«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«[…] soltanto attraverso l’intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell’essere umano, viene in parte educata, in parte prodota la ricchezza della sensibilità soggettiva dell‘uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali dell‘uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l’amore, ecc.), in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano soltanto attraverso l’esistenza dell’oggetto loro proprio, attraverso la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo fino ad oggi […] e così la società già formata produce l’uomo in tutta questa ricchezza del suo essere, produce l’uomo ricco e profondamente sensibile a tutto come sua stabile realtà».
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, pp. 114-115.
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Videor ergo sum Intellettuali e necessità della verità metafisica
Derealizzazione ed impotenza La reificazione e l’atomocrazia nel capitalismo assoluto si struttura con un diffuso scollamento tra realtà storica e vita del soggetto, la condizione schizoide è la normalità dello stato presente. Tali processi sono consustanziali alla sostituzione della verità con il paradigma dell’utile. Le filosofie scettiche fungono da sovrastruttura al dominio globale del mercato. In tale contesto i soggetti “addomesticati” al solo conteggio del PIL non possono che ritirarsi dalla storia e rinunciare alla comprensione dell’orizzonte in cui sono “gettati”. La verità non è che “un mito” del passato, pertanto si rinuncia a capire “il proprio tempo nel pensiero” e la verità della natura umana, senza di essi è improbabile la partecipazione alla prassi. Il cittadino diviene suddito globale, si rifugia nella realtà virtuale (tecnologie e realtà aumentata) limitandosi all’uso delle stesse e specialmente sostituisce la verità con il calcolo dell’utile. Gradualmente la realtà diviene estranea e straniera, si vive in una contingenza a cui ci si adatta, ma non si comprende. Si precipita in un irrazionalismo insidioso, si scambia il virtuale e l’ideologia annessa per realtà, e dunque, la scissione tra pensiero e realtà consolida il capitalismo assoluto, fino a rendere gli esseri umani “accidenti” che appaiono nella storia come elementi complementari del sistema. Costanzo Preve con l’ontologia dell’essere sociale ha l’obiettivo di fondare la comunità e la politica su un principio veritativo capace di veicolare il discernimento tra vero e falso. Per uscire dalla caverna della derealizzazione Costanzo Preve utilizza l’ontologia dell’essere sociale e la deduzione sociale delle categorie, con la prima fonda la verità della natura umana nel logos, nella pratica comunitaria del pensiero, nella sua capacità di astrarre la verità storica del tempo in cui è immerso, tale operazione comporta l’uso della deduzione trascendentale delle categorie con cui discernere il contingente dall’eterno che si manifesta nella storia. Il soggetto non rispecchia la realtà storica, ma la pensa con la mediazione del logos all’interno delle istituzioni, per cui per “natura” l’essere umano è attività pensante che si materializza nella storia. L’eterno è la consapevolezza che alcune conquiste della razionalità non sono contingenti, ma appartengono all’umanità. L’ontologia dell’essere sociale si oppone allo storicismo alleato dell’economicismo, poiché insegna che tutto è storia, e dunque, non vi è verità, ma l’essere umano è solo storia. La verità è sostituita dall’utile e dalla infinita manipolazione. L’essere umano è il niente che appare nella storia, a cui “enti esterni” danno la forma:
“Il punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale è il solo che può realmente fronteggiare le due patologie complementari dello storicismo e del sociologismo, formazioni ideologiche entrambe impotenti di fronte alle smentite storiche. E questo perché l’ontologia dell’essere sociale non nega affatto la crucialità decisiva della storia, e non nega neppure il ruolo indispensabile dei soggetti sociali organizzati, ma inserisce questi due fattori “materiali” in una “forma” senza la quale questi due fattori non possono trovare alcun fondamento[1]”
L’essere sociale esige che sia il pensiero che l’essere (sociale e comunitario) siano esaminati da un punto di vista concreto nel rispetto della natura umana, la quale è pensante e comunitaria e si manifesta nella storia, non secondo un’illimitata plasticità, ma secondo forme che rispettino il carattere del logos, il quale calcola il limite e con esso dà forma all’umanità e determina il suo “esserci”:
“Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)[2]”.
Il successo delle filosofie anti-ontologiche lo si può comprendere con la deduzione sociale delle categorie, esse sono organiche all’economicismo crematistico che vuole rappresentare l’essere umano come privo di fondamento veritativo per poterlo spingere verso l’illimitato consumo e l’illimitata manipolazione rendendo l’umanità fragile e disorientata. La negazione della natura umana comporta un robinsonismo generalizzato che ha l’effetto di deviare la vita dei singoli in un mondo virtuale, al quale si chiede una vita sociale e un’impossibile identità. Dietro le forme tragicomiche di narcisismo mediatico vi è una implicita speranza di vivere “una vita umana”, continuamente disattesa, la qualcosa ha l’effetto di provocare un’aggressività diffusa ed incontrollata. L’impotenza generalizzata comporta la fuga dalla comunità e dal sociale abbandonato alle fatali e letali leggi dell’economia. L’individuo è resecato dalla storia, diviene ente astratto nell’impotenza generalizzata. La persona è rappresentata come in-dividuo, ovvero come essere astratto dal suo fondamento comunitario e veritativo. La solitudine dell’individuo astratto è l’inizio dei processi di derealizzazione, in cui l’utile si sviluppa in modo parossistico, invade ogni campo del sapere e della vita comunitaria fino a fagocitarli. Il logos attraverso i processi dialettici può ricucire la scissione tra realtà e logos con l’attività razionale del soggetto. L’Idealismo hegeliano ha insegnato che la realtà diviene razionale, solo se il soggetto “pensa il reale”, per pensare si intende la capacità di coglierla olisticamente per decodificarne la verità storica, in tal modo è possibile capire il progetto, in cui si è implicati per assumere una prospettiva responsabile e progettuale. Costanzo Preve è stato libero discepolo di Hegel, Marx ed Aristotele, ne ha colto i nuclei “eterni” per capire il presente ed elaborare una teoretica della verità che affonda il suo senso nella tradizione da ripensare plasticamente. La realtà è razionale, se il soggetto la trasforma in esperienza pensata e condivisa, ma affinché ciò possa essere è necessaria la chiarezza del fondamento veritativo dell’essere umano. Verità e storia non sono antitetiche, ma la verità della natura umana si rivela nella storia. Senza verità metafisica la menzogna non è più tale, è sola una declinazione del nichilismo, l’indifferenza sostituisce ogni senso etico, se la verità è messa al bando, di conseguenza non resta che il calcolo acquisitivo e l’utile empirico a governare i destini dei popoli. Il cittadino non ha ragione di agire contro le menzogne conosciute, perché non ha paradigmi etici per comprenderle. Tutto è indifferente ed omologato, la verità vale quanto una menzogna, non resta che ritirarsi dalla storia e compensare il senso di nullità quotidiana con l’onnipotenza dell’apparire che nasconde l’impotenza di sistema. L’Umanesimo comunitario in Preve ha lo scopo di trascendere il dualismo tra verità e storia. La derealizzazione aggira il travaglio del negativo, è la grande vittoria del modo di produzione capitalistico sull’umanità. Il capitalismo assoluto, in tal maniera, non si specchia nella sua verità, produce menzognej per potersi espandere senza limiti. L’inclusione nel mercato si realizza per mezzo della derealizzazione: i soggetti sono “educati” alla sola registrazione degli eventi storici. Lo sguardo registra l’accadimento, guarda ed osserva l’evento storico come una realtà su cui non ha potere alcuno. Il pregiudizio metafisico è uno dei mezzi con cui le Accademie e il circo mediatico favoriscono i processi di derealizzazione:
“Il reale è dunque razionale solo se la sua razionalità può svilupparsi attraverso l’esperienza storica. […] Hegel non è un sostenitore del giustificazionismo storico, ed ancora una volta non lo è perché difende la realtà razionale ed ontologica di un orizzonte trascendentale di tipo logico[3]”.
