François de La Rochefoucauld (1613-1680) – L’amour-propre, l’amore di sé e di ogni cosa in funzione di sé rende gli uomini idolatri di se stessi e li renderebbe tiranni degli altri se la fortuna ne desse loro i mezzi.

La Rochefoucauld 01

«L’amour-propre è l’amore di sé e di ogni cosa in funzione di sé; rende gli uomini idolatri di se stessi e li renderebbe tiranni degli altri se la fortuna ne desse loro i mezzi […]. Non si può sondare la profondità né penetrare le tenebre dei suoi abissi dove, al riparo dagli sguardi più penetranti, compie mille insensibili sotterfugi. Spesso è invisibile anche a se stesso, concepisce, nutre e alleva, senza saperlo, un gran numero di affetti e di odii, a volte cosÌ mostruosi che, quando vengono alla luce, li disconosce oppure non trova il coraggio di confessarli. Da questa notte che lo occulta nascono le ridicole convinzioni che ha di sé».

François de La Rochefoucauld, Massime [1664], Rizzoli, Milano 1978.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Stefano Zamagni – La cultura della modernità è intrisa di economicismo utilitarista. Così avanza la questione della “sospettabilità” del dono. Eppure non v’è chi non veda quanto i beni di gratuità siano importanti per il bisogno di felicità che ciascun uomo si porta dentro.

Zamagnio Stefano 01

«La cultura della modernità è talmente intrisa di economicismo utilitarista che ogniqualvolta sentiamo parlare di relazione biunivoca tra due soggetti siamo istintivamente portati a leggervi un sottostnte, sia pur indiretto, rapporto di scambio di equivalenti. E questa una delle pesanti eredità intellettuali della modernità. […] È la questione – centrale nel dibattito filosofico contemporaneo – della “sospettabilità” del dono quale gesto che pretenderebbe di essere gratuito e che tuttavia appare costantemente attraversato da elementi di interesse che ne inquinano la purezza. L’unico atto possibile sarebbe allora quello della filantropia, che è perfettamente compatibile con l’assunto antropologico individualistico. […] Due sono le categorie di beni di cui tutti avvertono la necessità: i beni di giustizia e i beni di gratuità. I primi – si pensi ai beni erogati dal welfare state – fissano un preciso dovere in capo a un soggetto (tipicamente l’ente pubblico) affinché i diritti dei cittadini su quei beni vengano soddisfatti. I beni di gratuità, invece – sono tali i beni relazionali –, fissano un’obbligazione che discende dal legame che ci unisce l’un l’altro. Infatti, è il riconoscimento di una mutua ligatio tra persone a fondare l’ob-ligatio. E dunque mentre per difendere un diritto si può, e si deve, ricorrere alla legge, si adempie a un’obbligazione per via di gratuità reciprocante. Mai nessuna legge potrà imporre ai cittadini di praticare la reciprocità e mai nessun incentivo economico potrà favorire comportamenti gratuiti. Eppure non v’è chi non veda quanto i beni di gratuità siano importanti per il bisogno di felicità che ciascun uomo si porta dentro».

 

Stefano Zamagni, Avarizia. La passione dell’avere, il Mulino, Milano 2009, pp. 128-130.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Guy Debord (1931-1994) – Tutta la vita delle società nelle quali regnano moderne condizioni di produzione si rivela come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.

Guy Debord 05
«Tutta la vita delle società nelle quali regnano moderne condizioni di produzione si rivela come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.
Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale».

Guy Debord, La société du spectacle, PUF, Paris 1973, p. 7; trad. it.: Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, 2001-2002.


Guy Debord (1931-1994) – Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. È l’altra faccia del denaro. È l’ideologia per eccellenza.
Guy Debord (1931-1994) – … andate in giro a piedi … e guardate ogni cosa come se fosse la prima volta … e percepite lo spazio come un insieme unitario … e lasciarvi attrarre dai particolari.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arnold Gehlen (1904-1976) – Gli strumenti, già all’epoca paleolitica, possono essere considerati come “concetti di pietra”, essi collegano i bisogni e i pensieri degli uomini al livello di realtà delle cose.

Arnold Gehlen
«Gli strumenti, già all’epoca paleolitica,
possono essere considerati come “concetti di pietra”,
essi collegano i bisogni e i pensieri degli uomini al livello di realtà delle cose».

