Salvatore Bravo – La teoretica di E. Severino rimane in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico. Non resta che filtrare dal pensatore de «La Struttura originaria» gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente.

Emanuele Severino 02
Salvatore Bravo
La teoretica di E. Severino rimane in una condizione di indeterminatezza
che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico.
Non resta che filtrare dal pensatore de La Struttura originaria
gli elementi di inquietudine concettuale

che possono esserci di ausilio per decodificare il presente

 

Severino nel regno dell’impotenza
La metafisica di Emanuele Severino[1] è stata spesso tacciata di essere astratta ed avulsa dal contesto storico. La curvatura analitica della filosofia degli ultimi decenni impedisce, in realtà, di coglierne lo spessore critico implicito verso la fase avanzata del capitalismo. Emanuele Severino ha problematizzato la volontà di potenza del capitalismo assoluto, ne ha analizzato il fondamento che ne spiega gli automatismi sociali, psicologici ed economici. La hýbris è la verità tragica e terribile dell’onnipotenza della tecnica alleata del capitale. Il capitalismo assoluto è mosso dalla volontà di potenza e di annientamento della vita, in quanto ha assunto “il divenire” nelle sue forme polisemantiche quale dogma indiscutibile. Il divenire palesa la fragilità dell’essere umano esposto alla morte ed al pericolo della nullificazione. La paura di essere “niente”, di venire dal nulla e di ritornarne al nulla comporta il potenziamento della tecnica con la quale si cerca di neutralizzare il pericolo. In tale contesto il fine arretra fino a scomparire per lasciare il posto all’idolatria della tecnica e dei mezzi. Volontà, tecnica e capitalismo sono un corpo unico che si autoalimentano; la volontà di potenza è tecnica che diviene accumulo di capitale e vuole solo se stessa in un crescendo antisociale segnato dal tremendum. La società della paura partorisce mostri. Pertanto lo strumentalismo tecnico è la risposta all’ontologica paura che accompagna la vita umana. La paura in un crescendo senza limiti si trasforma in terrore. La tecnica con il suo potere è la risposta all’accelerazione della storia che liquida il passato senza prospettare il futuro. Si resta, in tal maniera, in un presente sospeso e, dunque, ci si consegna alla tecnica che assume una prospettiva soteriologica. Il regno dell’impotenza rafforza l’uso e l’abuso della tecnica in una spirale muscolare che cela l’impotenza dinanzi al divenire. La grande paura del divenire è da smascherare come “semplice apparenza destinale”, nel cui abbaglio si consolida la spirale di violenza, la filosofia ha il compito di liberare dalla paura, di rispecchiare il disvelamento destinale dell’essere negli essenti:

 

“Evitare che il fine ostacoli e indebolisca il mezzo significa assumere il mezzo come scopo primario, cioè subordinare ad esso ciò che inizialmente ci si proponeva come scopo. Le grandi forze della tradizione occidentale si illudono dunque di servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi: la potenza della tecnica è diventata in effetti, o ha già incominciato a diventare, il loro scopo fondamentale e primario. E tale potenza – che è lo scopo che la tecnica possiede per se stessa, indipendentemente da quelli che le si vorrebbero far assumere dall’esterno – non è qualcosa di statico, ma è indefinito potenziamento, incremento indefinito della capacita di realizzare scopi. Questo infinito incremento è ormai, o ha già incominciato ad essere, il supremo scopo planetario[2]”.

 

Divenire e principio di non contraddizione
La filosofia di Severino è, dunque, la risposta alla grande paura mediante la metafisica dell’essere. Per neutralizzare il “male” nei suoi fondamenti pone in discussione il principio su cui si fonda il divenire: il principio di contraddizione. Esso si nega nel suo porsi, poiché implica e giustifica l’assurda opposizione tra essere e nulla su cui si fonda il divenire. Il principio di non contraddizione, invece, deve indicare l’opposizione della parte con il tutto, o l’opposizione tra gli essenti nel loro apparire. Il divenire dev’essere sostituito con l’apparire e lo scomparire degli essenti, questi ultimi sono eterni: ogni attimo, ogni gesto è eterno, poiché ciò che c’è non può diventare nulla, in quanto è iscritto nell’essere degli essenti la loro eternità. L’iperparmenideo Severino dimostra che l’essente non può diventare nulla, perché è. Se ogni ente è già nell’essere, non può tornare nel nulla. L’essente appare e scompare dall’orizzonte di visibilità della coscienza, ma prima e dopo il suo apparire non era nulla, bensì semplicemente era in un altro apparire. Il concetto di essere ha nel suo grembo, quindi, la negazione del nulla: logicamente ed ontologicamente ciò che è non può che essere eterno (gli eterni):

 

“L’aporia dell’essere del nulla è risolta col rilevare che il principio di non contraddizione non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio [ossia la contraddizione in cui consiste il significato nulla] ma afferma che «nulla» non significa «essere» […]. Il non essere, che nella formulazione del principio di non contraddizione compare come negazione dell’essere, è appunto il non essere che vale come momento del non essere, inteso come significato autocontraddittorio. [Dunque], certamente il nulla è; ma non nel senso che «nulla» significhi «essere»: in questo senso, il nulla non è, e l’essere è – ed è questo non essere del nulla ed essere dell’essere, che viene affermato dal principio di non contraddizione[3]”.

 Il principio di non contraddizione in Aristotele è l’espressione più vera del destino dell’Occidente planetario: è il regno del “niente” e del “nichilismo”, poiché il divenire con il terrore che esso comporta ha colonizzato l’intero pianeta. La tecnica da salvezza utopica è diventata distopia distruttrice che annichilisce e nientifica. Ciò che avrebbe dovuto scongiurare è di conseguenza pienamente realizzato. La globalizzazione della tecnica alleata con l’economicismo ha moltiplicato il terrore con i suoi effetti, la sopravvivenza del pianeta è minacciata, per cui la cura si è mostrata peggiore del male che avrebbe dovuto curare:

 

“L’Occidente è la civiltà che cresce all’interno dell’orizzonte aperto dal senso che il pensiero greco assegna l’essere-cosa delle cose. Questo senso unifica progressivamente, e ormai interamente la molteplicità sterminata degli eventi che chiamiamo «storia dell’Occidente», e domina ormai su tutta la terra: l’intera storia dell’Oriente è così diventata anch’essa preistoria dell’Occidente. Da tempo i miei scritti indicano il senso occidentale – e ormai planetario – della cosa: la cosa (una cosa, ogni cosa) è, in quanto cosa, niente; il non-niente (un, ogni non-niente) è, in quanto non-niente, niente. La persuasione che l’ente sia niente è il nichilismo. In tal senso abissalmente diverso da quello d Nietzsche e Heidegger, il nichilismo è l’essenza dell’Occidente[4]”.

La paura è il sentimento analizzato da Heidegger in Essere e tempo, in Severino come in Heidegger la paura (Furcht) e l’angoscia (Angst) divengono condizione ontologica ed esistenziale, sono astratti dalla condizione materiale storica con l’effetto di non essere spiegati nella loro genealogia immanente legata ai processi produttivi.

 

Limiti della metafisica in Severino
Severino indica il problema, ma non lo traduce in conflittualità sociale. Addita nella tecnica, similmente ad Heidegger, un destino da trascendere mediante la ridefinizione ineluttabile dei fondamenti della civiltà. L’essere umano è il custode del destino della metafisica, ma si limita a rispecchiare l’apparire dell’essere, a costatare il destinale apparire degli essenti, anziché la propria e la loro nullificazione. Il fondamento veritativo (l’essere degli essenti) è sfuggente ed indefinibile, in quanto Severino esclude che sia Dio, ma non lo configura in senso positivo. Il presunto fondamento si presta ad un prospettivismo interpretativo che ripropone il nulla in modo altro. I grandi passaggi della storia sono segnati dallo svelarsi dell’essere, l’esser umano deve solo “rispecchiare” l’accadere

 

“Gli eventi improvvisi non hanno radici e quindi scompaiono altrettanto rapidamente di come sono venuti. Ma gli eventi improvvisi, proprio perché tali, sono i più percepibili. Di essi chiunque può dire, e a buon diritto, che “assiste” alla loro comparsa e alla loro scomparsa. I grandi eventi, preparati da lungo tempo e non improvvisi, sono quindi i meno percepibili. Gli spettatori che assistono al loro farsi avanti sono quindi molto pochi. Chi direbbe, guardando il sole nelle prime ore del pomeriggio, che il suo declino ver.so occidente e già incominciato? Ben pochi. ma senz’altro l’astronomo. Lui sì sta “assistendo” all’inizio del tramonto. L’astronomo parla così in relazione auna certa struttura concettuale notevolmente complessa. Anche nel mio libro, a sua volta, si parla di declino del capitalismo in relazione a una certa struttura concettuale notevolmente complessa (che però ed era prevedibile – nulla ha a che vedere con il pensiero di Marx)[5]”.

 

La metafora astronomica utilizzata da Emanuele Severino non è casuale, ma svela la passività con cui l’essere umano deve attendere ed adeguarsi alla manifestazione dell’essere. L’emancipazione è privata del fondamento umano e storico e proiettata nel destino dell’essere che diviene il vero protagonista della storia. L’essere coniuga essenza ed esistenza nella totalità degli essenti, è nella storia e ne determina gli eventi. La libertà è sostituita da una rassicurante necessità. Si opera una scissione tra teoria e prassi con esiti che favoriscono il consolidamento dell’economicismo scientista. Il pericolo dell’astratto è insito nel rifiuto di analizzare le responsabilità politiche, sociali e materiali della condizione attuale. La filosofia di Severino è per tutti e per nessuno, non vi è un soggetto materiale e concreto a cui si rivolge, pertanto la prassi è sostituita dal destino. Il capitalismo cadrà a causa del potenziamento automatico della potenza tecnica, la quale dissolverà la scarsità che spinge alla produzione. Le macchine, nel loro vorticoso affinamento tecnico, produrranno un’infinita quantità di merci che risolveranno la scarsità. Le responsabilità umane si obliano dietro le ferree leggi sovraumane, si proietta nell’alto dei cieli il positivismo tecnocratico che si critica in terra: il determinismo regna sovrano. Non sono indicati i soggetti che dovrebbero operare per trasformare il divenire in apparire. Pertanto ricade in una forma di impotenza teoretica senza prassi e progetto. Il logos in Severino deve appurare l’apparire e lo scomparire degli essenti. Cade la sua funzione principale, ovvero la capacità di misurare e di porre fini oggettivi. L’emancipazione consiste nel liberarsi del Dio tradizionale che stabilisce l’essere e il nulla degli essenti, mentre per Severino tutti gli esenti sono eterni, non vi è un essente privilegiato in cui essenza ed esistenza coincidono:

 

“Ogni ente è eterno. Quindi è eterno anche quell’ente che è lo stesso accadere dell’ente […]. L’ente che accade […] e il suo accadimento è un eterno; quindi è necessario che l’ente accada. Nemmeno la sintesi tra l’ente che accade e il suo accadere può non essere (ossia esser niente)[6]”.

