Max Picard (1888-1965) – L’uomo contemporaneo accosta tutte le cose in un arruffio incoerente e questo dimostra che anche la sua interiorità è un coacervo privo di qualsiasi connessione.

Max Picard 02
Hitler in noi stessi. Distruzione della verità . Ordine nuovo – propedeutica nazista – possibilità di salvezza

«L’uomo contemporaneo accosta tutte le cose in un arruffio incoerente e questo dimostra che anche la sua interiorità è un coacervo privo di qualsiasi connessione. L’uomo contemporaneo non si trova più di fronte alla stabile datità delle cose e le cose non gli vengono più incontro una ad una, né egli stesso s’avvicina alla singola cosa compiendo un atto particolare: verso l’uomo contemporaneo, la cui interiorità è un coacervo incoerente, si muove oggi un sconclusionato arruffio esterno. Non si presta neppure più attenzione a cosa ci viene incontro, poiché si è soddisfatti purché qualcosa venga ed è proprio in una siffatta confusione che qualsiasi cosa e chiunque può immischiarsi».

Max Picard, Hitler in noi stessi, Pgreco, Roma 2016, p. 14.


Max Picard (1888-1965) – Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale perché sta al di fuori della dimensione dell’utile. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. La parola sorge dal silenzio.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alessandro Dignös – Il saggio «L’ultimo uomo» di Salvatore A. Bravo. Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo».

Ultimo uomo, Nietzsche

L’ultimo uomo

indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös

Il saggio L’ultimo uomo di Salvatore Antonio Bravo

Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale
alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo»

 