La derealizzazione favorisce l’irrazionale imperio della ragione strumentale, la quale è prassismo senza fondamento, è attivismo acquisitivo, nel quale il soggetto scambia il pragmatismo utilitarista come attività e partecipazione. In realtà il soggetto è passivizzato ed atomizzato, in quanto subisce le decisioni del mercato e della “politica” senza poter orientare il senso della propria esistenza. Vive in un mondo impersonale che accetta fatalmente, poiché “così è” e non può che adattarsi. Le filosofie scettiche e il pensiero debole promuovono con la “morte di dio”, ovvero della verità, l’obiectum, anziché il Gegenstand. Il soggetto e le comunità hanno dinanzi ad essi il mercato con le sue logiche e lo percepiscono come intrascendibile, pertanto lo si accetta come un dato naturale incontestabile ed eterno. La realtà storica non è posta dal soggetto comunitario, per cui l’io comunitario non può che attraversare la storia come una comparsa, ciò comunica a tutti i membri della comunità un senso di inutilità, il quale disorienta ed annichilisce. La cultura è l’anticorpo più vigoroso contro le forme tossiche di derealizzazione, la cultura come paideia, formazione globale, consente di sviluppare l’identità della persona con le sue potenzialità, e di affinare il senso critico, ovvero di pensare “il proprio tempo” per poterlo trasformare. La storia della cultura ci consente di individuare il paradigma per distinguere la cultura dall’ideologia. La prima è cultura dell’universale, i suoi fondamenti sono universali, poiché la formazione e la lettura olistica dei fenomeni culturali e storici, già forma ad una disposizione all’universale, in cui il pensiero ritorna su se stesso per individuare parzialità e rigidità e confrontarsi con esse. L’ideologia è la rappresentazione del reale falsata dall’illusione dell’universale, ovvero si scambia la parzialità per universale, sostenuta dall’assenza della capacità e della motivazione a tornare sulla rappresentazione per liberarla dalle trappole della falsa coscienza. L’ideologia vive di ipostasi, essa necrotizza il tempo storico, divide senza mai unire, mentre la cultura distingue il temporale dall’universale. La cultura è orientamento verso la verità, è trascendere l’immediato per astrarre dalla storicità l’universale in cui ciascuno può ritrovarsi, sentirsi nella propria casa, poiché l’universale è posto in modo corale.:
“Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società[4]”.
La formazione esclusivamente “specialistica” è già pratica di derealizzazione, in quanto la complessità del reale storico e dei saperi è atomizzato in parti non riconducibili all’unità. La separazione, isola e rinchiude in nuove torri d’avorio, il mondo storico si liquefa nell’iperspecializzazione, al suo posto vi è solo il disegno egemonico-specialistico che si esplica su rappresentazioni virtuali del reale che non sono più tali, è il robinsonismo dei saperi. La razionalità strumentale si sostituisce alla razionalità oggettiva. Si è solo gli esecutori del mercato globale, che si è autofondato escludendo ogni riferimento metafisico ed umano. Il mercato è la sostanza aurea a cui ci si inginocchia, poiché nella percezione generale non dipende dalle generazioni che si susseguono nella storia, non è stato posto dal soggetto comunitario, ma si è autofondato ed autofecondato. I sudditi globali sono i tristi spettatori di tale processo, così Preve argomenta a Luigi Tedesco, in un’intervista, sul tema dell’inutilità e dei processi di derealizzazione:
“(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile[5]”.
La derealizzazione, la fuga dalla storia, è favorita da una temporalità senza progettualità, il soggetto “intuisce” nel quotidiano di essere soltanto funzione di un meccanismo, che non ha scelto, e specialmente, può essere sostituito, in ogni tempo: l’utile si trasforma in una spada di Damocle che minaccia potenti e deboli, poiché rende ogni essere umano sostituibile in una perversa uguaglianza che entifica l’umanità.
Videor ergo sum Il linguaggio utilitarista, apparentemente concreto, in realtà è la dose di “quotidiano avvelenamento delle speranze”. L’utilitarismo insegna che il mercato può sostituire con enorme facilità qualsiasi soggetto. L’entificazione è assoluta, pertanto, ogni soggetto senza identità e verità è solo parte dell’automatismo dell’utile. Il linguaggio contribuisce attivamente alla derealizzazione, il codice orwelliano con cui il circo mediatico rappresenta la realtà è anch’esso uno dei mezzi mediante il quale la derealizzazione diviene “normalità alienante”. Le parole non corrispondono a nessun reale storico, sono solo un trucco retorico degli intellettuali asserviti (giornalisti, professori universitari) per giustificare dinanzi al pubblico lo spettacolo dell’osceno[6]. Gli intellettuali non sono dei creatori, ma il mezzo di legittimazione e diffusione capillare dei processi di derealizzazione. Le loro competenze linguistiche sono al servizio del “padrone”. Il linguaggio orwelliano è flatus vocis, pertanto le parole non sono che mezzi per il dominio, con cui indurre alla condizione di “plebe” che dissipa il proprio tempo in attività organizzate da un potere invisibile. Tutto è reso pubblico, ogni gesto, ogni parola, ma il potere resta celato ed irraggiungibile. Se la verità è solo una chimera metafisica non resta che adattarsi, in quanto la resistenza presuppone un’alternativa fondata sulla verità e sulla razionalità oggettiva. La verità nel circo mediatico è associata alla violenza del totalitarismo, per cui si “scoraggia” ogni riflessione su di essa, in quanto foriera di violenza fascista. Le violenze del capitalismo assoluto sono rimosse mediante il velo di Maya del linguaggio mediatico[7]. L’ossimoro (bombardamento etico, missioni di pace) e la reductio ad Hitlerum (Slobodan Milošević, Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi) sono gli artifici retorici con cui strappare il consenso. Le controriforme che erodono i diritti sociali sono denominate “riforme”, e sono evocate in lingua inglese (jobs act). Il consenso è ottenuto con parole che seducono, ma al cui interno vi sono provvedimenti contro i popoli. L’offuscamento semantico con la neolingua ha lo scopo di mettere in atto un delicato e progressivo lavaggio del cervello con cui trasformare il cittadino in spettatore-consumatore. La neolingua santifica l’apparire, anziché l’essere. La cultura dell’apparire, il bisogno generalizzato indotto a ritagliarsi un cono di luce per sembrare, a qualsiasi costo, connota la società attuale come pornografica. Se il soggetto è perennemente alla ricerca dei riflettori, è sotto la lente di ingrandimento dei meccanismi della società dello spettacolo, non si appartiene, non ha il tempo qualitativo per pensarsi e riflettere sul mondo che, mentre lo espone in vetrina, lo annichilisce: gli sottrae il tempo del pensiero e specialmente la derealizzazione è orchestrata dai poteri pubblici e privati che stabiliscono le leggi dell’apparire. Si coltiva un’immagine pubblica decisa da altri. Nulla è sotto il controllo del soggetto che si trasforma in oggetto del sistema, e si rifugia in un’esistenza virtuale destinata ad essere perennemente sotto scacco. Il soggetto è perennemente pro-vocato, ovvero è “chiamato fuori”, deve essere sotto l’abbaglio della stimolazione, in modo che il pensiero rallenti la sua attività e non pensi la sua condizione storica, ma la subisce, in tal modo l’io è derealizzato, è disabitato dall’io pensante per essere ad immagine e somiglianza del mercato. L’io inseguito, catturato ed umiliato, non agisce, ma reagisce rifugiandosi in un mondo delirante che scambia per realtà. L’io si derealizza, in quanto è resecato da se stesso, dalle sue potenzialità creative e dalla comunità. L’in-dividuo[8] è l’effetto del taglio, dei processi di resecazione-alienazione, pertanto è scisso dalla storia, non resta che il competitore vuoto di se stesso, ma abitato da una realtà violenta e virtuale. Non a caso l’in-dividuo coincide con l’affermarsi del privato che persegue i soli interessi personali, e ciò è un’ulteriore resecazione dalla vita comunitaria. Al termine di tali dinamiche di resecazione non resta che un atomo che ha perso il contatto con la realtà storica, fino a non riconoscerla e a disinteressarsi di essa, il soggetto si ripiega sui soli interessi privati decretando con la solitudine la sua sconfitta. L’io si indebolisce, l’identità diviene liquida fino a disperdersi nelle maschere della società del videor ergo sum:
“Viviamo in un’epoca il cui fondamento non è più il cogito ergo sum di cartesiana memoria criticato da Husserl, ma è il videor, ergo sum. Il termine latino videor è particolarmente adatto a quanto intendiamo qui dire, perché significa sia “sono visto” al passivo, sia “sembro” come verbo intransitivo. Più esattamente “sono visto” (al video) e “sembro” (attraverso il video). Sembra che la visibilità sia la condizione minima di esistenza. Se non si è visti, non si esiste. Ma questa è un’illusione[9]”.
