricate di Parigi della Comune del 1871. Le sue parole ispirarono Victor Hugo nel suo poema Viro Major .


 

Le sue pubblicazioni

  • Fleurs et ronces, poesie, Parigi
  • Le claque-dents, Parigi
  • Lueurs dans l’ombre. Plus d’idiots, plus de fous. L’âme intelligente. L’idée libre. L’esprit lucide de la terre à Dieu, Parigi 1861
  • Le livre du jour de l’an: historiettes, contes et légendes pour les enfants, Parigi 1872
  • Légendes et chansons de gestes canaques, 1875
  • Le Gars Yvon, légende bretonne, Parigi 1882
  • Les Méprises, grand roman de mœurs parisiennes, con Jean Guêtré, Parigi 1882
  • La Misère, con Jean Guêtré, Parigi 1882
  • Ligue internationale des femmes révolutionnaires, Appel à une réunion, Parigi 1882
  • Manifeste et proclamation de Louise Michel aux citoyennes de Paris, Parigi 1883
  • Le Bâtard impérial, con J. Winter, Parigi 1883
  • Défense de Louise Michel, Bordeaux 1883
  • La Fille du peuple, con A. Grippa, Parigi 1883
  • Contes et légendes, Parigi 1884
  • Légendes et chants de gestes canaques, 1885
  • Les Microbes humains, Parigi 1886
  • Mémoires, Parigi 1886
  • L’Ère nouvelle, pensée dernière, souvenirs de Calédonie, Parigi 1887
  • Les Crimes de l’époque, racconti, Parigi 1888
  • Lectures encyclopédiques par cycles attractifs, Parigi 1888
  • Le Monde nouveau, Parigi 1888
  • Prise de possession, Saint-Denis 1890
  • À travers la vie, poesie, Parigi 1894
  • La Commune, Histoire et souvenirs, Parigi 1898
  • Le Rêve, Parigi 1898
  • La comune, tr. it., Milano, M&B Publishing, 2005
La Vie de Louise Michel.
La barricata di Piazza Blanche difesa dalle Donne comunarde.
Jules Girardet, Louise Michel tra i federati avviati in prigionia a Versailles.
Louise Michel tiene un discorso ai carcerati e ai prigionieri della Comune.
Louise Michel tra Marie Ferré e Paule Mink.
L’attentato a Louise Michel
L’esilio e la deportazione.

George Orwell (1903-1950) – Una condizione di coscienza ridotta porta al conformismo politico. Oggi i discorsi politici sono mera difesa di ciò che non è difendibile. Il nemico della chiarezza è l’insincerità. Non lasciate che accada. Ciò dipende da voi.

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Nella Conferenza stampa del 15 giugno 1949, tenutasi sei giorni dopo la pubblicazione di 1984, così George Orwell esortava il pubblico:

«Alcuni recensori di 1984 hanno sostenuto che questa è la visione dell’autore di quello che succederà nel mondo occidentale nei prossimi quaranta anni, o di qualcosa di simile. Questo non è corretto. Ciò che io penso è che, tenendo presente che il libro è una parodia, qualcosa di simile a 1984 potrebbe accadere. Questa è la direzione verso cui il mondo si sta muovendo, al presente, ed è una direzione che ha radici profonde nelle basi politiche, sociali ed economiche della condizione del mondo contemporaneo. […] Da questa pericolosa situazione d’incubo si ricava una sola morale: Non lasciate che accada. Ciò dipende da voi».

G. Orwell, Politics and english language, Peguin Books – Great Orwell, 2013

«Ai nostri giorni è generalmente vero che la scrittura politica è cattiva scrittura. Quando ciò non è vero, di solito, si scoprirà che lo scrittore è un qualche tipo di ribelle che sta esprimendo la propria personale opinione e non la “linea del partito”. L’ortodossia, sotto qualunque bandiera, sembra richiedere uno stile imitativo e privo di vita. Il gergo politico dei pamphlet, degli articoli di opinione, dei manifesti, dei Libri bianchi e dei discorsi di sottosegretari è, naturalmente, diverso da partito a partito ma tutti sono simili nel fatto che quasi mai ci si trova una frase vivida, fresca e originale. Quando si guarda un qualche bolso politicante che sul palco ripete meccanicamente le frasi familiari – bestiale, atrocità, tallone d’acciaio, sanguinosa tirannide, popoli liberi del mondo, ergersi spalla a spalla – si ha spesso la strana impressione di non stare guardando un vero essere umano ma una qualche sorta di marionetta: un’impressione che all’improvviso si rafforza quando la luce rimbalza sugli occhiali dell’oratore e li muta in dischi vuoti dietro ai quali non ci sono occhi. E questo non è nemmeno del tutto irrealistico. Un oratore che usa quel genere di fraseggio è già molto avanti sulla via di trasformarsi in una macchina. I rumori appropriati escono dalla sua laringe ma il suo cervello non è coinvolto, come sarebbe se scegliesse da sé le parole che intende. Se l’oratore sta facendo un discorso che ha già ripetuto più e più volte, egli potrebbe essere quasi inconsapevole di quello che sta dicendo, come accade quando si borbottano le risposte in chiesa.

G. Orwell, Politics and the English Language and Other Essays (Paperback) 2010

E questa condizione di coscienza ridotta, se non indispensabile, è quantomeno favorevole al conformismo politico. Ai nostri giorni, i discorsi e gli scritti politici sono perlopiù una difesa di ciò che non è difendibile. Eventi come la sopravvivenza della dominazione britannica in India, le epurazioni e deportazioni russe, le bombe atomiche sganciate sul Giappone, possono in realtà essere difesi ma solo con argomenti che la maggior parte della gente troverebbe brutali e che non si adattano agli scopi professati dai partiti politici. Così il linguaggio politico deve essere costituito in larga parte di eufemismi, argomentazioni fallaci e una mera fumosa imprecisione. Villaggi indifesi sono bombardati dal cielo, gli abitanti sfollati in campagna, il bestiame mitragliato, le capanne messe a fuoco con proiettili incendiari: questo è detto pacificazione. Milioni di contadini sono derubati delle loro fattorie e mandati a marciare lungo le strade con soltanto ciò che possono portare sulle spalle: questo è detto trasferimento di popolazione o rettifica dei confini. Persone sono imprigionate per anni senza processo o colpite da una pistolettata alla nuca o mandate a morire di scorbuto nei campi di lavoro siberiani: questo lo chiamanoeliminazione di elementi inaffidabili. Questa fraseologia è necessaria se si vuole nominare le cose senza evocarne un’immagine mentale».

«Il grande nemico della chiarezza è l’insincerità. Quando non c’è corrispondenza tra le intenzioni reali e quelle dichiarate si ricorre istintivamente alle parole lunghe e alle frasi fatte, facendo come la seppia che butta fuori l’inchiostro».

 

George Orwell, Politica e lingua inglese (Politics and English Language) [1946], in George Orwell, Usi della lingua inglese, B. A. Graphis, Bari 2004, p. 23.

Politics and the English Language fu pubblicato per la prima volta sulla rivista Horizon nel 1946.

Il biopensiero

Così George Orwell descrive il bipensiero in 1984, rileggiamo: “La mente gli scivolò nel mondo labirintico del bipensiero. Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo ad entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l’unico suo garante; dimenticare tutto ciò che era necessario rivendicare ma, all’occorrenza, essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo. Il bipensiero implica la capacità di accogliere siimultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe.”

Chi controlla il passato, controlla il futuro … chi controlla il presente. controlla il passato

George Orwell (1903-1950) – Quando vi muovete, gli occhi vi seguono. IL FRATELLO MAGGIORE VI GUARDA. Si doveva vivere presupponendo che qualsiasi rumore venisse ascoltato e qualsiasi movimento attentamente scrutato.

