Tucidide (460-399 a.c.) – Così presso molti la ricerca della verità viene trascurata, e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano

Tucidide 01

«Oὕτως ἀταλαίπωρος τοῖς πολλοῖς ἡ ζήτησις τῆς ἀληθείας,
καὶ ἐπὶ τὰ ἑτοῖμα μᾶλλον τρέπονται».

«Così presso molti la ricerca della verità viene trascurata,
e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano»».

Tucidide, Storie, I 20, 3

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Felice l’uomo che possiede la conoscenza che deriva dalla historía, e non si propone di danneggiare i concittadini né di compiere azioni ingiuste, ma contempla l’ordine che non invecchia della natura immortale, come e perché si sia costituito. A uomini del genere non si accosta mai il pensiero di azioni vergognose.

Euripide 03

«Oὕτως ἀταλαίπωρος τοῖς πολλοῖς ἡ ζήτησις τῆς ἀληθείας,
καὶ ἐπὶ τὰ ἑτοῖμα μᾶλλον τρέπονται».
«Così presso molti la ricerca della verità viene trascurata, e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano»».

Tucidide, Storie, I 20, 3

ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας
ἔσχε μάθησιν
μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνη
μήτ’εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν,
ἀλλ’ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη
καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως,
τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’αἰσχρῶν
ἔργων μελέδημα προσίζει.

 

Felice l’uomo che possiede la conoscenza che
deriva dalla historía, e non si propone di
danneggiare i concittadini né di compiere
azioni ingiuste,
ma contempla l’ordine che
non invecchia della natura immortale,
come e perché si sia costituito.
A uomini del genere non si accosta mai
il pensiero di azioni vergognose.

 

Euripide, Fr. 910 Nauck

Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Gli dei non odiano chi è nobile d’animo, soltanto lo fanno soffrire di più di chi non vale niente.
Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Che i miei figli possano vivere liberi, ricchi della loro libertà di parola. I malvagi presto o tardi sono fatalmente smascherati come fanciulle che amano vedersi allo specchio.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Karl Marx (1818-1883) – Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni. La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. E se un’intera nazione si vergognasse realmente, diventerebbe simile a un leone, che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso.

Karl Marx- A. Ruge

Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni.
La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa.
E se un’intera nazione si vergognasse realmente,
diventerebbe simile a un leone,
che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso.

Il nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante dommi,
bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa,
sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico.

Auto-chiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo
in relazione alle sue lotte e ai suoi desideri.
Questo è un lavoro per il mondo e  per noi.

K. Marx

 

 

Karl Marx ad Arnold Ruge. Sul battello per D., marzo 1843

Io viaggio in Olanda. In base ai giornali locali e francesi, la Germania è caduta nel fango e vi sprofonda sempre di più. Le assicuro che, benché privi di orgoglio nazionale, si sente lo stesso la vergogna nazionale, specie in Olanda. L’ultimo degli olandesi è ancora il cittadino di uno Stato, rispetto al primo dei tedeschi. E i giudizi degli stranieri sul governo prussiano! Prevale un accordo spaventoso: nimo si illude più su tale sistema e sulla sua reale natura. La nuova scuola è pur servita a qualcosa: l’abito di gala del liberalismo è caduto, e il più ripugnante dispotismo è esibito agli occhi di tutto il mondo in tutta la sua nudità.
 Pure questa è una rivelazione, benché a rovescio. È una verità che almeno c’insegna la vacuità del nostro patriottismo, la mostruosità del nostro Stato, e a coprirci il viso. Lei mi scruterà sorridendo e mi chiederà: «cosa si è guadagnato con ciò? Mica per vergogna si fa rivoluzione». Rispondo: «la vergogna è già una rivoluzione; è la vittoria della Rivoluzione francese sul patriottismo tedesco, dal quale essa fu vinta nel 1813». La vergogna è una sorta di ira contro di sé. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccar il balzo. Invero, in Germania ancora non esiste la vergogna: i tedeschi sono miserabili patrioti tuttora. Ma quale altro sistema potrebbe purgare il loro patriottismo, se non questa buffonata del nuovo cavaliere Federico Guglielmo IV di Prussia? La commedia del dispotismo che ci è recitata è per lui altrettanto pericolosa quanto lo fu a suo tempo la tragedia per gli Stuart e i Borboni. E benché per un lungo periodo tale commedia non fosse considerata per quello che è, pure sarebbe già una rivoluzione. Lo Stato è una cosa troppo seria per farne un’arlecchinata. Una nave carica di matti spinta dal vento potrebbe forse veleggiar a lungo; ma essa andrebbe comunque verso il suo destino, proprio perché i pazzi non ci crederebbero. Questo destino è la rivoluzione che ci sovrasta.

Le tre lettere di Marx a Ruge comparse negli Annali facevano parte di un corpus, presentato sotto il titolo Un carteggio del 1843, nel quale si trovava anche una lettera di Feuerbach a Ruge, datata giugno 1843. Marx e Ruge, in effetti, avevano contattato Feuerbach – che, all’epoca, rappresentava per eccellenza la filosofia dell’avvenire – auspicando una comunione di intenti. La lettere di Feuerbach a Ruge, dove il filosofo esprimeva la sua adesione allo spirito che dirigeva il progetto della rivista, conteneva questa riflessione.

Che cos’è teoria, che cos’è pratica? Dov’è la differenza? Teorico è ciò che ancora si limita soltanto alla mia testa, pratico ciò che appare nelle teste di molti. Ciò che unisce molte teste fa massa, si dilata e si fa posto nel mondo. La possibilità di creare un organo nuovo per il nuovo principio è un tentativo che non va tralasciato.

 

Arnolde Ruge e Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Gian Mario Bravo e con traduzione ad opera di Anna Pegoraro Chiarloni e Raniero Panzieri, Milano Edizioni del Gallo, 1965. Il passo in questione è contenuto a p. 78



«Non vorrei che noi innalzassimo una bandiera dogmatica; al contrario. Noi dobbiamo cercare di venire in aiuto ai dogmatici, affinché chiariscano a se stessi i loro principi. Così soprattutto il comunismo è un’astrazione dogmatica, e con ciò mi riferisco non a un qualsiasi, presunto ed eventuale comunismo, bensì al comunismo realmente esistente, quale lo professano Cabet, Dézamym Weitling ecc. Questo comunismo è proprio solo una manifestazione particolare del principio umanistico, contaminato dal suo opposto, l’elemento privato. Abolizione della proprietà privata e comunismo, quindi, non sono affatto identici e non a caso, bensì necessariamente, il comunismo si è trovato di fronte ad altre dottrine socialiste, come quelle di Fourier, Proudhon ecc., proprio perché esso spesso non è che un’attuazione particolare, unilaterale, del principio socialista». (ibidem, p. 81)



«Nulla ci impedisce quindi di collegare la nostra critica alla critica politica, alla partecipazione politica, perciò alle lotte reali, e di identificarle con esse. Allora non affronteremo il mondo in modo dottrinario, con un nuovo principio: qui è la verità, inginocchiatevi! Attraverso gli stessi principi del mondo noi illustreremo al mondo nuovi principi. Non gli diremo: «Abbandona la tua lotta, è una sciocchezza; noi ti grideremo la vera parola d’ordine della lotta». Gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, poiché la coscienza è una cosa de deve far propria.

La riforma della coscienza consiste solo nel rendere il mondo consapevole di se stesso, nel ridestarlo da suo ripiegamento trasognato, nello spiegargli le sue proprie azioni. Come per la critica della religione di Feuerbach, il nostro scopo non è altro che condurre alla forma umana autocosciente tutte le questioni religiose e politiche». (ibidem, pp. 82-83)



«Il nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante dommi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente. Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro.

Possiamo dunque sintetizzare in una parola la tendenza della nostra rivista: auto-chiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo in relazione alle sue lotte e ai suoi desideri. Questo è un lavoro per il mondo e  per noi. Esso può derivare solo da un’unione di forze. Si tratta di una confessione, non d’altro».

Per farsi perdonare le sue colpe, l’umanità non ha che da dichiararle per ciò che esse sono. (ibidem, p. 83).



***

Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”
Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo
Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore
Karl Marx – La natura non produce denaro
Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità.
Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.
Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo
Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo
Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.
Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.
 
Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.
Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.
Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.
Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.
Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”
Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Karl Marx (1818-1883) – Ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di DERUBARE L’OPERAIO, ma anche in quella di SPOGLIARE LA TERRA, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle fonti durevoli di tale fertilità
Karl Marx (1818-1883) – Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.
Karl Marx (1818-1883) – L’uomo «totale», è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale. L’uomo ricco è l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, in una società in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Tra guerra e paura. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro. Nella guerra la prima vittima è la verità, scriveva Eschilo.

Covid 19 e guerra
Salvatore Bravo

Tra guerra e paura

 

La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità,
fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro

Il proliferare della parola guerra è un ottimo espediente per occultare le responsabilità.

«Nella guerra la prima vittima è la verità», scriveva Eschilo.

Il Covid-19 non è solo un problema epidemiologico, anzi, lo stato di eccezione in cui siamo sta rivelando “le verità nascoste” del sistema, attraverso i provvedimenti attuati per inibirne la diffusione.
In questi mesi serpeggia un nuovo linguaggio che si catalizza intorno alla parola “guerra”. La parola “guerra” stride con il periodo pasquale, la pasqua con i suoi significati simbolici e teologici sfuma tra le chiuse chiese e l’aggressività verbale in nome della difesa della salute. Contro il nemico sull’uscio di casa. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro: l’infezione ha il viso del vicino, il pericolo è incarnato nella comunità vivente veicolo del retrovirus.
La guerra reca con sé la paura specie se il nemico è invisibile, impalpabile: è ovunque, ma resta invisibile, indeterminato, può essere in chiunque. La paura non paralizza solo gli spostamenti e le relazioni, ma specialmente rafforza il desiderio di dirigismo ed autoritarismo, mediante i quali difendersi dall’aggressore. Si cavalca la guerra e la paura nel circo mediatico. Scorre nella rete la parola guerra, si compara la situazione attuale a contesti altri, ci si spinge a paragonare la guerra al retrovirus alle vicende della seconda guerra mondiale. La forzatura è assolutamente palese, ma ha l’effetto di provocare la chiamata alle armi contro i trasgressori, e specialmente di giustificare la paralisi della democrazia, e l’assenso ai nuovi padroni: i virologi.