Arnold Gehlen, Urmensch und Spiitkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen (1975); tr. it. Le origini dell’uomo e la tarda cultura, il Saggiatore, Milano 1994, pp. 17-18.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Jean-Henri Fabre (1823-1915) – Hanno criticato il mio linguaggio, che non avrebbe la solennità o, meglio, l’aridità di quello accademico. Voi scrutate la morte, io osservo la vita. Ecco perché, pur rispettando scrupolosamente la verità, evito di adeguarmi alla vostra prosa scientifica

Jean-Henri Fabre 01

«Voi sezionate l’animale e io lo studio vivo; voi ne fate un oggetto che ispira orrore e pietà, mentre io lo faccio amare; voi lavorate in laboratori dove si tortura e si squarta, io conduco le mie indagini sotto l’azzurro del cielo e al canto delle cicale; voi sottoponete la cella e il protoplasma ai reagenti, io studio l’istinto nelle sue espressioni più alte; voi scrutate la morte, io osservo la vita».

«Altri hanno criticato il mio linguaggio, che non avrebbe la solennità o, meglio, l’aridità di quello accademico. Temono che una pagina, se si legge senza sforzo, non possa essere espressione della verità […]. Ora, se scrivo per gli scienziati, per i filosofi che tenteranno un giorno di gettare luce sull’arduo problema dell’istinto, scrivo anche, e soprattutto, per i giovani, ai quali vorrei tanto far amare questa storia naturale che voi invece fate odiare; ed ecco perché, pur rispettando scrupolosamente la verità, evito di adeguarmi alla vostra prosa scientifica».

Jean-Henri Fabre, Ricordi di un entomologo, Adelphi, Milano, 2020.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Nancy Sandars (1914-2015) – Nell’epopea di Gilgamesh, essere umani significava abbandonare lo stato animale, in un processo continuo di maturazione, non onnipotenti ma capaci di conoscenza, non immortali, ma consapevoli della propria mortalità. L’uomo è «colui che apprese e che fu saggio in tutte le cose».

Abed Azrié - Nancy Sandars

«Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo;
di colui che apprese e che fu saggio in tutte le cose».

Proemio dell’Epopea di Gilgameš


Ecco il prologo della leggenda di Gilgamesh. gigante solare, “dio per due terzi, per un terzo uomo”.

Proclamerò al mondo le imprese di Gilgamesh, l’uomo a cui erano note tutte le cose, il re che conobbe i paesi del mondo. Era saggio; vide misteri e conobbe cose segrete; un racconto egli ci recò dei giorni prima del Diluvio. Fece un lungo viaggio, esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò si riposò e su una pietra l’intera storia incise.

Quando gli dèi crearono Gilgamesh gli diedero un corpo perfetto. Il sole glorioso Samas lo dotò di bellezza, Adad, dio della tempesta, lo dotò di coraggio, i grandi dèi resero perfetta la sua bellezza, al di sopra di ogni altro, terribile come gran toro selvaggio. Per due terzi lo fecero dio e per un terzo uomo.

A Uruk costruì mura, un gran bastione, e il tempio del sacro Eanna per Anu dio del firmamento e per Istar dea dell’amore. Guardalo ancor oggi: il muro esterno lungo il quale corre il cornicione brilla dello splendore del rame, e il muro interno non ha eguali. Tocca la soglia: è antica. Avvicinati alla dimora di Istar, nostra signora dell’amore e della guerra, che nessun uomo vivente può eguagliare. Sali sulla muraglia di Uruk e percorrila, ti dico; osserva il terrapieno delle fondamenta, esamina l’armatura: non è forse di mattone cotto e di buona fattura?

Da Lepopea di Gilgamesh,  a cura N. K. Sandars, Adelphi, Milano 1986.

 


Duemila e cinquecento anni prima di Cristo, nella bassa Mesopotamia, il mare si ritira, liberando terre nuove. Giunti da luoghi sconosciuti, arrivano i sumeri, che si stabiliscono nella valle tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate. Sono pastori e agricoltori […]. Mille anni più tardi costruiscono templi e palazzi, Kish, Ur, Uruk, le loro città-Stato, disegnando sull’orizzonte dorato l’ombra rosa delle loro colossali mura di mattoni. Per organizzare l’economia, codificare la religione, registrare le leggi e fissare una tradizione orale già ricca di miti, di racconti epici, di poemi, inventano la scrittura ideografica. Il più antico scritto del mondo è stato ritrovato tra le rovine di Uruk e risale alla seconda metà del IV millennio.

I primi miti di Uruk si perdono nella notte dei tempi. Raccontano la nascita degli dèi e degli uomini, la vita e la morte, il bene e il male, e il diluvio, il cui tema sarà ripreso dalla Bibbia mille anni più tardi. È a partire dal diluvio che i sumeri fanno iniziare la loro storia e datano le loro dinastie.