 

Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Nel dipinto di Jan Vermeer, «Merlettaia», lo sguardo che si concentra esprime l’idea dell’infinità, d’una familiarità con il silenzio.

Giuseppe Ungaretti_Jan Vermeer
G. Ungaretti e P. Bianconi
L’opera completa di Vermeer
Rizzoli, Milano1966.

«La Merlettaia è china sul suo lavoro. È sguardo che si concentra, è assenza da tutto il rimanente che non sia quel lavoro, quel moto di dita che i fili annodano in trame leggiadre? Dita e sguardo non cesseranno mai di muoversi, di quel loro moto che si muove fermo per sempre. L’idea dell’infinità, d’una familiarità con il silenzio, solita, indissolubile e infrangibile; l’idea d’un’esistenza immutabilmente, felicemente quotidiana, semplicemente semplice; l’idea d’una solitudine tutta sola, e tutto il resto muto; questa è l’idea»

Bibliografia

  • Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese
    A. K. Wheelock (a cura di), W. Liedtke (a cura di), S. Bandera (a cura di)
    246 pagine, 2012
  • Max Kozloff
    La luce di Vermeer
    Roma, Contrasto DUE, 2011.
  • Bert W. Meijer
    Vermeer. La ragazza alla spinetta e i pittori di Delft
    Giunti GAAM, 2007
  • Anthony Bailey
    Il maestro di Delft: storia di Johannes Vermeer, genio della pittura
    Milano, Rizzoli, 2003.
  • Norbert Schneider
    Vermeer: 1632–1675: i sentimenti dissimulati
    Koln, Taschen, 2001.
  • Lorenzo Renzi
    Proust e Vermeer. Apologia dell’imprecisione
    Bologna, Il Mulino, 1999
  • John Michael Montias
    Vermeer: l’artista, la famiglia, la città
    Torino: Einaudi, 1997.
  • Gilles Aillaud, John-Michael Montias and Albert Blankert
    Vermeer
    Milano, Arnaldo Mondadori Editore, 1986
  • Giuseppe Ungaretti e Piero Bianconi
    L’opera completa di Vermeer
    Milano, Rizzoli, 1966.

Consulta la pagina dedicata al dipinto di Jan Vermeer, La Merlettaia, sul sito del Musée du Louvre di Parigi.


Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte. Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde.


Czesław Miłosz (1911-2004) – Bisogna evitare la compagnia delle persone che glorificano il nulla. Non è ammesso lasciarsi dominare dalla disperazione a causa dei nostri sbagli, perché il passato non è chiuso e riceve il suo senso dalle nostre azioni future.

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In copertina: Philipp Otto Runge (1777-1810), Papaveri.
«È questo nell’uomo il processo di creazione, in grado di portare il lettore a pensare come un filosofo».
J. Hersch, Storia della filosofia come stupore.
 
«Perché ci sia senso, occorre che ci sia un’intenzione, un movimento di libertà, orientato su un valore, su qualcosa che non è, ma che merita di essere».
J. Hersch, Rischiarare l’oscuro.
Che cosa ho imparato da Jeanne Hersch?

Che la ragione è un grande dono divino e che bisogna credere che è capace di conoscere il mondo.

Che si sono sbagliati questi, che non si fidavano della ragione, elencando da che cosa essa dipende: dalla lotta delle classi, dal libido, dalla volontà di potenza.

Che dovremmo essere consapevoli che siamo chiusi nel cerchio delle proprie sensazioni, ma non per ridurre la realtà ai sogni e alle fantasie della nostra mente.

Che la veracità testimonia la libertà e che dalla menzogna si riconosce la schiavitù.

Che l’atteggiamento giusto nei confronti della realtà è il rispetto, e allora bisogna evitare la compagnia delle persone che umiliano la realtà con il loro sarcasmo e glorificano il nulla.

Che anche se ci accusassero dell’arroganza, nella vita intellettuale bisogna seguire la regola di una stretta precisa gerarchia.

Che gli intellettuali del ventesimo secolo erano dipendenti del “baratin”, cioè della loquacità irresponsabili.

Che nella gerarchia dell’agire umano l’arte è superiore della filosofia, ma la cattiva filosofia può danneggiare l’arte.

Che esistono le verità oggettive, che vuol dire che da due definizioni contradette una è vera e altra falsa, con l’eccezione di certi casi quando la contradizione è giustificata.

Che indipendentemente dalle confessioni religiose dovremmo conservare una “fede filosofica”, cioè la fede in trascendenza, come un tratto essenziale della nostra umanità.

Che il tempo esclude e condanna ad essere dimenticati soltanto queste opere delle nostre mani e delle nostre menti, che si rivelano inutili nella costruzione, secolo dopo secolo, del grande edificio della civiltà.

Che nella propria vita non è ammesso lasciarsi dominare dalla disperazione a causa dei nostri sbagli e peccati, perché il passato non è chiuso e riceve il suo senso dalle nostre azioni future.

Risvolto di copertina

«Non ho alcuna esitazione nell’affermare che Czesław Miłosz è uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande» scriveva qualche anno fa un altro poeta, Iosif Brodskij. Poi giunse, nel 1980, il premio Nobel – e molti lettori in tutto il mondo cominciarono a scoprire l’opera complessa e intensa di questo scrittore, che da anni si trovava nella paradossale condizione di essere circondato da persone che non leggevano la sua lingua, mentre i suoi libri erano proibiti a coloro che la leggevano. Nato in Lituania nel 1911, esule dalla Polonia sin dal 1951, Miłosz «ha ricevuto quella che si potrebbe definire l’educazione standard dei paesi dell’Europa orientale, che ha incluso, fra l’altro, l’esperienza del cosiddetto Olocausto, già da lui profetizzata nelle liriche della seconda metà degli Anni Trenta». E «la sua terra, dopo essere stata devastata fisicamente, gli venne sottratta e distrutta spiritualmente» (Brodskij). Questo poeta metafisico, in perpetua complicità con l’invisibile, è stato costretto dalla storia a vivere l’invisibile innanzitutto nella sua forma più letterale e più ossessiva: come ressa dei morti e delle cose scomparse. Il poeta è qui sempre il sopravvissuto, che si mormora un verso sobrio e terribile. «E il cuore non muore quando sembra che dovrebbe». Quei morti sono subito «lontani come l’imperatore Valentiniano, / come i condottieri dei Massageti, di cui non si sa nulla», eppure tendono a riapparire, seduti a un caffè familiare, e guardano il sopravvissuto, «scoppiando a ridere». Che il passato sia connesso a una devastazione totale dà alla memoria, in Miłosz, una dimensione di conquista dell’immagine sul fondo del vuoto. Per questo ogni oggetto, ogni nome, ogni albero da lui nominato hanno una tale evidenza, lacerata ed estatica. Essi si pongono tutti vicino a quella «frontiera mobile / Oltre la quale colore e suono si compiono / E sono congiunte le cose di questa terra». Quella frontiera ci separa da una terra visionaria: Blake e Swedenborg ne hanno dato notizia, e la loro voce risuona in Miłosz. Nel suo verso spesso vibrano insieme una «vastità cosmica della visione» (per lui il primo criterio della grande poesia) e la pura attenzione, insegnata da Simone Weil. Allora, sottintesi tutti i naufragi, il poeta torna a essere «uno dei tanti / Mercanti e artigiani dell’Impero del Giappone / Che componevano versi sui ciliegi in fiore, / I crisantemi e la luna piena».



 

Victor Hugo, Il castello di Vianden visto attraverso una ragnatela. Casa di Victor Hugo, Parigi.