Il linguaggio, in questo contesto, è depotenziato delle sue possibilità creative e critiche, è stereotipato e ripetitivo, in quanto la derealizzazione desertifica il pensiero, e quindi il linguaggio è solo il riflesso del circo mediatico. Senza identità veritativa e comunitaria il linguaggio diviene “chiacchiera” senza fondamento, e qualora si debba far accettare dal pubblico “l’inaudito”, si usa un linguaggio addomesticato ed evirato della sua intensità concettuale. L’eufemismo è orchestrato dai media, a seconda delle circostanze si usano parole che possano “tranquillizzare” lo spettatore. É l’artificio linguistico con cui il sistema protegge se stesso, in modo che si possa far accettare anche l’impossibile allo spettatore-consumatore. il politicamente corretto è l’architrave di un sistema che produce menzogna, edulcora il logos, in modo da trasformare i popoli in armenti belanti disponibili alla democrazia procedurale. Senza logos, verità e linguaggio non vi può che essere la derealizzazione organizzata sul mito del piacere assoluto, della regressione e fuga da ogni condizione emotiva adulta. Coloro che denunciano lo stato presente sono rappresentati come nemici della gioia di vivere e dei diritti individuali. In questo clima di violenza verbale e fattuale si vuole eliminare la speranza, poiché quest’ultima presuppone un “soggetto forte” che pone il reale storico, per cui “sperare” è dimensione della trasformazione sociale indissolubilmente legata all’agire storico del soggetto che pone la storia e ne scorge tra le pieghe le potenzialità di cambiamento. La speranza è la dimensione dell’esodo dal presente. L’inutilità strutturata si palesa con forme compensatorie dell’io, dietro cui si nasconde la perdita della speranza. L’ipertrofia dell’io narcisistico palesa la derealizzazione indotta. È vietato vietare qualsiasi comportamento o scelta tranne lottare per una società diversa:
“Non ci sono più identità, ma fantocci televisivi intercambiabili che si pronunciano nei talk-show per individui del tutto passivizzati. In questa società in cui è vietato vietare qualsiasi cosa, e la sola cosa vietata è il battersi per una società diversa, la vecchia religione invasiva dei costumi familiari e sessuali dev’essere smantellata e delegittimata […][10]”.
Il soggetto può perdersi tra realtà virtuale e pulsionale, gli è concesso ogni appetito, l’importante è che non metta in discussione il presente e che non si occupi del suo futuro. Il tempo è puntiforme, non vi è temporalità progettuale e condivisa, cade così, la motivazione a capire la realtà storica, perché è religiosamente e dogmaticamente difesa dal politicamente corretto. Non resta che ritagliarsi spazi illusori di azione, in cui dimenticare la quotidiana passività con il giogo che diventa sempre più greve fino a schiacciare i sudditi. Il calcio, la rete, la pornografia sono forme di derealizzazione, il soggetto si ritira in fantasie, in sogni puerili di dominio e piacere assoluto, per non guardare con gli occhi della mente la sua riduzione a semplice “ente” tra gli “enti”. La corporeità vissuta nella distanza con la rete, deforma la percezione del proprio corpo vissuto, l’illimitato si consolida nelle aspettative, pertanto il soggetto non regge la relazione duale e comunitaria: l’astratto sostituisce il concreto. L’illusione di essere soggetto attivo è traslata nel nuovo “oppio dei popoli: il tifo, la pornografia, l’ossessione del viaggio e dello spostamento veicolare. I media deviano l’attenzione dei cittadini dai reali problemi sociali e storici con la chiacchiera, che nega il logos ed il linguaggio con forme stereotipate ed anonime di comunicazione. La derealizzazione diviene un dispositivo di controllo sociale, dinanzi al quale il cittadino-suddito ed il popolo-plebe sono senza difese:
“24. Inizierò con alcune osservazioni di superficie su alcuni fenomeni molto noti ma anche poco compresi come il tifo sportivo, la pornografia, la circolazione autoveicolare ipertrofica ed asfissiante, ed infine la televisione e la sua centralità comunicativa, o meglio escludente. Si tratta di quattro fenomeni ben noti, ma come dice giustamente Hegel, il noto in quanto noto non è ancora conosciuto. Per poter portare la comprensione di questi quattro fenomeni sociali al livello della conoscenza teorica occorre abbandonare ogni visione moralistica, snobistica ed elitaria di questi fenomeni, per comprendere che si tratta di quattro fenomeni di individualizzazione artificiale, e pertanto di socializzazione adattativa, del suddito-consumatore di questa nuova terza età del capitalismo. Il tifo sportivo è spesso visto con disprezzo dalle cosiddette “persone colte”. Vi sono anche persone di cultura, come lo scrittore inglese Tim Parks, tifoso degli “ultra” del Verona, che invece ne rivalutano gli aspetti ludici e comunitari. Io sono totalmente privo di snobismo, la gente comune non mi fa per niente schifo, e tendo dunque a prendere sul serio Tim Parks. Ma Tim Parks, ed i molti come lui, parlano anche di calcio, non solo di calcio. C’è una sottile differenza, che non dovrebbe sfuggire neppure a Parks. Quando lo spettacolo sportivo satura ogni comunicazione mediatica, le squadre vengono quotate in borsa, l’ossessiva chiacchiera calcistica ed automobilistica sostituisce nei bar il precedente “parlare di donne” (forse a causa di una diminuzione del desiderio dovuto all’inquinamento atmosferico), ecc., non siamo più di fronte ad un fenomeno sportivo, ma ad una sostituzione della virtualità alla precedente sportività stessa. È bene ribadire che non intendo affatto sostenere che i nuovi tifosi vengono “distratti” dai loro veri interessi sociali o dalla organizzazione della prossima rivoluzione proletaria. Questo modo inattendibile di vedere le cose era tipico dell’ideologia di sinistra, per cui già nell’antica Roma i giochi dei gladiatori e più in generale i circenses avevano il compito di distrarre le masse dalla lotta contro il modo di produzione schiavistico. In realtà, come ha a suo tempo chiarito lo storico francese Paul Veyne, i circenses non avevano lo scopo di “distrarre” le masse da una improbabile rivoluzione, che in forma cristiana avvenne poi comunque, ma di affermare simbolicamente il potere senatorio o imperiale, e poi esclusivamente imperiale. Del resto questo avviene anche oggi, da Agnelli a Berlusconi. Il discorso sportivo socializza in modo artificiale, contrapponendo agonisticamente tifosi socialmente del tutto omogenei, ed in questo modo individualizza in modo adattativo queste stesse persone che vengono teatralmente fatte scannare per Totti e Ronaldo. La pornografia è anch’essa un fenomeno per molti aspetti nuovo ed inedito, e sbaglia chi parla soltanto del mestiere più antico del mondo, o fa notare che l’eccitazione erotica per gli organi sessuali fa parte del corredo biologico della riproduzione umana..[11]”.
La derealizzazione ha lo scopo di strutturare un senso di “superfluità” diffuso. Se il soggetto “sente” che la sua esistenza è inutile, ciò gli comunica un senso profondo di superfluità: non gli resta che rifugiarsi nella realtà virtuale, la quale prende prepotentemente il posto della realtà storica. Il consenso è estorto mediante una rappresentazione parziale e falsata degli accadimenti storici, non a caso “i bombardamenti etici” sono preceduti da un’esposizione morbosa e dettagliata dei crimini del dittatore di turno per strappare il consenso al bombardamento. Il concreto è sostituito dall’immagine astratta, la razionalità critica con l’emozione che sarà presto archiviata. La normalità diviene patologia non riconosciuta, al punto che gli apparati istituzionali curano i sintomi del male per evitare di incidere sul sistema.