Democrazia senza politica
La politica tace e cede il passo agli esperti che progettano la guerra. I finanzieri hanno ceduto il posto agli scienziati, nel silenzio della politica, per cui le loro dichiarazioni sono il nuovo oracolo verso cui si tende l’orecchio oranti, sono i generali di una popolazione impaurita che ha perso il controllo sulla propria vita. I virologi giudicati come esponenti dell’oggettività della scienza sono i nuovi punti di riferimento, le loro parole sono indiscutibili. La politica fa un passo indietro per non perdere consensi e delega ai virologi l’agenda da dettare. La politica arretra sempre, prima dinanzi ai finanzieri, ora davanti ai virologi, e dunque è evidente il grande vuoto dell’Occidente.
L’Occidente non pratica la politica, perché ha smesso di essere comunità. Comunità e politica sono un binomio inscindibile come insegna Platone col mito di Prometeo nel Protagora. Naturalmente i virologi si limitano ad indicare provvedimenti tacendo le istituzioni di appartenenza ed i legami tra scienza, politica e finanza. La parola “guerra” che risuona violenta tra le sinapsi degli impauriti sudditi serve a celare l’intreccio per ostentare l’immagine di una realtà sociale progredita e scientifica.
Le domande possono tacere come l’opposizione, poiché la “guerra” esige il distanziamento spaziale e temporale. Dove si combatte una guerra ci sono soltanto soldati, tutti i cittadini sono in trincea. Ogni casa è una trincea, per cui si vive separati, ed in tal modo le parole cadono, le prime vittime della guerra sono le domande, le richieste di chiarimenti, il silenzio delle opposizioni. Domenico Arcuri commissario all’emergenza ha dichiarato il 18 Aprile che vige una guerra. In tempo di guerra il potere invita ad adeguarsi e ad effettuare “dichiarazioni” ragionevoli. Le uniche affermazioni ragionevoli sono le enunciazioni del governo:

«Tra l’11 giugno 1940 e il primo maggio 1945 – dice – a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale 2 mila civili, in 5 anni; in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morte 11.851 civili, 5 volte di più». Da qui la riflessione: non può esserci ripartenza senza la salute. «Dobbiamo agire con cautela e prudenza come in questi mesi. – dice Arcuri – È clamorosamente sbagliato comunicare un conflitto tra salute e ripresa economica. Senza salute, la ripresa durerebbe un battito di ciglia, bisogna tenere insieme questi due aspetti. Dobbiamo ripartire ma garantendo la salute e la sicurezza del numero massimo di cittadini possibile. Serve esperienza e intelligenza. Non abbiamo tempo per dibattiti».

«Non c’è tempo per dibattiti», in un normale paese democratico, tali parole sarebbero sufficienti per la caduta del governo. Dove non c’è dibattito non c’è democrazia. Ci si scandalizza del caso ungherese: V. Orban, il 30 marzo 2020, ha ricevuto dal parlamento potere speciali, ha istituzionalizzato apertis verbis la contrazione della democrazia. Il caso italiano è peggiore: i DPCM non sono oggetto di discussione, il parlamento è un bivacco vuoto, non si discute e non si dibatte, perché si è in guerra. La funzione dell’uso della parola guerra trova una prima ragione: si è in guerra, quindi niente discussioni. L’Europa tace ed interviene solo sui conti pubblici e sui tagli alle politiche sociali; sul deficit di democrazia tace svelando d’essere semplicemente l’Europa della finanza.

Guerra scientifica
Il 29 marzo, da Fazio, Prodi ribadiva è «come una guerra», sostenendo l’affermazione di Draghi. Anzi, nel paragone di Draghi, la lotta al Covid-19 è una «guerra scientificamente giusta». La guerra necessita di essere valutata secondo criteri scientifici in possesso da Draghi. L’uso truffaldino della parola scienza è fatto con maestria, la guerra è scientifica, per cui nessuno può contestare i provvedimenti e la loro esattezza. Draghi e Prodi si intendono di guerra, hanno depauperato il patrimonio pubblico a favore dei privati. Anche quella era una guerra, ma i morti e gli infelici effetti di quei provvedimenti erano rappresentati come “risanamento economico”:

Prodi: «Come la guerra, ha ragione Draghi» – Mentre la settimana che inizia segnerà un momento cruciale anche per gli aiuti europei. Sul tema, in serata, si è fatto sentire l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi: «È come la guerra, il paragone di Draghi è scientificamente giusto. Non è la crisi del 2008 che parte dalla finanza e poi prende il resto dell’economia, prende tutti: i ristoratori e quelli che devono andare a mangiare». Esiste, ha spiegato l’ex premier a Che tempo che fa, «una diffusa idea che la solidarietà europea finisca per aiutare soprattutto gli altri, ma gli olandesi devono capire: se succede una grande crisi a chi vendono i loro tulipani?».

 

Verità e guerra
Il proliferare della parola guerra è un ottimo espediente per occultare le responsabilità, e far apparire le decine di migliaia di vittime come normali e naturali, perché se c’è la guerra ci sono vittime, e non ci si chiede se erano evitabili, e se i tagli alla sanità sono tra le cause dell’ecatombe: la guerra semplicemente ha le sue vittime, ed i suoi eroi sul campo (personale sanitario).
Ma è una strana guerra, poiché ci sono le vittime, gli eroi, i generali al comando, ma mancano i carnefici, o meglio è tutta colpa di un virus: non vi sono carnefici umani, è una fatalità naturale. In tal modo si educa ad affidarsi agli eroi ed ai generali. La popolazione inerme trova in loro il rifugio dai bombardamenti virali. Il circo mediatico con toni sempre più aggressivi incita a sanzionare i trasgressori, la rabbia è veicolata verso i nuovi untori: in tal modo i responsabili sono esenti da critiche e da processi. La paura inibisce il pensiero, cerca il responsabile immediato, e così si resta impigliati nello scorrere delle informazioni senza discernimento, senza poter ricostruire la genetica dei fatti. «Nella guerra la prima vittima è la verità», Eschilo sentenziava. La cultura classica attraversa i tempi e ci dona la bussola per capire il presente.

Normalità della guerra
La parola guerra ha l’effetto di formare le menti alla normalità dell’aggressione per risolvere i problemi a dispregio dell’articolo 11 della Costituzione:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

La coerenza con l’articolo 11 vorrebbe che si insegnasse ad usare un linguaggio di pace e di concetti nelle contingenze difficili. Invece le argomentazioni sono sostituite dalle esortazioni alla guerra contro il nemico invisibile. La normalità della guerra di tutti contro tutti prima del Covid-19 era edulcorata dal sentimentalismo mediatico. Ora la maschera cade. In contingenze sfavorevoli si fa appello solo all’attività repressiva indorata da forme di orgoglio nazionali: inni sui balconi, esposizione di bandiere, appelli mediatici per mostrare di essere un grande paese.
La politica ha assunto la postura di Clinia nelle Leggi di Platone, ovvero la guerra è un valore, nei tempi di pace si educa alla guerra in modo che in caso di necessità il passaggio risulti lieve. La globalizzazione ha educato alla guerra ed alle sue parole, per cui la politica ed i suoi esperti che descrivono la guerra e la necessità del dirigismo autoritario non sorprendono nessuno, perché si è stati emotivamente preparati alla divisione ed alla solitudine dalla guerra perenne della globalizzazione:

«CLINIA: Credo, straniero, che a chiunque sia facile comprendere le nostre usanze. Come vedete, la natura di tutta la regione di Creta non è pianeggiante come quella dei Tessali, ed è per questo motivo che quelli si servono per lo più di cavalli, mentre noi corriamo a piedi: il nostro territorio infatti è irregolare, ed è più adatto alla pratica della corsa. In questa regione è necessario possedere armi leggere e correre senza portare con sé cose pesanti: la leggerezza degli archi e delle frecce sembra dunque essere adatta. Tutte queste cose ci preparano ad affrontare la guerra, e, mi sembra, tutto è stato ordinato dal legislatore in vista di questo obbiettivo: perché anche per i pasti in comune, forse li ha introdotti, vedendo che tutti, quando fanno una guerra, sono costretti dalla situazione stessa a mangiare insieme durante questo tempo per motivi di sicurezza. Del resto mi sembra che abbia voluto condannare la stoltezza della maggior parte di coloro i quali non capiscono che ogni stato si trova sempre in una guerra incessante contro un altro stato finché vive. Se allora in tempo di guerra bisogna mangiare insieme per ragioni di sicurezza, e comandanti e soldati devono essere addestrati per la guardia, questo dev’essere fatto anche in tempo di pace. Infatti, quella che la maggior parte degli uomini chiama pace, è soltanto un nome, perché di fatto ogni Stato è per natura sempre in guerra, anche se non dichiarata, contro un altro stato. Considerando la cosa da questo punto di vista, scoprirai che il legislatore di Creta stabili tutte le nostre consuetudini pubbliche e private in vista della guerra, e che per questa ragione ci comandò di osservarle, poiché pensava che nessun’altra ricchezza o possesso fosse utile, se non si vincesse in guerra, dato che tutti i beni dei vinti finiscono nelle mani dei vincitori». [1]

 

La democrazia ha bisogno di parole per capire: senza di esse non è che un corpo privo di vita. Il Covid-19 con le sue tragedie, se non innesca la dialettica della verità rischia di rendere vane il numero, innumerevole, di persone che non ci sono più, e specialmente è fondamentale comprendere quanto avviene per dare dignità ai morti ed a coloro che hanno vissuto il trauma del lutto.
La democrazia non vive di paure, ma di verità e dialettica. Le parole sono l’anima pensante di una nazione, se le parole che circolano sono solo parole di guerra, non vi sarà comunità democratica, ma solo il regno dell’aggressività che entra in ogni relazione e si insedia nei pensieri per curvali allo sguardo guerriero.