«Questo libro fu scritto a Parigi nel 1951-1952, cioè in un periodo in cui gli intellettuali francesi, nella loro maggioranza, risentivano la dipendenza del loro Paese dall’aiuto americano e riponevano le loro speranze in un mondo nuovo all’Est, governato da un leader di incomparabile saggezza e virtù – Stalin». Così Miłosz, con delicato sarcasmo, ha descritto, nella premessa all’edizione italiana, la situazione in cui nacque e apparve per la prima volta La mente prigioniera (1953). Ma al lettore spetta di riconoscere che cosa è questo libro oggi: il libro che una volta per tutte, prima che il dissenso russo potesse manifestarsi, prima di Solženicyn, di Sinjavskij, di Zinov’ev, disse ciò che di essenziale vi è da dire sul sovietismo – e in particolare su quel colossale fenomeno di viltà dello spirito e cronico asservimento che ha contrassegnato il rapporto di milioni di intellettuali con il sovietismo stesso. A differenza di tanti dissidenti russi, Miłosz parla con una terribile pacatezza: troppo cupa è la vicenda che ha vissuto perché la sua voce possa alterarsi. Ed è la voce, lo si sente a ogni pagina, di un grande scrittore, di un abitante di quella vecchia, civilissima Europa dei popoli baltici, che furono «calpestati dall’elefante della Storia» senza che l’Occidente quasi se ne accorgesse. Questo libro non è un saggio, non è un racconto, non è un libro di memorie: è la dimostrazione inconfutabile, trasparente, di che cosa voglia dire nella vita di ogni giorno, per un numero sterminato di persone, l’obbedienza al Metodo, nome che qui designa il marxismo-leninismo, quella singolare dottrina che è «in grado di trasmettere per via organica una ‘visione del mondo’», come le pillole di Murti-Bing immaginate dal genio visionario di Witkiewics. Se fosse una qualsiasi posizione filosofica, tale dottrina sarebbe di una pochezza difficilmente uguagliabile. Ma esso è ben di più: un grandioso artificio che riesce davvero a «cambiare la vita»: il Metodo, una volta che stringe un mondo con le «tenaglie della dialettica», permette a chiunque di sorridere con superiore indulgenza di fronte a qualsiasi pensiero, invita dolcemente a sorvegliare e denunciare gli altri, insegna inebrianti misture di vero e di falso, concede la gioia di sentirsi al centro della corrente della storia e offre strumenti maneggevoli per far fuori i propri nemici. Alle devastazioni che il Metodo provoca nei singoli, alle prodigiose trasformazioni che esso produce nelle loro vite è dedicata la seconda parte del libro di Miłosz: qui egli traccia una sequenza di profili esemplari, carichi di intensità romanzesca – e costringe ogni lettore a percepire che cosa sia stata, in tutti i suoi passaggi, la sorte crudele di chi ha visto susseguirsi, sulla propria terra, il furioso orrore dei nazisti e la vischiosa oppressione dei sovietici. La rivolta di Varsavia, con i nazisti che uccidono e i sovietici che osservano compiaciuti dall’altra sponda della Vistola, è in certo modo l’esperienza simbolica di tutto il nostro secolo. Miłosz, che a essa è dolorosamente sopravvissuto, ha saputo trasmetterla in queste pagine a noi, eternamente sprovveduti occidentali, lasciando parlare i fatti e le fisionomie, come solo un poeta può fare.



 

Nei primi anni Ottanta, appena insignito del Nobel, Czesław Miłosz fu chiamato dall’Università di Har­vard a presentare, in sei lezioni, le sue idee sulla po­e­sia. E della poesia decise di privilegiare la funzione ai suoi occhi più importante, vale a dire la mi­ra­colosa capa­cità di offrire una testimonianza sul­l’epoca a cui ap­partiene: «non ho dubbi» afferma «che i po­steri ci leg­geranno nel tentativo di com­pren­dere che cosa è stato il Novecento, proprio co­me noi ap­prendiamo molto sull’Ottocento grazie al­le poesie di Rimbaud e alle prose di Flaubert». Ma quale testimonianza del No­ve­cento offre la poesia? Il «tono minore», il dub­bio, l’a­ma­rezza, la cupezza che paiono con­trad­di­stin­guerla derivano, certo, dal­la fragilità «di tutto ciò che chia­miamo civiltà o cul­tura», dal pre­sagio che quanto ci circonda «non è più garantito», e potrebbe scompa­rire. Resta nondimeno una via di salvezza: guardan­do al secolo dalla prospettiva di un’«altra Europa» ed eleggendo a guide Oscar Milosz e Simone Weil, Miłosz ci in­tro­duce infatti a una diversa con­cezione della poesia, quel­la che ne fa un «in­­se­gui­men­to ap­passionato del Reale» – giacché solo nel mai ap­paga­to desiderio di mimesi, nella fedeltà al par­ti­cola­re, nel «senso della gerarchia» delle cose sta «la possi­bilità di so­prav­vivere a periodi poco propizi».



 

Tra l’inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czesław Miłosz dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e propria sfida letteraria: un grande poema che, eludendo le cornici di genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed e­nun­ciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra mondiale e gli orrori dell’occupazione nazista, con la ri­vendicazione di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare l’am­bien­te degli Stati Uniti, in cui Miłosz, dopo a­ver contemplato l’abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la dimensione ideale per trovare serenità ed e­quilibrio, senza peraltro sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni cruciali del XX secolo. Il Trattato poetico ha la forza espressiva di un grande romanzo storico, l’into­na­zio­ne nostalgica di un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte di un’epoca, l’accento pacato di u­na meditazione sulla storia, sul­l’arte, sulla coscienza individuale. E anche le Note del­l’Autore che chiudono il vo­lume si rivela­no una splendida creazione letteraria: un mosaico di schizzi e ritratti in miniatura che, come per magia, ricreano il mondo di una ormai lontana Europa.



 

Franco Volpi (1952-2009) – Come si dice “filosofia” in Giappone. Il libro di Nishida Kitarô «Uno studio sul bene». Conoscenza e amore sono atti spirituali identici. Occorre comprendere il bene come la realizzazione della persona. Il bene è la soddisfazione di un bisogno sincero, ovvero è unificazione della coscienza.

Franco Volpi - Nishida Kitaro

Il «diritto all’eccellenza» è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell’abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. La vita si realizzi in tutte le sue potenzialità, con un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella, una sorta di «estetica dell’esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!». E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.

Franco Volpi


 


«Conoscenza e amore sono atti spirituali identici. Per conoscere una cosa bisogna amarla e per amare una cosa bisogna conoscerla […]. Occorre comprendere il bene come la realizzazione della persona. Visto dall’interno, il bene è la soddisfazione di un bisogno sincero, ovvero è unificazione della coscienza, e al suo limite estremo deve raggiungere il punto in cui sé e altro si dimenticano reciprocamente e soggetto e oggetto sprofondano l’uno nell’altro».

Nishida Kitarô

Nishida Kitarô, Zen no kenkyū (善の研究), Uno studio sul bene, a cura di E. Fongaro, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
Nishida Kitarô (fondatore della scuola di Kyoto), Uno studio sul bene, a cura di Enrico Fongaro, Mimesis, Milano 2017.

Un occidentale che voglia entrare nel cuore del pensiero giapponese deve fare uno sforzo linguistico-concettuale pari a quello che un giapponese affronta per capire che’ cosa significhi “filosofia”. Questo termine, che e alle radici della nostra civiltà, fino a circa un secolo e mezzo fa non aveva un preciso equivalente nella lingua nipponica. A differenza di quanto accaduto nel passaggio dal greco al latino e alle altre lingue europee, che in genere traslitterano la parola greca, in giapponese si seguì un altra strada. Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo oltre due secoli di chiusura a ogni influenza esterna nel periodo sakoku (1639-1854), fu avviato un febbrile lavoro di mediazione culturale e di invenzione di nuove parole. In tale clima fu creato anche il neologismo tetsugaku – combinazione di due ideogrammi, tetsu “vivacità intellettuale, chiarezza mentale” e gaku “insegnamento, studio” – che da allora in poi si e imposto come traduzione di “filosofia”. Naturalmente, un pensiero giapponese esisteva anche prima, ma si basava su una propria tradizione e su concetti, categorie, problemi e modi di ragionare lontani da quelli occidentali.