Si potrebbe intravedere nell’eternità di tutti gli essenti un principio di uguaglianza da tradurre in equa distribuzione dei beni materiali ed immateriali e superamento delle logiche padronali con il ritrarsi del Dio signore e padrone, ma Severino non conduce il suo sistema metafisico verso la prassi. La filosofia e la politica, la teoria e la prassi sono rescisse, si ricade nella filosofia dell’impotenza, in un “nichilismo onto-metafisico”.

 

Filosofia e prassi
Riportare la Filosofia alla sua verità significa sottrarsi alla frammentazione specialistica per ridisporsi verso la verità:

 

“la filosofia da città è diventata radura, e le vie che la collegano alle circostanti regioni sono ormai autostrade[7]”.

La filosofia, prima che si disperdesse in innumerevoli specializzazioni, era attività politica. Non è un caso che nel testo riportato Severino la paragoni ad una città; essa ha avuto origine nella polis, dove la parola dialogante fondava la politica sull’universale condiviso, sulla verità che, in tal modo, fondava la politica comunitaria in un orizzonte di senso mediante il “katà métron”. Severino rifiuta la tradizione metafisica greca e cristiana, in quanto si fondano sul principio di non contraddizione e nel divenire, e di fatto recide il legame con la tradizione filosofica. La teoretica di Severino resta in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico e dunque rischia un asfittico isolamento intellettuale indebolendone, come rileva Luca Grecchi, il piano ontologico:

 

“L’assenza di una precisa statuizione del fondamento ha condotto anche il pensiero di Severino ad una certa indeterminatezza, nonché all’assenza di un conseguente piano assiologico. Il nostro autore ha infatti dichiarato false tutte le strutture morali derivate dalla grande metafisica greca e cristiana, poiché la stessa metafisica è da lui considerata falsa, «identificando l’essere al niente». Il piano assiologico – umanistico e pertanto non vero – è dunque escluso dall’analisi di Severino[8].

Non resta che filtrare dal pensatore de La Struttura originaria (1958) gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente. Severino ripone al centro la totalità e l’arte di porre domande profonde senza le quali non vi è futuro e non vi è passato, per cui le domande che si levano devono essere accolte. E, come avviene nella storia della filosofia, ci invitano ad altre risposte e soluzioni. Ma senza l’incipit della domanda nulla può iniziare. I percorsi per uscire dal “sentiero della notte” sono plurali. Per poter avviare l’esodo nessuna domanda e nessun ipotetico percorso dev’essere respinto, ma vagliato con il logos, ogni respingimento preconcetto ci riporta nel “sentiero della notte”.

Salvatore Bravo

[1] Emanuele Severino (Brescia, 26 febbraio 1929 – Brescia, 17 gennaio 2020). 

[2] Emanuele Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 2009, pp. 8-9.

[3] Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 215.

[4] Emanuele Severino, ἀλήθεια in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 415.

[5] Antonio Sabatucci, Emanuele Severino: la morte del capitalismo, p. 16

[6] Emanuele Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 97.

[7] Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano 1986, p. 5.

[8] Luca Grecchi, Nel pensiero di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2005, p. 88


Luca Grecchi, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino.

ISBN 978-88-7588-092-7, 2005, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [4].
In copertina: Auguste Rodin, La Pensée. 1886, marmo, h. cm. 74. Musée d’Orsay.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Max Horkheimer, Theodor W. Adorno – Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, nell’atto stesso della loro produzione. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata.

Max Horkheimer, Theodor W. Adorno

 «[…] l’istanza del pensiero calcolante […] organizza il mondo ai fini dell’autoconservazione e non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell’oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento. La vera ragione […] si rivela da ultimo, nella scienza odierna, come l’interesse della società industriale. L’essere è visto sotto l’aspetto della manipolazione e dell’amministrazione. Tutto diventa processo ripetibile e sostituibile, semplice esempio di moduli concettuali del sistema: anche il singolo uomo […].
Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, nell’atto stesso della loro produzione, secondo i moduli dell’intelletto conforme al quale dovranno essere contemplate» (pp. 92-93).

«L’industria culturale assolutizza l’imitazione. Ridotta a puro stile, ne tradisce il segreto, l’obbedienza alla gerarchia sociale. […] Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura. Il denominatore comune “cultura“ contiene già virtualmente la presa di possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno dell’amministrazione. Solo la sussunzione industrializzata, radicale e conseguente, è pienamente adeguata a questo concetto di cultura» (p. 141).

«L’arte seria si è negata a coloro cui il bisogno e la pressione dell’esistenza rendono la serietà una beffa, e che sono, di necessità, contenti quando possono trascorrere passivamente il tempo […]. Ma il nuovo è che gli elementi inconciliabili della cultura, arte e svago, vengano ridotti, attraverso la loro sottomissione allo scopo, a un solo falso denominatore: la totalità dell’industria culturale. Essa consiste nella ripetizione» (p. 146).

«Il preteso contenuto è solo una pallida facciata; ciò che si imprime è la successione automatica di operazioni regolate. […] lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo – che si squaglia appena si rivolge alla facoltà pensante –, ma attraverso segnali. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata. […] L’idea stessa viene, come gli oggetti del comico e dell’orribile, lacerata e fatta a pezzi» (p. 148).

«L’odierna fusione di cultura e svago non si compie solo come depravazione della cultura, ma anche come spiritualizzazione forzata dello svago» (p. 155).

«L’industria culturale è interessata agli uomini solo come ai propri clienti e impiegati, e ha effettivamente ridotto l’umanità nel suo insieme, come ognuno dei suoi elementi, a questa formula esauriente» (p. 158).

«Nell’industria culturale l’individuo è illusorio non solo per la standardizzazione delle sue tecniche produttive. Esso è tollerato solo in quanto la sua identità senza riserve con l’universale è fuori di ogni dubbio […]. La pseudoindividualità è la premessa del controllo e della neutralizzazione del tragico […] L’industria culturale può fare quello che vuole dell’individualità solo perché in essa, da sempre, si è riprodotta l’intima frattura della società» (pp. 166-167).

«Il modo in cui una ragazza accetta e assolve il suo date obbligatorio, il tono della voce al telefono e nella situazione più familiare, la scelta delle parole nella conversazione, e l’intera vita intima, ordinata secondo i concetti della psicoanalisi volgarizzata, documenta il tentativo di fare di sé l’apparecchio adatto al successo, conforme, fin nei moti istintivi, al modello offerto dall’industria culturale. Le reazioni più intime degli uomini sono così perfettamente reificate ai loro stessi occhi che l’idea di ciò che è loro specifico e peculiare sopravvive solo nella forma più astratta: personality non significa – per loro – praticamente più altro che denti bianchi e libertà dal sudore e dalle emozioni. È il trionfo della réclame nell’industria culturale, l’imitazione coatta, da parte dei consumatori, delle merci culturali pur scrutate nel loro significato» (p. 180).

Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1971.

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Tito Perlini (1933-2013) – Il pensiero di Marcuse ha una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, ma arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo.

Tito Perlini 02

Marcuse ribadisce, in questo testo, alcuni punti caratteristici del suo pensiero che egli tiene ben fermi. Essi sono:

1) Nel capitalismo persiste la tendenza al crollo anche se essa è impedita ad attuarsi dalla contro-tendenza che spinge il capitalismo stesso a configurarsi come totalità integrata ed integrante.

2) Qualsiasi attesa del crollo basata sull’idea della sua inevitabilità è da scartare per il fatto che la teoria, facendola propria, degenera in falsa coscienza rinunciando a porsi, insieme alla pratica, come elemento della trasformazione senza la quale il crollo stesso è impensabile come premessa al socialismo, potendo rivelarsi, se non scongiurato, come qualcosa di catastrofico, tale da provocare una ricaduta nella barbarie.

3) La battaglia decisiva per il rovesciamento del modo di produzione capitalistico deve aver luogo al livello più alto e dimostrare di saper spezzare l’« anello più forte della catena» poiché senza l’intensificarsi di tendenze di segno anti-capitalistico, rivolte ad una rottura di tipo rivoluzionario, nei paesi «avanzati» dell’occidente, il «socialismo realizzato» (per la complementarietà stessa dei due blocchi facenti capo a USA e URSS che, pur restando in contrasto, sono soggetti ad un’unica logica e si integrano e sorreggono a vicenda all’interno di una situazione che favorisce il capitalismo) resterà invischiato nelle sue deformazioni e le tendenze centrifughe producentisi nell’ambito del cosiddetto Terzo Mondo continueranno a venir riportate, con la violenza o mediante forme di subordinazione o integrazione economica, entro l’alveo degli interessi capitalistici capaci di strutturarsi su scala mondiale.

4) È presente nella pratica radicale, che, sola, oggi può nella metropoli del capitale porre le premesse per la rivoluzione, un aspetto libertario e anti-autoritario, che è l’espressione spontanea, soggettiva della rivolta stessa, la quale critica, giudicandole inadeguate all’ampiezza della trasformazione, le forme tradizionali della pratica che si qualificava come rivoluzionaria (il che implica il rifiuto di ogni forma di marxismo reificato e la rinuncia ad ogni tentazione centralistico-burocratica).

Quest’ultimo punto, riaffermato con decisione, lascia comunque drammaticamente aperto il problema del rapporto tra spontaneità ed organizzazione. Marcuse si rende conto che l’appassionata affermazione dei diritti che spettano alla prima non annulla il nodo intricatissimo di problemi posti dal prospettarsi della seconda alla stregua di una necessità ineludibile. Circa una possibile soluzione di questo che è da sempre il punctum dolens del marxismo Marcuse non riesce che a fornire indicazioni vaghe. La parte «positiva» del suo discorso, che insiste sulla necessità per la nuova sinistra di forme di organizzazione decentrate e del ricorso ad un’autogestione cui vengono dedicati solo fugaci accenni, appare francamente come la più debole. Marcuse, del resto, ne è conscio. Di una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, il pensiero di Marcuse arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo. Una siffatta insufficienza, del resto, non è senza rapporto con la condizione oggettiva entro la quale la teoria critica si dibatte. Il problema dell’organizzazione è il più delicato anche perché, una volta rifiutati sia l’esaltazione tecnocratica dell’organizzazione elevata come tale a valore sia il mito di una spontaneità rivoluzionaria allo stato puro, resta l’obbligo di fare i conti con quella razionalità puramente formale e strumentale con cui il sistema di dominio fa tutt’uno, la quale, anche se negata alle radici, continua pur sempre a riprodursi all’interno di qualsiasi forma organizzativa per «alternativa» questa possa valersi e per vigile possa essere l’impegno di coloro che vi aderiscono a mantenersi immuni dagli effetti esercitati dalla ratio del dominio. E questa una contraddizione che resta irrisolta. Qui il discorso di Marcuse appalesa limiti ben precisi, che non sono certamente solo suoi. Ciò che continua, però, a suscitare simpatia e ammirazione è l’energia davvero indomabile con cui questo grande vecchio, ultimo esponente ormai di una schiera di intellettuali formatisi nel clima saturo di attese messianiche del periodo seguente alla prima guerra mondiale fedeli al retaggio della filosofia classica tedesca e decisi a far propria la causa degli oppressi, a porsi dalla parte di coloro cui viene negata la speranza, continua a ribadire con tenacia, ad onta di ogni smentita apparentemente definitiva da parte dell’accadere storico, la sua non fideistica fiducia, sorretta dal lucido pessimismo della ragione critica, nella capacità degli uomini di giungere a far proprie le possibilità concrete atte a permettere la trasformazione del mondo.