Salvatore Bravo

[1] Platone, Le Leggi, Ousia, Edizione Acrobat, a cura di Patrizio Sanasi, pag. 5,

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione

Covid 19 e ripresa economica

Fernanda Mazzoli

La ripresa, finalmente!
Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19?
La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione

La fase due dell’emergenza da Covid 19, fatta balenare con insistenza e puntualmente rinviata – come si addice ad un premio promesso a bambini della cui condotta virtuosa non si è ancora pienamente convinti –, potrebbe avere il merito, se non di accompagnare il Paese nella lenta e faticosa ripresa, di fare giustizia di tutto il discorso solidaristico ed umanitario che nella fase uno ha ricoperto con la stagnola dei buoni sentimenti il linguaggio del terrore e della punizione, snocciolato a suon di bollettini di guerra pomeridiani e di immagini di trasporti nella notte di povere salme scortate dai militari.

È naturalmente prematuro entrare nel merito di metodi e contenuti di tale fase, considerato il profluvio quotidiano di dichiarazioni da parte di politici, giornalisti, esperti a vario titolo tanto perentorie quanto prontamente smentite, ma alcuni indizi permettono di avanzare qualche ipotesi e di mettere a fuoco certe dinamiche e linee di forza che disegneranno il contorno del mondo post-emergenza.

Al netto di tutti gli appelli e gli auspici per una società diversa “dove niente sarà come prima”, ritualmente alternati all’elenco delle crude cifre di morti e contagiati, ci sono ragionevoli motivi di ritenere che tutto sarà peggio di prima. Il capitale non mancherà infatti di cogliere le straordinarie opportunità offerte dalla fase emergenziale per riposizionarsi e ridisegnare le proprie strategie, sacrificando alcuni “rami secchi” per colonizzare altri più promettenti ambiti, riconvertendosi in salsa green e sfruttando in profondità il prodigioso giacimento offerto dalle nuove tecnologie.

Che a guidare la task force incaricata di traghettare il Paese verso una graduale uscita dallo stato emergenziale che ne ha congelato la vita politica, sociale, economica e culturale sia Vittorio Colao,[1] uomo legato per formazione ed incarichi ricoperti alle banche d’affari, al settore delle telecomunicazioni, al Bilderberg[2] e alla Round Table of Industrialist[3] è un indizio su possibili futuri scenari che va ben oltre la biografia personale e le competenze individuali del personaggio. Con lui, si è scelto di porre la ricostruzione socio-economica dell’Italia sotto l’egida dei poteri forti, fortissimi che dominano il mondo: finanza e multinazionali.

Attendersi una svolta rispetto alle politiche liberiste degli ultimi anni e alle storture più feroci del capitalismo è mero esercizio per anime belle e forse troppo arduo anche per loro. Il “mondo diverso” di cui traboccano le pagine dei quotidiani e le invocazioni di smemorati politici nostrani e ceto medio riflessivo potrebbe avere le tonalità brutali del massacro greco, piuttosto che i colori di liberté, éaglité, fraternité sventolati da interessati, improbabili e improvvisati amanti dell’umanità.

A meno che, naturalmente, lo choc della realtà non sviluppi una salutare reazione capace di coinvolgere diversi strati della società e di creare forme adeguate di critica sociale, di organizzazione, di mobilitazione sotto il segno di una messa in discussione radicale del modo di produzione capitalistico.

Un altro tassello significativo per comporre il quadro del Paese post-epidemia viene dalla scuola che, in questo periodo, si è conquistata l’attenzione di giornali e televisioni grazie alla didattica a distanza che già da più parti viene indicata come un modello auspicabile di innovazione metodologica. Il Miur, che da oltre vent’anni è prontissimo a recepire e a sostanziare in “riforme” le svariate pressioni provenienti dal mondo dell’economia per orientare il sistema dell’istruzione in funzione del mercato, anche in tanto frangente ha dato prova di tutta la sua sensibilità.

Il ministro Azzolina ha di recente firmato un decreto con il quale ha istituito una commissione di esperti in innovazione didattica e formazione, per preparare non solo e non tanto il rientro a settembre, ma nientedimeno che la scuola del futuro. Non si pensi di trovare fra i prescelti intellettuali ed accademici di chiara fama; a quel che è dato sapere sino ad oggi, i nomi sono quelli di presidi impegnati da tempo nell’introduzione nelle loro scuole di una massiccia digitalizzazione o di strampalati metodi mutuati dall’estero dove sono già stati oggetto di puntuali critiche da parte di studiosi che hanno denunciato il calo delle competenze degli studenti in seguito all’adozione degli stessi.

Il presidente della Commissione Istruzione della Camera in una illuminante e trionfalistica intervista ci tiene a sottolineare che l’attuale fase di sperimentazione forzata ha innescato una vera e propria “miccia di un primo graduale cambiamento”, destinato a sviluppare la coesistenza tra la didattica tradizionale in presenza e quella a distanza messa in atto tramite efficaci piattaforme digitali.

Ora, la digitalizzazione della didattica è questione talmente complessa (sul piano teorico e su quello applicativo) e investe talmente tanti aspetti sovente interdipendenti – cognitivi, culturali, organizzativi, sociali, relazionali, psicologici, contrattuali, lavorativi, giuridici – che non è possibile affrontarli nello spazio di un breve intervento, ma sui quali sarà necessario interrogarsi e costruire analisi e risposte adeguate sul breve-medio termine.

Mi limiterò pertanto a sottolineare un elemento che si ricollega a quel primo indizio fornito dalla composizione della task force deputata a mettere in cantiere la fase due dell’emergenza.

La didattica a distanza richiede l’adozione di piattaforme digitali che vengono fornite dalle grandi imprese che gestiscono la rete. Google, Microsoft e Apple sono gli apripista nella corsa per fornire alle scuole programmi e supporti indispensabili per attivare l’e-learning,[4] con al seguito l’editoria scolastica che desidera ricavarsi la sua parte nel gran banchetto in allestimento.

Il ministero annuncia l’arrivo di altri 80 milioni da fondi strutturali europei per consentire alle scuole di dotarsi dell’attrezzatura indispensabile, mentre l’amministratore delegato di Google, in un empito di encomiabile generosità e di umana empatia, in linea d’altronde con le finalità benefiche della multinazionale dell’informatica che presiede, ha deciso di rendere gratuito fino a luglio Hangouts-meet,[5] uno dei software di videoconferenze più gettonato. Tanto il bello verrà a settembre …

E non concernerà soltanto la scuola, che di per sé rappresenta già una bella fetta di mercato, ma tutto il settore coinvolto nello smart working,[6] altra nuova frontiera promessa all’innovazione in materia di organizzazione del lavoro. E dell’esistenza, in quanto tale modalità “agile” è quanto di più pesantemente invasivo sia dato concepire in termini di sovrapposizione e confusione fra tempi di vita e tempi di lavoro. Per non parlare dell’atomizzazione sociale estrema che essa inevitabilmente comporta e dell’anomalia rappresentata da un lavoratore dipendente che utilizza i propri mezzi di produzione, con notevole pregiudizio per importanti aspetti normati contrattualmente, primo fra tutti la sicurezza.

Eppure, per il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di questo governo presieduto dall’Avvocato del Popolo, il “lavoro agile”, grazie all’assenza di vincoli spaziali e orari e alla sua organizzazione per obiettivi (preconizzata ormai da anni dai teorici del new management),[7] permetterebbe al lavoratore di conciliare tempi di vita e di lavoro e, contemporaneamente, migliorare la sua produttività.

Molti altri elementi legati all’attuale crisi suscitano domande di fondo circa la nostra società e la nostra stessa civiltà e promettono interessanti sviluppi ad una articolata e scrupolosa disamina; i tre punti qui accennati possono, però, bastare da soli a suggerire uno scenario futuro sicuramente all’insegna del cambiamento, ma nella stessa direzione di tutti i cambiamenti invocati e messi a punto fra i cori osannanti di intellettuali e giornalisti di regime negli ultimi decenni: la colonizzazione da parte dell’economia di mercato di settori crescenti della vita sociale ed individuale.

La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione proiettano in primo piano la questione centrale, ineludibile: ogni istanza di miglioramento dell’attuale assetto sociale, ogni anelito di giustizia, ogni aspirazione ad un mondo diverso da questo che ben conosciamo e di cui l’epidemia ha rivelato la sostanziale fragilità, per non ridursi a vana chiacchiera che oscura con orpelli retorici una realtà costruita sulla predazione e l’accaparramento di risorse naturali e lavoro umano in vista della massimizzazione dei profitti, richiede di porsi il problema – teorico ed organizzativo – della fuoriuscita dal capitalismo e dell’elaborazione di un socialismo per la nostra epoca. Compito tanto urgente quanto immane che richiede innanzitutto serietà e umiltà intellettuali: tante, troppe sono le macerie che gravano sulle nostre spalle e le suggestioni cinesi emergenti in questi giorni non contribuiscono certo a liberare la strada dalle rovine, rischiano, al contrario, di bloccarla per lungo tempo ancora.

Una progettualità che non può che accompagnarsi alla consapevolezza della necessità di un rilancio del conflitto sociale, per evitare che a guidare la ripresa siano gli stessi che con le scellerate politiche delle privatizzazioni hanno già depauperato la sanità, la scuola e l’ambiente.