Nishida Kitarō 1870-1945)

Nishida (1870-1945) è il primo grande filosofo giapponese, il fondatore della celebre Scuola di Kyoto, che a lungo è stata il principale pensatoio nipponico, tuttora attivo, e che ha aperto un fondamentale canale di dialogo con la filosofia europea, specie tedesca. L’opera di Nishida è un grande esempio di pensiero interculturale: scaturisce dal profondo della tradizione nipponica ma vi innesta, in una sintesi originale, elementi raccolti dallo studio approfondito dei testi originali di Platone, Plotino, Meister Eckhart, Kant, Hegel, e di autori influenti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento come Bergson, James e Husserl. Potremmo dire, fatte le debite proporzioni, che il tentativo di Nishida di sposare la tradizione zen con la filosofia è paragonabile al connubio tra la filosofia greca e il messaggio cristiano agli inizi della nostra era.

Uno studio sul bene (1911) e la prima grande opera di Nishida. Bollati Boringhieri la presenta in una edizione ineccepibile, condotta sul testo originale da uno dei più promettenti nipponisti italiani, Enrico Fongaro, e accompagnata con una esauriente e illuminante introduzione di Giangiorgio Pasqualotto. Un merito che va esplicitamente sottolineato di fronte alla sconcertante disinvoltura con cui molta letteratura giapponese – perfino alcuni romanzi di Mishima – continuano a essere tradotti dall’inglese.

Quello che possiamo ora leggere è un appassionante trattato sistematico di filosofia zen. Nishida voleva intitolarlo La realtà o L’esperienza pura perché questo è il concetto basilare da cui muove, per poi spiegare come l’esperienza pura si articoli secondo il pensiero (in cui la realta ci si offre così com’è), la volontà (da cui trae origine l’etica) e l’intuizione intellettuale (da cui si sviluppa l’esperienza religiosa del Nulla assoluto quale origine e principio unificatore dell’intero Essere).

L’opera ebbe subito un vasto successo ma sollevò anche critiche e fraintendimenti. Nishida si sentì spinto a una “svolta”. Per superare il coscienzialismo, il volontarismo e perfino il misticismo di cui era accusato, cercò un nuovo baricentro, e lo trovò, studiando la chora di Platone, nel concetto di “luogo”. Con somma ironia e inarrivabile saggezza zen, avverte però fin dall’inizio: «Forse Mefisto potrebbe farsi gioco di me: chi si dedica alla speculazione è come un animale che mangia erba secca in mezzo a un campo verdeggiante».

Nishida Kitaro (fondatore della scuola di Kyoto), Uno studio sul bene, a cura di Enrico Fongaro, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

 

Franco Volpi, Come si dice “filosofia” in Giappone, in “La Repubblica, 17-02-2007, p. 47.

 

A Kyoto c’è un sentiero che si chiama “Passeggiata del filosofo”. Il suo nome deriva dal filosofo giapponese Nishida Kitaro (1870-1945) a cui piaceva passeggiare per questo sentiero e meditare. A metà del sentiero c’è un monumento su cui sono incise frasi di Nishida Kitaro.

Quarta di copertina

“Uno studio sul bene” (1911) è la prima opera di Kitaro Nishida. Diviso in quattro parti secondo un progetto sistematico che comportava la stesura di un’ontologia, un’etica e una filosofia della religione, il libro si fonda sul concetto di “esperienza pura” che l’autore ricava da Mach, da Avenarius, ma soprattutto da William James, riletto alla luce del pensiero di Henri Bergson. Si tratta del primo tentativo in assoluto di coniugare filosofia occidentale e scuola zen, il primo passo per dar vita a un progetto filosofico interculturale collocato al crocevia tra Oriente e Occidente.


Franco Volpi


Franco Volpi (1952-2009).

La sua [di Nietzsche] critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all’eccellenza», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell’abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la sua nuova morale è una sorta di «estetica dell’esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!». E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.

Franco Volpi

Da Contro Nietzsche. L’accusa del Papa al filosofo nichilista, la Repubblica, 10 aprile 2009.

Franco Volpi, filosofo e amico, a cura di Nicola Curcio, Ronzani editore, 2019

Tra i libri di Franco Volpi


M. Heidegger, Essere e tempo, tr. di Pietro Chiodi, a cura di Franco Volpi, Longanesi, Milano 2005.

Questo caposaldo, rimasto enigmaticamente incompiuto, è il testo che più di ogni altro ha influenzato la cultura filosofica del Novecento. Fin dal suo primo apparire nel 1927 e poi, a ondate successive nel 1946, negli anni Sessanta, il fascino e l’influenza esercitati da quest’opera hanno alimentato la riflessione e le polemiche di quanti si sono occupati di Heidegger. Tutto ciò che è accaduto dopo nella cultura occidentale è in qualche modo il risultato dell’esplosione filosofica determinata da questo libro.


L’ ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger, con Antonio Gnoli, Bompiani, Milano 2006.

Martin Heidegger è stato tra i più grandi e controversi maestri del Novecento. A trent’anni dalla morte, le questioni da lui poste agitano ancora la comprensione filosofica del nostro tempo. Qual è il segreto della sua perdurante attualità? Antonio Gnoli e Franco Volpi hanno raccolto le testimonianze eccellenti di protagonisti del pensiero contemporaneo che hanno conosciuto Heidegger da vicino: Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Ernst Nolte e Armin Mohler. A questi si aggiunge la voce del figlio Hermann, che svela aspetti inediti della biografia del padre soffermandosi tra l’altro sugli anni che lo videro compromesso con il nazismo.


Guida a Heidegger.
Ermeneutica, fenomenologia, esistenzialismo, ontologia, teologia, estetica, etica, tecnica, nichilismo
,
Laterza, Bari 2008.

Il pensiero di Heidegger analizzato e descritto in modo sistematico e completo attraverso le singole opere.


Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2009.

Questo libro offre la prima guida ragionata ai testi della filosofia. Le opere fondamentali di ciascun pensatore vengono presentate con una scheda bibliografica iniziale (che ne indica il titolo originale e la traduzione italiana, la data di stesura, il luogo e l’anno della prima edizione), una descrizione del contenuto, le informazioni utili per comprendere il contesto nel quale ogni opera fu concepita e la sua eventuale fortuna. Infine viene suggerita la migliore edizione italiana disponibile. Uno strumento innovativo e indispensabile per tutti coloro che si interessano di filosofia. Un dizionario che fornisce la chiave per un approccio al pensiero filosofico partendo dalla tanto auspicata analisi dei testi.


 Il nichilismo, Laterza, Bari 2009.

Crisi della ragione, perdita del centro, decadenza dei valori: il nichilismo si è presentato a volte con il proprio nome, a volte sotto altre sembianze. Ma che cos’è propriamente il nichilismo? Da dove viene quest'”ospite inquietante” – come Nietzsche lo definisce – che si aggira ormai ovunque in casa nostra e che nessuno può mettere alla porta? Attraverso un’analisi storico-concettuale, Volpi risale alle radici del fenomeno, ne illustra il manifestarsi nel pensiero del Novecento e prepara una prospettiva “oltre il nichilismo”.


Heidegger e Aristotele, Laterza, Bari 2010.