Tito Perlini, Introduzione a Herbert Marcuse, Teoria e pratica, Shakespeare and Company di Guseppe Recchia, Brescia 1979, pp. 35-37.


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015
Tito Perlini (1933-2013) – La rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare sé stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Romano Guardini (1885-1968) – L’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. È nostalgia di evadere dalla dissipazione, divertere dal superficiale, ricoverarsi nel mistero delle cose ultime, è ricerca della semplicità ricca di contenuto. Malinconia è desiderio d’amore, desiderio di unità vivente.

Romano Guardini 02

[…] La spinta verso il nascondimento e verso il silenzio non significa già timore di scontrarsi con la realtà che facilmente ferisce, quanto significa, in ultima analisi, l’interiore gravitare dell’anima verso il grande centro; significa spinta violenta verso l’interiorità e l’approfondimento, verso quella regione, dove la uscita che sia dal caos di ciò che è pura casualità, entra in sicuro porto; dove la vita, sganciata dalla molteplicità delle singole manifestazioni, dimora nella semplicità del fondo delle cose: semplicità ricca di contenuto. È la nostalgia di evadere dalla dissipazione, per ricuperarsi nel raccoglimento del tutto; di sfuggire all’abbandono di chi si sente in preda all’esistenza esteriore, e vuol stare invece nel riserbo e nella protezione del santuario; di divertire da ciò che è superficiale, e ricoverarsi nel mistero delle cause ultime: la nostalgia dei grandi malinconici verso la notte e le Madri.

Albrecht Dürer – Melencolia I, La Malinconìa, 1514.

Malinconia vuol dire connessione con l’oscuro fondo dell’essere – e «oscuro», in questa accezione, non comporta senso peggiorativo. Non significa contrasto con la luce, la quale è bella ed è buona. Non significa «tenebra», significa il vivo controvalore della luce. […]
Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. Splendono chiari, a lui, i colori del mondo; a lui risuona con dolcezza più intima, la musica interiore. […] Dall’essere del malinconico sbocca e trabocca a fiotti la vita; a lui come a nessuno, dato di esperimentare la sfrenatezza dell’intera esistenza. Sempre, credo io, connessa con la bontà. Connessa col desiderio che la vita si svolga secondo la bontà e la gentilezza, e sia benefica per gli altri. […]
Qui proprio siamo al cuore della malinconia, la quale, in ultima analisi, non è altro se non desiderio d’amore. Amore, in tutte le sue forme, in tutti i suoi gradi; dalla sensibilità più elementare, sino al più alto amore dello spirito. Lo slancio vitale, il cuore della malinconia è l’Eros: desiderio d’amore e di bellezza. […] Poiché una natura amante sta aperta. È disposta a passare dall’altra parte, è disposta ad accogliere, a dare e a ricevere. È fiduciosa. Non sta in guardia. Prova dolore della transitorietà delle cose, soffre perché le viene tolto ciò che ama. La bellezza vivente è sempre passeggera. E al fianco della bellezza sta la morte. Nondimeno, quasi a difesa estrema contro tutto ciò, ecco la nostalgia di ciò che è eterno e infinito, di ciò che è assoluto; nostalgia di ciò che semplicemente è perfetto; di ciò che è inaccessibile e riposto, profondo al massimo, e interiore; di ciò che è intangibile e aristocratico, nobile e prezioso.
È desiderio di ciò che Platone affermò essere il vero fine dell’Eros: del bene supremo, il quale a un tempo è la vera e propria realtà, ed è la bellezza in sé e per sé, imperitura, sconfinata; è desiderio d’impadronirsi di tale realtà, che sola può compierci, di assumerla e assorbirla, di riunirci a lei. Cosa davvero singolare, e che può essere seguita e constatata attraverso tutta la storia della umana ricerca e dell’umano pensare: noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito; una volontà di distinguerci, in maniera particolare e con particolare intensità, nell’atto stesso di impadronirci di tale assoluto. Non basta a noi di riconoscerlo, e assumerlo nelle nostre azioni con una volontà eticamente cosciente; c’è in noi un desiderio di unione, di contatto da essere a essere; un desiderio di immergerci, bere ed essere dissetati. Un desiderio di unità vivente.
[…] L’anima disposta da natura alla malinconia è sensibile ai valori, li desidera. Desidera ciò che è prezioso al massimo grado, desidera il sommo bene. Con tutto ciò, par quasi che proprio questo desiderio dei supremi valori le si rivolti contro, poiché vi si accompagna, di regola, come un senso dell’impossibilità di ottenerli. Senso, che può associarsi a determinate esperienze: qui, di aver fallito in tali e tali cose; lì, di aver mancato al dovere; altrove, ancora, di aver perduto tempo, d’essersi giocato non so che d’irrecuperabile … Non sono se non appigli a qualcosa di più profondo: al senso dell’impossibilità, che in certo qual modo accompagna e quasi previene quella nostalgia. […]

Romano Guardini, Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia 2006, pp. 57-67.


Romano Guardini (1885-1968) – Chi non ama la vita non ha pazienza con essa: la pazienza è l’uomo in divenire che comprende giustamente se stesso, è una forza tranquilla e profonda
Romano Guardini (1885-1968) – Non basta fare il bene, ma occorre anche farlo nel modo giusto. Si deve scegliere e si può ottenere qualcosa di più alto solo se si rinuncia a ciò che è più basso. L’esistenza dell’uomo che vive in modo degno implica questa trasposizione ad un piano più alto.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giuliano De Marco – Percorsi metafisici.     Sulle tracce di Giovanni Romano Bacchin (1929-1995), il professore-artigiano, uno dei più grandi pensatori italiani del Novecento.

Giovanni Romano Bacchin - Giuliano De Marco

Giuliano De Marco

Percorsi metafisici

Sulle tracce di Giovanni Romano Bacchin (1929-1995)

    ***

La lettura di Theorein, la seconda delle opere postume di Giovanni Romano Bacchin (la prima è Haploustaton, Firenze, Arnaud,1995), si presenta alla stregua di una scalata in montagna, dove si procede a piccoli passi, con l’obiettivo di arrivare in alto, magari in cima. E al termine delle seicentoventotto pagine del volume, pubblicato da Aracne editrice, nel 2017, grazie al lavoro paziente e minuzioso del prof. Giovanni Castegnaro, che ne ha curato l’edizione – potendo contare sul dattiloscritto originale, ricevuto dalla vedova di Bacchin, la prof.ssa Cesira Crocesi, e su una copia pro manuscripto, conservata dal prof. Aldo Stella –, si viene colti da quella vertigine che si placa solo di fronte alla visione d’insieme, garantita dall’unità dello sguardo.
Ad accompagnarci lunga la strada, le parole commosse di un suo grande amico, il prof. Enrico Berti, uno dei più autorevoli studiosi di Aristotele a livello mondiale, che nella Prefazione fornisce tutti gli elementi per ripercorrere i passaggi centrali della vita e delle opere di Bacchin: dagli anni giovanili alla vocazione sacerdotale (poi abbandonata, mai rinnegata), fino al matrimonio religioso e alla docenza, da Perugia a Padova, interrotta da quel malore improvviso sulla spiaggia di Rimini, una mattina di gennaio del 1995.
A più di vent’anni da quel tragico evento – rimasto vivo nella memoria di studenti e colleghi –, Berti rende onore alle notevoli capacità speculative del collega, ritenuto

«uno dei più grandi pensatori italiani del Novecento, ma che purtroppo pochissimi conoscono, perché non fece una grande carriera accademica, non frequentò congressi o periodici, non pubblicò con case editrici dalla grande distribuzione. Credo di essere tra i pochi che possono fare questo, almeno in parte, perché l’ho conosciuto prima di tanti suoi allievi, amici e ammiratori, ed ho trascorso vicino a lui il periodo decisivo della sua, e della mia, formazione filosofica» (dalla Pref., p. 9).

Ma chi era in realtà Giovanni Romano Bacchin, il professore-artigiano che concepiva la filosofia vissuta in presenza, parola dopo parola, senza alcun presupposto? Era un seminatore di talenti, distribuiti al suo personalissimo auditorium metafisico, fatto non solo di giovani, pronti a confrontarsi sotto la sua guida, continuamente, con i grandi della storia del pensiero; e infatti «alle sue lezioni – ricorda sempre Berti nella prefazione – accorrevano anche anziani, impiegati, preti, professionisti, tutti affascinati dal suo modo di parlare e, soprattutto, dal suo modo di pensare e di far pensare» (dalla Prefazione, p. 13).

Aveva questo carattere coinvolgente Bacchin, sempre alle prese con domande cruciali, stringenti, mai consolatorie sui tanti perché dell’esperienza (domande che si ponevano e fluivano nello stesso istante in cui venivano formulate); ed era talmente concentrato sulla riflessione filosofica da non dare peso alla sua vicenda professionale, alle opportunità di progredire nella carriera accademica. Se non fosse stato per Berti, che era a capo dell’Istituto e lo segnalò alla facoltà, Bacchin, forse, non avrebbe mai ricevuto l’incarico d’insegnare Filosofia teoretica a Padova.

Ma veniamo al tema fondamentale del testo – che raccoglie gli scritti e le meditazioni di Bacchin durante cinque corsi accademici, tra il 1978 e il 1983 (come ricorda Giovanni Castegnaro nella sua nota editoriale) – e cioè a quel ragionamento filosofico nella sua espressione originaria, vissuto così da Bacchin:

«La metafisica non è più tale se essa risulta comprensibile. Se essa risulta ‘comprensibile’ già non è più metafisica, stante che la funzione sua propria verrebbe espletata da ciò che la ‘comprende’: non solo la metafisica è incomprensibile, l’incomprensibilità è l’essenza stessa della metafisica, appunto perché lo ‘oltre’ non può venire compreso da ciò che esso oltrepassa per definizione» (G. R. Bacchin, Theorein, Aracne editrice, Roma, 2017, p. 20).