Emergenza contro un qualche nemico esterno (ieri il terrorismo, oggi il virus, domani chissà quale altro morbo) e conseguente appello all’unità nazionale hanno storicamente favorito il rafforzamento di interessi privati assai poco unitari e nazionali, hanno rappresentato uno strumento politico-ideologico di punta in quella “guerra di classe dall’alto” che il capitale ha scatenato contro i ceti popolari dagli anni Ottanta del Novecento e che, per ora, ha vinto.

Fernanda Mazzoli

[1] Vittorio Colao, dirigente d’azienda, amministratore delegato di Vodafone dal 2008 al 2018. Laureato alla Bocconi, ha ottenuto un Master in Business Administration alla Harvard University. Ha iniziato la sua carriera lavorando a Londra presso la banca d’affari Morgan Stanley. Ha lavorato poi per dieci anni negli uffici diMilano della società McKinsey & Company. Nel 1996 divenne direttore di Omnitel Pronto Italia (oggi Vodafone Italia). Nel 1999 è nominato amministratore delegato di Vodafone Omnitel (divisione italiana). Nell’aprile 2020 è designato dal governo italiano per guidare la task force della cosiddetta “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese dopo la pandemia.

[2] Gruppo Bilderberg (detto anche conferenza Bilderberg o club Bilderberg). I partecipanti al gruppo Bilderberg sono capi di Stato, ministri del tesoro e altri politici dell’Unione Europea; prevalentemente i membri sono esponenti di spicco dell’alta finanza europea e anglo-americana.

[3] The European Round Table of Industrialists [Tavola rotonda europea degli industriali], abbreviazione ERT, è un gruppo di patrocinio nell’Unione europea composto da circa 50 leader industriali europei che lavorano per rafforzare la competitività in Europa. Il gruppo lavora sia a livello nazionale che europeo.

[4] Per apprendimento online (noto anche come apprendimento in linea, teleapprendimento, teledidattica. Cfr., V. Eletti (a cura di), Che cos’è l’e-learning, Roma, Carocci, 2002; G. Trentin, La sostenibilità didattico-formativa dell’e-learning: social networking e apprendimento attivo, Milano, Franco Angeli, 2008.

[5] Hangouts è un software di messaggistica istantanea e di VoIP sviluppato da Google. È disponibile per le piattaforme mobili Android e iOS e come estensione per il browser web Google Chrome.

[6] Il lavoro agile o smart-working è stato definito nell’ordinamento italiano [Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana] come: «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa», LEGGE 22 maggio 2017, n. 81 Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato., su gazzettaufficiale.it, 13 giugno 2017.

[7] Il New Public Management [Nuova Pubblica Amministrazione], conosciuto anche con la sigla NPM, è uno stile di governance (governo d’impresa) che è emerso nei primi anni Ottanta del Novecento nei lavori di alcuni teorici statunitensi. Cfr.: J. Boston, J. Martin, J. Pallot, and P. Walsh, Public Management: The New Zealand Model, Auckland, Oxford University Press, 1996; Patrick Dunleavy, Helen Margetts, New public management is dead: Long live digital era governance, Journal of Public Administration Research and Theory, July 2006; Jan-Erik Lane, New public management, Routledge, 2000; G. Gruening, Origini e basi teoriche del New Public Management, in M. Meneguzzo, Managerialità, Innovazione e Governance: La Pubblica Amministrazione verso il 2000, Aracne; L.L. Jones, F. Thompson, L’implementazione strategica del New Public Management, in Azienda Pubblica, n. 6, 1997; K. Mc Laughlin, S. Osborne, E. Ferlie, New Public Management: Current Trends and Future Prospects, Routledge, London 2002; M. Meneguzzo, Ripensare la modernizzazione amministrativa e il New Public Management. L’esperienza italiana: innovazione dal basso e sviluppo della governance locale, in Azienda Pubblica, n. 6, 1997; A. Di Paolo, L’introduzione del New Public Management e della Balanced Scorecard nel processo di riforma dell’Amministrazione pubblica italiana, in Economia Pubblica, 2007.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Frida Kahlo (1907-1954) – Se solo i nostri occhi vedessero le anime invece dei corpi, quanto sarebbe diversa la nostra idea di bellezza. Io ancora vedo orizonti dove tu disegni confini. Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai.

Frida Kahlo001
«Non far caso a me.
Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizonti dove tu disegni confini».
«Se solo i nostri occhi vedessero le anime invece dei corpi,
quanto sarebbe diversa la nostra idea di bellezza».
«Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai».
Frida Kahlo

«Ti meriti un amore che ti voglia spettinata,
con tutto e le ragioni che ti fanno alzare in fretta,
con tutto e i demoni che non ti lasciano dormire.
Ti meriti un amore che ti faccia sentire sicura,
in grado di mangiarsi il mondo quando cammina accanto a te,
che senta che i tuoi abbracci sono perfetti per la sua pelle.
Ti meriti un amore che voglia ballare con te,
che trovi il paradiso ogni volta che guarda nei tuoi occhi,
che non si annoi mai di leggere le tue espressioni.
Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti,
che ti appoggi quando fai il ridicolo,
che rispetti il tuo essere libero,
che ti accompagni nel tuo volo,
che non abbia paura di cadere.
Ti meriti un amore che ti spazi via le bugie
che ti porti l’illusione,
il caffè
e la poesia».

Frida Kahlo

Il diario di Frida Kahlo. Un autoritratto intimo, introduzione di Carlos Fuentes, a cura di Sarah M. Lowe, Leonardo, Milano 1995

Frida Kahlo, Lettere appassionate, a cura di Martha Zamora, Abscondita, Milano 2002

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gabriella Turnaturi – Le metamorfosi della vergogna, il suo essersi celata, corrisponde alla perdita di consapevolezza dell’interdipedenza, dell’intersoggettività, corrisponde all’affermazione patetica e illusoria di un Io solo, autonomo e senza limiti

Gabriella Turnaturi, Vergogna

«La maschera per tutti è quella dell’allegro gaudente».

G. Turnaturi

 

 

 

«Le metamorfosi della vergogna,
il suo essersi celata,
corrisponde alla perdita di consapevolezza
dell’interdipedenza, dell’intersoggettività,
corrisponde all’affermazione
patetica e illusoria di un Io solo,
autonomo e senza limiti».

Gabriella Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Feltrinelli, Milano 2012.

 

«Tutte le emozioni sono sociali, la vergogna lo è più di tutte, perché si prova in relazione a un altro, che sia presente o assente non fa grossa differenza. Se infatti ci si vergogna rispetto a un’idea alta che si ha di sé, ci si vergogna non meno per il giudizio che ci immaginiamo che gli altri daranno di noi. La vergogna si forma sempre rispetto all’esistenza dell’altro. Partendo da qui, notiamo come uno degli elementi caratterizzanti della cultura contemporanea sia la cancellazione dell’altro. Come potrebbe essere altrimenti se l’altro è vissuto come un impedimento alla nostra realizzazione? Qui neoliberismo, individualismo, senso moderno della vergogna e cancellazione dell’altro si tengono assieme: conta l’affermazione narcisistica di sé, non c’è spazio per la vergogna. Poiché la vergogna fa da sentinella alla solidità del legame sociale, ci dice quanto forte esso sia, deduciamo che oggi esso è molto indebolito. Il che non significa che si debba tornare alla società della gogna e che non vadano respinti metodi come quello dello shaming, il marchiare visibilmente chi è reo di certi reati, affiggendo cartelli sull’auto o sulla casa».

«È la vergogna collettiva. Se attraverso un dibattito pubblico un popolo tematizza quella che è stata una vergogna nazionale, il risultato può essere non semplicemente la memoria di ciò che è stato, in luogo dell’oblio, ma anche la possibilità di immaginare insieme un futuro alternativo. Dove manca questa operazione di assunzione di responsabilità del passato, inclusa l’accettazione della vergogna, si fatica a dipingere un futuro comune e senza ombre. L’Italia, ad esempio, non ha mai tematizzato la vergogna delle leggi razziali, ha sempre cercato di minimizzare la portata dell’evento, con l’effetto di non creare una forma di tutela dalla possibile rinascita di altre forme di razzismo. Diffido dei riti collettivi di espiazione, mentre è necessaria una elaborazione culturale, sincera, nella quale ciascuno si assume le proprie responsabilità».

 

 

 

Risvolto di copertina

“Non c’è più vergogna”, così almeno si dice, e si tende a pensare che con la vergogna sia venuto meno anche ogni senso della dignità e dell’onore. Ma le emozioni non scompaiono, tutt’al più si trasformano. Muta il modo di esprimerle, muta la loro rilevanza individuale e sociale. Allora dove si è nascosta e quali forme assume oggi la vergogna? Mai come negli ultimi anni, soprattutto in Italia, si è fatto ricorso alla parola “vergogna”, ma questa ha perso ogni sua connotazione semantica. Non si sa più che cosa significhi e diviene l’ultimo insulto alla moda contro avversari politici, concorrenti in affari, nemici, comunque gli altri. Di fatto non esistono società senza vergogna, poiché è un’emozione fondamentale per i legami sociali, ma anche per l’esercizio del potere. In questo volume si analizza come, nella società contemporanea, la frammentazione dell’insieme sociale, la spettacolarizzazione, l’iperindividualismo misto al nuovo conformismo del “così fan tutti” hanno dato vita a una sorta di vergogna “fai-da-te”. Emozione che sembra nascere non dalle azioni che si compiono ma solo in rapporto alle prestazioni, al timore di risultare inadeguati nell’esibizione di sé. Gabriella Turnaturi, attraverso l’analisi di fatti di cronaca, testi letterari, film, interviste, svela i molti volti della vergogna contemporanea in relazione ai mutamenti delle sensibilità e dei valori condivisi, e ne indica un possibile uso positivo.

Eva nel Giardino dell’Eden di Anna Lea Merritt del 1885 (Corbis).

