«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Nella sua storia più che bimillenaria, il Giuramento ippocratico ha rappresentato, se non sempre una norma vincolante per la prassi, certamente un documento fondante dell’etica medica moderna. In questo libro se ne ripropone la traduzione curata da Mario Vegetti (1937-2018), i cui contributi alla storia della filosofia e della medicina antiche costituiscono tuttora un riferimento interpretativo ineludibile. Nella Prefazione, Vincenzo Damiani ripercorre, tenendo conto degli apporti scientifici più recenti, la storia del testo del Giuramento e delle sue interpretazioni. Accompagnano la traduzione il testo greco delle due edizioni di J. L. Heiberg (CMG, 1927) e J. Jouanna (CUF, 2018), corredato di annotazioni critiche essenziali; una breve nota al testo, di Mario Vegetti; un’antologia di suoi testi sul Giuramento ippocratico; la versione inglese, con traduzione italiana, della Dichiarazione di Ginevra – redazione ‘moderna’ del Giuramento formulata dall’Associazione Medica Mondiale (1948 [2017]) – e una bibliografia aggiornata.
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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Il volume muove dalle origini e dalla storia dell’induismo per esporre poi le grandi concezioni di fondo riguardanti Dio, l’uomo, il mondo. Le sezioni successive sono dedicate rispettivamente alle dottrine, ai principali maestri e alle loro scuole, infine alle pratiche, ai ministri e ai luoghi di culto. Il volume è ampiamente corredato di fotografie e riproduzioni a colori di opere d’arte.
Viaggio nell’India del nord (con Mimma Congedo), Einaudi 2010
Delhi e Varanasi, Benares e Vrindavana, Mathura e il Monte Abu, Jaipur e Udaipur: i mille volti di una civiltà ricca di valori e di spiritualità che da millenni affascina il nostro Occidente. Le storie mitiche del patrimonio hindu raccontate nel Mahabharata e la nascita di Delhi, dove l’architetto degli dèi costruí per il sovrano un palazzo di meraviglie. I ricchi templi di Ayodhya, la città di Rama, incarnazione di Vishnu. Il Gange, fiume sacro degli hindu, e la splendida Varanasi, sede del mito del dio Shiva, bellissimo e inquietante. Il Rajasthan, il “paese dei re”, con le sue distese di deserto roccioso, teatro di epiche battaglie e di romantiche storie d’amore. Agra e il celeberrimo Taj Mahal. Un libro che conduce il lettore alla scoperta di templi dalla sontuosa magnificenza, potenti divinità scolpite nella pietra, siti archeologici grondanti mistero, storie di uomini, dèi e battaglie. Il volume sarà arricchito da 50 illustrazioni nel testo.
Vegetarianismo, Editrice Bibliografica 2019
Se gli orientamenti alimentari e i significati attribuiti al cibo rappresentano un modo per ogni cultura di esprimere sé stessa, perché rispecchiano una visione del mondo, forse per nessuna grande civiltà questo è vero come per quella indiana. Tuttora in India gli individui si identificano in comunità e gruppi sociali anche, e non secondariamente, attraverso l’alimentazione, distinguendosi o riconoscendosi fra loro per quello che mangiano, o meglio, in primo luogo, per quello che non mangiano; e, alla base, la scelta è fra il nutrirsi anche di carne, oppure no. La grande diffusione fino a oggi del vegetarianismo in India è l’esito di una lunga vicenda storica, della quale questo libro ricostruisce le tappe formative nell’antichità. Le diverse fasi e posizioni si collocano nel contesto delle grandi religioni via via elaborate nel subcontinente indiano: il culto vedico, i suoi sviluppi nel brahmanesimo quindi nell’induismo, il buddhismo e il jainismo; e si connettono, in particolare, con la nascita della dottrina della nonviolenza, il desiderio di «non nuocere» (ahims?) a nessun essere vivente, che diventerà un valore largamente condiviso.
Storia dell’arte dell’India, Vol. 1, Dalle origini ai grandi templi medievali, Einaudi 2020
l primo dei due volumi che tracciano una storia generale delle arti visive del subcontinente indiano.
La storia culturale dell’India è fra le piú grandi dell’intera umanità. Ha prodotto durante tutte le sue tappe capitoli di immenso splendore, sintesi sofisticate e geniali di molte provenienze, capaci di esercitare influssi enormi, se è vero che il subcontinente indiano ha rappresentato per l’Asia ciò che la Grecia è stata per l’Europa. Fanno parte di questa lunga vicenda, accompagnandola e rispecchiandola, realizzazioni artistiche davvero emozionanti per magnificenza e varietà. Il primo dei due volumi che tracciano una storia generale delle arti visive del subcontinente indiano spazia dalle origini protostoriche fino all’apogeo dell’architettura templare e della sua scultura, lungo un periodo che si inoltra fino nel XIII secolo. Queste lunghe fasi comprendono un repertorio di opere straordinarie, alcune delle quali vanno annoverate fra le piú spettacolari mai prodotte dall’uomo. I monumenti, le sculture, i piú rari dipinti ammirabili fino a oggi sono in larga parte ispirati alle religioni nate in India, il buddhismo, il jainismo e l’induismo, e riflettono le profonde elaborazioni concettuali della grande civiltà dell’India classica.