Il saggio L’ultimo uomo di Salvatore Antonio Bravo intende esaminare e «riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia» (p. 5): quella dell’«ultimo uomo» (der letzte Mensch) nietzscheano. Si tratta, com’è noto, di un tema cardine del pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche; nondimeno, come rileva lo studioso, nonostante gli innumerevoli studi dedicati al suo pensiero, «titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressoché assenti» (Ibidem). Questo fatto appare paradossale: l’analisi del concetto di «ultimo uomo» è infatti di vitale importanza per la decodificazione della filosofia nietzscheana, al punto che non si può realmente pervenire alla sua comprensione se si prescinde dalla considerazione di tale figura. Nella misura in cui l’«ultimo uomo» rappresenta l’incarnazione del «nichilismo», che Nietzsche identifica con la cifra della nostra civiltà e del nostro tempo, va da sé come la sua analisi sia del tutto imprescindibile per intendere la diagnosi nietzscheana della contemporaneità. Alla luce di ciò, la nozione di «ultimo uomo» appare, per alcuni aspetti, più importante di quella di «superuomo»: infatti, se è vero che questa coincide, in un certo senso, con la “causa finale” della costruzione filosofica di Nietzsche, è altresì vero che è l’«ultimo uomo» che costui ha in mente nella sua radicale critica dell’evo presente. Sulla scia della lettura della filosofia nietzscheana data da Costanzo Preve, che ha il merito di aver «spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo» (Ibidem), Bravo si propone di indagare tale concetto «al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità» (Ibidem). Se dunque, da un lato, egli mira a far luce su alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, dall’altro la sua ricerca appare rivolta alla comprensione del nostro tempo proprio a partire dall’analisi nietzscheana.
Come emerge dalle opere di Nietzsche, l’«ultimo uomo» non è che un semplice replicante: «uguale a tutti, si confonde con ognuno» (p. 7). Non solo appare incapace di distinguersi dalla massa, ma addirittura vede con sospetto ogni tentativo di differenziarsi rispetto ad essa. Costui rappresenta il venir meno dell’uomo, poiché la sua identità consiste nell’assenza di identità. Nel mondo in cui egli domina «non vi sono idee, non vi sono modi di sentire e di esserci differenti: lo scorrere del tempo è un «eterno ritorno dell’eguale» consistente in una «replicazione ad infinitum di parole, frasi, gesti, comportamenti eguali, orientati verso una riconciliazione massificata che respinge ogni tensione creativa» (Ibidem). In un mondo siffatto, nota Bravo, «scompare ogni maieutica ed ogni dialettica» (Ibidem).
È il suo «integralismo nichilista» a renderlo «il più inquietante» tra gli uomini. La sua visione del mondo è unicamente orientata al «trionfo della sicurezza: precondizione per il successo dei suoi piccoli raggiri da mercato» (p. 8). Lo strumento della sua affermazione è la «tecnica» (Gestell), mentre il suo habitat è la “società di mercato”, l’orizzonte nel quale «si rende manifesta la morte di Dio e con essa la morte dell’uomo» (Ibidem). Questo “mondo storico” segna il tramonto di ogni umanesimo, poiché il regno della cieca manipolazione tecnico-utilitaristica ripudia e respinge qualsiasi forma di resistenza al suo imporsi, qual è quella costituita da realtà e concetti come “essere”, “natura umana” o “verità”. Alla ricerca dialogica della verità come fondamento della comunità, l’impero del mercato sostituisce l’«esattezza» delle scienze, intesa come strumento di gestione e manipolazione della vita umana. Di un fondamento veritativo irriducibile a tale «esattezza» non è più nulla. Con l’evento della morte di Dio, muore così anche la filosofia; non resta che l’egemonia del nulla o «nichilismo».
Per la sua capacità di prevedere alcuni esiti prodotti dalla tecnica e dal mercato, Nietzsche, secondo Bravo, può essere considerato il “profeta” «dell’ultimo integralismo: quello economico, il più insidioso, il più pervasivo, poiché risponde ad una logica semplice: “comprare – vendere”; e, mediante tali attività, trasforma in verità ontologica, in paradigma, il mercato» (p. 9). La società mercatista, per Nietzsche, rappresenta «la realizzazione assoluta della “décadence”», che «partorisce gli uomini che meritano il grande disprezzo» (p. 13). L’«ultimo uomo», in questo senso, non figura che come il “prodotto” di un complesso lavoro di ingegneria “sociale” che ha nel totalitarismo del “mercato” – l’unico vero Dio della postmodernità – il proprio “ingegnere” – o, meglio, il proprio Demiurgo. Il sentimento che più lo caratterizza è l’assenza di sentimento, ovvero l’indifferenza: nulla in lui desta reale gioia o stupore, così come nulla in lui crea sgomento o angoscia: «ripiegato su se stesso e sui suoi piccoli affari, ha quale obiettivo quello di rassicurarsi e gratificarsi nei giochi minuscoli di potere e piacere. Vive nella sua caverna, giudicandola l’unica possibile; […] non immagina un mondo altro possibile» (p. 10). «Schiavo della sua indifferenza, sa solo agire e reagire, è veloce nel contare, nella tattica della piccola politica, ma ogni grande pensiero, ogni sospensione della prassi per una comprensione completa e feconda gli è estranea» (p. 12). L’«ultimo uomo» parla sempre del proprio “io”, senza però intendere che esso non è che un fantasma: «in realtà, in sua vece, parla il sistema tecnocratico» (p. 11). Ogni pensiero profondo è in lui e da lui rimosso: per l’«ultimo uomo», il solo “essere” possibile è il “visibile”, il “corporeo”, ciò che si presta a ridursi ad oggetto di scambio, mercanteggiamento, chiacchiera, contraffazione e consumo. «La consapevolezza è espulsa dal percorso vitale perché dona profondità e diventa elemento di interruzione di un flusso finanziario» (p. 7); e «chi sente diversamente» in questo mondo, preconizza Nietzsche, «se ne va da sé al manicomio» (Così parlò Zarathustra, Proemio, § 5).