Bibliografia

  • Lorenzo Bruni, Vergogna. Un’emozione sociale dialettica, Orthotes, Napoli-Salerno, 2016.
  • Anna Maria Pandolfi, La vergogna, Franco Angeli, 2002
  • Krishnananda, Amana,Vincere la vergogna,ed Apogeo,
  • Amato L. Fargoli, Non c’è più vergogna nella cultura, ed Alpes Italia, 2012
  • A. Battacchi,Vergogna e senso di colpa, ed. Cortina, 2002
  • A. Ernaux,La vergogna,ed L’Orma, 2018
  • G. Turnaturi,Vergogna. Metamorfosi di un’emozione,ed Feltrinelli, 2002
  • L.  Anolli, La vergogna, Il Mulino, 2000
  • V.  D’Urso, Imbarazzo, vergogna ed altri affanni, Raffaello Cortina, 1990
  • M. A.  Fossum., M. J. Mason, Il sentimento della vergogna, Astrolabio, 1987
Eva si copre e abbassa il capo in segno di vergogna. Auguste Rodin, Eva.
“Caino” di Henri Vidal (Marka).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Hannah Arendt (1906-1975) – L’amore è in primo luogo la potenza della vita, è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte.

Hannah Arendt 01

L’amore è una potenza e non un sentimento. Si impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L’amore è una potenza dell’universo, nella misura in cui l’universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l’amore «supera» la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l’amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.

L’amore brucia, colpisce l’infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall’assoluta assenza di mondo (= spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell’amore. Se l’amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L’eternità dell’amore può esistere soltanto nell’assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» – ma non perché allora io non «vivrò» più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli «abbandonati», non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.

In quanto potenza universale (dell’universo) della vita, l’amore non ha propriamente una origine umana. Nulla ci inserisce in modo sicuro e inesorabile nell’universo vivente più dell’amore, al quale nessuno può sfuggire. Appena però questa potenza si impadronisce dell’uomo e lo getta verso un altro e brucia l’infra del mondo e del suo spazio fra i due, proprio l’amore diventa «ciò che vi è di più umano» nell’uomo, ovvero un’umanità che persiste senza mondo, senza oggetto (l’amato non è mai oggetto), senza spazio. L’amore consuma, consuma il mondo, e dà un’idea di che cosa sarebbe un uomo senza mondo. (Perciò lo si pensa spesso in relazione a una vita in «un altro mondo», ovvero inuna vita senza mondo.)

L’amore è una vita senza mondo. In quanto tale, si manifesta come creatore di mondo; esso crea, genera un mondo nuovo. Ogni amore è l’inizio di un mondo nuovo; è questa la sua grandezza e la sua tragedia. Infatti, in questo mondo nuovo, nella misura in cui non è soltanto nuovo, ma anche appunto mondo, l’amore soccombe.

L’amore è dunque in primo luogo la potenza della vita; noi apparteniamo al vivente poiché sottostiamo a questa potenza. Chi non ha mai subito questa potenza non vive, non appartiene al vivente. In secondo luogo, esso è il principio che distrugge il mondo e indica così che l’uomo è ancora senza mondo, che egli è «più» del mondo, benché senza mondo non possa durare. Così, l’amore rivela proprio ciò che è specificamente umano nell’universo vivente. Il discorso degli amanti è così vicino alla poesia perché è il discorso puramente umano. E, in terzo luogo, l’amore è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte, o ne è il vero e proprio principio opposto. Soltanto perché crea esso stesso un mondo nuovo, l’amore rimane (oppure sono gli amanti che tornano indietro) nel mondo. L’amore senza figli o senza un mondo nuovo è sempre distruttivo (antipolitico!); ma proprio allora produce ciò che è propriamente umano in tutta la sua purezza.

Hannah Arendt, Quaderni e diari 1950-1973, Quaderno XVI, Maggio 1953-giugno 1953, Neri Pozza, 2007.

Quarta di copertina

Dal giugno del 1950 al luglio del 1971 (per il 1972-1973 non ci restano che itinerari di viaggio) Hannah Arendt annota pensieri e appunti in 29 quaderni ai quali si riferirà col termine inglese notebooks (o, secondo una comunicazione orale di Lotte Köhler, col termine tedesco Denktagebuch, diario di pensiero). Non di diari in senso tecnico si tratta, ma di quaderni di lavoro, in cui i temi fondamentali del suo pensiero si confrontano di volta in volta con gli autori che più ne hanno segnato la formazione e lo svolgimento, da Platone a Kant, da Aristotele a Marx, da Hegel a Kafka.
Decisiva è, nei quaderni, la presenza degli amici e maestri, di Jaspers, Mary McCarthy, del marito Heinrich Blücher, ma soprattutto di Martin Heidegger (è un caso che il diario cominci due mesi dopo il ritorno dal viaggio in Europa, che segna il primo significativo incontro col maestro ed amante dopo l’esilio di Arendt dalla Germania nel 1933 e si chiuda nel luglio 1971, pochi mesi dopo l’incontro con Heidegger a Friburgo, quando il filosofo traccia sul quaderno la parola Ent-sagen, rinuncia?).
Ciò che fa di questi quaderni un documento assolutamente incomparabile è non soltanto che essi ci permettono di penetrare nell’officina di pensiero di Arendt e di seguirne come su un giornale di bordo insistenze e deviazioni, arresti e accensioni, «presagi e ripensamenti»; ma soprattutto che, al di là dello spazio pubblico a cui siamo abituati ad associare il pensiero di Arendt, essi ci introducono in una dimensione né pubblica né privata, che un’annotazione folgorante del novembre 1969 ci presenta come il luogo stesso del pensiero:
«Il luogo del pensiero: non è nello spazio pubblico, in cui abbiamo a che fare con il mondo e con ciò che abbiamo in comune, né in quello privato, in cui abbiamo a che fare con ciò che ci appartiene e con ciò che vogliamo nascondere al mondo, e non è nemmeno nell’ambito sociale. Allora: dove? Nel deserto?»

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Aldo Capitini e la festa

Salvatore Bravo

Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Il trionfo della malinconia.
La parola – nella sua essenza umana – è festa della vita.
Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo,
luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere.

Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico,
muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico.

La festa è prassi, attività, agere politico poiché muove nella direzione comunitaria.

L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi,
per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità.

La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione,
poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro.

La “festa” è il luogo del ricordo vivo,
mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo,
l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza.

Il capitalismo assoluto è il trionfo della malinconia. Dietro la facciata orgiastica dei consumi, non vi è che il regno delle passioni tristi che depotenziano la creatività umana e la prassi storica. Il capitalismo neoliberista procede per annientamento, trasforma ogni esperienza umana in plusvalore con l’effetto di astrarre l’elemento essenziale dell’esperienza, “la relazione comunitaria”, per sostituirla con il calcolo, col saccheggio predatorio: affinché ciò possa avvenire, agisce sulle parole rendendole organiche al capitale.

Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559)

La manipolazione delle parole svela la verità del capitalismo assoluto, esse sono il mezzo con cui stringere i lacci dell’oppressione. “Il fenomenismo delle parole” fa apparire la libertà e la democrazia come esperienze individualistiche e crematistiche:[1] riduce le attività umane a soli fini privati negando la pubblica partecipazione vera sostanza della democrazia.
Le parole usate, svuotandone il “loro senso”, dimostrano che il capitalismo è esperienza di consumo, ma non di festa. Quest’ultima vive nell’esperienza disinteressata, è la forma emozionale e razionale dell’emancipazione dall’utile, dalla fatica della coercizione inclusiva.
La parola – nella festa – è incontro, è pensiero che argomenta per elaborare concetti, con i quali il mondo “emerge” dalla caverna dell’ignoranza e della negazione. Non è un caso che il capitalismo ami gli “acronimi”, deve celare l’evidenza con “formule linguistiche” senza trasparenza. La lingua germinatrice di vita e pensiero è stata sostituita dalla “lingua tracciabile” dei replicanti, non più pensiero, ma semplice opinione ripetuta senza argomentazione. Il surrogato della parola è la chiacchiera (Gerede) senza pensiero. Le parole dominanti sono i significati frecciati delle classi dominanti: il potere ha le sue parole con cui cannibalizza la semantica delle culture. Il lessico del potere si insedia nelle menti dei dominati per diventarne la gabbia d’acciaio entro cui il prigioniero lessicale deve muoversi. Le parole allora divengono vincoli che irretiscono e delineano i filtri sociali ed individuai: costruiscono percezioni, azioni, orizzonti orientati all’utile privato. Il mondo è osservato da una feritoia, si è sempre pronti all’attacco ed alla difesa.

La parola – nella sua essenza umana – è, invece, festa della vita, poiché permette di approssimarsi ai problemi per condividerli e decodificarli: dove c’è lingua, ci sono ricerca e comunità:[2]

«SOCRATE: Phronesis (‘senno’); è infatti ‘intendimento di movimento e di corrente’, phoras kai rou noesis. Ma sarebbe possibile intenderlo anche come utilità di movimento, onesis phoras. Dunque riguarda sempre il pheresthai (‘essere portato’, ‘muoversi’). E se vuoi, la gnome (‘discernimento’) significa sostanzialmente gones skepis (‘indagine’, ‘studio di generazione): infatti noman (‘studiare’) e skopein (‘investigare’, ‘ricercare’) significano la stessa cosa. Del resto, se vuoi, lo stesso vocabolo noesis è neou esis (‘tendenza al nuovo’), e il fatto che le cose esistenti siano nuove significa che sono generate in continuità. Chi dunque assegnò il nome di noesis, ha voluto significare che l’anima tende sempre al nuovo; infatti anticamente non veniva chiamata noesis, ma invece dell’eta bisognava pronunciare due epsilon: noeesis. Sophrosune (‘saggezza’), poi, è salvezza di quello che abbiamo esaminato or ora, cioè della phronesis (‘senno’). E episteme (‘scienza’, ‘conoscenza’) significa che l’anima, quella degna di considerazione, tiene dietro, hepetai, alle cose che sono in movimento e non le lascia indietro e nemmeno corre loro innanzi. Noi perciò introducendo una e bisogna che la chiamiamo epeisteme. Synesis (‘intelligenza ‘,’comprensione’) a sua volta parrebbe, grosso modo, equivalere a sylloghismos (‘ragionamento’, ‘conclusione’); e dunque quando si dice synienai accade di dire proprio lo stesso che epistasthai (‘comprendere’). Synienai infatti vuol dire che l’anima avanza insieme con le cose. Sophia (‘saggezza’), poi, [Platone, Cratilo, 16] significa ephaptesthai phoras (‘toccare il movimento’), ma è un termine alquanto oscuro e strano. Ma occorre pure ricordarsi che i poeti, assai spesso, quando si imbattono in qualcuna di quelle cose che cominciano ad avanzare rapidamente, dicono esythe (‘balzò su’). Uno spartano, tra i più illustri, aveva nome Sous, vocabolo questo che gli Spartani chiamano il movimento rapido».