Nella lunga crisi della grande filosofia seguita alla fine del sistema hegeliano, Heidegger ci ha restituito il senso di cosa significhi pensare in grande stile. Non solo per la grandezza e lo spessore della sua opera, venuta alla luce in tutta la sua imponenza. Non solo per l’acuta sensibilità che Heidegger ha mostrato nei confronti dei problemi fondamentali della nostra epoca: il venir meno della coscienza religiosa, la crisi dei valori tradizionali e la sfiducia nei confronti di una ragione solo strumentale, la fine dell’assoluto sulla terra e il chiudersi dell’orizzonte epocale della tecnica. Ma anche e soprattutto per il fatto che, con una radicalità che nessun altro dopo Hegel aveva osato, Heidegger ha saputo ripensare nel suo insieme l’accadere della filosofia occidentale, riproponendo come problema filosofico la questione dei fondamenti dell’epoca presente e della sua connessione essenziale con il pensiero greco. In quest’orizzonte, la presenza di Aristotele nel pensiero heideggeriano non è circoscrivibile nelle forme di una semplice interpretazione. Essa è piuttosto una presenza generalizzata che pervade tutta l’opera di Heidegger e che si configura nei termini di una forte assimilazione e di un confronto mediante cui il filosofo tedesco si è appropriato dell’ontologia e della filosofia pratica di Aristotele.


 La selvaggia chiarezza. Scritti su Heidegger, Adelphi, Milano 2011.

Tra i filosofi del Novecento, Martin Heidegger è quello che più di ogni altro ha spinto il pensiero oltre i canoni acquisiti del rapporto tra soggetto e oggetto, verità ed esperienza. Ne ha esplorato il limite, al di là del quale occorreva un linguaggio nuovo: una parola rivelatrice che liberasse la filosofia dalla cappa metafisica che aveva pesato su tutta la sua storia. In tale contesto, tanto esaltante quanto arduo, si è svolta la preziosa attività di Franco Volpi non solo come studioso e acuto interprete di Heidegger, ma anche come suo magistrale traduttore. Nulla come una traduzione, infatti, consente di penetrare in profondità nei gangli di un pensiero, e chi voglia oggi smontare, e comprendere dall’interno, la complicata macchina speculativa del “mago di Messkirch” troverà dunque qui il miglior viatico. La padronanza del lessico, sfrondato da ogni compiacenza gergale, la competenza con cui Volpi chiarisce le numerose oscurità del filosofo fanno di questo libro un esempio di lettura ermeneutica, un lucido percorso nei labirinti di Heidegger. Un percorso capace di svelare la segreta relazione tra il secolo che si è chiuso e il suo più imbarazzante testimone: che incarna il destino stesso della nostra epoca, e della sua pensabilità. Con una nota di Antonio Gnoli.


 

Pensare il capitalismo. Nuove prospettive per l’economia politica,
con Giorgio Lunghini e Elisabetta Basile, Franco Angeli, Milano 2013.

Poggiandosi sulle analisi critiche del paradigma neoclassico dominante e rivisitando i principali economisti “eterodossi”, il volume riflette sul pensiero critico di Marx, Keynes e Sraffa, e analizza i problemi che i mutamenti del capitalismo fanno sorgere e che la teoria mainstream non è stata capace di interpretare efficacemente, con l’obiettivo di proporre nuove prospettive per l’analisi dei sistemi economici contemporanei.


M. Heidegger, Nietzsche, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2018.

Come Nietzsche aveva riconosciuto in Wagner il suo unico antagonista esistente e con ciò gli aveva tributato il più grande onore, così Heidegger ha dedicato a Nietzsche il suo scritto più articolato che tratti di un pensatore moderno, anche se in questo caso cronicamente inattuale, dandogli il supremo onore di definirlo “l’ultimo metafisico dell’Occidente”. E come Nietzsche si distacca in tutto dagli oppositori di Wagner, così Heidegger non ha molto a che fare con tutte le generazioni di critici e biasimatori di Nietzsche – è molto di più, è l’unico che risponda a Nietzsche.» (Roberto Galasso)


William Shakespeare (1564-1616) – Date parole al dolore. La sofferenza interiore che non parla, sussurra al cuore troppo gonfio fino a quando si spezza.

William Shakespeare_o3

«Chi mai, tranne gli dei, scorre la vita eternamente senza mai dolore?».
                                                                               Eschilo, Agamennone.

«Solo il vero sapere ha potenza sul dolore».
                                                                                Eschilo, Agamennone, vv.177-178.

«Strangulat inclusus dolor atque exaestuat intus,  cogitur et vires multiplicare suas. [Il dolore represso soffoca e brucia dentro,  ed è costretto a moltiplicare la sua forza]».
                                                       Publio Ovidio Nasone, Tristia, V, 1, vv. 63-64.

«Hör auf, mit deinem Gram zu spielen, Der wie ein Geier dir am Leben frisst! [Smettila dunque di giocare con il dolore che, come un avvoltoio, ti divora la vita!]».
                               Johann Wolfgang Goethe, Faust, Prima parte, Studio.

«O douleur! O douleur!
Le Temps mange la vie
Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le coeur
Du sang que nous perdons croît et se fortifie!
[O dolore, o dolore,
il Tempo mangia la vita,
ed il Nemico oscuro cresce del sangue che perdiamo e si rafforza;
questo Nemico che ci rode il cuore!
]».
                          Charles Baudelaire, I fiori del male, Spleen e Ideale – X,
                                                                                           Il Nemico, vv. 12-14.

 

«Date parole al dolore;

la sofferenza interiore che non parla

sussurra al cuore troppo gonfio

fino a quando si spezza».

William Shakespeare, Macbeth [1606], Atto IV, scena III.

 

***

«Il dolore, che è il verme roditore della bellezza».
William Shakespeare, La Tempesta, I, 2.

 

«Un cuore addolorato non può avere una lingua complimentosa».
William Shakespeare, Pene d’amor perdute, V, 2.

 

William Shakespeare (1564-1616) – La sua lezione di regia: «Tenetevi misurati, dovete ottenere e conservare quella sobrietà che consente morbidezza di toni. Accordate l’azione alla parola, la parola al gesto: lo strafare è contrario alla vocazione dell’arte teatrale. Il gigioneggiare quanto il recitarsi addosso non può che disgustare l’intenditore».
William Shakespeare (1564-1616) – Nell’uomo che non ha la musica in se stesso, i moti del suo cuore sono spenti come la notte.

Saffo (VII-VI sec. a.C.) – L’essere umano non può sfuggire la vecchiaia.

Saffo e la vecchiaia

«Voi, fanciulle, i bei doni delle Muse dal seno di viola
cercate e la lira armoniosa che accompagna il canto.
A me il corpo un tempo tenero ormai la vecchiaia
ha colpito, i capelli da neri sono diventati bianchi,
il mio animo si è fatto pesante, non reggono le ginocchia
che prima danzavano leggere come quelle dei cerbiatti.
Spesso cedo al lamento. Ma cosa si può fare?
L’essere umano non può sfuggire la vecchiaia.
Un tempo Titono, raccontano, Aurora braccia di rosa
per amore lo trasportò con sé ai confini del mondo
quando era bello e giovane. Ma anche lui raggiunse
col tempo la grigia vecchiaia, pur avendo una sposa immortale».

Saffo, Carme della vecchiaia, in La nuova Saffo: commento ai frammenti di Colonia e al papiro Obbink (P. Köln inv. 21351+ 21376, P. Sapph. Obbink), PDF, p. 36. La traduzione si basa sul testo costituito dall filologo inglese Martin L. West.
 
Saffo, Liber chronicarum, 1493, di Hartmann Schedel (Norimberga 1440-1514).

Nella filologia moderna, i frammenti di Saffo sono spesso editi con quelli di Alceo. Hanno segnato una svolta le edizioni di E. Lobel e D.-L. Page, Poetarum Lesbionun Fragmenta, Oxford 1955, e di Carlo Gallavotti. Saffo e Alceo, Napoli 1957. Vale come riferimento quella di Eva-Maria Voigt. Sappho et Alcaeus, Amsterdam 1971. Un commento importante è quello del tedesco Max Treu, Sappho, Monaco 1954.