Il giudizio nietzscheano sul «totalitarismo del mercato», afferma Bravo, «è accostabile a quello di Marx» (p. 16): ciò che Nietzsche scrive a proposito della condizione di “alienazione” che caratterizza gli uomini nell’età del «nichilismo» ricorda i rilievi marxiani sulla massificazione e sull’alienazione degli individui che il capitalismo inevitabilmente genera. Secondo lo studioso, «Nietzsche come Marx secondo prospettive diverse ravvisa i movimenti che avrebbero portato al gelo dell’ultimo uomo ed al depauperamento progressivo della creatività e della progettualità singolare e comunitaria» (p. 59). Entrambi, insieme a Hegel, «hanno colto lo stesso pericolo: l’uomo ad una dimensione, l’uomo mediocre, l’animo piccolo borghese anonimo porta con sé una forza titanica distruttiva. Si avvale della tecnica e delle tecnologie, e le utilizza per il salto finale, ovvero conquistare ogni parte del pianeta al capitale, mentre avanza l’ultima ideologia, ogni coscienza è a sua volta terra di conquista» (p. 19). La società (post-)moderna è una «gabbia d’acciaio» in cui «l’ultimo uomo può diventare il cannibale della propria comunità o di altre comunità» (p. 23). Come rileva Bauman, ognuno, in questo palcoscenico, è in pericolo: il processo di razionalizzazione che esso inscena partorisce individui autolatrici, cinici e inconsapevoli che non pongono alcun freno alle proprie azioni e appaiono disposti a tutto pur di realizzare il proprio utile.
Ma chi sono questi individui? Bravo mette in luce come non esista, nella prospettiva di Nietzsche, un solo “modello ideale” di «ultimo uomo», poiché, dal momento che egli rappresenta l’assenza di qualsivoglia identità, molteplici sono le “maschere di carattere” che egli è in grado di indossare. Tra queste vi sono «lo storico, lo scienziato positivista, il razionalista socratico, il demagogo, il razzista, il nazionalista, il religioso» (p. 12), così come i «ricchi borghesi» e i «socialisti rivoluzionari». Questi ultimi, secondo Nietzsche, non personificano un tipo umano differenziato, una sorta di homo novus; all’opposto, la loro ragion d’essere è nei borghesi stessi, dei quali incarnano i sentimenti dell’invidia, del rancore e del risentimento. «Nell’esposizione-confronto tra chi ostenta e chi possiede e chi invidia», evidenzia lo studioso, vi è per il pensatore «la genealogia, l’origo delle ideologie socialiste», poiché «il mercato […] invita all’invidia, e dunque diventa causa delle stesse ideologie degli egoismi e dei rancori. […] I ricchi borghesi ostentano la loro muscolatura mediante i beni in loro possesso» e «offrono con essi l’ostentazione del loro potere; dall’altra parte», invece, vi è «la penuria e dunque l’invidia: i proletari vorrebbero essere al posto dei ricchi borghesi, e dunque fomentano la rivoluzione, la distruzione di ogni gerarchia e valore» (p. 15), ossia, in una parola, il «nichilismo».
A questo punto, si tratta di capire quando si sia realizzata, per Bravo, la profezia di Nietzsche. La risposta che egli offre stupirebbe di certo la maggioranza degli studiosi del pensiero nietzscheano. Secondo costui, la sua compiuta realizzazione non ha luogo nella prima metà del Novecento, ma a partire dal Sessantotto. È con il Sessantotto, la «fuga da ogni regola», che si aprono le porte alla «possibilità totale della mercificazione» grazie al «trionfo del capitale senza borghesia e senza etica. Il capitale liberato da ogni vincolo può dunque dimorare ovunque; così l’Occidente diviene la casa del capitale» (p. 29). Grazie al Sessantotto, «ogni trasgressione è innalzata sugli altari», non perché costituisca una forma di “liberazione”, ma «poiché produce beni di consumo» (Ibidem). “Liberati” da ogni resistenza al dominio della merce, agli individui non resta che accettare e promuovere con nichilistica esaltazione la precarizzazione dell’esistenza, la disgregazione sociale, l’omologazione culturale, la deificazione del progresso e, infine, la tecnicizzazione della vita, dei rapporti umani e della politica. Si approda così all’idea che il presente incarni la gloriosa «fine della storia» e che questo mondo, nonostante suoi difetti, rappresenti «il solo» e «il migliore dei mondi possibili». E così sia.