 

Festa
Vi è “festa[3]” dove vi è comunità senza monismo. La festa è relazione donante tra soggetti che si riconoscono in un’esperienza comune. Non vi è festa nella società dello spettacolo, ma solo divisione, affermazione narcisistica dell’io astratto, scisso dal tutto, che corre sul palcoscenico per l’ultimo cono di luce. Tutto si oscura intorno a lui, le ombre abitano l’esibizione. Non è un caso, se l’asticella della spettacolarizzazione dell’io, del narcisismo, per poter attrarre e vendere deve alzare di volta in volta l’asticella della trasgressione, fino a trasformarsi in tragedia etica ed umana. Lo spettacolo trasforma ogni festa in occasione di affermazione, competizione, plusvalore. Ogni evento mascherato da festa non lascia ai partecipanti che una sottile malinconia, poiché si maschera per “focolare comune”, una sua volgare copia: anche il dolore è festa, se vi è condivisione. Senza l’accoglienza dell’altro, senza lo sguardo che si fa altro non si conosce se stessi: la festa è disvelamento di sé. Essa è l’essenza del comunismo comunitario: la parola comunismo deriva dal latino commūnis («comune», «pubblico» e «che appartiene a tutti»): la festa è l’esodo dall’alienazione e pertanto è emancipazione, è il luogo nel quale lo scorrere del tempo ha un nuovo inizio. La festa assume, così, la dimensione della gioia dalla quale non si esce eguali. Non vi è festa è senza teoria,[4] senza pratica del concetto che dispone al riorientamento gestaltico.
Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo, in cui i partecipanti sono mezzi per un unico fine: il plusvalore. Lo spettacolo[5] è il luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere. Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico, muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico negando, in tal modo, la prassi: in esso ogni esperienza è all’interno delle maglie dell’economicismo che come una cappa di piombo scende per lasciare, dietro gli splendori e gli abbagli dell’immediato, un senso di tristezza. Il totalitarismo dell’individuo,[6] la sua tirannide, non conosce la festa, ma solo l’illimitatezza e la solitudine nella moltitudine: non vi è scambio simbolico, ma solo il chiasso che silenzia la partecipazione/festa.

La festa secondo Aldo Capitini
Aldo Capitini, il primo in Italia ad aver utilizzato la bandiera arcobaleno della pace, il 24 Settembre 1962 nel corso della marcia Perugia-Assisi. Nelle sue opere tratta della festa. Essa è un momento maieutico e partecipativo. Non vi è giustapposizione, ma incontro, in cui tutti scoprono di essere importanti con la loro semplice presenza. Ogni storia umana col suo mistero può donare il suo contributo alla comunità, in quanto ogni prospettiva coglie ed accoglie un frammento dell’infinita verità. La festa per Aldo Capitini è l’omnicrazia, il potere di tutti, in cui le parole circolano per essere ascoltate; il potere è nella festa, nella collettiva tensione per capire e proporre; è il luogo della compresenza, ovvero della partecipazione empatica e razionale di ciascuno alla vita della comunità:[7]

«La piena realizzazione della compresenza e dell’omnicrazia è la festa, la festa per tutti. L’apertura ad esse ne è la visione. La festa è la celebrazione e il godimento per la rimozione di tutto ciò che impedisce la compresenza e l’omicrazia».

La festa è prassi, attività, agere politico poiché ci si muove nella direzione comunitaria, e ciò può avvenire solo se i partecipanti rimuovono le sovrastrutture che impediscono la partecipazione e l’espressione del sé profondo.

 

L’homo faber
L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi, per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità, ma fa del suo lavoro un mezzo di divisione, uno strumento attraverso il quale rimarcare la sua affermazione sugli altri esseri umani: è interno alla legge della giungla. L’homo faber fa del lavoro un’esperienza muscolare, si astrae dal mondo della vita. I successi divengono sottili esperienze della lontananza non solo dall’umanità, ma anche da se stesso: disperso nei ritmi lavorativi, come un orcio bucato non è mai gratificato, in quanto gradualmente diventa parte meccanica di un sistema che non controlla. Non ha potere alcuno sulla sua vita, sul sistema di cui è solo il famulo triste ed arrabbiato:[8]

«Noi siamo ancora sotto l’influenza dell’isolamento che è stato fatto negli ultimi secoli, e con grande sviluppo teorico e pratico, del fatto del lavoro, o homo faber: tutto il resto è passato in secondo piano, e si è visto nel lavoro l’espressione più concreta della personalità umana e il modo più serio per costituirla e per contrapporla alla personalità di “chi non fa”».

 

La terza rivoluzione
Per Aldo Capitini ci sono le condizioni culturali e tecniche, affinché si possa andare oltre gli schemi ideologici del novecento. Nessuna alienazione sarà superata se gli esseri umani non si riapproprieranno della dimensione della festa, della compresenza e della omnicrazia: il trittico semantico prospetta un quotidiano in cui la prassi modifica le strutture istituzionali e lavorative. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto. Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione, poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro, l’io incontra il tu senza monismo o universalismi che discendono, estranei e minacciosi, dall’alto. La festa è la luce terrena che irrora le vite, le lega secondo geometrie sempre nuove. La festa di Aldo Capitini è impegno, assunzione di responsabilità e cura dell’altro. L’io si magnifica, si infinitizza per ritrovarsi. Se la formazione e l’educazione non prevedono un percorso di tal genere, il lavoro come il potere continueranno ad essere esperienza della separazione, della competizione che scava solchi per indurre gli esseri umani a vivere da estranei, ed a rafforzare le logiche di dominio:[9]

«La festa così diventa il sostegno più profondo del lavoro e del tempo libero, e come impostata con essi, un elemento, come una luce, che li accompagna e li irrora. Prendere il lavoro come non ci fosse tutto questo, ha portato ad assolutizzazioni che si son viste insufficienti. Non che mi sfugga quel molto della civiltà che è connesso con esse, ma bisogna aver anche il coraggio di cogliere le svolte della civiltà. In nome dell’uomo come “cittadino” e dell’uomo come “lavoratore”, sono state fatte due rivoluzioni: ma noi oggi possiamo cogliere che l’uomo, in quanto connesso con la compresenza e con l’onnicrazia, è anche altro e questo altro diventa un protomovimento, a suo modo, dell’esser cittadino e dell’esser lavoratore; perché, sulla base di questo altro di questo elemento celebrato nella festa, il cittadino diventa appassionatamente aperto al potere di tutti e il lavoro viene aperto al contributo che da ogni essere viene alla produzione dei valori, che è la forma più alta del lavoro».

 

Trascendere la tecnocrazia
Aldo Capitini intende la omnicrazia non solo come esperienza di partecipazione attiva dal basso, ma anche come educazione che consenta a tutti di partecipare e controllare le operazioni tecniche imprescindibili per il benessere delle comunità. “Festa” è non subire il potere tecnico, ma comprenderlo e saperlo vivere, e specialmente non “pensare” in modo unicamente computazionale. A tal fine Aldo Capitini propone una formazione tecnica che possa facilitare l’accesso a chiunque, per brevi periodi, a ruoli dirigenziali e tecnici per evitare la formazione di oligarchie tecnocratiche. Ciò è possibile, in quanto le tecnologie stanno sviluppando sistemi che in quanto automatizzati sono più semplici nell’uso con l’effetto di permettere ad un numero sempre più ampio di persone l’accesso a funzioni sociali di rilievo:[10]

«Se il dominio di un processo meccanico è possibile con poca fatica e con poche conoscenze, sarà possibile estendere a moltissimi tali compiti, almeno per brevi periodi a turno. Tutti potremmo alternarci in certi servizi pubblici, se estremamente esemplificati nel congegno direttivo. […] D’altra parte nella scuola dovremmo apprendere, tutti, una certa cultura politecnica che ci renda atti, domani, ad esercitare temporaneamente certe funzioni tecniche o a dirigerle, se avremo imparato le strutture dei vari campi dell’amministrazione della vita».

 

Educazione permanente
L’educazione permanente, la crescita formativa di ciascuno è attività interna al potere. Le assemblee sono la libera discussione, dove si realizza lo scambio di informazioni, e ognuno è di ausilio all’altro nei processi di concettualizzazione e liberazione dai pregiudizi. La festa entra nel potere e nel processo formativo, non nella forma della esemplificazione, del divertimento[11] perenne, quale fuga dai contenuti e dalle difficoltà, ma nella parola che diviene dialogo per comunicare e motivare a trascendere resistenze ideologiche e stereotipi:[12]

«Inoltre l’apertura all’omnicrazia, che è l’esercizio continuamente costruttivo delle assemblee, spinge pressantemente all’educazione permanente, perché le assemblee affrontano problemi, e i problemi bisogna conoscerli, approfondirli, vederne i precedenti, i riferimenti, le soluzioni proposte. Valori e problemi vengono così a costituire la sostanza sempre viva di un’educazione permanente coltivata è sperabile dal più largo numero di esseri viventi».


La “festa” è il luogo del ricordo vivo, mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo, l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza:[13]

«La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale».