Busto di Saffo conservato nei Musei capitolini a Roma
Saffo ( VII-VI sec. a.C. )  – La vera dolcezza di quella mela rosseggiante Saffo ci dice che può essere colta solo se raggiunta nell’alto della sua dimensione eidetica.
Testa di Saffo, copia romana da originale di età ellenistica, da Smirne, Museo archeologico di Istanbul.
La scultura “Saffo abbandonata” è stata realizzata nel 1857 da Giovanni Duprè, (1817-1882).
Alceo e Saffo, Vaso attico di figure rosse, ca. 480 a.C.
Ritratto di Saffo, Palazzo Massimo alle Terme, Roma. Foto di Paolo Monti, 1969.
Saffo, da Veterum illustrius philosophorum etc. imagines (1685) di Giovanni Pietro Bellori (1613-1696).
Saffo, seduta, legge re amiche-studentesse che la circondano, Vaso attico (hydrie o kalpis) di Vari, opera del gruppo di Polygnotos, 440-430 a.C. circa, Museo Archeologico Nazionale di Atene, n. 1260.
napoli-litalia-busto-in-bronzo-di-saffo-ca-610-580-ac-il-museo-archeologico-nazionale-di-napoli-g58haj
Saffo e Alceo a Mitilene, Lawrence Alma-Tadema (1881)

Anna Beltrametti – Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane. Per contendersi il favore del Popolo, trasformato da soggetto politico in oggetto (in merce), i contendenti si rivelano per quello che sono: strumenti, burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.

Beltrametti Anna_Aristofane
Fortunato Depero, Al teatro dei piccoli/Balli plastici, 1918
Anna Beltrametti

Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane

Populism: from today to the original, comic and black scene of Aristophanes

Starting with the debatable and discussed term of populism, the essay deepens the contemporary political drift in which people, rather than a political subject, become an object, a commodity of exchange. The illusion of direct democracy, as it is represented and unmasked in the Knights, is re-proposed to the attention of an audience not always willing to look and understand what is happening on stage. For Aristophanes and for us, paying too much attention people seems to coincide with the extreme degradation of politics that has betrayed its tasks and has taken ugly folds, like the “dirty and somewhat loose shoes” of Giorgio Gaber.

Giorgio Gaber

Vorrei ripartire da un Gaber indimenticabile, ma non per mettermi nel coro di chi lamenta o canta la fine della destra e della sinistra.

Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos’è la destra cos’è la sinistra…

Come le scarpe sporche e un po’ slacciate… il populismo – i comportamenti e i linguaggi che oggi definiamo populisti – è da manipolati spesso inconsapevoli e da manipolatori sempre consapevoli, più che di sinistra o di destra. E non perché la sinistra e la destra abbiano finito il loro tempo come alcuni si affannano ad argomentare – del resto dopo il 1989 si era decretata anche la fine della storia conclusa con la fine della guerra fredda – ma perché, come le scarpe di Gaber, hanno preso una brutta piega. Si sono sformate nelle varianti del populismo che, tutte, prendono le parole chiave da una parte e dall’altra e le associano in un quadro che ne richiama altri già visti e sperimentati in varie epoche e in vari luoghi: i diritti del popolo affidati all’abbraccio dell’uomo forte che saprà garantirli.
Il populismo non è un’ideologia né un partito né una linea politica. Ma non è neppure un’invenzione nominalistica, considerata la greve concretezza degli uomini che lo interpretano. Il populismo è una modalità, accuratamente e scientemente sgangherata di fare politica a sinistra come a destra in un’ignobile ed efficacissima gara di degradazione dei linguaggi e degli ideali.
Troppo si è detto anche sulla legittimità e non legittimità del termine “populismo”. Marc Bloch ci ha insegnato che la storia è irreversibile e che non si ripete neppure quando eventi o atmosfere contemporanee sembrano riecheggia­re o addirittura ripresentare fatti e situazioni del passato più o meno recente: altro senso e altro impatto hanno eventi e comportamenti simili in contesti socioculturali del tutto mutati. E davvero poco o nulla ha a che fare, almeno nella coscienza e nella competenza storica dei più, il cosiddetto populismo di questo primo XXI secolo con il populismo russo, narodničestvo, propriamente detto delle sperimentazioni sociopolitiche nella Russia zarista di metà Ottocento, in tempi e luoghi di produzione asiatica.
Certo è che il termine italiano “populismo”, con quel suffisso –ismo che nella nostra lingua indica l’astrazione, ma spesso alludendo alla maniera e all’eccesso – si pensi a virtuosismo vs virtù, a paternalismo vs paternità, a trionfalismo vs trionfo e, per restare nella stessa costellazione del populismo, a sovranismo vs sovranità e a protezionismo vs protezione — peggiora la nozione di “popolo” e di “popolare” da cui origina. E non c’è demagogia che tenga per dare un nome più antico, o più “classico” e nobile, ai populismi di oggi, se intendiamo la parola greca etimologicamente come capacità di un oratore di persuadere e trascinare dalla propria parte, una parte ben definita, l’antica assemblea popolare. Non può la demagogia, intesa come suprema padronanza delle tecniche del discorso al servizio di un’ideologia o di una battaglia, ricoprire le implicazioni salienti che il termine populismo si porta dentro. E in italiano, forse più che in altre lingue, il nome suona perfetto per indicare quella frequentazione insistita, quel troppo di attenzione, quasi una compulsione, che deteriora l’oggetto dell’interesse, il popolo, trasformandolo da soggetto politico in oggetto, si potrebbe dire merce, di scambio. In tal senso “populismo” è anche nome del tutto coerente con le politiche attuali, italiane e non solo italiane, dei sussidi e delle elargizioni una tantum prevalenti sulle politiche strutturali a lungo termine del lavoro. Con quelle politiche bipartisan del “dono” che alimentano e non sconfiggono le nuove povertà e che, provvedimento dopo provvedimento, trasformano il popolo sovrano in plebe clientelare da vendere e comprare secondo i flussi del consenso.
Non c’è dubbio che all’origine del populismo contemporaneo nelle sue varianti, per altro meno evidenti e meno percepibili delle analogie, ci siano gli scadimenti della politica tradizionale da gioco dell’intelligenza astuta a gioco truccato, quando non sporcato da troppo frequenti episodi di inadeguatezza o di collusione e financo di corruzione. Sono le élites che hanno smarrito anche gli ultimi retaggi della cultura della vergogna ad aver legittimato le intemperanze, anche le sfrontatezze, dei populismi. Ma i populismi, all’estremo delle derive politiche, non sono più politica e non promettono rinascite politiche. È difficile immaginare che possano produrre nuove aggregazioni o nuove comunità, movimenti e discorsi che, per un verso, insistono su un popolo astratto e unanime, del tutto fittizio, e per l’altro seminano paure e divisioni, facendo leva sui pericoli dell’altro, inteso prima come straniero migrante e ravvisabile poi nel competitor della porta accanto. È più facile prevedere che questi movimenti e questi discorsi, con la straordinaria insistenza sul popolo cui vogliono dare voce e che si impegnano a proteggere, invece che a una linea di pensiero condiviso approdino a soluzioni autoritarie incentrate sì su una voce sola, quella dell’uomo solo al comando. A meno che il popolo, non quello astratto e unanime della finzione populista, ma quello reale e plurale della storia, non si risvegli, stuzzicato dagli eccessi di accudimento di qualcuno dei suoi sedicenti interpreti o servi, e li giochi uno contro l’altro riprendendosi la scena e la parola. Così accadeva nei Cavalieri di Aristofane, la commedia che aveva drammatizzato e smascherato, dandone spettacolo, l’irrefrenabile e stucchevole corsa al popolo di due rivali pronti a tutto e capaci di tutto, panourgoi paradigmatici.