Quindi, non un punto di partenza qualsiasi, un riferimento oggettivo per il classico avvio di una discussione, ma qualcosa che fosse infinitamente più stimolante: lo sfondo teoretico di una libertà liberante da ogni costrizione preliminare, «perché ogni parola è un progetto» – sono parole di Bacchin – e non ci sono acquisizioni date; dal momento che «una richiesta che preceda la domanda di verità non può essere vera» (G.R. Bacchin, Theorein, cap. 1.27, p. 94).
Tutto il volume è attraversato da questa volontà di farsi sostenere dalla sola forza delle argomentazioni dialettiche (che si susseguono nei quattro capitoli, densissimi, di Theorein), per documentare, dopo un confronto con la critica del pensiero moderno e contemporaneo – da Cartesio a Kant, fino a Hegel e Husserl – quanto sia ingenuo il tentativo di fondare la scienza e la filosofia sull’esperienza immediata.
Su questa corda invisibile si è mosso Bacchin, che aveva a cuore una cosa su tutte: poter accogliere le scoperte del suo periodare, farsi tutt’uno con la sua ricerca, ricevere linfa vitale da quel «domandare che è un tutto domandare», dalla «problematicità pura» della filosofia – come l’aveva definita il suo maestro Marino Gentile –; cioè inseguire la domanda sul perché di tutta l’esperienza, per trasformarla in una domanda di senso globale ancora più radicale, che reclama un principio trascendente in grado di spiegare tutta la storia umana. (Sulla problematicità pura si veda M. Gentile, Filosofia e umanesimo, La Scuola Editrice, Brescia 1947, p.12 e sgg.). E nel voler rielaborare il pensiero di Gentile, Bacchin fece due osservazioni fondamentali, come sottolinea Berti, sempre nella prefazione:

«1) La problematicità pura è ‘improblematizzabile’, perché ogni tentativo di problematizzarla, cioè di metterla in discussione, è un atto di problematicità, e dunque non fa che riproporla. Era questo un argomento simile a quello usato da Descartes a proposito del dubbio: il dubbio è indubitabile, perché ogni tentativo di dubitarne non fa che riproporlo. Esso dunque mostrava che la problematicità pura era il punto di partenza innegabile, inconfutabile, incontrovertibile, della filosofia , che rispetto al dubbio cartesiano aveva il vantaggio di non essere un atto soggettivo, interno, privato, ma di essere l’espressione dell’intera esperienza, la quale non si presentava più come un oggetto esterno rispetto al soggetto, secondo il dualismo tipico dell’intera filosofia moderna, ma faceva tutt’uno col soggetto, era insieme soggetto esperiente, oggetto esperito e atto dell’esperire. Guadagno, quest’ultimo, dell’idealismo di Hegel, prima, e di Giovanni Gentile, poi.

2) La problematicità pura – seconda osservazione di Bacchin – non è solo il punto di partenza della filosofia, cioè la semplice posizione del problema metafisico, cui debba seguire una soluzione diversa secondo, ad esempio, il percorso indicato da Padovani. Essa è già di per sé l’intero discorso metafisico, perché manifesta l’insufficienza dell’esperienza a spiegare sé stessa e quindi è già di per sé la richiesta, la domanda, ma una domanda insopprimibile e ineludibile (grazie alla sua ‘improblematizzabilità’) di un principio trascendente, cioè dell’intera metafisica».

(dalla Pref., pp. 11 e 12).

Di questo percorso, consumato in 35 anni di esperienze accademiche – molte delle quali condivise da Giovanni Romano Bacchin con Enrico Berti e Franco Chiereghin, il triangolo, come li chiamava Marino Gentile – il volume Theorein si fa testamento di vita e progetto mai completamente realizzato, come aveva intuito lo stesso Bacchin, già nei primi anni Sessanta, quando prese consistenza la sua vocazione all’indagine metafisica. E infatti scriveva così:

«Ogni sfasamento ed ogni alterazione della metafisica – scriveva – sono dunque per se stessi alterazione e quindi dimenticanza del senso dell’ essere o decadimento dell’essere ad un senso che per non esser il suo è, piuttosto, un non-essere; altra giustificazione non ha infatti la metafisica se non l’autenticità  del senso in cui essa è considerazione dell’essere, autenticità che è poi l’essere stesso nel suo porsi, perché svelare l’essere significa almeno lasciare che esso sia ciò che è, semplicemente, indipendente da qualsiasi intervento su di esso» (G.R. Bacchin, Intero metafisico e problematicità pura, sta in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, vol. LVII, n. 2-3, 1965, p. 305).

Un brano che lascia intravedere il criterio costante, il tormento, il fuoco, la molla che ha tenuto fermo Bacchin al suo programma di lavoro; perché pensare in questo modo, con lui, significa, ancora oggi, voler navigare nelle fessure della realtà, intesa come storia complessiva dell’uomo. Vuol dire penetrare nelle fibre più sottili della sua struttura, dove non ci sono detriti, sedimenti di adulterazione o camuffamento, per mettersi alla ricerca dell’essere che fluisce e si dona nella sua purezza, si dispiega, rivelandosi allo sguardo di chi l’accoglie con animo docile.
Forse, per questo tratto dominante della sua personalità di studioso, mai incline a schivare gli equivoci connaturati alla meditazione metafisica – e, forse, anche per l’opzione fondamentale di rigore teoretico che ha sorretto tutto il suo agire –, il professore di Belluno è stato dimenticato in fretta dalla cultura italiana nel suo insieme; attraverso una forma di occultamento delle opere e del pensiero, che è la peggiore dimenticanza possibile per uno studioso – prova ne sia la forte difficoltà a reperire i suoi scritti anche nelle librerie antiquarie. Sembrava esserne consapevole, il professore, quando scriveva così:

«Chi decide di essere incomprensibile ha già deciso con ciò di non ritenersi mai ‘incompreso’, appunto perché si è collocato al di là dell’orizzonte segnato dalla comprensione. Appunto perché toglie ogni possibilità di venire compreso, egli toglie ogni possibilità di ritenersi incompreso».

(G. R. Bacchin, Theorein, cit. p. 22).

Come spesso accade a persone della sua tempra, anche a Giovanni Romano Bacchin è toccato in sorte il destino dei solitari: riuscire a riposare solo nelle menti di chi l’ha vissuto quotidianamente e apprezzato nei corsi universitari; di quei volti assetati di schiettezza e veracità che hanno visto in lui un indomito scalatore nell’essere, dell’esperienza umana, per inseguire una sazietà mai soddisfatta, mai goduta appieno, pronta a convertirsi in nuova esigenza di domanda; perché la filosofia – come amava ripetere spesso – «è abissale presenza della verità assente».

Chi ritrova qualche traccia del suo itinerario, e ha la pazienza di attraversare le pagine di Theorein, può avvertire quelle vibrazioni che percepivano i suoi studenti in aula, quelli che respiravano filosofia assieme a Bacchin; ma più ancora impara a mettersi al suo fianco, in compagnia di quei lettori che non avevano mai sentito il suo nome. Prima d’ora.

[avvertenza: il volume di Giovanni Romano Bacchin, Theorein, è un pod, l’acronimo dell’anglicismo ‘print on demand’; per cui, chi fosse interessato a recuperarne una copia, potrà ordinarlo presso una libreria, o direttamente alla Editrice Aracne, e riceverlo nel giro di 5-6 giorni lavorativi].


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tito Perlini (1933-2013) – la rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare se stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.

Tito Perlini 01

Tito Perlini ha osservato acutamente che nell’atteggiamento rivoluzionario di Rosa Luxemburg si rintraccia pure un aspetto importante di conservazione:

 

«Nella Luxemburg si fondono paradossalmente le figure antitetiche del rivoluzionario integrale e del conservatore. L’impegno rivoluzionario è rivolto contro il capitale, il dominio del quale sulla società non può venir corretto, ma deve essere spezzato pena la condanna della società stessa alla rovina. Ciò che si tratta di conservare è il patrimonio civile dell’umanità che rischia di venir compromesso irreparabilmente dalla barbarie capitalistica. E’ necessario rivoluzionare integralmente il modo di produzione e la rete di rapporti che da esso derivano per impedire che la sua logica infernale distrugga la civiltà umana. Negazione del passato non è la rivoluzione, ma ciò cui essa s’oppone. Il capitalismo mira solo a conservare se stesso, facendo strame del passato, imprigionando il presente nella sua cecità, togliendo al futuro ogni prospettiva rispondente ai bisogni e alle esigenze degli uomini. Il capitalismo è antitetico allo sviluppo della civiltà. Rispetto ad essa è falsa conservazione destinata a rivelarsi come il proprio contrario, come distruzione. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente che fa insieme ingiuria al passato e al futuro, ma chi insorge contro tale falsa conservazione assumendo il ruolo del rivoluzionario, teso a dar luogo ad una svolta radicale della storia per impedire a questa di precipitare nell’abisso».[1]

Parole di straordinaria lucidità, queste risalenti al 1971 di Tito Perlini a commento dell’aut-aut luxemburghiano, ancor più vere oggi, nell’epoca della devastazione ambientale del pianeta intero, in cui l’abisso che si avvicina sempre più non riguarda soltanto le modalità della convivenza umana, ma la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutti gli esseri viventi.

Franco Toscani

[1] Tito Perlini, Il ruolo della cosiddetta ‘teoria del crollo’ nel pensiero di Rosa Luxemburg, in “aut aut”, Lampugnani Nigri editore, novembre-dicembre 1971, pp. 69-70.

 


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Livio Rossetti – Convincere Socrate. Tre scene, Nota introduttiva di Linda M. Napolitano Valditara

Livio Rossetti - Convincere Socrate

Livio Rossetti

Convincere Socrate

Nota introduttiva di Linda M. Napolitano Valditara

ISBN 978–88–7588-285-3, 2021, pp. 96, Euro 12 – “Antigone. Collana di teatro” [13].

indicepresentazioneautoresintesi



I am grateful for having had opportunity to read your wonderful “Convincere Socrate”. Truly, you make the characters come alive. My favorite scene was the second scene, where Socrates’ friends are trying to come up with a plan. So true to life to have lots of side issues and irrelevant thoughts voiced in meetings where a decision needs to be made. The reader experiences the effect that is experienced also in tragedy, in that s/he sees actors acting in the hope or even confidence that they will be able to effect a result that the reader knows will be impossible. And trying to change Socrates is up there with trying to change fate.

David J. Murphy, New York

***

 

«Non c’è dubbio che solo dopo aver letto con attenzione e a lungo meditato l’ampia letteratura socratica (i numerosi lògoi sokratikòi restatici, sia pur spesso in frammenti), come Rossetti fa da molto tempo, si possa scrivere un testo simile, dove ogni personaggio, battuta, rinvio, cenno ha precisa base nelle fonti e viene ri-usato però con deliberata levità».

Linda M. Napolitano Valditara (dalla nota introduttiva)

“Chi di noi è la nuova Euriclea?”

Nota introduttiva di
Linda M. Napolitano Valditara

A inizio estate 2019 leggevo questo piccolo prezioso lavoro teatrale di Livio Rossetti, Convincere Socrate, per farne una recensione. Lo conoscevo già per averne, pochi mesi prima, condiviso la recitazione con l’autore, con colleghi, dottorandi e studenti all’Università di Verona, scegliendomi – da studiosa di Socrate e Platone – l’intrigante parte di Santippe, la stizzosa incomprensiva sposa del protagonista.