Intellettuali e necessità della verità metafisica La verità del capitalismo assoluto va resa “nota”, va tradotta in un linguaggio che rompe la continuità tra struttura e sovrastruttura. Gli intellettuali possono e devono defatalizzare la condizione presente riportando la parola al centro, parola di senso, parola progettante e politica. Il capitalismo assoluto può essere avviato al suo trascendimento con la teoria e la prassi, le quali necessitano di categorie di significato collettive senza la quali la passività dei popoli è il volto concreto della feticizzazione della storia. L’intellettuale è ad un bivio: può contribuire, affinché il sistema possa perpetuare se stesso o devertere dal suo esiziale cammino. L’intellettuale deve riportare la prassi mediante la teoretica del rovesciamento dell’in sé col per sé nelle condizioni storiche date, solo in tal modo il misticismo economico che ci minaccia e reifica può deviare dal cammino nichilistico, dal silenzio della parola e della politica mediando l’immediato con la ragione dialettica. Gli intellettuali devono vivere la doppia temporalità della critica al capitalismo nel presente con lo sguardo rivolto verso la passione per la verità che riconcilia le temporalità storiche in un nuovo ordine. Il ruolo degli intellettuali ed il loro destino sono indissolubilmente legati alla democrazia, nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo, delle conseguenti mercificazioni e della derealizzazione. La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita: i popoli senza lingua e linguaggi indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva, ovvero apparentemente si fa appello ai popoli ed ai singoli, li si spinge verso un attivismo perpetuo nel campo della produzione, dei desideri e del consumo, ma nel contempo si organizza la loro passività. L’attività perenne senza spazi temporali e fisici per poter dialettizzare il tempo immediato dell’economicismo favorisce la passività, si è presi all’interno di una spirale che invita alla ripetizione del medesimo senza sosta, senza possibilità di far emergere nell’incontro con sé e la comunità la parola che ridisegna l’ordito dei giorni. Il capitale ha reso le parole vuoti ronzii con l’effetto che ogni attività intellettuale legata alla parola è stata anestetizzata. Se il linguaggio è stato divorato dalla struttura economica, le nuove forme espressive e spettacolarizzate divenendo la normalità dello stato presente hanno reso la scissione tra intellettuale e popolo profondissima, la faglia sembra incolmabile, poiché si uccide la parola-pensiero sul nascere con l’effetto di un’assoluta estraneità tra intellettuali e popoli. La decadenza dell’intellettuale è espressione di questi processi in atto, non a caso è concesso all’intellettuale di presenziare nei dibattiti mediatici solo se le sue parole o anche le sue critiche fatalmente confermano il sistema. Vi sono intellettuali che incarnano la cultura dell’eccesso, del narcisismo logorroico fine a se stesso, ed intellettuali che in quanto “pessimisti tragici” descrivono l’apocalisse presente ed insegnano agli ignari ascoltatori che ogni speranza non è che illusione, mentre la prassi è solo un residuo di epoche storiche tramontate. Non resta che adeguarsi al mondo, inseguirlo per imitarlo ed avanzare celati dietro maschere di vuote parole “larvatus prodeo”. Essere spettatori è una condizione, ma non un destino, la condizione attuale non è senza uscita, solo con l’uscita dal ruolo di spettatore e del consumo è possibile ridare senso e consistenza qualitativa alle istituzioni che come gusci vuoti sopravvivono alla società dello spettacolo. Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La quarta guerra mondiale in atto, è una nuova forma di totalitarismo, una nuova forma di violenza che fa convivere “bombardieri e menzogna palese”. Si tratta di svelare non solo la relazione tra i due elementi del binomio, ma specialmente di dimostrare che una simile realtà è “innaturale”, perché non corrisponde alla verità umana. Si instaura una società ideologica, che nega l’ideologia imperante, dichiarando la fine di tutte le ideologie per entrare nel regno irenico della pace a suon di cannonate e menzogne. Costanzo Preve lontano dal circo mediatico e dagli “eunuchi” del potere, ha riportato al centro la verità metafisica. Solo ripartendo dal sentiero interrotto della verità sarà possibile, non solo svelare la menzogna palese nella sua realtà, ma specialmente solo la fede argomentata e dialettica nella verità può riportare la comunità con i suoi individui al centro della storia, perché capaci di pensare la verità e di agire in nome della verità:
“La menzogna palese rappresenta a mio avviso un grado superiore, darwinianamente parlando, della precedente menzogna occulta. La menzogna occulta dava infatti luogo a strategie di smascheramento o di “demistificazione” (come si diceva negli anni Sessanta) e queste strategie nutrivano gruppi appositi di intellettuali che si qualificavano come smascheratori e demistificatori, secondo il modello di quelli che il filosofo francese Ricoeur aveva chiamati “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud). La menzogna palese svuota completamente questa funzione critica e si pone come strumento bellico diretto. La menzogna palese, lungi dall’essere “sciocca”, riflette, invece la dura realtà dei rapporti di forza[12]”.
La sola critica non è sufficiente, è necessaria la fondazione metafisica della verità. I rapporti di forza sono senza equilibrio, per cui i dominatori possono rappresentare come verità ciò che i deboli sanno essere menzogna. L’insostenibile causa la fuga nel virtuale come nella malattia mentale. La società attraversata da rapporti di forza insostenibili si disintegra nella derealizzazione: i sudditi nella loro impotenza “fingono di credere alle menzogne”, si ritraggono dall’ostilità nella storia stordendosi in mondi immaginari, in speranze illusorie, in forme di rimozione collettiva delle violenze subite. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della società dello spettacolo. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. Costanzo Preve ha testimoniato la sua lotta contro i processi di derealizzazione con la sua testimonianza e la sua vita. Riappropriarsi del reale storico è possibile con la fondazione metafisica della verità, poiché essa motiva alla lotta ed induce a pensare: le rivoluzioni e le riforme sono possibili solo nella verità, l’alternativa è una lunga agonia a cui non ci si può opporre. Costanzo Preve ha avuto il coraggio di deviare dal nichilismo per la fondazione metafisica della verità senza la quale non vi è futuro, ma solo il lento consumarsi dei giorni. Per poter riconnettersi con la realtà storica e concettualizzarla è necessario “dire addio” alle appartenenze che sono forme sofisticate di derealizzazione. L’appartenere ad un gruppo, ad un partito, ad un movimento rischia di trasformarsi in difesa ideologica dell’appartenenza e dunque, in allontanamento dalla verità e dall’impegno etico.. Costanzo Preve non si considerava un intellettuale, poiché ne constatava la normale pratica di difesa delle lobby di appartenenza, pertanto è stato fedele al suo destino, è stato filosofo che ha pensato il reale storico senza asservimento derealizzante:
“Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare[13]”.
Per trascendere i processi di derealizzazione necessitiamo di strumenti cognitivi per capire il presente, ma specialmente, necessitiamo non di una Filosofia da “Accademia”, in cui si dibatte sulla “definizione” della stessa, ma della testimonianza di una vita filosofica che mostra e dimostra la possibilità di vivere pienamente la propria umanità nella verità. La testimonianza di Costanzo Preve dev’essere associata a Massimo Bontempelli con cui ha collaborato e che nel testo “Filosofia e Realtà” ha attraversato “il negativo” del sentiero della notte (derealizzazione), mediante la logica hegeliana:
“D’altra parte, per concepire un’uscita dal sentiero della notte, ovvero per individuare un varco nell’attuale orizzonte storico nichilistico, è assolutamente indispensabile identificare la storia che ha materializzato quel sentiero, che ha chiuso il nostro orizzonte. Senza andare con il pensiero a questa radice, infatti, non è possibile capire quali settori ed ambiti dell’attuale esperienza umana ne siano i germogli, e siano intrinsecamente ontooccultanti. Ma se non si capiscono le zone ormai ontooccultanti dell’esperienza, non si può neanche capire attraverso quali esperienze sia oggi possibile manifestare la realtà, e costruire quindi un cammino di uscita dalla derealizzazione umana del sentiero della notte[14]”.
La derealizzazione conduce, secondo l’efficace espressione di Massimo Bontempelli “all’intercosalità”. Se il logos non comprende il proprio tempo, se i soggetti sono reificati non resta che un mondo senza umanità, in cui l’unico legame è lo scambio di “merci”, fino al punto di non riconoscersi ed autoriconoscersi come persone, ma come “merci” da esporre nel mercato delle transazioni. L’intercosalità è il punto apicale dell’alienazione, in cui non si riconosce più la propria umanità.
Ricostruzione genetica, fondazione veritativa, prassi sociale e testimonianza vissuta sono il quadrifarmaco contro il sentiero della notte. L’essere umano è un essere pensante, per cui tutti siamo chiamati a dare nel rispetto delle differenze il nostro contributo testimoniale contro il sonno della razionalità oggettiva e l’incubo della sola razionalità strumentale.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, 18.
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«L’uomo tedesco ha per il complesso dell’esistenza di un essere reale la parola Gestalt. In questa espressione egli astrae dall’elemento mobile, e assume che qualcosa di co-appartenente sia solidificato, conchiuso e fissato nel suo carattere. Ma se noi consideriamo tutte le Gestalten, particolarmente quelle organiche, troviamo che non vi occorre mai qualcosa di stabile, qualcosa di quiescente, di compiuto, ma che piuttosto tutto oscilla in un continuo movimento. Per questo la nostra lingua usa la parola Bildung con sufficiente proprietà tanto per indicare ciò che è stato prodotto quanto ciò che è in fase di produzione. Se vogliamo introdurre una morfologia non dobbiamo parlare di Gestalt, ma se ci serviamo di questa parola dobbiamo quantomeno connetterle solo l’idea, il concetto o qualcosa che nell’esperienza venga tenuto fermo soltanto per la durata dell’istante. Il già formato viene subito ritrasformato; e noi, se vogliamo acquisire una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo l’esempio che essa ci dà. […] Ogni vivente non è un singolo, ma una pluralità; anche presentandosi come individuo, rimane tuttavia un insieme di esseri viventi e autonomi, che, eguali secondo l’idea e per natura, appaiono empiricamente identici o simili, diversi o dissimili».
J.W. Goethe, Zur Morphologie. Ersten Bandes erstes Heft 1817, in W, XIX, p. 16; tr. it. a cura di S. Zecchi, in La metamorfosi delle piante, Guanda, Parma 1983, p. 43.