 

La commedia, composta nel 424 dal drammaturgo come allegoria esplicita, costruisce un quadro ancora interessante, oltre che esilarante, di un impegno supremo a servire il popolo con lo scopo malcelato di asservirlo. Due servi, quello in carica e quello che cerca di scalzarlo, si affrontano sulla pubblica piazza per garantirsi il posto di primo servo presso un vecchietto apparentemente rimbambito di nome Demos, Popolo. Nella finzione comica, il servo in carica si chiama Paflagone, un nome che è un programma comico e allude a un’origine straniera e schiavile dalla Paflagonia in Asia Minore, ma è anche onomatopeico del roboante gorgogliare di una pentola straripante. Si è arricchito con l’attività di conciapelli, mentre l’altro, che arriva chiamato dai Cavalieri del coro, è un salsicciaio, un conciabudella dunque. I due si combattono a forza di manicaretti, torte e doni di vestiario offerti a Demos che attende a bocca aperta di essere ingozzato e imbonito. Si insultano e si minacciano con un linguaggio estremamente violento, rivendicando però, ciascuno per sé, la più infima bassezza, la furfanteria più spregiudicata, il primato nel servilismo totale. La violenza delle invettive è calata in una rete di metafore ossessivamente giocate sul cibo, sul mangiare o essere mangiati, sul far mangiare e sul farsi mangiare, sul rubare e sul corrompere, sul concedere briciole per sottrarre di nascosto le focacce.

La prima edizione dell’opera in lingua italiana (Venezia, 1545).

I fondamentali dei populismi, anche di quelli attuali, sono tutti in gioco nei Cavalieri*. Il linguaggio semplificato e forte, letteralmente triviale perché appreso nei trivi della città, dei due rivali e i loro scontri senza mediazione possono essere intesi come pratiche estreme e caricaturali della democrazia greca e diretta che esprime la voce del popolo e parla al popolo. Ma Aristofane è perfido: nel corso della commedia, i due che si battono per contendersi il favore di Popolo, alias del popolo, si rivelano per quello che sono, gli strumenti o i burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.

Il coro dei Cavalieri che dà il titolo alla commedia, tenendosi apparentemente ai margini della vicenda e dissimulando la propria tenacia oligarchica con il parlare di poetica e di storia del teatro comico, scatena il Salsicciaio contro il Conciapelli e lo sostiene. Finge di appoggiare la promessa di democrazia ancora più radicale del nuovo arrivato e persegue l’intento di far implodere il sistema, affossandolo nelle sue proprie crepe.
La grande illusione della democrazia diretta non poteva trovare una rappresentazione più efficace, grottesca e straniante. La storia non si ripete, ma la risata nera di Aristofane ci morde ancora. O dovrebbe morderci.

*I cavalieri (Ἱππεῖς, Hippeîs) è una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta ad Atene, in occasione delle Lenee del 424 a.C., nelle quali l’opera vinse il primo premio.

Anna Beltrametti, un sabato di marzo 2019, articolo già pubblicato in «Stratagemmi. Prospettive teatrali», 038 – 039 [ 2/2018 – 1/2019 ], pp. 113-116, Direttore Maddalena Giovannelli, Rivista fondata nel 2007 da Francesca Gambarini, Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti e Gioia Zenoni. Un progetto di Associazione Culturale Prospettive Teatrali. www.stratagemmi.it – Info: redazione@stratagemmi.it – Via Fogazzaro 8, 20135 Milano

Anna Beltrametti – C’è anche un pensiero delle donne? Le donne del teatro greco sono laboratori di utopia infiniti. Sono talmente forti in questa loro energia utopica di un mondo da rifondare, da rinnovare, di un mondo possibile, che è la filosofia stessa ad attingere al loro pensiero.
Anna Beltrametti – Il punto più alto che Platone tocca nelle riflessioni sulla paura è proprio il reciproco implicarsi di potere personale e paura. Paura che l’uomo di potere riesce ad incutere ai suoi governati, ma anche paura provata dall’uomo di potere nei confronti di chi è migliore di lui, come pure della paura che ha di tutta la schiera di manutengoli che, dopo averlo lusingato, vogliono essere lusingati e pretendono lusinghe.
Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti

Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.

Costanzo Preve_ sei anni dalla morte

Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia

ISBN 978-88-7588-108-5, 2013, pp. 544, 170×2140 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [50]

indicepresentazioneautoresintesi

Costanzo Preve

Il 23 Novembre del 2013 è venuto a mancare Costanzo Preve, non l’ho conosciuto personalmente, ma attraverso i suoi scritti ed i video in cui continuava a diffondere le proprie idee. Per me è stato un incontro importante. Le modalità con cui si può entrare in relazione con una persona sono plurime, i testi scritti ed i video sono il modo in cui è avvenuto quest’incontro. Costanzo Preve “mi ha parlato” in un momento storico dominato dalla chiacchiera e da un conformismo meno che mediocre; “mi ha comunicato” un messaggio. Ha ravvivato in me la passione per la verità e per la Filosofia. Non che non vi fosse, ma un pensatore che ha il coraggio della radicalità della filosofia, ha la forza morale ed intellettuale di far sentire a casa coloro che cercano la verità, o che si confrontano con essa. Normalmente la passione per la verità nella nostra epoca causa un senso profondo di estraneità, di distanza, per cui si ha la sensazione di essere sospinti in una indefinibile periferia a cui si giunge incalzati da una realtà sociale che sdembra abbia rinunciato ad ogni possibile ricerca della verità. È un’immensa palude in cui tutto si omologa, in cui diventa la verità l’irrilevanza, sostanza che tutto muove senza che nulla muti.
Costanzo Preve si è tratto fuori dalla palude dell’irrilevanza, ed ha vissuto nella sua carne dolente la coerenza della filosofia che propugnava con le parole, con le argomentazioni logiche, con la scelta di vivere e testimoniare la sua posizione filosofica distante dalle accademie, dai luoghi in cui il pensiero diventa arte del meretricio. “Lo scandalo Preve” è consistito nel riaffermare la centralità della verità senza la quale la filosofia è solo una disciplina che si confonde con una serie di discipline altre. La verità è stata la sua trasgressione all’ordine costituito, trasgressione non priva di speranza, perché – come amava ripetere – l’essere umano per natura non può che pensare la verità. Pertanto gli innumerevoli “filosofi” della morte della verità e dell’osanna al capitalismo non sono che l’effetto di una congiuntura epocale. Le mode passeranno, mentre la verità degli uomini e delle donne non potrà fermare il proprio cammino.
Costanzo Preve: una voce fuori dal coro. Ma il suo messaggio è giunto a me nella sua forza veritativa. Egli ha difeso strenuamente il valore e la dignità della filosofia dalla sua riduzione a presenza decorativa e decaffeinata nei salotti del capitale. La verità in primis, Costanzo Preve, lo ha ribadito nell’arco di tutta la sua vita:

«Per l’appunto. La verità filosofica nasce infatti da un terzo approccio, che non è né religioso né scientifico. L’aspetto della verità filosofica è quello dialogico. La verità nasce da un agone dialogico, da una “lotta amichevole” come quella che stiamo facendo noi due ora, per avvicinarsi il più possibile alla verità. Rimane però anche qui un problema: nella storia dell’uomo, l’agone dialogico è per definizione interminabile. Pertanto, chi ricerca la verità solo nell’agone dialogico, non troverà la verità se non nel dialogo. Il dialogo stesso, però, ha questo equivoco: da un lato è lo scopo della ricerca della verità, e dall’altro il mezzo con cui essa può essere raggiunta. Questa è, a mio parere, la contraddizione strutturale della filosofia, da cui essa non potrà uscire mai. Se il dialogo è lo scopo, la verità non è più lo scopo, ma semplicemente una forma di vita saggia, che sostituisce la violenza con la contrattazione. Se invece il dialogo è un mezzo per la realizzazione della verità, la verità stessa diventa scopo, ma allora è messa oltre il dialogo. Il dialogo filosofico ha questa caratteristica essenziale: che ad ogni proposizione può essere opposta un’altra pro-posizione. Personalmente, non credo in un dialogo filosofico risolutivo dei problemi. Mentre la scienza conosce quei metodi definitori chiamati protocolli, accertamenti, sperimentazioni e così via, e perciò permette alla comunità scientifica di chimici, fisici e biologi di giungere almeno a delle verità provvisorie condivise dalla comunità di appartenenza, la filosofia per sua natura non dispone di simili metodi».[1]

La verità filosofica non è un ciclo concluso e consegnato alla storia, la verità ha la sua struttura imprescindibile nel dialogo. Pertanto è sempre oggetto di ridefinizioni, di spostamenti argomentativi. La verità è socraticamente disposta all’altro. Per la sua radicalità senza integralismo, analizza ogni passaggio, è processuale, disposta a cercarne le falle della sua costruzione: il risultato è sicuramente importante, ma fondamentale è il processo veritativo, ed ogni processo è necessariamente comunitario.