La prima fu quella di Kish, la seconda quella di Uruk. Il quinto re di questa seconda dinastia, dicono le tavolette, fu Gilgamesh, che costruì le mura di Uruk e regnò centoventi sei anni.

Abed Azrié


Parte di una tavoletta in argilla neoassira contenente tre colonne di iscrizione cuneiforme della tavoletta 6 dell’Epopea di Gilgamesh. British Museum.

«L’umanità per i babilonesi è definita dalla società. Essere umani è un affare squisitamente sociale […] diventare umano è un processo graduale. Nel suo secondo invito a Uruk, Shamhat dice: “Ti vedo, Enkidu, sei come un dio, dunque perché stai con gli animali selvaggi?”. Gli dei sono rappresentati come l’opposto degli animali, onnipotenti e immortali, mentre gli animali sono ignari e destinati a morire. Essere umani significa essere da qualche parte nel mezzo: non onnipotenti, ma capaci di un lavoro qualificato; non immortali, ma consapevoli della propria mortalità. Insomma, il nuovo frammento rivela una visione dell’umanità come processo di maturazione che si sviluppa tra l’animale e il divino. Non si nasce semplicemente umani: essere umani, per gli antichi Babilonesi, significava trovare un posto per se stessi all’interno di uno spazio più ampio definito dalla società, dagli dei e dal mondo animale».

Sophus Helle, dottore in letteratura babilonese presso l’Università di Aarhus, Danimarca.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Nelson R. Mandela (1918-2013) – Un uomo che sceglie di privare della libertà un altro uomo, è in realtà prigioniero, a sua volta, dell’odio, dei pregiudizi e della limitatezza del suo spirito.

Nelson Mandela 01
«Un uomo che sceglie di privare della libertà un altro uomo,
è in realtà prigioniero, a sua volta,
dell’odio, dei pregiudizi e della limitatezza del suo spirito».

Nelson R. Mandela, Lungo cammino verso la libertà. Autobiografia, Feltrinelli, Milano 1996.

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Ryszard Kapuściński (1932-2007) – Conoscere il mondo richiede uno sforzo che assorbe tutte le facoltà dell’uomo. La maggior parte della gente tende piuttosto a sviluppare le facoltà opposte: la capacità di guardare senza vedere e di sentire senza ascoltare.

Kapuscinski Ryszard

«Conoscere il mondo richiede uno sforzo che assorbe tutte le facoltà dell’uomo. La maggior parte della gente tende piuttosto a sviluppare le facoltà opposte: la capacità di guardare senza vedere e di sentire senza ascoltare».

«Ciò che ci rende uomini e ci distingue dagli animali è la nostra capacità di narrare storie e miti: condividere storie e leggende rafforza il senso della comunità, l’unica condizione nella quale l’uomo può vivere. Mancano ancora duemila anni alla comparsa dell’individualismo, dell’egocentrismo e del dottor Freud. Per il momento, la sera la gente si riunisce in grandi tavolate davanti al fuoco o sotto un albero, meglio se in vicinanza del mare, per mangiare, bere vino e chiacchierare. Alle chiacchiere si intrecciano racconti e storie d’ogni genere. […] Una dopo l’altra, le serate si accumulano e se il viandante ha buona memoria (e quella di Erodoto doveva essere prodigiosa) mette insieme un patrimonio di storie. Questa fu una delle fonti alle quali attinse il nostro greco. La seconda fu ciò che vedeva. La terza, ciò che pensava».

Ryszard Kapuściński, In viaggio con Erodoto (Podróze z Herodotem, 2004), Feltrinelli, Milano 2013.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Massimo Angelini – Cultura significa innanzitutto coltivare, avere cura, trattare con attenzione, far crescere, onorare, e non va confusa con erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza.

Angelini Massimo 01

 

«Cominciamo con l’osservare che cultura rinvia alla forma di un participio futuro, come natura, creatura, ventura […] Il participio futuro non è legato a un’attesa indefinita, ma alla prossimità della realizzazione: dunque un tempo di ragionevole certezza, benché ancora non sia evidente; è il tempo del futuro già tra noi, anche se non è apertamente manifestato. Il participio futuro è il tempo del già e non ancora. Potremmo dire che il seme germogliato è il participio futuro della pianta prossima a emergere e dell’albero che sarà, che il viaggio iniziato è il participio futuro della meta verso la quale è rivolto […]. La matrice che genera la parola cultura è un verbo latino, còlere, che significa innanzitutto coltivare, anche nel senso figurato di avere cura, trattare con attenzione o con riguardo, quindi onorare […]. E cosa è incastonato dentro còlere? Una radice remota, kwel, che significa girare, muovere in cerchio, voltare […]. Attraverso kwel, riconosciamo in còlere il significato di coltivare nel senso originario di girare l’aratro in fondo al campo per aprire un nuovo solco, ma anche per smuovere e voltare la terra. Coltivare, in buona sostanza, è lavorare la terra. Poi […] questo primo significato è maturato in avere cura, fare crescere […]. Ma dal muoversi in cerchio di kwel prendono vita anche i significati di onorare e venerare che possono rinviare a un modo intenso di avere cura […].