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«Quando Gesù diceva: “il padre è in me ed io nel padre, chi ha visto me, ha visto il padre; chi conosce il padre sa che quel che dico è vero; io ed il padre siamo uno”, gli ebrei lo accusavano di bestemmia perché egli, nato uomo, si faceva Dio. Come avrebbero potuto riconoscere in un uomo qualcosa di divino, essi, i poveri, che portavano con sé soltanto la coscienza della loro miseria, della loro profonda servitù, della loro opposizione al divino, la coscienza di un incolmabile abisso tra umano e divino? Solo lo spirito riconosce lo spirito. Essi vedevano in Gesù soltanto l’uomo, il nazareno, il figlio del falegname i cui fratelli e parenti vivevano in mezzo a loro: tanto egli era, ne avrebbe potuto essere di più; era soltanto uno come loro ed essi stessi sentivano di essere nulla. […] Il leone non dimora in una noce, né lo spirito infinito nella prigione di un’anima ebraica, né il tutto della vita in una foglia secca».
G.W.F. Hegel, Der Geist des Christentums und sein Schicksal [Spirito del cristianesimo e il suo destino], in Id., Werke in zwanzig Bänden, Band I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1971, pp. 380-381; tr. it., in Id., Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli 1972, p. 424.
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Nell’immagine in evidenza, a sn.: Rilievo in scisto raffigurante il Buddha, il Vajrapani e alcuni monaci, proveniente da Butkara I (Pakistan) e conservato presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma.
«Non fare ciò che è male / fare ciò che è bene / purificare la propria mente: / questo è l’insegnamento del Buddha», si legge nel Dhammapada, uno dei più influenti testi buddhisti. Studiando i testi del Canone del Buddhismo Theravāda, Antonio Vigilante offre in questo saggio una interpretazione dell’etica buddhista quale etica transpersonale, tesa al superamento del soggetto attraversi tre momenti. Il primo è il passaggio da un sé disperso nella molteplicità dei suoi desideri ad un sé solido e centrato, grazie alla meditazione e ad altre pratiche disciplinari che hanno molte affinità con le tecniche filosofiche greche, in particolare dello Stoicismo. Il secondo è l’apertura di questo sé grazie alle dimore divine, i quattro valori fondamentali del Buddhismo: la benevolenza, la compassione, la gioia partecipe e l’equanimità. Il terzo momento, quello del Risveglio, è l’abbandono del sé e, con esso, della stessa etica, con la sua distinzione tra bene e male. Solo quando il superamento del soggetto è completo l’etica si realizza pienamente e al tempo stesso si estingue, poiché trasceso l’io è spenta la possibilità stessa del male. Centrata sulla negazione della sostanza, l’irrilevanza dell’esistenza del Divino e l’insussistenza del soggetto, la visione del mondo buddhista nega i fondamenti stessi della civiltà occidentale. Ma questi fondamenti, osserva Vigilante, sono venuti consumandosi nel pensiero contemporaneo, da Nietzsche a Sartre, per cui l’etica buddhista sembra indicare oggi una via percorribile da un Occidente in crisi.
Antonio Vigilante vive a Siena. Si occupa di teoria della nonviolenza, pedagogia, filosofia morale e interculturale. Tra i suoi libri: Il Dio di Gandhi (2009), La pedagogia di Gandhi (2010), Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci (2012), L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (2014), A scuola con la mindfulness (2017), La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha (2019). Con Petite Plaisance ha pubblicato: Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore (2018) e L’essere e il tu. Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin (2019).
Indice
Introduzione Nota Abbreviazioni
Il Dhamma del Buddha La via della conoscenza Filosofia e religione Un misticismo ateistico La zattera Il Buddha e la tradizione indiana Śramaṇa Nobili verità La genesi interdipendente L’azione Il nibbāna Razionale e irrazionale
Il sé disperso e il sé dimora La psicologia buddhista I pezzi del carro La nausea La possibilità della gioia L’indicibile Inquinanti
Tecnologie del non sé La cura di sé Enkrateia Il Sāṃkhya Lo Yoga Una pratica di immersione Samatha e vipassanā Lo sforzo Jhāna Lo sguardo profondo Sentieri che si intersecano
Una casa sicura La felicità più alta Dal quotidiano al sublime Etica domestica Non uccidere Non rubare La condotta sessuale Etica della parola Non assumere sostanze inebrianti La via verso il riconoscimento Pacificare le relazioni Genitori e figli Maestri e discepoli Etica coniugale L’amicizia Servi ed operai Asceti e brahmani Essere inclusivi Un’etica concreta Etica e politica
La fortezza dei saggi La via del bhikkhu Lo sciocco e il saggio Artigiani di sé L’amicizia spirituale Dimore stabili Le colpe più gravi
Le colpe meno gravi
L’apertura
Il dimorare divino La benevolenza Controvento Il dolore, la gioia, il distacco Porte aperte sul Risveglio Al di là dei segni Il sé dono Oltre il bene e il male L’abbandono e l’insegnamento
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Seconda edizione. ISBN 978–88–7588-289-1, 2021, pp. 240, Euro 20 – Collana “Il giogo” [136]. In copertina: Kouros, IV secolo a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.
I testi qui offerti al lettore si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi due aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale le sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione nel mondo, dall’altro. Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. La stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista delle interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Fra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e sul pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.
Mario Vegetti
Nota bibliografica sull’opera di Mario Vegetti
a cura di Fulvia de Luise
Mario Vegetti (1937-2018) è stato professore emerito di Storia della filosofia antica all’Università di Pavia. Con il suo lavoro scientifico, ha aperto nuovi campi di indagine all’analisi storica e filosofica della cultura antica, diventando protagonista di un rinnovamento tematico e metodologico di eccezionale portata, che si avvaleva, da un lato, della ricezione e dell’elaborazione delle esperienze antropologiche francesi, legate allo strutturalismo e al marxismo, dall’altro del confronto con l’approccio analitico di matrice anglosassone, da cui veniva l’attenzione alla specificità filosofica dei testi antichi e all’attualità delle loro argomentazioni nel contesto del dibattito contemporaneo. La questione del metodo interpretativo ha occupato uno spazio importante nelle diverse fasi della sua attività di studioso, con effetti di particolare originalità nell’applicazione al rapporto con gli antichi, che Vegetti intendeva affrancare dal classicismo e da ogni forma di incauta attualizzazione. La prima parte del suo percorso è caratterizzata dall’interesse per la dimensione scientifica del pensiero antico, con particolare riferimento alla medicina e alla biologia. Appartengono a questo periodo le traduzioni commentate delle opere di Ippocrate [… continua a leggere cliccando su Nota bibliografica sull’opera di Mario Vegetti a cura di Fulvia de Luise].
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Fulvia de Luise insegna Storia della Filosofia Antica presso in Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento (clicca qui per la pagina dell’Università a lei dedicata). Dal 1994 al 2007 ha partecipato al seminario di studio sulla Repubblica di Platone, diretto dal prof. Mario Vegetti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università agli Studi di Pavia, contribuendo con numerosi saggi alla produzione di un commentario dell’opera (pubblicato in sette volumi, tra il 1998 e il 2007, per i tipi della Bibliopolis, Napoli). Tra il 1989 e il 2001 ha svolto un’intensa attività di ricerca sui modelli antropologici ideali nel pensiero antico e sul tema della felicità nel pensiero antico e moderno, pubblicando due monografie, in collaborazione con G. Farinetti (Felicità socratica, Hildesheim 1997; Storia della felicità. Gli Antichi e i moderni, Torino 2001). I suoi studi si sono rivolti inoltre all’interpretazione della scrittura platonica, con particolare riferimento, oltre che alla Repubblica, al Fedro e al Simposio, di cui ha curato edizioni commentate (clicca qui per le pubblicazioni di Fulvia de Luise).
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Maurizio Migliori, La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni. Introduzione di Luca Grecchi.
ISBN 978-88-7588-247-1, 2019, pp. 592, Euro 38 – Collana “Il giogo” [100]. In copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia.
ZENONE E PLATONE: DUE DIALETTICHE A CONFRONTO Da una realtà aporetica a una realtà unimolteplice
«L’uno è molti e infiniti e i molti sono uno». Filebo 15E3-4
In questo contributo si intende delineare un quadro comparativo della dialettica così come intesa da Zenone di Elea e poi inverata e, allo stesso tempo, superata da Platone. A questo fine ci muoveremo su tre fronti:
la delineazione dei tratti essenziali della dialettica di Zenone;
il giudizio platonico sulla dialettica di Zenone, ricavabile dall’incipit del Parmenide;
la presentazione della dialettica di Platone come superamento e inveramento di quella zenoniana.
Una premessa terminogica
Prima di entrare nel vivo del confronto tra Zenone e Platone è necessaria però una breve premessa, perché il termine dialettica ha assunto, nel corso della storia della filosofia, una pluralità di sensi e di accezioni che è bene distinguere. Essenzialmente incontriamo tre figure di dialettica:
intesa come filosofia, cioè come uno strumento che svela la natura di una realtà che è essa stessa dialettica, nella quale positivo e negativo convivono;
come dialogica, cioè come tecnica della discussione;
come tecnica di confutazione.