Verità e filosofia
La precondizione per svolgere l’attività filosofica è il credere argomentato nella verità. Costanzo Preve, in tal modo, effettua un chiaro taglio epistemologico tra le filosofie e le sue imitazioni. La pluralità delle filosofie non nega la verità, anzi ciascuna curva la verità secondo prospettive che si completano, si integrano, senza confondersi o cannibalizzarsi, perché la filosofia e la verità sono in uno stato di perenne tensione, di ricerca dell’alterità. La insegue al fine di autochiarirsi: la filosofia rinuncia al tribalismo dell’appartenenza per scegliere la dialettica della comprensione:

«E tuttavia, il primo problema della filosofia consiste nel chiarire che non c’è contraddizione fra la fisiologica pluralità delle scuole filosofiche e la sostanziale unicità della verità, per cui la pluralità non determina necessariamente relativismo.

Che cos’è allora la filosofia? Do senza arroganza alcuna la mia definizione. La filosofia è un’attività comunitaria, che si determina necessariamente in individualità nominative. Queste individualità nominative, tuttavia, anche se sembra che passino il tempo scambiandosi solo opinioni, in realtà si muovono su di un terreno che presuppone l’esistenza della verità, per cui la filosofia ha come oggetto la verità, non il semplice scambio delle opinioni, che è soltanto propedeutico per la comprensione della verità stessa. Chi ha espresso meglio questo concetto è stato nell’antichità Platone, e nella modernità Hegel».[2]

La contaminazione
Filosofare è dunque trascendere gli steccati ideologici. Il filosofo cerca il confronto, travalica i confini, per cui non teme di essere tacciato di incoerenza e di opportunismo, ma si assume il rischio dell’incomprensione in nome della verità. Costanzo Preve può confondere, in quanto invita ad un riorientamento gestaltico, ovvero a ripensare categorie e paradigmi in cui spesso ci si rifugia. L’alterità politica e filosofica non è un nemico da evitare. Anzi, se si ha la chiarezza di cercare la verità, se si ha il coraggio di assumere una posizione filosofica personale, la cui genealogia è nella parola che unisce senza facili sovrapposizioni identitarie, non si deve temere la “contaminazione” con la parte avversa, la quale può essere motivo per analizzare, per disegnare confini consapevoli e specialmente nuove mappe concettuali alle quali giungere mediante il faticoso attraversamento delle posizioni dell’altro. Perché ciò possa accadere si dev’essere disponibili a congedarsi da se stessi, a rinascere dolorosamente in nuovi concetti che non eliminano la nostra storia personale, ma la integrano, ed in altri casi la trascendono in nuovi orditi:

«Noi siamo sempre ipnotizzati, e quindi di fatto paralizzati, non tanto dall’incantesimo dell’appartenenza originaria (e quindi dal senso di colpa sprigionante dalla coscienza inquieta di averla abbandonata), quanto dall’attrazione gravitazionale verso il profilo ideale e culturale che ci ha originariamente costituiti. Come ha scritto genialmente Krahl a proposito di Adorno, è difficile congedarsi senza congedo. Ma solo chi è integralmente congedato dal proprio congedo potrà veramente tendete ad una nuova sintesi […]. Vorrei soffermarmi ancora sul mio caso, cosa legittima visto che in fondo la domanda l’hai rivolta a me. Io ritengo di aver attuato con un certo successo la problematizzazione aporetica dell’identità culturale di sinistra, di aver proposto un’interpretazione originale del pensiero di Marx sia sul suo versante filosofico che sul suo versante scientifico, di aver criticato con la necessaria spietatezza la tradizione marxista italiana sia nel suo aspetto storicistico che nel suo aspetto operaistico, di aver avviato un confronto fra la tradizione filosofica marxista e tradizioni ad essa in vario modo ostili, e di aver infine infranto il tabù dell’impurità e del pensiero magico animistico imperfettamente secolarizzato pubblicando e stampando per case editrici “intoccabili”». [3]

                                       

Il pensiero complesso
L’immaginario della contaminazione non solo favorisce le appartenenze ideologiche, ma specialmente esemplifica le posizioni concettuali. Poiché ci si rifugia tra eguali, è naturalmente facile l’impegno filosofico ed intellettuale di coloro che si circondano di eguali che puntualmente condividono la sua “opinione”. La paura della contaminazione va superata in nome della complessità, del pensiero che esige la presenza di posizioni plurime prima di concettualizzare l’argomentazione. La complessità è il segno distintivo della filosofia, essa necessariamente vuole che non si debba temere la dialettica, l’altro è nemico della filosofia se fa dell’ateismo nelle sue forme plurali l’unico facile obiettivo del suo filosofare:

«L’immaginario della contaminazione è di tipo religioso, e mi sembra che su questo non vi siano dubbi. In proposito, è quasi comico (anche se talvolta irritante) che i cosiddetti “laici” non sembrino sospettarlo, laddove si è qui di fronte ad uno dei casi più macroscopici di secolarizzazione imperfetta di una categoria religiosa precedente. Per quanto riguarda il caso Alain De Benoist, ritengo che questo immaginario della contaminazione debba essere ulteriormente “disaggregato” in due elementi, e cioè la contaminazione per un peccato originale irriscattabile, da un lato, e la contaminazione dovuta ad infiltrazione nello spazio storico della sinistra, considerata aprioristicamente luogo del bene, dall’altro».[4]

Filosofare non è paragonabile con l’abitudine alla chiacchiera colta. Filosofare significa utilizzare una chiara metodologia di ricerca. Nel caso di Costanzo Preve consiste in primis nel dialogo comunitario, sulla deduzione sociale delle categorie e sull’ontologia dell’essere sociale, modalità non contrattabili della metafisica previana:

«La pratica filosofica deve invece strutturarsi non sulla (impossibile) prevedibilità, oppure sulla (ancora più impossibile) scientificità, ma su tre solidi fondamenti: il carattere dialogico comunitario, la deduzione sociale delle categorie, e l’ontologia dell’essere sociale».[5]

Costanzo Preve ci ha consegnato e donato una importante eredità morale e filosofica: verità, complessità, libertà dalle conventicole che erigono muri di fango. La filosofia non ha il compito di rassicurare, anzi pone domande, ci invita a rinunciare alle facili risposte le quali sono il vero veicolo della violenza a cui la filosofia si oppone con la verità della parola.

 

[1] C. Preve – L. Grecchi, Marx e gli antichi greci, Petite Plaisance, Pistoia 2005, p. 28.

[2] C. Preve, Il significato di filosofia, Arianna editrice, 18/1/2013

[3] A. De Benoist – G. Giaccio, Dialoghi sul presente, controcorrente, Napoli 2005, pp. 75-76.

[4] C. Preve, Il paradosso De Benoist, Settimo Sigillo, Roma 2006, p. 20.

[5] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, p. 516.

Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
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