Il “mondo storico” previsto e descritto da Nietzsche si presenta oggi come un orizzonte ineluttabile, una realtà di cui si è parte e con cui si è costretti a fare i conti in ogni istante della vita quotidiana. La sua prospettiva, tuttavia, è tutt’altro che fatalista: da questo mondo, egli avverte, il «possibile» non è né può essere espunto. È vero che «il deserto avanza», ma è altrettanto vero che esso, per il filosofo, «incontra e si scontra con anime immense che rompono la massificazione» (p. 49). Esse, spiega Bravo, sono coloro che «conservano il contatto con il dionisiaco», «la riserva delle energie psichiche della creatività vissuta nella carne e pensata con la carne, ciò che racchiude «potenzialità del pensiero che la ragione non conosce» (Ibidem). Sono «gli ispirati di Dioniso», dunque, che, per Nietzsche, «possono cambiare la storia, rovesciano il regno della necessità, divenendo i portatori di pensieri inauditi» (p. 49). Ciò che consente di liberare il «dionisiaco» nell’uomo e trasformarlo è descritto dal filosofo con l’espressione «eterno ritorno dell’eguale». Esso rappresenta «la palingenesi per poter creare», poiché determina l’arresto di quel «tempo meccanico, deterministico e positivistico» che è «il tempo ciclico del capitale», il cui infinito ripetersi segna «l’annichilimento della categoria del possibile» e «di ogni trasformazione individuale e collettiva» (p. 21). «L’eterno ritorno trasforma il tempo in ente voluto» (Ibidem) dando origine all’«oltreuomo», a colui che «sospende il tempo del fare, della ripetizione, per scegliere l’agire, nella rinuncia alle fantasie di onnipotenze la condizione per la creatività, per il dominio e la conoscenza di sé» (pp. 21-22), rivelando il «possibile» là dove, per l’«ultimo uomo», non vi sono che «necessità» e «normalità».
Ad ogni modo, l’emersione del «possibile», ossia della possibilità di uscire dalla «gabbia d’acciaio» tecno-capitalistica, non si manifesta, per Nietzsche, solo in senso “individuale”, con l’«oltreuomo». Come evidenzia Bravo, pur non essendovi opere «nelle quali egli ha trattato in modo sistematico un modello alternativo al sistema», «sono presenti tracce per un ipotetico programma sociale» (p. 45). Se si legge ciò che il filosofo scrive in alcuni suoi scritti, si può constatare che «le tragedie della sua epoca sono lette attraverso la cattiva distribuzione delle ricchezze»: «la polarizzazione dei capitali» e «l’assenza della politica», per costui, generano «estremismi pericolosi, la radicalizzazione dello scontro» (Ibidem). La critica di Nietzsche si rivolge così a un’«economia senza politica» che «frammenta e distrugge ogni tessuto sociale e diviene precondizione per nuovi e fatali sconvolgimenti in una deriva conflittuale della dismisura» (Ibidem). Quale sia il rimedio da porre a tale situazione è indicato da Nietzsche nell’aforisma 285 del secondo volume di Umano, troppo umano, nel quale esorta a togliere «dalle mani dei privati e delle società private tutti i rami del trasporto e del commercio, che sono favorevoli all’accumulazione dei grandi patrimoni, ossia in particolare il commercio del denaro», e a considerare «tanto i grandi possidenti quanto i nullatenenti come esseri pericolosi per la comunità»; è solo tenendo «aperte tutte le vie del lavoro alla piccola proprietà», contrastando sia la povertà sia «l’arricchimento senza sforzo ed improvviso», che si può rendere la proprietà «più morale» e preservare la comunità (Umano, troppo umano II, aforisma 285). Sulla base di ciò, è lecito sostenere che anche in Nietzsche si delinea, per certi aspetti, una “via sociale” al superamento del «nichilismo» – una “via” che rivela all’uomo nuove «possibilità» rispetto all’ordine dominante.
Il saggio di Bravo ha il merito di mostrare un “ritratto” di Nietzsche sconosciuto anche a molti interpreti del suo pensiero. Dalla presente analisi, il “filosofo del martello”, lungi dall’impersonare il mero “profeta dei fascismi” – come pretende una delle interpretazioni che da decenni domina il dibattito mediatico-culturale –, appare piuttosto come il “profeta” di quell’«ultimo uomo» che, dal Sessantotto in poi, ha conquistato ed egemonizzato la scena del mondo. La sua diagnosi, tuttavia, non ha affatto un esito depressivo, poiché mira ad individuare nuovi percorsi in grado di condurre oltre il «nichilismo» che anima la società (post-)moderna. Il confronto con il pensiero nietzscheano permette di cogliere che, dietro l’idea che questo sia «il migliore» o «il solo» mondo possibile, si cela l’ennesimo mito da sfatare. «Il futuro non è fatalità, ma sistema aperto che attende tutti» (p. 68): è questo, per Bravo, il grande insegnamento di Nietzsche. Egli chiarisce come il compito della filosofia, lungi dal risolversi nella decostruzione fine a se stessa o nell’accettazione fatalistica dello status quo, consista nel farci «assumere la consapevolezza delle macerie» (p. 67) e «prepararci al possibile» (p. 52) per «ridare dinamicità alla storia» (p. 68) e «ridisegnare la condizioni per nuove coscienze, per una coscienza liberata dal giogo dell’asservimento» (p. 54). Si tratta di un atto che si rivolge contro il mondo esterno, ma che è anzitutto rivolto contro se stessi: l’«ultimo uomo», infatti, non è mai solo l’altro da sé, ma vive «in ognuno di noi», poiché «ciascuno di noi vive all’interno del dispositivo di potere […] e porta con sé l’ospite inquietante» (p. 51). Solo accettando questa tremenda verità diventa possibile «restituire una forma alla storia» (p. 68). La via che conduce alla trasformazione della realtà passa dunque attraverso la radicale trasformazione di sé. È questo il senso della lezione di Nietzsche – una lezione che è dedicata all’«ultimo uomo» che tutti noi siamo.