La festa e l’omnicrazia conseguenti sono un disporsi su più direttrici temporali: il senso necessita della compresenza, ma anche di un ponte teso tra passato e futuro, solo in questo modo il soggetto assume concretezza, in quanto è parte di una storia che si orienta verso il possibile. La società dello spettacolo, invece, è il regno della tirannia dell’individuo astratto che annichilisce la libertà e la comunità. L’individuo senza comunità trasforma la libertà giuridica in esperienza di violenza dalle mille forme: dalla seduzione a tutti i costi, al desiderio acquisitivo senza limiti. Il regno della tirannia dell’individuo, si connota per la sua generale regressione infantile di massa, si attende che il mondo soddisfi e si pieghi ai desideri di ciascuno. Non vi è festa, non vi è comunità, ma solo l’inquietudine del desiderio senza misura, la tristezza della lotta e della perenne frustrazione.

 

Che fare?
L’intellettuale in un periodo storico di passività e senza attesa ha il dovere di ricordare che la storia è un processo di prassi ed ideologie, che l’improbabile può prendere forma, se i popoli, le comunità, le classi sociali si mettono in cammino. La “festa” non è terminata come la non lo è la storia. La festa e la storia respinte e rimosse possono tornare, se anche le parole degli intellettuali ritornano a far circolare con la critica sociale anche una visione del mondo che apra a nuovi scenari. Perché questo possa avvenire non è necessario che gli intellettuali assumano il ruolo dei depositari della verità, ma a loro spetta il compito di fessurare la cappa del velo dell’ignoranza generato dall’ipertrofia della disinformazione mediatica per mostrare la verità storica del presente. Senza la memoria, dunque, non vi lotta, pertanto il dovere primo è guardare alla storia da cui trarre motivazione e speranza per il futuro.

L’intellettuale che ha trasformato il proprio ruolo ad una banale professione, ha rinunciato alla propria vocazione all’impegno e alla verità. L’intellettuale clericale è parte del problema e sintomo del conformismo operante. La memoria storica può ritrovare la sua forza plastica solo nell’intellettuale che non fa della propria attività un semplice mezzo per fini soggettivi. Alla festa ci si avvicina solo nella rinuncia alla servitù dell’utile personale e collettivo:[14]

«Diversa è la minaccia che oggi incombe sugli intellettuali in ogni parte del mondo: non l’accademia né il voler vivere periferici né l’esecrabile spirito commerciale del giornalismo e dell’editoria, bensì un atteggiamento che definirei professionale. Di chi, cioè, pensa di svolgere il proprio compito come un’attività lavorativa qualsiasi, tra le nove del mattino e le cinque di sera, tenendo d’occhio l’orologio ma con qualche ammiccamento al corretto stile del presunto vero professionista: non creare incidenti, non scostarsi dai modelli e dai limiti convenzionati, mostrarsi disponibili al mercato e, soprattutto, mantenere il doveroso contegno: non prestando mai il fianco, non scendendo sul terreno della politica, mantenendosi ”oggettivi”».

La festa e la comunità sono un binomio possibile solo nella rinuncia a ciò che Costanzo Preve definiva “centrismo furbesco” in Il popolo al potere. L’intellettuale ed il cittadino sempre disponibili al compromesso non producono che estraneità e sfiducia, e specialmente rafforzano l’oligarchia al potere, in tal modo, “moralmente legittimata”. Si consolida la malinconia del “politicamente corretto” senza speranza. La democrazia è un “campo di battaglia” (Kampfplatz), alla “festa” si arriva, solo se si attraversa la fatica del concetto ed il rischio dell’esodo. “La capacità di secessione” è il punto di inizio dialettico senza il quale non si realizza la democrazia. Gli intellettuali potrebbero essere parte essenziale di questo processo, loro compito è favorire la partecipazione, oggi neutralizzata dalla disinformazione organizzata. Devono riportare al centro della discussione politica la formazione senza la quale la democrazia e la comunità non sono che presenze formali e non sostanziali.

Salvatore Bravo

 

[1] Crematistica, dal greco τὰ χρήματα (ta chrèmata) “ricchezze”.

[2] Platone, Cratilo, Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi, pp. 14-15.

[3] Festa da Festum o dies festus = giorno di festa, o dal greco festiao o estiao, indica, in entrambi i casi, l’atto di accogliere presso il focolare domestico.

[4] Teoria da da thea spettacolo, da cui anche “teatro”, e horan osservare: nei due sensi, corteo appariscente e angolo di osservazione.

[5] Spettacolo da latino spectacŭlum, der. di spectare «guardare».

[6] Individuo dal latino individuus, parola composta dal prefisso in – privativo e dividuus, «diviso».

[7] Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. pag. 108.

[8] Ibidem, pag. 109.

[9] Ibidem, pag. 110.

[10] Ibidem, pag. 86.

[11] Divertimento dal latino divertere “cambiare strada”.

[12] Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tutti, op. cit.,  pag. 102

[13] Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008, pag. 55.

[14] Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 82-83.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Chiara Fiorillo – Fiche du film “Marie-Antoinette” de Sofia Coppola

Marie-Antoinette de Sofia Coppola

Chiara Fiorillo

Fiche du filmMarieAntoinettede Sofia Coppola

 

TITRE: « Marie-Antoinette »

SOCIÉTÉS DE PRODUCTION: Columbia Pictures, American Zoetrope, Tohokushinsha Film Corporation.

DATE DE SORTIE: 24 mai 2006.

METTEUSE EN SCÈNE: Sofia Coppola. Sofia Coppola est née le 14 mai 1971 à New York et elle est la fille du réalisateur Francis Ford Coppola. Elle a étudié au Mills College et puis au California Institute of the Arts. Elle a organisé des séances de photos et elle a créé sa propre ligne de vêtements. Sofia Coppola se fait connaître comme réalisatrice avec ses trois premiers films étant Lick the Star (1996), Virgin Suicides (1999) et Lost in Translation (2003), qui rencontrent les faveurs de la critique et du public. Le film Lost in Translation remporte l’Oscar du meilleur scénario original et trois Golden Globes. En 2006 elle réalise le film biographique Marie-Antoinette basé sur la vie de Marie-Antoinette d’Autriche et obtient beaucoup de succès. Sofia Coppola est considérée comme une icône de la culture populaire par le milieu du rock et du cinéma indépendants.

EPOQUE: XVIIIe siècle,1770-1789.

LIEUX: Château de Versailles, jardins des Versailles, Petit Trianon, chapelle du château de Versailles, Autriche, forêt.

PERSONNAGES: La protagoniste du film est Marie-Antoinette. Les personnages principaux sont Louis XV, Louis XVI, Marie-Thérèse de Habsbourg. Les personnages secondaires sont: la comtesse du Barry (favorite du Roi), l’empereur Joseph de Lorraine (frère de Marie-Antoinette), le compte Fersen (compte suédois et amant de la Reine), la princesse de Lamballe et la duchesse de Polignac, (favorites de la Reine), Marie-Thérèse de France (fille de Louis XVI et Marie Antoinette), l’ambassadeur Mercy, le duc de Choiseul (chef de gouvernement chez Louis XV), le compte Vergennes (secrétaire des affaires étrangères de Louis XVI), la comtesse de Provence.

 INTRIGUE: Fille de François Ier de Lorraine, empereur du Saint-Empire romain germanique, et de Marie-Thérèse de Habsbourg, archiduchesse d’Autriche, Marie-Antoinette apprend, à l’âge de quatorze ans, qu’elle doit se marier à Louis Auguste de Bourbon, le futur Louis XVI, et donc elle quitte la France pour l’Autriche. Marie-Thérèse de Habsbourg utilise le mariage de sa fille pour sa politique diplomatique et donc pour réconcilier les Maisons d’Autriche et de France après des siècles de guerre. À son arrivée à la frontière elle est obligée à se séparer de tout ce qui appartient à l’Autriche, comme sa robe et son petit chien. Puis elle connait le dauphin, son futur mari, et elle est accueillie à la cour de Versailles. La jeune dauphine épouse dans la Chapelle Royale du Château de Versailles Louis Auguste de Bourbon et elle devient la première femme de la cour, mais elle montre des difficultés à se rapporter avec l’aristocratie et à s’adapter aux usages français et de Versailles, comme par exemple le cérémonial du lever. Elle ignore Madame du Barry, la favorite du Roi, et elle n’est pas heureuse au sein de la cour de France, car est considérée comme une étrangère et se sent délaissée par son époux, qui lui préfère aller chasser. Elle reçoit beaucoup de pression pour la consommation du mariage, même par sa mère, qui lui écrit régulièrement et lui rappelle que sa place ne sera assurée qu’après la conception d’un héritier. Louis XV cherche de régler la situation en appelant le docteur pour visiter le jeune couple, mais les nuits se succèdent et il n’arrive rien. Marie-Antoinette est frustrée à cause des rumeurs qui circulent à la cour, donc elle se réfugie dans l’insouciance et les frivolités en compagnie de la princesse de Lamballe et de la duchesse de Polignac. Profitant d’une vie luxueuse, elle s’orne des bijoux et des riches vêtements, elle boit, joue de hasard et participe aux fêtes. Lorsqu’elle se rend à Paris pour un bal masqué, elle fait la connaissance du Compte Fersen, de l’armée suédoise. À leur retour de Paris le dauphin et la dauphine découvrent que le Roi a attrapé la petite vérole. À la mort de Louis XV, son fils Louis Auguste devient Roi de France, et donc Marie-Antoinette Reine. Toutefois le mariage n’a toujours pas été consommé et l’absence d’héritier fragilise la pérennité de la dynastie. Marie-Antoinette continue à dépenser et à faire la fête jusqu’au petit matin, tandis que Louis décide d’aider les américains pour leur révolution sans se rendre compte quel les impôts étouffent son peuple. L’empereur Joseph arrive à Versailles pour rendre visite à sa sœur, envoyé par Marie-Thérèse de Habsbourg craignant pour la survie de l’alliance franco-autrichienne et que sa fille puisse être répudiée. Un an plus tard le couple donne naissance à son première fille Marie-Thérèse Charlotte de France. Ensuite la Reine commence à passer du temps dans le nouveau hameau de la Reine dans le Petit Trianon avec ses amies et ses prétendants, en effet au bal pour les soldats qui ont combattu aux Amériques elle rencontre le Compte Fersen et plus tard ils deviennent amants. Les caisses sont vides et le peuple souffre de la famine; par conséquent on voit s’accumuler des pamphlets contre la Reine, laquelle se dédie à une vie de plaisirs et de somptuosité. Plus tard elle donne naissance au dauphin de France. Les crises successives du régime et la banqueroute du Royaume précipitent les événements révolutionnaires et intensifient la campagne de désacralisation de la Reine. La sécurité du couple royal n’est plus assurée, mais le Roi refuse de s’enfuir de Versailles et la Reine reste à ses côtés. Peu après la foule irrépressible les force à quitter à jamais le château de Versailles.