Storia dell’arte dell’India. Vol. 2, Dagli esordi indo-islamici all’indipendenza, Einaudi 2020
Questo secondo volume prende le mosse dall’arte indo-islamica, esito del nuovo dominio che si afferma in India intorno al 1200, capace di produrre, nell’architettura come nella pittura, una lunga serie di straordinari capolavori, in un contesto che rappresenta da un lato la propaggine orientale della grande koinè islamica, dall’altro una nuova, grandiosa fase della cultura indiana in senso proprio. Ad essa seguono i principati hindu del nord con i loro palazzi e dipinti, e le sontuose realtà urbanistiche e monumentali che sorgono nel frattempo nel meridione. Concludono il volume gli esiti artistici della dominazione inglese così come della ricerca, da parte di un’India che aspira all’indipendenza, di una compiuta identità culturale in un mondo in rapida trasformazione.
Mallanaga Vatsyayana, Kamasutra, traduzione e cura di Cinzia Pieruccini, Marsilio 2020
«Neppure in sogno si vedono le situazioni e i gesti rapiti che possono darsi nel fare l’amore, inventati in quello stesso istante»
Fra i capolavori dell’India antica, certo nessuno è famoso in Occidente come il Kāmasūtra, l’affascinante «Trattato sull’Amore» composto da Mallanāga Vātsyāyana verso il III secolo d.C. Più di molte altre, tuttavia, quest’opera è stata oggetto di fraintendimenti e di interpretazioni riduttive, che hanno finito per diffondere intorno al suo nome un’aura di lascivia, quando non addirittura di pornografia. Complice, la prolungata inaccessibilità o trascuratezza delle traduzioni: basti pensare che tutte le edizioni italiane del Kāmasūtra apparse prima di questa si limitavano a rendere l’assai disinvolta prima versione inglese, pubblicata nel 1883. Nel tradurre quindi il Kāmasūtra in italiano, finalmente, dall’originale sanscrito, si è voluto rendere giustizia a questo testo glorioso che, al di là delle facili banalizzazioni, appare ancora carico di suggestioni immense. Suo presupposto, comune nella cultura indiana classica, è che l’amore erotico sia un’esigenza approvata, il cui appagamento perfetto conduce anzi al benessere dell’intera società; è perciò essenziale conoscerne le leggi. Tale, dunque, l’intento di Vātsyāyana, educare l’uomo e la donna alla sensualità, e, per conseguenza naturale, a costruirsi la fortuna in amore. Scorre così dinanzi ai nostri occhi un largo affresco di personaggi e di situazioni – la giovane e le sue nozze, l’amante elegantissimo, le intriganti signore dell’harem, la mercenaria senza scrupoli, il corteggiamento, gli abbracci, i tradimenti, e così via; in pagine che, sebbene con il profumo esotico di una civiltà lontana, ancora sanno insegnarci che la felicità in amore viene solo da una scienza profonda.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Oggi, con un semplice sgarbo all’etichetta il museo polacco, per celebrare la liberazione del campo cancella i liberatori, da sempre presenza ingombrante, anzi indigeribile per il corpo tronfio, autoreferenziale e dal tentacolare appetito delle democrazie sedicenti liberali.
L’operazione, tanto rozza quanto dirompente, esprime al massimo grado quella tendenza piuttosto diffusa a piegare la storia alle convenienze e alle direttive politiche del momento che finisce per annullare la storia stessa e, con essa, ogni preoccupazione di verità e di decenza.
Come è noto, la memoria tende a privilegiare la modalità selettiva, vuoi per l’ampiezza di quanto costituisce il suo oggetto di cui non è semplice registrazione, vuoi per la tendenza a rimuovere o sfocare quanto ha causato sofferenza. E così, proprio nella sua giornata ufficiale – il 27 gennaio – ha fatto i conti con un evento oltremodo fastidioso, per non dire scandaloso che ormai da anni turbava la celebrazione di una giornata altrimenti memorabile che vede l’Europa tutta ribadire il proprio rifiuto di ogni forma di persecuzione. Infatti, la Russia è stata esclusa dalla cerimonia di commemorazione organizzata dalla direzione del museo di Auschwitz, in ricordo dell’anniversario della liberazione del campo di sterminio ad opera dell’Armata Rossa. Sulle spalle dell’U.E. al traino americano pesava da tempo questo vergognoso vizio d’origine, questo incidente di percorso che offuscava il medagliere democratico ed antifascista orgogliosamente esibito, al punto che lo stesso Parlamento europeo era dovuto intervenire nel 2019 con una dichiarazione in cui nazismo e comunismo venivano equiparati, liquidando con un sol tratto di penna e qualsiasi serio dibattito storiografico e 20 milioni di Russi morti nella guerra contro il nazismo. Oggi, con un semplice sgarbo all’etichetta il museo polacco, per celebrare la liberazione del campo cancella i liberatori, da sempre presenza ingombrante, anzi indigeribile per il corpo tronfio, autoreferenziale e dal tentacolare appetito delle democrazie sedicenti liberali.