Alessandro Dignös

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.
Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»
Alessandro Dignös – Uno Spinoza diverso. L’«Ethica» di Spinoza e dei suoi amici, di Piero Di Vona.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito. Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro.

Immanuel Kant, La Pedagogia
Salvatore Bravo

Filosofia e Pedagogia

Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito.
Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro.

I grandi pensatori sono stati filosofi-educatori: pedagogia e filosofia sono un corpo speculativo unico, pertanto filosofare significa educarsi ed educare: i processi sono sincretici. Nessun pensatore potrebbe definirsi solo in rapporto alla filosofia, poiché i sistemi – l’arte di inventare concetti e di problematizzarli – sono già, di per sé, attività educative. Il motto del criticismo kantiano è “aude sapere”, ma potrebbe essere: legge del filosofare. Non si tratta di un’attività al singolare, ma comunitaria. Il particolare, poi, la forma specifica del sapere filosofico è il suo rapportarsi al potere in modo dialettico, a volte conflittuale, al fine di difendere l’autonomia del filosofo e delle genti contro le ipostasi artificiose ed ideologiche del potere. La filosofia è esigente: senza il rischio della solitudine non è che conformismo da salotto.

Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) si occupò di pedagogia. Tale aspetto è spesso poco conosciuto. Fu un suo allievo, Theodor Rink, a pubblicare le sue osservazioni pedagogiche nel 1803. Nella prima parte dell’opera Pedagogia, al paragrafo sette, afferma che i príncipi spesso trattano il popolo come se fosse appartenente al “regno animale”. Il potere spesso strumentalizza i popoli e ne fa carne da macello. L’educazione deve avere come scopo non l’utile, ma la formazione umana e dev’essere rivolta a tutti. Una simile osservazione, oggi, è più vera che mai: le istituzioni scolastiche sono curvate sull’utile del mercato, pertanto la formazione è solo un percorso per diventare strumento dell’ipostasi economia a cui tutto si deve. Un essere umano, invece, ha bisogno di una pluralità di attività, affinché il suo sviluppo sia armonico: cure fisiche, disciplina ed istruzione. Il percorso che conduce all’autonomia è lungo e complesso. L’adolescente, come l’infante, per poter imparare “il libero pensiero” deve sperimentare l’autorità senza autoritarismo. È necessario che vi siano figure educative che contengano e modellino le pulsioni e gli istinti, i quali se lasciati liberi finiscono per dominare la persona, e limitare anche l’altrui libertà. Senza disciplina non si può vivere la libertà: questa è una verità eterna. Oggi si assiste ovunque alla distruzione della figura paterna per poter consegnare le nuove generazioni al mercato ed al consumo. Il pedagogismo contemporaneo demonizza l’autorità, ma non riflette sulle conseguenze della sua assenza, e specialmente sulla solitudine di bimbi ed adolescenti senza punti di riferimento:

«L’uomo è la sola creatura capace di essere educata. Per educazione, in senso largo, s’intende la cura (il trattamento, la conservazione) che richiede l’infanzia di lui, la disciplina che lo fa uomo, infine la istruzione con la cultura. Sotto questi tre rispetti, egli è infante, allievo e scolare. Appena gli animali cominciano a sentire le proprie forze, le usano regolarmente, cioè in maniera tale da non recar danno a sè stessi. È curioso il vedere, per esempio, come le giovani rondinelle, appena uscite dal loro uovo e tuttora cieche, sappiano disporsi per modo da far cadere i loro escrementi fuori del nido. Gli animali non hanno dunque bisogno d’essere curati, sviluppati, riscaldati e guidati, o protetti. Vero è che la più parte di essi domandano nutrimento, ma non cure. Per cure bisogna intendere le precauzioni che prendono i genitori per impedire ai loro nati di far uso nocivo delle loro forze. Se, per esempio, un animale venendo al mondo gridasse come fanno i bambini, diverrebbe certamente preda dei lupi e di altre bestie selvagge attirate dalle sue grida. La disciplina o educazione ci fa passare dallo stato di animale a quello d’uomo. Un animale è pel suo istinto medesimo tutto ciò che può essere; una ragione a lui superiore ha preso anticipatamente per esso tutte le cure necessarie. Ma l’uomo ha bisogno della sua propria ragione. Costui non ha istinto, e conviene che formi da se stesso il disegno della sua condotta. Ma, siccome non ne possiede la immediata capacità e viene al mondo nello stato selvaggio, ha bisogno dell’aiuto altrui. La specie umana è obbligata a cavare a grado a grado da se stessa colle proprie sue forze tutte le qualità naturali che appartengono all’umanità, una generazione educa l’altra. Se ne può cercare il primo principio in uno stato selvaggio o in uno stato perfetto di civiltà; ma nel secondo caso, bisogna pure, ammettere che l’uomo sia poi ricaduto nello stato selvaggio e nella barbari».[1]

 

L’universale fine dell’educazione
L’educazione è un processo di responsabilità collettiva, è un’ardua impresa, perché le generazioni tramandano la loro esperienza alle nuove generazioni, le quali hanno il compito di vagliarla e migliorarla. Continuità e discontinuità coesistono, si trasmette un’identità culturale non solo per conservarla, ma specialmente per ripensarla. L’autonomia si attua nel confronto critico con l’identità di provenienza. Senza “appartenenza” non vi è umanità, perché non vi è identità. Non è possibile non svolgere una comparazione con il presente, in cui vige la distruzione di ogni tradizione linguistica e politica, al punto che non vi è più conflitto.
Senza confronto non si formano personalità, non si strutturano autocoscienze, vi è solo la solitudine dell’adolescente a cui è permesso tutto: in tal modo perde se stesso. Il conflitto, se non è distruttivo, consente di conoscere se stessi, ed invita le parti in dialogo ad argomentare su valori e scelte sclerotizzate dall’abitudine, o a giudicarne la loro validità etica e razionale:

«L’uomo deve innanzi tutto svolgere le sue attitudini per il bene; la Provvidenza non le ha messe in lui bell’e formate, ma come semplici disposizioni, e però non vi è ancora distinzione di moralità. Render se stesso migliore, educare se medesimo, e, s’egli è cattivo, svolgere in sè la moralità, ecco il dovere dell’uomo. Quando vi si rifletta consideratamente, si vede quanto ciò sia difficile. L’educazione, pertanto, è il più grande e il più arduo problema che ci possa esser proposto. Difatti le cognizioni dipendono dall’educazione, e questa dipende alla sua volta da quelle. Onde non potrebbe l’educazione progredire che di mano in mano; e noi possiamo arrivare a farcene un’idea esatta solo in quanto ciascuna generazione trasmette le sue esperienze e le sue cognizioni alla generazione posteriore, che vi aggiunge qualcosa di suo e le tramanda così aumentate a quella che le succede. Qual cultura e quale esperienza dunque non suppone questa idea? E però essa non poteva sorgere che tardi, e noi stessi non l’abbiamo ancora innalzata al suo più alto grado di purezza. Si tratta di sapere se l’educazione nell’uomo singolo debba imitare la cultura che l’umanità in generale riceve dalle sue diverse generazioni».[2]

 

Educazione privata e pubblica
All’educazione privata è preferibile l’educazione pubblica, poiché si apprende la libertà nelle relazioni plurali, in cui non solo si impara ad ascoltare (competenza difficilissima), ma specialmente si trascende il naturale egocentrismo di ogni essere umano in formazione. In famiglia si è il centro di ogni attenzione, prevale l’interesse personale. Nello spazio pubblico si impara ad essere cittadini capaci di rispettare regole e doveri comuni a tutti, “il mondo” si configura nello spazio pubblico nella sua problematicità:

«L’educazione privata è data dai genitori stessi, o, se per caso non ne abbiano il tempo, la capacità o il gusto, da altre persone che li aiutano in ciò, mediante una ricompensa. Ma questa educazione data così da persone ausiliarie ha il gravissimo difetto di dividere l’autorità fra i genitori ed il precettore. Il fanciullo deve regolarsi secondo i precetti dei suoi maestri, e deve in pari tempo seguire i capricci dei suoi genitori. È necessario che in questo genere di educazione i genitori depongano tutta la loro autorità in mano dei maestri. Ma fin dove l’educazione privata è preferibile alla educazione pubblica, o questa a quella? L’educazione pubblica, in generale, sembra più vantaggiosa dell’educazione domestica, non solamente in rispetto alla abilità, sì anche in rispetto al vero carattere di cittadino. L’educazione domestica, oltre non correggere i difetti appresi in famiglia, li aumenta».[3]

 

Responsabilità e formazione
Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro: i genitori solitamente si occupano del presente senza porsi il problema del valore qualitativo ed etico del tempo immediato, mentre i potenti utilizzano i loro popoli come strumenti per soddisfare i loro disegni di grandezza. Le nuove generazioni hanno bisogno di educatori che insegnino loro non solo la responsabilità verso il futuro, ma specialmente che si è parte di un’unica umanità. Solo in questo modo il percorso educativo di generazione in generazione può trarre dalle persone il “bene” ed avere la sua teleologia:

«Un principio di Pedagogia, al quale dovrebbero mirare segnatamente gli uomini che propongono norme di arte educativa, è questo: Che non devesi educare i fanciulli secondo lo stato presente nella specie umana, ma secondo uno stato migliore, possibile nell’avvenire, cioè secondo l’idea dell’umanità e della sua intera destinazione. Questo principio è d’una importanza grande. I genitori educano per lo più i loro figli per la società presente, sia pure corrotta. Dovrebbero, al contrario, dar loro una educazione migliore, perché un migliore stato ne possa venir fuori nell’avvenire. Ma qui si parano dinanzi due ostacoli:
1° I genitori non si curano per ordinario che di una cosa sola, ed è che i loro figli facciano buona figura nel mondo.
2° I principi risguardano i propri sudditi come strumenti nei loro disegni.
I genitori pensano alla casa, i principi allo Stato. Gli uni e gli altri non si propongono per fine ultimo il bene generale e la perfezione a cui è destinata l’umanità. Le basi fondamentali d’un disegno d’educazione fa d’uopo che abbiano un carattere mondiale. Ma il bene generale è un’idea che possa tornar dannosa al nostro bene particolare? Niente affatto! Imperocché, quantunque sembri che gli si debba sacrificare qualcosa, veniamo così a lavorar meglio pel bene del nostro stato presente. E allora quante nobili conseguenze! Una buona educazione è proprio la sorgente d’ogni bene nel mondo. I germi che sono riposti nell’uomo debbono svilupparsi ognor di vantaggio; imperocché nelle disposizioni naturali dell’uomo non v’ha principio di male. La sola causa del male sta nel sottoporre a norme la natura. Nell’uomo non vi sono che i germi per il bene. Da chi dee provenire il miglioramento dello stato sociale? Dai principi o dai sudditi? Conviene che questi si migliorino prima da sè stessi, e facciano la metà di strada per andare incontro a governi buoni? Se, invece, deve partire dai principi questo miglioramento, si cominci dunque a riformare la loro educazione; poiché si è commesso per lungo tempo questo grave sbaglio, di non resistere mai agli stessi principi nella loro gioventù. Un albero che resta isolato in mezzo ad un campo perde la sua dirittura nel crescere e stende lungi i suoi rami; al contrario, quello che cresce nel mezzo di una foresta si mantiene diritto, per la resistenza che gli oppongono gli alberi vicini, e cerca al disopra l’aria ed il sole. Avviene lo stesso nei principi. Ma vale ancor meglio siano educati da qualcuno dei loro sudditi che dai loro pari. Non si può attendere il bene dall’alto se prima non vi sarà migliorata l’educazione! Qui bisogna dunque contare più sugli sforzi dei privati che sul concorso dei principi, come hanno giudicato Basedow ed altri; dacché l’esperienza c’insegna che i príncipi nell’educazione badano meno al bene del mondo che a quello dello Stato, e vi scorgono solo un mezzo per giungere ai loro fini. Se col denaro soccorrono la educazione, si riservano il diritto di stabilire le norme che loro convengono. Lo stesso va detto per tutto ciò che risguarda la cultura dello spirito umano e l’incremento delle umane conoscenze. Questi due risultamenti non sono procurati dal potere e dal denaro, ma solo facilitati; bensì potrebbero procurarli ove lo Stato non prelevasse le imposte unicamente nell’interesse del suo erario. Neppur le Accademie li hanno dati finora, ed oggi più che mai non si scorge alcun segno ch’esse comincino a darli».[4]