Riprendere in mano il testo due anni dopo per questa Introduzione mi fa un effetto strano: anzitutto perché sento ben netta la distanza esistenziale da allora, quando in università si lavorava in presenza e si condividevano, senza forse comprenderne l’implicita ricchezza, tutti gli aspetti e modi del nostro magnifico lavoro filosofico. Una vita fa: tutto è cambiato col coronavirus e abbiamo imparato anche noi a interagire ‘da schermo’ e, prim’ancora, nella prima fase della pandemia, a impartire audio-lezioni parlando per ore… ai libri del nostro studio, senza poter guardare negli occhi i nostri studenti.

Il contenuto testuale e filosofico sapientemente filtrato da Rossetti in pièce teatrale dice invece tutt’altro, che non pochi sanciscono essere ormai del tutto perduto: un vivere insieme, un syzên, ripreso anche da Platone nella sua Lettera VII (341c-d), un con-dividere – uno davanti all’altro, a volto scoperto e senza ubbie di distanza di sicurezza – parole, desideri, speranze, timori e azioni; qualcosa che l’ultimo anno pare aver cancellato per sempre, mettendo a nudo solo il crudo, individualistico gioco, la terribile selezione solipsistica del ‘si salvi chi può’, da solo, e peggio per gli altri…

La cosa strana è però che, nel far risaltare così tutta la differenza dalla ‘vita di prima’, l’impianto del lavoro di Rossetti – appunto un rifacimento teatrale curato e godibile – non solo non appare datato e superato dallo tsunami pandemico: tutto al contrario, per quanto punta sull’interazione, su quanto si fa e si dice davanti all’altro, insieme con lui e anche in dissenso da lui, rivendica con forza un modo di vivere-insieme che nessun distanziamento può cancellare o render irrilevante e superfluo. Quel suo trattenersi a parlare in piazze, strade, palestre e assemblee di Atene fu soprattutto un poter e dover essere per l’essere umano, mai a sufficienza sapiente, destinato perciò alla vita di ricerca senza cui non sarebbe un uomo (Platone, Apologia, 38a): una vita che però non si può vivere da soli, separati dagli altri – tanto che, se poi dagli altri non si viene compresi, la vita può tirarsi dietro perfino un rischio mortale, com’è quello della condanna comminata a Socrate. Proprio il verificarsi di situazioni estreme esige – ancora e anche allora – che siano rimeditate insieme le ragioni che quella vita hanno nutrito e che non possono esser sconfessate neppure dinnanzi alla prospettiva di perdere la vita biologica.

Socrate non si lascia convincere – da chi pure ama e che lo ama – a fuggire davanti alla morte e ancora dialoga per ribadire e rivendicare quanto insieme con loro ha fin lì imparato, anche se ora non può accettare l’invito alla fuga davanti alla morte. Quale insegnamento migliore da meditare insieme, ridandogli voce e interpretandolo, in una pandemia che – notizia di stamani, 22 aprile 2021 – ha già fatto, nel mondo, tre milioni di morti? [… continua a leggere nel libro …]



Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche.
Prefazione di Mauro Serra.
ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130].
In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.


È strano che in una società invasa da forme di comunicazione sapiente e anche astuta (quindi insidiosa) qual è la nostra non si registri una congrua offerta di strumenti analitici sulle procedure cui è normale ricorrere in ogni momento.
In effetti, nel rivolgere la parola, nello scrivere o anche soltanto nel rispondere al telefono si manifestano moltissime scelte, alcune involontarie e altre consapevoli. Queste scelte delineano l’impostazione e il senso di ciò che io, per esempio, ho finito per dire o scrivere. Quindi parlano di me, del mio stato d’animo, dell’idea che mi ero fatta sul conto della persona o delle persone cui mi sono rivolto, dell’idea che mi ero fatta della situazione, di cosa credevo di fare e dei criteri che ho saputo adottare nel decidere cosa dire e come esprimermi, di cosa tacere, che cosa lasciare intendere etc. E a essere carica di tutti questi impliciti è ogni iniziativa comunicazionale, semplice o impegnativa che sia.
Per cercare di penetrare nei segreti della comunicazione e individuare anche ciò che transita sotto traccia, c’è poco da fare: bisogna attrezzarsi e prendere confidenza con cose così diverse come la ‘retorica dell’anti-retorica’, il feedback comunicazionale, la soglia critica, la saturazione, i meta-segnali e altro ancora. Questo libro fornisce l’apparato concettuale di cui c’è bisogno per mettersi a scavare in profondità.

Il nome di Livio Rossetti è facilmente associato alla filosofia greca – Socrate e Platone, Parmenide e Zenone – mentre non è intuitivo associarlo al tema della retorica, che è rimasta un filone leggermente in ombra della sua produzione scientifica. In effetti il volume sulle strategie macro-retoriche (1994), ora in seconda edizione, è nato a margine dei suoi studi sul dialogo socratico (alcuni dei quali figurano in Le dialogue socratique, Paris 2011) e avrebbe dovuto fornire le premesse concettuali per indagini più specifiche sull’insidiosa sapienza comunicazionale di Platone, indagini che però… devono ancora materializzarsi.
Docente di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni, Rossetti ha pubblicato, da ultimo, Verso la filosofia: nuove prospettive su Parmenide, Zenone e Melisso (Baden Baden 2020), che si può considerare l’editio maior di Parmenide e Zenone sophoi ad Elea (in questa stessa collana, Pistoia 2020), mentre



Sommario

Questo libro

Prefazione di Mauro Serra

I. Iniziative comunicazionali, strategie comunicazionali e retorica

1. L’iniziativa comunicazionale
2. Individuare gli ‘incantesimi’ di ordine comunicazionale
3. Impostazione dell’iniziativa comunicazionale e forme di finissage
4. Progettare una iniziativa comunicazionali significa…
5. Identificare e analizzare l’impianto macroretorico

II. La formattazione dell ’unità comunicazionale

1.Una formattazione a molti livelli. Il feedback comunicazionale
2. Gli obiettivi da raggiungere

III. Ricettore ideale, distanza critica, dissimulazione. Il contratto comunicazionale

1. Lettore ideale e ricettore ideale. Il ruolo della dissimulazione
2. Contratto letterario e contratto comunicazionale. Il foedus iniquus

IV.  Gestione dell a soglia critica e forme di saturazione

1. Orizzonte di attesa, soglia critica e forme di saturazione
2. La pretesa di incidere sulla soglia critica
3. Risalire alla soglia critica prefigurata dal locutore

V. La comunicazione form attante. Il ‘sottotesto’

1. Farsi largo nella mente altrui; la pretesa di ‘comandare a casa nostra’
2. La semplificazione: grimaldello con cui si aggirano le difese altrui
3. Quando l’intreccio di contenuti epistemici e valori comunicazionali resiste all’analisi

VI. Formattazione e obsolescenza degli standard comunicazionali.
Come difendersi dall a formattazione sapiente?

1. Siamo sicuri che la magia dell’evento comunicazionale funzioni ancora?
2. Understatement, autoironia e ‘retorica dell’anti-retorica’
3. Le difese su cui possono contare i ricettori
4. Identificare il sovraccarico comunicazionale

VII. Conclusioni. Oltre la formattazione

Bibliografia

Appendice – Verso una rhetorica universalis

1. La mia comunicazione non è mai del tutto spontanea
2. Platone e la retorica degli altri
3. Le ossessioni dei moderni e le loro ‘aggressioni’ alla retorica
4. Oltre il mero arrocco. Nuovi aspetti della relazione retorica-filosofia nel Novecento
5.Verso una nuova idea di verità
6. Verso una nuova idea di retorica: la rhetorica universalis
Nota bibliografica

Soggettario

Indice dei nomi


Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea
Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica
Livio Rossetti – Due falsI originali d autori di «qualità»: Enrico Berti (Arisotele) e Mario Vegetti (Platone).
Livio Rossetti – Anche i bambini pensano: tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale. Il libro di Dorella Cianci e Massimo Iiritano, «Pensare da bambini».

Livio Rossetti 01

Livio Rossetti

Parmenide e Zenone, sophoi ad Elea

Presentazione di Mariana Gardella Hueso.

ISBN 978-88-7588-256-3, 2020, pp. 160, Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi

In questo Parmenide e Zenone sophoi a Elea Livio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino.
Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva.
L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Massimo Bontempelli (1946-2011) – Di lui Salvatore Bravo propone lo studio di «Filosofia e realtà». Ripensare la metafisica come percorso per ritornare alla realtà, “sinolo dinamico di esistenza e sostanza”: la sostanza non vive fuori della storia, ma si svela nel visibile empirico dando ad esso senso e concretezza.

Massimo Bontempelli - Salvatore Bravo

Massimo Bontempelli

Filosofia e Realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo. IIa Edizione.

ISBN 978–88–7588-301-0, 2020, pp. 288, Euro 25

indicepresentazioneautoresintesi

Salvatore Bravo

Ripensare la metafisica come percorso per ritornare alla realtà
“sinolo dinamico di esistenza e sostanza”:
la sostanza non vive fuori della storia, ma si svela nel visibile empirico dando ad esso senso e concretezza.

Storia e concetto
La contemporaneità è regressiva, perché manca di pensiero autoriflettente. L’espulsione della metafisica e di ogni prospettiva teoretica è la verità dei nostri giorni. È in atto un processo di conservazione del sistema mediante l’inoculazione di automatismi che sostituiscono il tempo del pensiero. I processi di derealizzazione si consolidano con il tempo dell’immediatezza. Il soggetto rispecchia la rappresentazione senza mediarne il concetto. Il semplice rispecchiamento produce vite anonime: il soggetto riproduce l’immediatezza e dispone le “datità empiriche” nel tempo semplice e lineare della successione, le accoglie con “spontaneità”, abdica, così, alla sua attività razionale. In tal modo ogni pensiero critico e divergente tace, al suo posto vige l’irrealtà, in quanto l’esistenza del dato senza l’essenza lo riduce ad accadimento instabile che viene dal nulla per ritornare nel nulla. L’instabilità nichilistica non consente ai dati di configurarsi nella forma stabile dell’esperienza consapevole. Senza esperienza mediata dalla ragione e dal concetto il movimento della storia è annichilito. Vi è un parallelismo di relazione tra movimento della storia e movimento teoretico del pensiero. La storia accade, devia dal suo percorso solo se il concetto con i suoi processi di astrazione è patrimonio comune della comunità. Se c’è il concetto che attraverso il movimento astrae l’essenza (il negativo) ritornando a se stesso non vi può che essere la storia in atto. La storia divergente e progettuale non è che un’evoluzione che porta verso la realtà. Il concetto è la storia che diviene concreta realizzazione dell’umanizzazione dell’essere umano. Massimo Bontempelli[1] storico e filosofo nel suo commento alla Scienza della logica di Hegel evidenzia la necessità di ripensare la metafisica come percorso per ritornare alla realtà “sinolo dinamico di esistenza e sostanza”: la sostanza non vive fuori della storia, ma si svela nel visibile empirico dando ad esso senso e concretezza:

“L’esistenza reale è quell’esistenza che, passando nell’essenza, non perde il proprio essere, ma attraverso essa vi ritorna[2]”.