L’operazione, tanto rozza quanto dirompente, esprime al massimo grado quella tendenza piuttosto diffusa a piegare la storia alle convenienze e alle direttive politiche del momento che finisce per annullare la storia stessa e, con essa, ogni preoccupazione di verità e di decenza. E la leva su cui si appoggia la destoricizzazione sta proprio nel rapporto squilibrato tra memoria e storia, tutto spostato attualmente sull’asse della prima.[1] La Giornata della memoria che si svolge ogni anno a scuola intorno al 27 gennaio è, a tale proposito, esemplare, combinando insieme spettacolarizzazione del dolore e destoricizzazione della Shoah. Evento ormai rituale del calendario scolastico tra l’assemblea di Natale (leggi: tornei di giochi di carte e palla e consumo di cibarie) e l’assemblea di Carnevale (leggi: tornei di giochi di carte e palla e consumo di cibarie con eventuali travestimenti) cade la visione di un film giocato sul doppio registro dello straziante e del macabro, o la lettura di brani commoventi, o – sempre più raramente, vista l’età dei sopravvissuti – l’ascolto di qualche testimonianza che, per quanto significativa, resta interna per sua natura al perimetro dell’esperienza individuale. In definitiva, sempre più emozioni e sempre meno logos nell’ambito del quale anche l’emozione potrebbe trovare una indispensabile disciplina, se vuole trasformarsi in forza morale.
La crescente valorizzazione della memoria impostasi a partire dalla fine del secolo scorso sembra, per diversi storici, costituire in realtà un arretramento della storia stessa, un suo surrogato laddove è divenuto difficile servirsi di una prospettiva meramente storiografica. Ciò che risulta evidente in ambito formativo e sembra cristallizzarsi nelle due ricorrenze della Giornata della Memoria e in quella più recente del Ricordo, rappresenta in effetti la punta dell’iceberg di una tendenza ben più generale che si fonda sulla destoricizzazione sia delle vite individuali, sia delle società, ancorate su un eterno presente dove galleggiano segmenti di memorie che faticano a trovare quelle coordinate all’interno delle quali acquisire un senso compiuto.
I limiti di un approccio prevalentemente giocato sulla memoria – soggettività e frammentarietà innanzitutto – quando non risolti entro una cornice rigorosa di contestualizzazione storica, si prestano ad ogni manipolazione, di cui rimozione e negazionismo rappresentano gli esiti estremi. La ventata di cancel culture (non casualmente un vento di provenienza atlantica) che mira a fare tabula rasa del passato per minare ogni consapevolezza culturale e azzerare la storia dell’essere umano come una miserevole sequela di errori, colpe, follie, violenze con il suo nichilismo assoluto e il suo patologico rifiuto della realtà, autorizza le più fantasiose ed arbitrarie ricostruzioni, lasciando di fatto il campo aperto ad ogni strumentalizzazione ideologica e politica, sostituendo alla conoscenza storica o i pii desideri delle anime belle o il brutale colpo di spugna a mano di compiaciuti e compiacenti servitori di questa o quella istituzione, naturalmente sempre depositaria indiscussa ed autoproclamatasi dell’ultimo residuo di verità permesso. Dopo le teorie negazioniste dello sterminio nazista, ecco profilarsi, nel seno stesso di quel mondo che ama presentarsi come misura universale di libertà, democrazia e diritti umani, la rimozione del contributo fondamentale dato dall’Unione Sovietica alla liberazione dal nazifascismo, attraverso l’esclusione della Russia dalla cerimonia tenutasi il 27 gennaio ad Auschwitz.
Il quadro geopolitico in cui è maturata una tale decisione è fin troppo chiaro, meno forse le sue conseguenze. Oltre l’aspetto più generale che è quello, come si è appena accennato nei limiti del presente lavoro, di una progressiva e quasi ultimata destoricizzazione, va osservato, nello specifico, che amputare dall’Europa la Russia – la sua straordinaria cultura, la sua presenza vitale nella storia del continente – significa innanzitutto colpire a fondo l’Europa (che è poi uno degli obiettivi del conflitto in corso, per interposta Ucraina), legandola irrevocabilmente al padrone americano, in affanno un po’ ovunque.
Questa presenza, così come si manifestò nel 1945, vorrei ricordarla con le parole di Primo Levi per il quale la fine dell’inferno e la speranza della libertà presero, in quel gennaio, il volto di quattro soldati dell’Armata Rossa che, dopo la fuga dei Tedeschi da essa incalzati, entrarono nel campo dove era stato spedito in quanto ebreo e partigiano. Se memoria deve essere, che almeno non sia mutilata, a sfregio della verità storica.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: i quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.[2]
[1] È quanto sostiene lo storico Davide Bidussa, citato da Francesco Germinario nel suo Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017, che sviluppa una lunga riflessione sul rapporto storia- memoria cui faccio qui un rapido riferimento e su quello tra destoricizzazione delle vite individuali e destoricizzazione del Passato.
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