[…]
La concezione zenoniana della dialettica risulta conservata e innovata dalla dialettica platonica: risulta conservato infatti il processo di innalzamento, per cui dalla contraddizione delle conseguenze si traggono risultati che concernono le premesse (nel caso del paradosso della freccia abbiamo visto come la conclusione contraddittoria permette di invalidare la premessa), ma in un senso nuovo. L’analisi dialettica, svelando la complessità dei nessi che costituiscono il reale, ci costringe a cercare la chiave per capire la non contraddittorietà della struttura apparentemente aporetica e ci indica il cammino per superare la contraddizione tramite un trascendimento ontologico. Il fatto di risalire a una dimensione filosoficamente più alta, però, non dissolve l’aporia ma, lasciandola essere tale al suo livello, consente di inquadrarla in una visione coerente e vera del reale: un qualsiasi essere umano, in sé considerato, è realmente e irriducibilmente uno e molti.
Questo richiede una visione estremamente articolata del reale, una visione multifocale, e un metodo che sia, per sua natura, adeguato alla comprensione di una realtà uni-molteplice, ma implica anche la consapevolezza che è impossibile trovarsi di fronte a un modello unico di descrizione del reale: infatti nella dialettica platonica c’è la movenza dell’unificazione, della risalita ai principi (quindi della sintesi), ma c’è anche il senso dell’irriducibilità del reale: l’infinito è irriducibile e resta in perenne conflitto con il limite, come ci ricorda il Filebo:
«SOCRATE: Dunque, poiché le cose sono così ordinate, bisogna che cerchiamo di porre in ciascuna situazione sempre un ‘unica Idea per ogni cosa: infatti, noi ve la troveremo insita; se dunque l’abbiamo individuata, dobbiamo esaminare se dopo una ve ne siano due, se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo, allo stesso modo per ciascuna di quelle, fino a che non si vede dell’uno posto all’inizio non solo che è uno, molti e infiniti, ma anche quanti è; l’Idea dell’ illimitato non bisogna attribuirla alla molteplicità, prima di averne individuato il numero totale, mediano tra l’infinito e l’uno, e solo allora lasciare che ciascuna unità di tutte le cose vada nell’illimitato» (16C7-E2).
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Sommario
Una premessa terminologica La dialettica din Zenone I molti simili e dissimili e il paradosso della freccia Il confronto tra Zenone e Platone: il Parmenide La dialettica platonica come superamento e invermento di quella di Zenone Il nesso tutto-parte I nessi tra le Idee: il Sofista Considerazioni conclusive
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Lucia Palpacelli…
L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria, Vita e Pensiero, 2009
L’analisi di Lucia Palpacelli affronta in modo nuovo il testo, rifiutando la tradizionale lettura ‘panironica’, che consente di aggirare le tante ‘stranezze’ del dialogo interpretandole come giochi ironici, in ultima istanza poco comprensibili. Al contrario, l’autrice mostra come il dialogo rifletta il pensiero platonico e si riveli un’opera molto significativa all’interno del corpus. L’Eutidemo diventa così un prototipo della ‘scrittura filosofica’ di Platone, che lancia una continua sfida al lettore, chiamato a intendere i problemi proposti e a sviluppare autonomamente le linee di soluzione offerte in forma allusiva.
Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo, Morcelliana, 2013
Il volume mette a confronto analiticamente le opere fisiche di Aristotele con i dialoghi platonici sulle stesse tematiche (in particolare con il Timeo), per ricostruire la complessa articolazione del concetto di physis, dal cosmo alla considerazione degli esseri viventi. La via critica seguita, e indicata dai testi stessi, permette di ricostruire un percorso che si configura sempre come bifronte: le innegabili e, in alcuni casi, fondamentali divergenze tra Aristotele e Platone si innestano su comuni tematiche e domande, per cui, lì dove si segna una distanza, si deve anche riconoscere un punto di accordo. Il rapporto tra Aristotele e Platone va delineandosi in queste pagine nella cifra distintiva di un movimento di vicinanza/lontananza, che rende possibile cogliere il senso e l’effettivo valore della critica aristotelica.
Aristotele, La generazione e la corruzione Testo greco a fronte, a cura di M. Migliori e L. Palpacelli, Bompiani, 2013
Il “De generatione et corruptione”, opera poco conosciuta e sottovalutata, svolge un ruolo importante nelle riflessioni fisiche di Aristotele. Lo Stagirita affronta e risolve le questioni concernenti i quattro tipi di mutamento, distinti secondo la categoria di riferimento: la generazione e corruzione secondo la sostanza, l’aumento-diminuzione secondo la quantità, l’alterazione secondo la qualità, la traslazione secondo il luogo. L’articolazione di tali temi si sviluppa in un ricco confronto con i filosofi del tempo, con la ripresa della centrale tematica delle cause fisiche e con espliciti riferimenti al Motore immobile trattato nella Metafisica. L’ampia introduzione di Maurizio Migliori, che affronta le questioni di fondo proposte in questo testo, è completata da un saggio bibliografico di Lucia Palpacelli che espone criticamente tutti gli studi apparsi nell’ultimo trentennio. La traduzione e il commentario di Migliori sono stati rivisti e arricchiti sulla base di un analogo aggiornamento bibliografico. Il lettore ha così a disposizione un testo completo, presentato in un’ottica unitaria e sorretto da una lettura critica aggiornata.
La natura intermedia di Eros. Pausania e Aristofane a confronto con Socrate, in: «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 3 – 2016, Vita e Pensiero, 2016
In this paper, speeches of Socrates, Pausanias and Aristophanes are analysed combining them together. This analysis is performed starting from the concept of intermediate (metaxuv) which allows us to construe Pausians’ speech as preparatory with respect to Socrates’ speech, and Aristophanes’ speech as its denial. Indeed, the concept of intermediate is applied to Eros 1) in embryo in Pausianas’ speech (which finally distinguishes two kinds of Eros) and 2) openly in Socrates’ speech. In this regard, the two speeches are connected and they show a progression 1) from a strictly practical and ethical-behavioural level (Pausanias’ speech) 2) to a theorical-metaphysical level based on Eros’ nature (Socrates’ speech). Aristophanes, on the other hand, defines Eros as a desire of total fusion, his view is corrected and downscaled by Socrates enforcing the concept of intermediate.
Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta
Il presente volume è il terzo di una serie di collettanei aristotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a mia cura presso questa casa editrice. A questi volumi hanno partecipato alcuni fra i maggiori studiosi italiani dello Stagirita, che desidero nuovamente ringraziare per la loro disponibilità e gentilezza, ma soprattutto per l’ennesimo dono che hanno voluto fare agli studi aristotelici. Il volume di quest’anno, Teoria e prassi in Aristotele, nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico. Il tema è stato analizzato, come di consueto, secondo una pluralità di punti di vista ed approcci. L’apertura del volume, come da tradizione, è stata anche stavolta un dialogo generale tra lo scrivente e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, ha fatto seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, vi sono stati interventi assai puntuali inerenti soprattutto il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli). Il volume è già sufficientemente ampio, per cui mi posso limitare, in questa occasione, ad un ricordo speciale, quello dell’amico Mario Vegetti, che ci teneva molto ad essere presente con un saggio. Rammento con affetto la sua ironia sui «dialogoni metafisici» fra me e Vigna che aprono questi volumi. Per il 2019, l’intenzione è di iniziare una trilogia sul pensiero platonico, cominciando con un collettaneo sulle Leggi, un dialogo relativamente poco indagato, rispetto almeno alla Repubblica. Tutto questo, come sempre, si potrà attuare – oltre che mediante la collaborazione di ottimi studiosi, negli anni divenuti amici – grazie alla passione culturale di Carmine Fiorillo, fondatore e “reggitore” di Petite Plaisance, al quale anche stavolta esprimo la mia vicinanza e gratitudine.
Luca Grecchi
Lucia Palpacelli
La pluralità metodologica nel pensiero aristotelico:tra teoria e prassi
Le diverse prospettive possibili per conoscere la realtà Ogni scienza considera lo stesso oggetto da punti di vista diversi Ogni scienza ha i suoi principi La relazione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: in sé e per noi La coscienza del limite umano nella conoscenza Il rapporto tra lo statuto ontologico dell’oggetto e il livello epistemologico L’estrema varietà della prassi metodologica L’approccio dialettico Un problema terminologico Alcuni esempi della movenza dialettica La diversa articolazione della movenza “dal generale al particolare” Da ciò che è più chiaro per noi a ciò che è più chiaro per natura Il valore dell’esperienza e dei fatti L’acqua più fredda che umida: la necessità teorica vince sul dato empirico La scienza non sbaglia, ma lo scienziato sì Considerazioni conclusive
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Diego Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune. Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [118]. In copertina: Anonimo, Il mondo sotto il berretto del matto, 1600 ca. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
Sotto il segno di Mercurio. Vita di Orazio, Osanna Edizioni 1992.