Con processo di astrazione il soggetto è strappato dagli automatismi per essere soggetto e non oggetto del reale storico. Ci si umanizza in tale gesto della mente, poiché l’essere umano non è semplice ente tra gli enti, ma attività concettualizzante che dispone il soggetto ad essere attore responsabile della storia. Il concetto è il negativo, perché non coincide con il dato, ma lo inserisce con l’invisibilità dell’astrazione all’interno di una complessità capace di decodificare il dato. Senza la decodifica teoretica il dato storico è ossificato nel presente, è paragonabile ad un dato naturale su cui non si ha margine d’intervento. Il negativo riporta l’esistenza alla sua essenza fondando il concetto:

“L’esistenza ha piena intellegibilità razionale in quanto ha realtà razionale, ed ha realtà soltanto in quanto è in unità con l’essenza, ed ha realtà soltanto in quanto è in unità con l’essenza, ossia in quanto la negatività che dissolve il suo essere, cioè appunto l’essenza, la riporta nondimeno al suo essere.

Ma come è possibile questo? Come può l’essenza, che nella terminologia hegeliana è la negatività che dissolve ogni positiva determinazione, riducendola a non poter essere ciò che è e ad apparire soltanto quale labile parvenza, trovarsi unita all’esistenza, riconsegnandole la positività dell’essere?[3]”.

La ragione teoretica unisce, è totalità storica pensante, ovvero l’esistenza trova la sua ragion d’essere nell’unità con la sostanza- realtà, non è scissione, frammento che si impone nella disintegrazione della totalità, ma unità del concetto capace di riconfigurare il tessuto storico, identificandolo nella sua verità. È un atto di significazione intenzionale dinamico nel quale emerge la verità dell’essere umano come agente del pensiero senza il quale è consegnato all’entificazione, all’automatismo che si estende in una coazione a ripetere senza limiti e nel contempo rivela la verità storica di cui è partecipe senza esserne assimilato:

“La loro verità sta nella realtà che le unisce, e che, rendendole entrambe reali nella loro unità, le trasforma entrambe. L’essenza inconfigurata, diventata reale, preserva le configurazioni dell’esistenza, e il suo sussistere indeterminato ne fa sussistere le molteplici determinazioni. L’esistenza, diventa reale, non si vede più togliere dall’essenza stabilità e permanenza, perché l’essenza viene ad identificarsi con la sua positività[4]”.

Irreale è la separazione, la divisione che spinge l’essere umano ad essere oggetto dell’immediato e determinato dalla sola logica del fabbricare che agisce sulla parte funzionale alla produzione oscurando la totalità con le sue relazioni interne. L’attività diviene esecuzione motoria, nel silenzio del concetto.

 

Fondamento e maieutica del ritorno
La prassi storica si rende visibile nella contingenza, ma ha la sua origine nella mediazione razionale del soggetto. Il fondamento (der Grund) non è fissa positività, ma atto riflessivo, su cui il pensiero può ritornare una pluralità di volte per far emergere fortemente il reale-razionale. La positività empirica è povertà del pensiero, depotenziamento esistenziale, poiché cade nel rispecchiamento automatico senza autoriflessione. Il fondamento ha la stabilità del concetto su cui si può agire, è attività maieutica, poiché il concetto non è verità definitiva, ma maieutica del ritorno, profondità della riflessione senza la quale l’essere umano è consegnato alla tragedia dell’irriflesso:

“Hegel, invece, concettualizzando il fondamento come categoria dell’essenza, vale a dire della negatività intrinseca all’essere, lo pensa come un movimento negativo, non come una positiva fissità, come un’astrazione, non come un sostegno concreto simile ad un suolo, ad un pavimento[5]”.

L’avanzamento dialettico è il percorso verso la realtà, è il filo d’Arianna senza il quale il soggetto è nel mondo senza riconoscerlo, si estranea per alienarsi nel mito crematistico e dell’ esteriorità senza concetto:

“La sostanza si rende presente nell’esistenza solo dopo un lungo avanzamento dialettico nella considerazione dell’esistenza stessa, quando essa è pensata come aderente al funzionamento di un mondo, e nello stesso tempo, come mantenente il suo essere nel suo venire coinvolta in tale funzionamento. Se è pensata fuori da qualsiasi mondo, l’esistenza non può avere alcuna sostanza, perché fuori di essa, senza mondo, non ci sono che alterità destrutturate, in cui il suo essere si perde[6]”.

La Scienza della Logica non è un semplice strumento, ma è la verità profonda dell’umanità, il logos che ricompone la struttura della realtà e crea il mondo con la dialettica. Senza la ragione metafisica il mondo resta muto, è solo lo scorrere delle rappresentazioni, ma l’umano è assente, perché è solo lo spettatore di un gioco deciso da altri. La denuncia dei processi di derealizzazione sono il sintomo che l’umanità sopravvive, malgrado l’avanzare del deserto, in un climax sempre più evidente ed ascendente: tanto più il deserto avanza tanto più è necessario riportare il pensiero alla sua condizione ontologica. La denuncia, a volte solitaria, trascende il tempo dell’immediato per offrirsi alla comunità. La filosofia necessita di eroi nel tempo della tecnica, Massimo Bontempelli lo è stato.
La “cultura intensiva” della tecnica avanza, poiché non trova l’opposizione della ragione metafisica e dialettica dalla quale scaturisce l’esigenza di un nuovo ordine etico contro l’anarchia dei tecno-mercati. Il mercato e la tecnica sono gli elementi passivi che limitano l’esplicarsi della libertà dell’essere umano. Libertà, per Hegel, ci rammenta Massimo Bontempelli è azione reciproca[7] tra sostanze umane, il “bene” presuppone il logos e l’astrazione per cogliere le trame di significato che intercorrono tra i segmenti del sapere. Il fare poietico non può sostituire la conoscenza ed il bene. La conoscenza non è manipolazione, ma riflessione sul valore dell’agire e ciò non può che concretizzarsi mediante il pensiero logico e dialettico. Nell’azione reciproca si genera la libertà che si materializza nella storia e nelle istituzioni nella forma del bene (universale). La libertà è l’interrogarsi comunitario per ritrovare i nessi che ricostruiscono il testo del mondo. Realtà e razionalità sono un sinolo che trascendono il pericolo della passività e dell’alienazione estraniante:

“Sono un soggetto libero, perché sono capace di sottrarmi alla passività dell’immediatezza della mia singolarità, scegliendo fuori di me stesso il mio essere[8]”.

 La passione etica di Massimo Bontempelli per la logica hegeliana è stata prassi e giudizio critico verso la tirannia dei mercati e del potere che trasformano la libertà in acquisizione violenta e proprietaria. Ha pagato e, paga ancora, il suo impegno per il fondamento veritativo con il silenzio dell’azienda della cultura. Il suo impegno continua carsicamente a vivere e a germogliare. Il filosofo pisano aveva la chiarezza del nemico, ed anche tale lucidità può essere un’indicazione da cui riprendere il cammino interrotto della storia:

“Ebbene: la storia umana è ormai occupata da qualcosa di simile ad un esercito che è nemico del suo carattere umano. Questo esercito è il meccanismo economico autoreferenziale. Esso è volto a sterminare ogni aspetto del genere umano ancora radicato nella sua autentica realtà. L’artiglieria di cui si avvale è la pura accumulazione quantitativa di valore di scambio, che depaupera l’uomo della sua realtà[9]”.

L’esercito d’occupazione è la categoria della quantità e della dismisura che occupano le menti ed offuscano il pensiero, contro gli invasori siamo chiamati a testimoniare l’emancipazione dall’economicismo in nome di un umanesimo dell’impegno.

Salvatore Bravo

***

[1] Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 –Pisa, 31 luglio 2011) .

[2] Massimo Bontempelli, Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, Petite Plaisance Pistoia 2000, nuova ed. 2020, p. 70.

[3] Ibidem, p. 71.

[4] Ibidem, pp. 72 -73.

[5] Ibidem, p. 73.

[6] Ibidem, p. 114.

[7] Ibidem, p.157.

[8] Ibidem, p. 159.

[9] Ibidem, pp. 242-243.


Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’unico luogo in cui è possibile custodire la memoria del passato è la progettazione del futuro, così come l’unico modo per progettare un futuro ricco di essere è quello di costruirne il progetto con le memorie del passato.
Massimo Bontempelli (1946-2011) – C’è un filo teoretico nichilistico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Per Galimberti non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente ed offre solo una filosofia dell’impotenza e dell’adattamento.
 
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’uomo, proprio perché elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, deve mantenere tale elevazione con il distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.
Massimo Bontempelli – Gesù di Nazareth, uomo nella storia, Dio nel pensiero, ci ha dato la simultanea figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza, che sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Claudia Baracchi – Non va ridotto a sintomo il bisogno di raccoglimento, di riflessione, che è risposta in qualche modo ribelle al regime dell’apparire. La libertà è essenzialmente categoria dello spirito.

Claudia Baracchi - Paura della normalità

« […] non paura del virus, bensì del mondo costruito, del mondo civile. È il mondo umano che fa paura. Non più il terrore della natura matrigna, conro la quale da sempre le civiltà offrono riparo, bensì il rovesciamento di una prospettiva millenaria, ovvero un terrore – o, se volete, un’avversione – per quello che gli umani fanno, per quello che il mondo è diventato, per mano loro.
Non va ridotto a sintomo il bisogno di questo raccoglimento, il bisogno di riflessione, di un respiro più ampio, di un modo diverso di sentirsi insieme. Non si tratta di una mera strategia di evitamento, di un rifiuto problematico della relazione.

Penso che si tratti anche di una risposta in qualche modo ribelle al regime dell’apparire, un tentativo di riequilibrare il rapporto, decisamente disequilibrato, tra estraflessione e introflessione. Tentativo di compensare il vuoto della posa e dell’immagine attraverso l’invisibile, attraverso il ritiro

[…] vorrei inoltre ricordare che la libertà è essenzialmente categoria dello spirito […] e concludere leggendo alcune righe scritte da Henry David Thoreau nel suo libro Civil Disobedience, pubblicato nel 1849 […]».

Claudia Baracchi, La paura della normalità, Youtube, 27 maggio 2020.

Claudia Baracchi, La paura della normalità, Youtube, 27 maggio 2020.

Claudia Baracchi

Filosofia antica e vita effimera

Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche

ISBN 978-88-7588-245-7, 2020, pp. 112.