Se dal participio futuro di còlere (culturus) arriva la parola cultura, dal participio passato (cultus) arriva la parola culto, che si riferisce al coltivato e, per proiezione, al raccolto, a ciò che è stato fatto crescere, a ciò che è stato elevato […]. La cultura e il culto hanno un valore simbolico quando uniscono diversi piani dell’esistenza, li mettono in comunicazione, collegano ciò che è materiale con ciò che è spirituale, ciò che è visibile con ciò che è oltre il visibile. Ogni atto e ogni conoscenza che lega – anzi rilega (come è proprio della religio) – l’uomo al mondo che lo circonda dà concretezza a questa unione […]. Come ogni participio futuro, la cultura è la pre-visione di un futuro prossimo ad avverarsi perché è già nel cuore delle cose.

Animata dall’intima tensione a fare crescere, a elevare […], la cultura non andrebbe confusa con l’erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle informazioni, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola. La cultura […] porta a crescere, porta a elevare; come il culto, con il quale condivide la stessa radice, si esprime quale atto simbolico e perciò tende ponti fra le persone e tra i mondi; non si occupa di cose inutili, di inezie senza anima, non gioca allo specchio, perché trova il suo compimento in cosa o in chi ne è destinatario. Chi parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, non coltiva nulla ma genera deserto, non fa crescere ma inaridisce, non rende onore che al proprio io, come un narciso infelice, e non produce cultura ma, distaccandosi dall’umanità, genera il proprio isolamento. […]

Nella civiltà dello spettacolo, osserviamo che la parola cultura è usata particolarmente a sproposito quando è associata a intrattenimento, spettacolo e occupazione del tempo libero. […]

Dunque […], per tornare ancora all’immagine del lavoro della terra, per la buona coltura non basta còlere il campo, ma altrettanto importante è l’esperienza di chi lo fa, la sapienza dei suoi gesti, e poi serve una semente buona e che la semente buona sia posata in terra fertile, e che al momento giusto arrivi l’acqua. Se il gesto è malcompiuto, se la terra è sassosa o arida, se il seme è sterile, se non viene l’acqua al momento giusto, non ci sono le condizioni perché emerga e fiorisca la coltura e, in senso immaginifico, la cultura: come per i campi, così anche per le persone e le comunità.

 

Massimo Angelini, Ecologia della parola. Il sale, gli occhi, le stelle, l’aratro, il dono … conversazioni per un altro modo di guardare la realtà, pentàgora, Savona 2017, pp. 36-43.


Massimo Angelini – Ripristinare un’economia morale fondata sul dono potrebbe essere contagioso, certamente incomprensibile, come espressione di follia per chi confida solo sul denaro e al denaro affida l’ultima parola nelle proprie scelte e sull’altare del denaro brucia, idolatra, la propria vita, ma sarebbe rivoluzionario.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gaston Bachelard (1884-1962) – Come abitiamo il nostro spazio vitale, come mettiamo radici, giorno per giorno, in un “angolo del mondo”? La casa è il nostro angolo del mondo, il nostro primo universo. Ogni spazio veramente abitato reca l’essenza della nozione di casa.

Gaston Bachelard. la casa

Quand les cimes de notre ciel se rejoindront
Ma maison aura un toit.

Paul Eluard, Dignes de vivre, 1941.

«[…] è necessario dire come abitiamo il nostro spazio vitale in accordo con tutte le dialettiche della vita, come mettiamo radici, giorno per giorno, in un “angolo del mondo”. […] La casa è il nostro angolo del mondo […] il nostro primo universo. […] ogni spazio veramente abitato reca l’essenza della nozione di casa» (pp. 32-33).

«Ogni grande immagine semplice è rivelatrice di uno stato d’animo, La casa, ancor più del paesaggio, è “uno stato d’animo”, anche riprodotta nel suo aspetto esteriore, essa rivela una intimità» (p. 95).

 Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975.


Gaston Bachelard (1884-1962) – L’immaginazione è la facoltà di formare immagini che superano la realtà, che cantano la realtà, testimonianza del processo di scoperta da parte dell’animo del proprio mondo, il mondo in cui vorrebbe vivere, il mondo in cui è degno di vivere.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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