 THÈMES: Tout d’abord le film illustre la pratique diplomatique du mariage forcé utilisé comme alliance politique et très diffusé à l’époque de l’absolutisme. En effet les souverains épousaient leurs enfants avec ceux d’une autre puissance politique pour sceller des alliances ou se réconcilier.

Le film se déroule à Versailles et donc il a comme toile de fond la vie à la cour. À la cour de Versailles était imposée l’étiquette, c’est-à-dire l’ensemble des règles et des comportements à suivre, organisant la vie de la famille royale, des courtisans et des favoris. En France l’étiquette s’est développée à partir du règne de François I, mais elle a connu son apogée et sa forme plus codifiée à l’époque de Louis XIV. La vie du roi était une cérémonie constante; à l’intérieur du palais presque toutes les chambres étaient ouvertes au public, incluse la chambre à coucher du roi. Au matin il y avait deux cérémonies pour réveiller le roi, le «Petit Lever» et puis le «Grand Lever», où des nobles avaient le privilège d’habiller le roi. À la cérémonie du «Grand Couvert» le roi avait sur la table vingt plats à choisir et il était entouré des courtisans, qui assistaient à la scène. Au moment de se coucher il y avait le même cérémonial qu’au lever. À cette époque, la cour d’Autriche possède une étiquette beaucoup moins stricte que celle de Versailles: les danses y sont moins complexes, le luxe y est moindre et la foule moins nombreuse. Par conséquent Marie-Antoinette montre aussitôt beaucoup de difficultés à s’adapter aux usages français car elle déteste ce code rigide qui envahit son intimité et elle trouve toutes ces cérémonies ridicules. Elle se moque de sa dame d’honneur la comtesse de Noailles, qui se charge de manière stricte aux parfaits accomplissements de l’étiquette.

Les courtisans ont des privilèges et des avantages financiers, mais aussi des devoirs car leur vie quotidienne est réglée par l’étiquette, qui précise la possibilité d’assister à certaines cérémonies, l’ordre et l’horaire d’arrivée dans les pièces, les habits qu’on peut porter… En échange de leur fidélité et docilité, les courtisans reçoivent une pension royale et ils ont beaucoup de divertissements car ils peuvent participer à des fêtes somptueuses, à la chasse, au jeu de hasard, aux concerts, aux représentations de danse et de théâtre, qui ont lieu plusieurs soirs par semaine, mais aussi des manifestations officielles à l’occasion de naissances, mariages ou anniversaires (comme on peut voir dans le film lors du mariage du dauphin et de la dauphine, de l’anniversaire de Marie-Antoinette ou de la naissance de Marie-Thérèse de France). Pour être à l’abri à la cour il fallait toujours se garder fidèles au Roi et cette situation renforçait l’autorité royale qui pouvait ainsi contrôler la noblesse du royaume, aspirant à accroître son pouvoir, et combattre des éventuels complots et conspirations contre elle. Un autre rôle important est celui joué par les favoris et les favorites à la cour, qui étaient des personnes de confiance, des amis intimes, des maîtresses ou amants dans les bonnes grâces du Roi ou de la Reine. Le Roi (aussi bien la Reine) pouvait offrir le statut de favorite à sa maîtresse préférée et cette courtisane bénéficiait d’avantages et de la faveur du souverain, mais elle avait aussi une influence sur les domaines des arts et de la politique (comme on peut voir du personnage de Madame du Barry, favorite de Louis XV, dans le film). Les favorites étaient aussi des amies et confidentes de la souveraine, comme par exemple la princesse de Lamballe et la duchesse de Polignac pour Marie-Antoinette.

Le contexte du film décrit l’absolutisme, le système politique considéré comme le plus parfait à l’époque, où le Roi tient son pouvoir de Dieu, et souligne l’importance des héritiers du trône. Comme les femmes étaient exclues de la succession, la présence d’un héritier direct assurait la continuation de la dynastie royale sans problème. La Reine donc était chargée de donner au Roi et à la France une descendance masculine, un dauphin. Un héritier pouvait être aussi un moyen pour assurer une position et un mariage d’alliance, comme dans le cas de Marie-Antoinette pressée par sa famille autrichienne et par la cour française à la consommation du mariage. Le Roi gère les affaires de l’état entouré et aidé par ses ministres, nommés par lui-même, et parfois exerçants une forte influence sur lui, comme on peut voir de la personnalité timide de Louis XVI dans le film, qui est complètement dirigée par eux. Le Roi subit aussi l’influence de son épouse, laquelle se dédie à un vie de folles dépenses, sans s’occuper de mauvaises conditions du peuple. Le film montre comme la Reine en dépensant sans compter en vêtements, chaussures, perruques, tissus, bijoux, décorations de ses appartements, gâteaux et pâtisseries, devient vite impopulaire et détestée par le peuple, comme le témoignent les rumeurs, les surnoms dévalorisants et les pamphlets contre elle. Tout ce faste et luxe renvoie à l’esthétique baroque du XVIIIe siècle, car il veut souligner la puissance de la royauté, mais il marque l’écart avec le peuple.

Par ailleurs on peut remarquer la forte différence entre classes sociales au XVIIIe en France. La famille royale et les courtisans vivent dans le faste et le luxe de la cour et la noblesse, c’est-à-dire le 2% de la population, et le clergé, l’1% de la population, détiennent tous les privilèges parce qu’ils ne paient pas les impôts et ils prélèvent pour leur compte de lourdes taxes chez les paysans. Par contre le Tiers État, c’est-à-dire tout le reste de la nation, est étouffé par des impôts très élevés et vit dans la misère, la famine, le dénuement. Lorsqu’il y avait des problèmes économiques et le besoin de remplir les caisses de l’état, affaiblies par les guerres, la solution pour le Roi était l’augmentation des impôts et des taxes, en aggravant la tolérance du peuple qui, plus tard, commence à réagir avec des révoltes jusqu’au bouleversement de la monarchie dans la Révolution Française.

À cette époque (1775-1783) la France soutient la guerre d’indépendance américaine, où les treize colonies de l’Amérique du Nord s’opposent au Royaume de Grande-Bretagne. La France s’engage par la fourniture d’aides navales et terrestres aux américains pour s’opposer et s’imposer sur l’Angleterre. Cette guerre coûte très cher et les caisses de l’état se vident.

 COMMENTAIRE: Le film est très intéressant et surtout original à raconter la vie d’un personnage historique et emblématique qui a marqué l’époque du siècle d’or et la fin de l’absolutisme français. La cinéaste a su donner une image différente et originelle de Marie-Antoinette, montrée comme une femme anticonformiste et peu conventionnelle, qui n’aime pas les contraintes de la cour. Le film présente un excellent décor, constitué par le mobilier, les jardins, les parcs et les immenses salles de Versailles, de magnifiques costumes et de remarquables interprétations des acteurs. Le film est caractérisé par des anachronismes très évidentes surtout dans la bande originale du film, qui mêle la musique classique (notamment Vivaldi) et la musique rock et pop. Ce choix de Sofia Coppola est probablement lié au but d’actualiser le film, mais aussi de communiquer la personnalité un peu rebelle de Marie-Antoinette, laquelle ne s’adapte jamais complètement aux usages de la cour française et reste toujours un peu éloignée de ce milieu, car elle est considérée comme une étrangère même par la famille royale.

Selon moi, le film transmet aussi un message important: la richesse ne fait pas nécessairement le bonheur. En effet Marie-Antoinette possède de tout, vit dans le château des rêves et mène une vie luxueuse, mais malgré cela elle n’est pas heureuse et elle regrette son pays (l’Autriche).

J’ai remarqué le choix de la cinéaste d’illustrer dans le film le règne de Marie-Antoinette et Louis XVI en se concentrant seulement sur le palais de Versailles et la vie luxueuse et somptueuse à la cour, mais j’aurais aimé qu’il avait montré aussi de l’autre côté les conditions terribles du peuple français à cause des dépenses royales, pour marquer davantage l’écart entre classes sociales et le faire mieux comprendre au public.

Chiara Fiorillo

Ritratto di Maria Antonietta con la rosa, dipinto di Élisabeth Vigée Le Brun, 1783
Maria Antonietta suona l’arpa, Dipinto di Jean-Baptiste André Gautier-Dagoty (1777)
Maria Antonietta in grand habit de cour in un ritratto di Élisabeth Vigée Le Brun (1778)
Maria Antonietta con un libro. L’ultimo ritratto ufficiale di corte, eseguito da Élisabeth Vigée Le Brun per la regina (1788)
La regina abbigliata in stile rococò, con una pettinatura piramidale e grand habit de cour (1775)
Maria Antonietta condotta alla ghigliottina, dipinto di William Hamilton (Museo della Rivoluzione francese)
Charles-Henri Sanson brandisce la testa di Maria Antonietta alla folla (Museo della Rivoluzione francese)
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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