Johann Wolfgang Goethe, Nausicaa, a cura di Sotera Fornaro, Osanna Edizioni 1994.
ohann Wolfgang Goethe, Achilleide, a cura di Sotera Fornaro, Salerno editore 1998
Percorsi epici. Agli inizi della letteratura greca, Carocci 2003.
L’origine dell’epica va cercata nel bisogno umano di raccontare. Una città, una donna, una guerra, il viaggio: questi i nuclei tematici dei poemi di Omero, che si sviluppano attorno a racconti dalle radici antiche, a lungo tramandati oralmente prima di cristallizzarsi nella scrittura. La poesia omerica, agli inizi della letteratura greca, fu sempre nell’antichità considerata «divina», ed ancora suscita stupore per le sue infinite possibilità di lettura. Questo libro ripercorre alcune questioni e temi epici. Destinato a chi si voglia accostare all’epica greca arcaica, pur non conoscendo necessariamente il greco antico, il suo scopo è fornire un’introduzione alle opere che hanno condizionato l’immaginario letterario occidentale, recuperando perciò il gusto e la necessità della loro lettura, anche solo in traduzione. Nella prima parte sono contenute le premesse indispensabili per avvicinarsi all’epica con consapevolezza storica e letteraria; la seconda, invece, è un itinerario attraverso le immagini della poesia, esplicite e implicite, dei poemi di Omero e di Esiodo, per verificare come l’epica descriva se stessa. Le figure ed i concetti principali della storia degli studi omerici compaiono in forma di lemmi nel repertorio finale.
Introduzione alla filologia greca, a cura di Heinz-Günther Nesselrath e Sotera Fornaro, Salerno editore 2004.
L’Introduzione alla filologia greca fornisce un panorama della scienza dell’antichità greca e dei suoi attuali metodi e compiti. Il curatore si è avvalso della collaborazione di 25 specialisti tedeschi, austriaci, svizzeri, inglesi e italiani, concependo la struttura dell’opera in modo da offrire introduzioni dettagliate, affidabili e aggiornate alle singole discipline che insieme costituiscono un quadro completo della scienza dell’antichità. Questa nuova esposizione complessiva si rivolge agli studiosi di letteratura greca e di discipline affini (filologia classica, storia antica, archeologia): essa costituisce uno strumento per lo studio individuale, un sussidio didattico e una prima introduzione alle singole discipline. Edizione in brossura.
Introduzione alla filologia greca, a cura di Heinz-Günther Nesselrath, Sotera Fornaro, Salerno 2004
L’Introduzione alla filologia greca fornisce un panorama della scienza dell’antichità greca e dei suoi attuali metodi e compiti. Il curatore si è avvalso della collaborazione di 25 specialisti tedeschi, austriaci, svizzeri, inglesi e italiani, concependo la struttura dell’opera in modo da offrire introduzioni dettagliate, affidabili e aggiornate alle singole discipline che insieme costituiscono un quadro completo della scienza dell’antichità. Questa nuova esposizione complessiva si rivolge agli studiosi di letteratura greca e di discipline affini (filologia classica, storia antica, archeologia): essa costituisce uno strumento per lo studio individuale, un sussidio didattico e una prima introduzione alle singole discipline. Edizione rilegata.
Antigone. Storia di un mito, Carocci 2012.
Dalla messa in scena della tragedia di Sofocle ad Atene, nel V secolo a.C, la figura di Antigone non ha più conosciuto momenti di eclissi nella storia della letteratura, del teatro, del pensiero. Il suo mito ha posto e pone domande inderogabili: qual è il rapporto tra potere e giustizia? Quali sono i limiti della legge? Ci si deve opporre all’ingiustizia perpetrata dallo Stato? Il martirio è una forma utile di resistenza? Può il potere disporre del corpo del nemico? In che cosa consiste la diversità politica e di genere di Antigone? Ogni epoca ha risposto diversamente a tali questioni e ha prodotto un’Antigone sua propria: l’amante, la santa, la terrorista, l’ebrea torturata nei campi di concentramento, la ribelle di una gioventù bruciata. “Antigone” è diventato dunque un nome-simbolo, capace di rappresentare situazioni anche lontanissime dalla cultura occidentale e senza più alcun legame con il contesto in cui Sofocle scrisse e rappresentò la sua tragedia. Le ricezioni dell’Antigone sono perciò infinite: il libro offre una guida alle più significative di esse in ambito europeo, dal teatro greco antico sino ad oggi.
Walter Hasenclever, Antigone, a cura di Sotera Fornaro, Mimesis 2013
Scritta in trincea durante la prima guerra mondiale, l’Antigone di Walter Hasenclever denuncia l’insensatezza di tutte le guerre ed è un grido pacifista nel mezzo dell’orrore. L’Antigone greca, che paga con la vita la sua ribellione alle leggi dello Stato in nome di una legge divina non scritta ma inderogabile, diventa in questo dramma espressionista una profetica e rassegnata martire della violenza politica di ogni genere. È la vittima non solo di un sanguinario potere tirannico, ma anche di un proletariato sbandato e assetato di vendetta. Questa tragedia giovanile esprime l’oscuro presagio di una schiera di ‘demoni’ che avrebbero saputo conquistare le masse e portare alla catastrofe il mondo già provato da una prima, terribile guerra. Quella di Hasenclever è dunque la prima Antigone politica del XX secolo, stranamente sfuggita alla censura: va accostata all’Antigone del romanzo Novembre 1918 di Alfred Döblin e alla più celebre Antigone di Bertolt Brecht (1948). L’Antigone di Hasenclever da una parte, quella di Brecht dall’altra, sono infatti erme poste a confine di due momenti decisivi nella storia della cultura tedesca e, pur in una visione pessimistica della storia, esprimono attraverso il riuso di un mito antico la possibilità di ripartire dall’arte dopo essere giunti al punto zero della ‘civiltà’ europea.
Che cos’è un classico? Il classico in J. M. Coetzee, Edizioni di Pagina 2013
Che cos’è un classico? I classici svolgono un ruolo concreto nella vita? Per quale mistero hanno la capacità di infondere coraggio e forza alle vittime di poteri politici aberranti? Perché attraverso i classici accettiamo meglio la malattia e l’avvicinarsi della morte? Sono questi alcuni degli interrogativi a cui lo scrittore di origine sudafricana J.M. Coetzee risponde nei suoi romanzi e nei suoi saggi. Attraverso la scrittura di Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003 e oggi uno degli scrittori più famosi al mondo, questo libro riflette sul concetto di classico dal punto di vista di una classicista di mestiere e approda ad alcune seppur provvisorie conclusioni. Classico è ciò che è umano e si oppone alla barbarie; ciò che resiste e aiuta a resistere all’orrore e alla violenza. Classico è sempre un atto d’amore, per la vita, per l’umanità, per l’idea stessa dell’amore. Classico è quel che perdura, passando al vaglio del tempo e di giudici competenti. Classico è il cuore che cerchiamo in un mondo spesso senza cuore.
Antigone ai tempi del terrorismo. Letteratura, teatro, cinema, Pensa Multimedia 2016
Eidolon. Saggi sulla tradizione classica, a cura di Sotera Fornaro e Daniela Summa, Edizioni di Pagina 2013
Il riflesso, l’immagine, l’eidolon dei testi e delle opere ‘classiche’ ha continuato ininterrottamente a riverberarsi nella letteratura e nell’arte occidentale moderna e contemporanea; lo studio dei Greci ha condizionato la nascita e lo sviluppo delle istituzioni universitarie e museali; il confronto con la vita politica e sociale dell’antichità ha plasmato riflessioni filosofiche e storiografiche. I saggi qui raccolti offrono esempi di storia della tradizione classica dal XVIII secolo ad oggi. Marco Castellari scrive dell’Antigone di Bertolt Brecht rivista nel 2006 da George Tabori; Sotera Fornaro affronta il frammento drammatico Prometeo di Goethe; Mario Marino esamina un manoscritto inedito di Johann Gottfried Herder con annotazioni sul De rerum natura; Corinne Bonnet ricostruisce il ruolo attribuito a Cartagine nella Storia romana di Theodor Mommsen; Daniela Summa disegna un panorama delle vicende storiche e individuali che hanno accompagnato dagli inizi dell’Ottocento l’elaborazione del corpus epigrafico di Cipro; Carlotta Santini delinea il confronto sul mito tra Thomas Mann, Karoly Kerényi e Furio Jesi; Eleonora Cavallini tratta dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese e del giudizio che ne dette Italo Calvino.