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I testi qui raccolti ripercorrono due seminari residenziali in cui confluivano studi di filosofia antica e un’insolita composizione di temi: il rapporto tra greco e non greco, e le peripezie del pen­siero tra il Mediterraneo degli Elleni, il Levante, l’Egitto, in onde migratorie che saranno costitutive dell’Europa; il rapporto tra filosofia e vita, soprattutto la vita sofferente, quale è variamente ma senza eccezioni la vita mortale, esposta e vulnerabile a ogni rovescio; il rapporto tra l’esercizio della ragione e ciò che la ec­cede, si chiami natura, dio, intelletto o in altro modo; al limite, il rapporto tra theoria e praxis. Volgersi al passato in una modalità interrogativa significa soprattutto ricalibrare la nostra domanda su noi stessi, chiederci come siamo diventati quello che siamo, attraverso quali vicende, ma anche e soprattutto attraverso quali dimenticanze, quali sparizioni, quali discontinuità e ricadute nella latenza. Vale a dire: come siamo giunti qui dove ci troviamo, per quali percorsi consapevoli, ma anche inconsci e bui – giacché il passato (tanto individuale quanto collettivo) è saturo di ciò che, di esso, non è stato ancora mai visto e deve ancora accadere.

 


Indice

Introduzione. Teoresi delle farfalle

Primo incontro: seminario d’autunno
Heidegger: la fine e l’inizio
Esercitare la vita

 

Secondo incontro: laboratorio di primavera
Aristotele, i poeti, Eros rilucente
Aristotele, gli antichi, gli dèi
Spazio, tempo, contraddizione

 

Immagini sulla soglia di Platone
L’albero
Il fuoco
Il rasoio e i cavalli

 

Il guerriero e la morte
Compito del guerriero
Il mito del guerriero

Riferimenti bibliografici

Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.
Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.
Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.


Claudia Baracchi, Diventare madre – YouTube


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Claudia Baracchi …


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Claudia Baracchi

Amicizia

Mursia, 2016

«Uomini e donne».

Platone, Apologia di Socrate, 41b-c.

L’universalismo moderno sorge nell’astrazione, nella separazione dai fenomeni eterogenei e irregolari, nella lontananza che uniforma.
Per l’esperienza antica, invece, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte che contempla i singoli fenomeni cogliendone a un tempo le differenze irriducibili e i nessi, la tessitura complessiva

« […] la concezione antica dell’anthropos mostra che non c’è contraddizione, né incompatibilità, tra il mio interesse e quello degli altri […]. Per l’umano così inteso, l’amicizia è il fondamento di ogni registro e variazione relazionale. È il luogo in cui il singolo si realizza e in cui può darsi la solidarietà che rende l’insieme coeso. Ed è qui, in questa esperienza concreta, vissuta, singolare, che si radica lo sviluppo universale.
L’universalità non è una invenzione cristiano-moderna; gli antichi conoscono bene la prospettiva “secondo il tutto“, ma pervengono ad essa per una via completamente differente. L’universalismo moderno sorge nell’astrazione, ovvero nella separazione dai fenomeni eterogenei e irregolari, nella lontananza che uniforma.
Per l’esperienza antica, invece, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte, ovvero in uno sguardo che, divenuto più capiente, contempla i singoli fenomeni cogliendone a un tempo le differenze irriducibili e i nessi, la tessitura complessiva.
Così intesa, l’universalità si articola su uno sfondo esperienziale, mantiene il contatto con la concretezza dei vissuti, sempre differenti e cangianti, eppure anche visti nell’insieme. È così che diventa possibile comprendere la relazione, l’essere in comunione e comunanza non come insidia o camicia di forza per il singolo, ma come risorsa. […]
L’amicizia pensata more graeco […] suggerisce che stare insieme non è un caso da sopportare malvolentieri, per contratto, con rassegnazione, ma un piacere, e una possibilità di realizzazione. E soprattutto: più che un limite alla mia libertà di individuo, l’altro, gli altri, il “noi” sono ciò che rende possibile il mio essere, sono costitutivi del mio essere quello (quella) che sono, proprio l’individuo singolare che io sono.» (pp. 17).

«Noi abitanti della modernità tarda siamo a malapena in grado di intendere quello che dicono gli antichi: per loro essere buoni significa essere felici, sentirsi dischiudere nella vastità della vita, ricercandone l’inveramento» (p. 57).

Noi moderni della tarda ora siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, eampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete
«Noi moderni della tarda ora, venendo dopo Kant, abbiamo creduto di poterci emancipare dal bene-dovere rovesciandolo, appunto, in parodia. […] Resta molto arduo, per noi, intendere del bene altri risvolti, altre configurazioni possibili. E per questo, nella nostra epoca tarda, termini o espressioni come “bene comune”, “cittadinanza”, “comunità”, rischiano di perdere il senso concreto e la prossimità viva. Non riconoscendo il bene come realizzazione di sé in seno a un noi, crediamo di trovare libertà e felicità in comportamenti puramente arbitrari e sconnessi.
Oppure siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, e tramite “la macchina” comunichiamo globalmente, ormai ampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete. Ma, così intesa, la connettività è contraffazione della comunità degli amici, così come la “realtà aumentata” è contraffazione della pienezza della vita» (p. 58).

Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso,
in quell’apertura al possibile e nel possibile.
«Preso da una indominabile visione di felicità, il filosofo intravede una possibilità, indovina un riverbero di ciò che l’umano può e può essere. Tale esperienza di rapimento (un’esperienza travolgente, potenzialmente devastante nei confronti delle costruzioni umane) agisce come un promemoria inesorabile dell’irriducibilità dell’umano alle sue stesse istituzioni. Rammenta all’essere umano ciò che, in lui, supera la dimensione umana, indicandogli quello che può diventare.
Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Nell’esperienza filosofica è al contempo ricordato e annunciato l’essere umano a venire.

Il filosofo è una figura inaugurale che ritiene le tracce del lascito
ma insieme lascia presagire un’umanità nuova
Così, dunque, nell’inflessione filosofica l’eroe diventa qualcosa di radicalmente altro: una figura inaugurale, che ritiene le tracce del lascito ma insieme lascia presagire un’umanità nuova; un guerriero disarmato, privo di nome e reputazione, per il quale la lotta e il combattimento si svolgono lontani dal campo di battaglia, dalle competizioni, dagli onori e dalle benemerenze. […] La visione socratica di un altro mondo, in cui “uomini e donne” possano confrontarsi e crescere insieme evoca la comunità degli amici come comunità di dialogo e ricerca. È notevole che Socrate vi includa esplicitamente le donne. In Platone e nella tradizione pitagorica questo gesto è frequente e, allo stesso tempo, in netta controtendenza rispetto agli usi della polis. E, dovremmo dire, non soltanto in contrasto con la Atene del V e IV secolo, se è vero che nel discorso filosofico stesso finirà presto col prevalere la celebrazione dell’amicizia come relazione esclusiva tra uomini» ( p.107).

L’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto

«La visione aperta dell’essere umano e della sua potenzialità (dynamis), di ciò che può fare, essere e divenire, rende possibile non solo intravedere una comunità fin qui inimmaginabile, ma anche considerarla in quanto tale non impossibile. L’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto» (p. 145).

***

Risvolto di copertina

 «L’amicizia sorge in seno all’estraneità, rivolgendosi all’esterno: cerca il rapporto non tanto con chi sta vicino, ma con chi viene da lontano. Ancora prima di designare l’approfondimento dell’intimità e della consuetudine, l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto». Affrontare il tema dell’amicizia nell’epoca di Facebook e dei social network richiede coraggio e perfino una certa impertinenza. La relazione amicale comporta fiducia, fedeltà, disponibilità alla condivisione profonda. Ebbene, assicurano i sociologi, mai questo atteggiamento fu più improbabile che nel nostro tempo di drammatica riconfigurazione antropologica. La ricerca sull’amicizia non può dunque prescindere dal pensiero antico: con profondità ineguagliata esso ne indovina le più ampie implicazioni, affettive quanto politiche. Le epoche successive non oseranno tanto, e l’amicizia scomparirà dal pensiero politico così come da ogni considerazione complessiva sull’essere umano. L’Autrice percorre gli snodi della riflessione antica, nella convinzione che abbia a che fare con mondi a venire.


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Claudia Baracchi

L’architettura dell’umano
Aristotele e l’etica come filosofia prima

Vita e Pensiero, 2014

Il secolo scorso ha variamente proclamato la fine della filosofia in quanto metafisica. Nel nuovo millennio si indovinano, a livello istituzionale, sintomi di una sempre più conclamata obsolescenza degli studi umanistici, e quindi della filosofia intesa come disciplina accademica ed esercizio puramente intellettuale. Eppure, nel gesto ampio di questo transito epocale, trovarsi di fronte ai testi antichi può essere occasione di esperienze sorprendenti. Vale a dire, avvicinarsi al testo nella sua materialità impervia, nell’effetto straniante della sua opacità, nella sua refrattarietà alla risoluzione interpretativa o manualistica, può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci – che interrogano l’umano, le sue vicende e possibili configurazioni, le scelte, i percorsi, l’ipotesi della felicità. Incontrare l’antico (Aristotele, per esempio) in questo modo implica coltivare l’intimità con ciò che ancora ci elude. Allora diagnosticare la fine, intravedere altri inizi, non significa superare, passare oltre, né ancora andare altrove. L’origine ci scruta enigmatica. Il suo mistero inconsumato ci sta davanti. Lungi dal comportare una deposizione o un ritorno, lo sguardo volto al passato si espone a ciò che nel passato resta impensato, inaudito. Forse è proprio cogliendo l’antico nel suo carattere insondabile che si vi può intravedere la possibilità inespressa, ciò che si annuncia ma resta in ombra: nella fine, in seme, il compito del pensiero a venire.


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Claudia Baracchi

Aristotle’s Ethics as First Philosophy

Cambridge University Press, 2007

In Aristotle’s Ethics as First Philosophy Claudia Baracchi demonstrates the indissoluble links between practical and theoretical wisdom in Aristotle’s thinking. Referring to a broad range of texts from the Aristotelian corpus, Baracchi shows how the theoretical is always informed by a set of practices, and specifically, how one’s encounter with phenomena, the world, or nature in the broadest sense, is always a matter of ethos. Such a ‘modern’ intimation can, thus, be found at the heart of Greek thought. Baracchi’s book opens the way for a comprehensively reconfigured approach to classical Greek philosophy.

Estratto:

Leggi l'estratto


Il cosmo della Bildung

Il cosmo della Bildung

Risvolto di copertina

Montagna theologica, caverna cosmica o cielo della controriforma, la Cupola di Santa Maria del Fiore ha sempre rappresentato un grandioso programma idealedidattico per l’architettura. Possiamo trascriverlo in un’equazione: l’educazione sta all’ideale come l’architettura sta all’attuale. Un’espressione a quattro incognite vincolate tra loro. Tra queste quella dell’ideale è la meno chiara per le scienze e la più oscura per le coscienze. Comunque, nella cultura del nostro tempo, l’educazione è ridotta ad accumulazione di regole, l’ideale al funzionale, l’architettura a pratica socionormativa, l’attualità a cronologia. In altre parole l’ideale ci richiede sempre un enorme sforzo critico rispetto a tutti i saperi. Esso ci costringe a ripercorrere la biforcazione secolare impressa dalla cultura tecnico-scientifica all’idea di “reale”: quella tra trascendenza e immanenza.





Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.
Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.
Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.
Claudia Baracchi – Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche
Claudia Baracchi, Bookcity 2020 – Esseri umani, farfalle, mostri e la filosofia come terapia della psiche. Con Claudia Baracchi, analista filosofa e Anna Stefi, filosofa e psicologa.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ricerche Aristoteliche. Etica e politica in questione. Introduzione e cura di Giulia Angelini. Saggi di Claudia Baracchi, Manuel Berrón, Enrico Berti, Michele Di Febo, Silvia Gullino, Alberto Jori, Pietro Li Causi, Giovanni Battista Magnoli Bocchi, Francesca Masi, Marcello Zanatta.

Ricerche Aristoteliche - Giulia Angelini - Enrico Berti - Claudia Baracchi - Zanatta

Claudia Baracchi, Manuel Berrón, Enrico Berti, Michele Di Febo,
Silvia Gullino, Alberto Jori, Pietro Li Causi, Giovanni Battista Magnoli Bocchi,
Francesca Masi, Marcello Zanatta

Ricerche aristoteliche. Etica e politica in questione

Introduzione e cura di Giulia Angelini.

ISBN 978–88–7588-283-9, 2021, pp. 328, Euro 30

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Quarta di copertina
Questo volume parte da una serie di problematiche che, riprendendo delle espressioni comunemente in uso, si addensano sull’etica e sulla politica dello Stagirita: che cos’è l’etica? Che cos’è la politica? Qual è il loro fine? A chi si riferiscono? Qual è il collegamento tra le due? Ma ancora, passando ai trattati, qual è il rapporto tra le Etiche e la Politica sia in sé che rispetto alla continuità e discontinuità di certi temi? Oltre alla questione dell’ἐπιστήμη – che, al di là della sistematizzazione consueta, non è assolutamente scontata –, si tratta però di concentrarsi anche su tutti quei temi che si impongono sempre in un’interrogazione di questo tipo, interrogazione che deve sempre tenere presente la specificità storico-categoriale del pensiero dello Stagirita. Anche per questo, piuttosto che offrire una semplice ricostruzione, qui si cercherà di complicare il più possibile questo nodo, che, come si vedrà, è tutto tranne che risolto.

Ricerche aristoteliche. Etica e politica in questione è la quarta di una serie di collettanee aristoteliche uscite sempre per Petite Plaisance: Sistema e sistematicità in Aristotele (2016), Immanenza e trascendenza in Aristotele (2017) e Teoria e prassi in Aristotele (2018).


Indice

Giulia Angelini: Introduzione

Enrico Berti: L’unità della filosofia pratica in Aristotele

Alberto Jori: Praxis ethos polis.
La Rehabilitierung der praktischen Philosophie
e la sua interpretazione dell’etica e della politica di Aristotele

Marcello Zanatta: I principi e lo statuto epistemologico della politica architettonica in Aristotele

Manuel Berrón: La filosofia pratica e il metodo degli Analitici

Claudia Baracchi: Note sul Bene e sull’Uno tra Platone e Aristotele

Francesca Masi: La virtù etica della giustizia distributiva e la sua rilevanza politica

Michele Di Febo: Educare alla moltitudine, educare la moltitudine.
Alcune considerazioni sul dinamismo del plethos nella Politica di Aristotele

Silvia Gullino: La nozione di autarchia nel pensiero politico di Aristotele
dalla Politica alla Costituzione degli Ateniesi 

Giovanni Battista Magnoli Bocchi: La retorica, fra etica e politica

Pietro Li Causi: Il dilemma della responsabilità animale nel quadro della ‘eto-logia’ aristotelica

Le Autrici – Gli Autori

Indice dei nomi


Giulia Angelini ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Padova, dove, attualmente, è Cultrice della materia in S.S.-D. SPS/01 (Filosofia politica). La sua ricerca verte principalmente sul pensiero di Aristotele e, in particolare, sulla questione dello ζῷον πολιτικόν, sull’epistemicità della filosofia pratica e sui vari significati delle categorie di potenza e atto. Proprio in relazione a questi temi, ha partecipato a numerose conferenze nazionali e internazionali ed è autrice di svariati contributi scientifici. Inoltre, ha sempre collaborato nella gestione di varie riviste: ad oggi, è responsabile editoriale di “Universa. Recensioni di filosofia” (Padova University Press).


Claudia Baracchi è Ph. D. in Filosofia (Vanderbilt University 1990-1996), Docente di Filosofia Antica e Filosofia Europea alla University of Oregon (1996-1998) e alla New School for Social Research di New York (1999-2009). Dal 2007 è Professore di Filosofia Morale all’Università di Milano-Bicocca. Tra le pubblicazioni si ricordano Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche (Petite Plaisance), Amicizia (Mursia), Aristotle’s Ethics as First Philosophy (Cambridge University Press), Of Myth, Life, and War in Plato’s Republic (Indiana University Press). È co-fondatrice della Ancient Philosophy Society. Ricerca sulla filosofia antica in rapporto al mito, alla poesia e al teatro, sulle tradizioni orientali (soprattutto indo-vediche), sulla psicoanalisi e le pratiche del sé. È docente a Philo–Scuola di Analisi Biografica a Orientamento Filosofico.


Manuel Berrón è professore (1999) e Dottore in Filosofia (2012). Professore Aggiunto di “Filosofía Antigua” all’Universidad Nacional del Litoral (UNL – Argentina) e Professore Associato di “Problemática Filosófica” all’Universidad Nacional de Entre Ríos (UNER – Argentina). Ha realizzato studi postdottorali in Argentina (2012-2014) e all’Università degli Studi di Macerata (2018). È autore di diversi articoli nel campo della filosofia aristotelica e del libro Ciencia y dialéctica en Acerca del cielo de Aristóteles (2016). è membro del consiglio editoriale di  Tópicos (Revista de Filosofía de Santa Fe). Inoltre, è membro dell’Asociación Latinoamericana de Filosofía Antigua e attualmente è Presidente dell’Asociación Argentina de Filosofía Antigua (2017-2021).


Enrico Berti è professore emerito dell’Università di Padova, socio nazionale dell’Accademia dei Lincei e membro della Pontifica Accademia delle Scienze. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui una nuova traduzione italiana della Metafisica di Aristotele (Laterza 2017), e i volumi Aristotelismo (Il Mulino 2017), Scritti su Heidegger (Petite Plaisance 2019), Nuovi studi aristotelici, V – Dialettica, fisica, antropologia, metafisica (Morcelliana 2020), Storicità e attualità di Aristotele (Studium 2020), Saggi di storia della filosofia (Studium 2020).


Michele Di Febo è laureato in “Filologia, Linguistica e Tradizioni Letterarie” presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Con G.A. Lucchetta ha curato l’edizione italiana del Boristenitico di Dione di Prusa (Carabba, Lanciano 20202). Attualmente svolge il dottorato di ricerca presso la “Scuola Alti Studi” della Fondazione Collegio San Carlo di Modena e il suo ambito di ricerca è la storia del pensiero politico classico, in particolare la Politica di Aristotele e i suoi principali nuclei di innovazione rispetto alla tradizione precedente.


Silvia Gullino è Dottore di Ricerca in Filosofia e svolge la propria attività presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova, dove è Assegnista di Ricerca nonché Cultrice della Materia in Storia della Filosofia Antica. In passato, è già stata Assegnista di Ricerca presso l’Università della Calabria. Tra le sue pubblicazioni, che riguardano il pensiero antico e, in particolare, Aristotele e la tradizione aristotelica, figurano le recenti monografie Aristotele e i sensi dell’autarchia (Padova, 2013), Pathos (Milano, 2014) e Philia (Milano, 2017) e Aristotele e gli esempi di virtù nella Costituzione degli Ateniesi (Lecce, 2019).


Alberto Jori insegna Filosofia all’Università di Tubinga, dove ha conseguito l’Habilitation nel 2008 e il titolo di Professor nel 2011, e Storia della filosofia antica all’Università di Ferrara. Nel 2003 ha vinto il premio dell’Internatonal Academy of the History of Science. Tra la sue opere: Medicina e medici nell’antica Grecia. Saggio sul ‘Perì téchnes’ ippocratico (il Mulino-Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1996), Aristotele (Bruno Mondadori, 20083), Aristoteles, Ueber den Himmel (Akademie Verlag-WBG, 2009), Natura naturans. Il pensiero di Roberto Ardigò (Nuova Ipsa, 2020). 


Pietro Li Causi ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale per la seconda fascia in Lingua e Letteratura Latina, e insegna materie letterarie presso il Liceo Scientifico “S. Cannizzaro” di Palermo. È responsabile della sezione “Ricerca e sperimentazione didattica” della rivista ClassicoContemporaneo ed è stato membro aggregato di “IRN Zoomathia (Transmission Culturelle des savoirs zoologiques – Antiquité-Moyen Âge)”. Autore di diversi contributi sulla storia della letteratura e sull’antropologia del mondo antico, si è occupato di autori come Aristotele, Plutarco, Plinio il Vecchio, Seneca, Ovidio, dell’etno-zoologia e della paradossografia dei Greci e dei Romani, e di antropologia del dono nel mondo antico. Fra le sue pubblicazioni, Gli animali nel mondo antico (il Mulino, 2018), L’anima degli animali (curato con R. Pomelli, Einaudi, 2015), nonché, per Palumbo, Sulle tracce del manticora (2003), Generare in comune (2008), Il riconoscimento e il ricordo. Ha curato anche, assieme a E. Romano, M. Formisano e R. Marino, una traduzione con commento del De oratore di Cicerone (Edizioni dell’Orso, 2015).


Giovanni Battista Magnoli Bocchi insegna “Forme di potere e comunicazione nel mondo greco” presso l’Università di Pavia. Si occupa di storiografia, retorica e comunicazione politica, cioè del racconto della realtà a fini politici. Fra le sue ultime pubblicazioni: Politica e Storia nella Retorica di Aristotele (Carocci 2019), La resilienza dell’antico. Il passato alla prova del presente (Mimesis 2020). È coautore di Come i social hanno ucciso la comunicazione (Guerini 2020).


Francesca Masi è Professore Associato di Storia della Filosofia Antica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. I suoi interessi vertono in particolare sull’ontologia, la fisica, l’epistemologia, la psicologia e l’etica antiche. Ha scritto numerosi saggi e curato vari volumi sulla filosofia di Aristotele, su Epicuro, Lucrezio e l’Epicureismo. È autrice di due monografie: Epicuro e la filosofia della mente. Il XXX libro dell’opera Sulla natura e Qualsiasi cosa capiti: natura e causa dell’ente accidentale. Aristotele, Metafisica E 2-3.


Marcello Zanatta, già professore ordinario di Storia della Filosofia Antica e incaricato di Retorica Classica, è specialista di Aristotele, cui ha dedicato cinque monografie e di cui ha redatto l’edizione italiana di molte opere. Si é occupato altresì dello stoicismo antico e romano e della retorica giudiziaria di Ermagora di Temno. Dirige la collana “Questioni di Filosofia Antica” e la collana “Vette Filosofiche” ed é membro di Società filosofiche italiane e internazionali. 


Quadrilogia aristotelica

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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