Bernhard Zimmermann, La commedia greca. Dalle origini all’età ellenistica, a cura di Sotera Fornaro, Carocci 2016
Il libro è una storia della commedia greca, dei suoi autori, delle sue occasioni rappresentative e dei suoi contesti politici e sociali, dalle origini sino al III secolo a.C. Questa traduzione è condotta sulla nuova edizione del 2006 ed è arricchita da un’appendice originale sulle testimonianze epigrafiche della commedia greca, a cura di Daniela Summa, ricercatrice all’Accademia delle Scienze di Berlino. Zimmermann affronta la questione dell’origine della commedia greca, delinea le tappe del suo assurgere a genere letterario, ne esamina la struttura, la metrica, la musica, dà indispensabili notizie sull’architettura teatrale, la messa in scena, le maschere e i costumi; passa quindi in rassegna, con numerosi riferimenti antologici, i drammi traditi di Aristofane e quelli di Menandro, ma anche i frammenti degli autori della commedia “di mezzo” e “nuova”. Il volume si conclude con un panorama, in parte inedito, di storia della ricezione.
Agosto, Edizioni di Pagina 2017
Un ragazzo, Ahmed, dorme per strada; una donna lo scorge dalla sua finestra e decide di aiutarlo. Ha inizio così, in una notte d’estate, un legame difficile, che va avanti tra la comprensione e l’ostilità. Intanto, tra i vicoli stretti di una piccola città vicino al mare, accadono violenze inspiegabili e circolano misteri: forse si sta preparando un attentato. E chi è davvero l’enigmatica Bintou, la sorella silenziosa e discreta, che prega nella moschea e sembra animata da una irremovibile fede? In un crescendo d’ansia e di solitudine, trascorre un feroce agosto assolato. Dopo quel mese vissuto in sospeso tra desideri d’amore ed acute nostalgie del passato, nessuno sarà più lo stesso di prima.
Un uomo senza volto. Introduzione alla lettura di Luciano di Samosata, Pàtron 2019.
«Non conosco classico più classico di questo classico seriore, minore e manierista», scriveva nel 1974 Pier Paolo Pasolini recensendo i Dialoghi di Luciano, apparsi per i ‘Millenni’ di Einaudi con la prefazione di Leonardo Sciascia. Con la definizione di ‘classico’, il poeta di Casarsa intendeva descrivere la capacità di Luciano di vedere i «dettagli reali in modo tanto economico quanto incantevole», e di vederli con «occhio acuto e metallico», teso a incidere nella realtà a lui contemporanea, senza compassione, con l’attenzione alle piccole cose e alle meno appariscenti delle creature. Pasolini si identificava con lo scrittore antico, perché come lui soffriva della consapevolezza di trovarsi in un «vicolo cieco della storia, e della storia letteraria», e guardava all’ormai irrecuperabile passato con nostalgia: in tale buio della storia, presagio anche della fine imminente della propria vicenda individuale, Pasolini rileggeva Luciano, ritrovando e condividendo quel riso satirico impietoso della cultura del proprio tempo, con l’amara coscienza che, come lui stesso, Luciano «anziché corrodere, minare, demistificare – da filosofo ‘cane’ come il suo mitico Menippo – la propria cultura, corrode, mina e demistifica la vita stessa». Oggi, in un periodo che forse può definirsi da ‘fine del mondo’, nell’era della realtà virtuale e della post-verità, si vuole con questa introduzione invitare ancora alla lettura di quest’autore, di cui pure non sappiamo quasi nulla, tranne che veniva da Samosata, lontana città sull’Eufrate e che visse nel pieno II sec.d.C.. Un autore su cui l’antichità stese il silenzio, e che nei secoli è stato oggetto di giudizi antitetici, dall’ammirazione allo spregio. Un autore, dunque, destinato a restare un «uomo senza volto», come scriveva Alberto Savinio: ma i cui discorsi e dialoghi offrono ancora infinito materiale di riflessione, con il loro caleidoscopio di tipi umani e di caratteri, la derisione delle manie intellettuali e delle mode culturali, l’intelligenza nel comprendere il libro della vita per trarne mondi di fantasia, l’accuratezza con cui rappresentano la fenomenologia delle emozioni, l’uso delle immagini e della loro evocazione, il confronto originale con temi e generi tradizionali, l’esperienza delle arti non verbali e per-formative, la profonda umanità e la disincantata filosofia morale.
Berlino. Tra passato e futuro, Cue Press 2019
Il genere testuale della ‘guida turistica’ viene applicato alla materia del teatro. Un percorso attraverso i luoghi dove si consuma il rapporto con la cultura materiale, nello spazio vivo della comunità. Ma i teatri sono anche spazi e architetture capaci di svelare tracce di civiltà passate, luoghi meravigliosi per passare una serata e lasciarci raccontare, attraverso la loro storia e i loro spettacoli, la vita stessa della città. Poi lo spettacolo finisce, e la vita continua, allora saremo pronti a consigliarvi locali e ottimi ristoranti. Ancora, quindi, il teatro e la città: un luogo continuo e dinamico, energicamente legato all’epoca e al tessuto urbano in cui si inserisce, ecco quello che si respira nei teatri del mondo. Quante volte, visitando una capitale europea, vi siete chiesti: «Ma dove saranno i teatri?», «Quali saranno gli spettacoli più vicini al mio gusto?», «Quali artisti?». Allora, o restate in albergo, oppure leggete la nostra guida teatrale. Una serie progettata e realizzata insieme ad Andrea Porcheddu, che ci porterà in giro per il mondo: New York, Berlino, Londra, Tunisi, Hong Kong, Buenos Aires, Milano, Praga… Benvenuti a Berlino! Una città che è cambiata molto nel corso degli anni e in particolar modo nel secolo scorso, in cui si è trovata divisa in due sfere d’influenza; caotica ma meravigliosa, ricca d’arte e soprattutto di teatro, dal Berliner Ensemble di Brecht alla Volksbühne [teatro del popolo], nati nella DDR e tuttora teatri per antonomasia della capitale tedesca. Un tuffo nella peculiarità di questa città, di questa cultura che ha conosciuto artisti tra i più grandi di tutti i tempi.
Saffo, Ode all’amata, a cura di Sotera Fornaro, Mucchi 2020
Dei nove libri della poetessa greca Saffo ci sono rimasti solo sparuti frammenti, e solo una poesia per intero. Tuttavia quei versi attraversano i secoli, segnando la lirica amorosa e imponendo persino una nuova misura del sentimento d’amore; la figura evanescente di Saffo, amante disperata e donna teneramente innamorata, ha segnato l’immaginario occidentale ed è diventata l’archetipo del dissidio tra arte e vita, tra letteratura e sentimento. Anche i più celebri dei frammenti di Saffo, però, restano enigmi: così il fr. 31 Voigt, che è stato interpretato sia come l’ode della follia erotica e dei suoi sintomi fisici, sia come il canto più addolorato della gelosia. Innumerevoli sono le traduzioni di quest’ode, che ci è giunta mutila proprio alla fine, a partire da quella latina di Catullo. La prima traduzione italiana a noi nota data 1572, ed è di uno sconosciuto letterato dal nome Francesco Anguilla. In questa storia infinita, gli interpreti e i traduttori sono per lo più gli uomini: eppure l’ode di Saffo canta delle sensazioni, forti sino alla morte, provocate dall’amore di una donna verso un’altra donna. Così in questo libro si propongono 10 versioni, più o meno libere, talora riscritture, di dieci donne, dalla ‘Saffo del Cinquecento’, Gaspara Stampa, sino alle più vicine Iolanda Insana e Alda Merini.
Antigone. Usi e abusi di un mito dal V secolo a. C. alla contemporaneità, a cura di Sotera Fornaro e Raffaella Viccei, Edizioni di Pagina 2021
La figura di Antigone si aggira da secoli nelle culture e nei contesti più lontani e diversi: ripercorrere tutte le metamorfosi della figlia di Edipo appare perciò impresa impossibile. Molte zone d’ombra restano nella storia delle Antigoni e molte domande irrisolte. Ad esempio, poco note sono le rappresentazioni iconografiche del mito; quasi sconosciuta è l’Antigone sororale e politica del teatro italiano del Cinquecento. Cosa significano nel pensiero giuridico le ‘leggi non scritte’ di Antigone? Perché Antigone oggi può perdere la statura eroica e diventare personaggio da melodramma? Si può parlare di un ‘modello Antigone’ nella critica letteraria e nella scrittura delle donne? Altri interrogativi insoluti ci pone il testo stesso della tragedia di Sofocle, un classico globale quant’altri mai. Con alcuni di tali argomenti e questioni si misurano i saggi che abbiamo qui raccolto, conclusi dalle considerazioni di Massimiliano Civica per la ‘sua’ “Antigone” in scena.
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