I germi del bene sono in ogni essere umano, ma senza educatori, strutture e spazi pubblici la predisposizione al bene non resta che una possibilità senza atto. La comunità deve essere educante, ogni adolescente ed infante è parte di una totalità comunitaria che deve responsabilizzarsi verso di essi: l’alternativa è la barbarie.

 

Libertà
L’equilibrio tra autorità ed autorevolezza non è certo semplice, in quanto il fine di ogni educazione è lo sviluppo delle naturali potenzialità comunitarie e soggettive dell’educando, le quali confliggono con le sue pulsioni individualiste. È necessario guidare l’adolescente, insegnargli la libertà con gradualità. La libertà si deve sperimentare sotto l’occhio vigile dell’educatore, al fine di incoraggiare esperienze di autonomia, nelle quali l’adolescente deve educarsi a gestire il senso del limite ed a contenere i suoi fini, perché anche gli altri li possano concretizzare. Ogni vita nel suo sviluppo deve lasciare spazio alle altre esistenze. La libertà non è finalizzata alla soddisfazione del proprio incontenibile piacere, ma primariamente a conoscersi mediante il rapporto dialettico con le alterità:

«Qui devesi por mente alle infrascritte regole. 1° Bisogna lasciar libero il fanciullo fino dalla sua prima età e in tutti i suoi movimenti (salvo in quelle occasioni in cui può farsi del male come, per esempio, se prendesse in mano uno strumento tagliente), a patto bensì di non impedire la libertà altrui, come quando grida, o manifesta il suo brio in modo troppo rumoroso e da recar disturbo agli altri. 2° Gli si deve mostrare ch’ei può conseguire i suoi fini, a patto bensì ch’egli permetta agli altri di conseguire i loro propri; ad esempio, non si farà niente di piacevole per lui s’ei non fa ciò che desideriamo, come d’imparare ciò che gli viene insegnato, e via dicendo. 3° Bisogna provargli che l’autorità, il costringimento a cui si sottopone, ha per fine d’insegnargli ad usar bene della sua libertà, che lo educhiamo ed istruiamo affinché possa un giorno esser libero, cioè fare a meno del soccorso altrui. Questo pensiero sorge assai tardi nella mente dei fanciulli, poiché non riflettono nei primi anni che dovranno un giorno provvedere da sè stessi al loro mantenimento. Credono che la cosa andrà sempre come nella casa paterna, cioè ch’essi avranno da mangiare e da bere senza darsene alcun pensiero. Ora senza questa idea, i fanciulli, segnatamente quelli dei ricchi ed i figli dei principi, restano per tutta la vita come gli abitanti di Otahiti. L’educazione pubblica ha qui manifestamente i più grandi vantaggi: vi s’impara a conoscere la misura delle proprie forze ed i limiti che c’impone il diritto altrui. Non vi si gode alcun privilegio, poiché vi sentiamo dovunque la resistenza, e ci eleviamo sopra gli altri solo per merito proprio. Questa educazione pubblica è la migliore immagine della vita del cittadino. Resta ancora una difficoltà che non vuol essere qui dimenticata, e risguarda la cognizione anticipata del sesso, a fine di preservare i giovinetti dal vizio prima dell’età matura».[5]

Si impara a diventare cittadini con esperienze formative che esulano il successo e la competizione. A tal fine è indispensabile l’educazione pubblica con la quale si apprende la condivisione e la responsabilità.
Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito che dal passato ci esorta a pensare alle conseguenze dei processi di privatizzazione ed atomizzazione dell’educazione. Comunità vi è soltanto in presenza di cittadinanza attiva e consapevole. Ma ciò può avvenire solo mediante un percorso di formazione che riponga al centro la persona nella comunità e non certo il mercato globale. Il cosmopolitismo kantiano, spesso invocato a sostegno della globalizzazione, ha piuttosto come fine la formazione del cittadino libero e razionale e non certo del suddito globale.

Salvatore Bravo

[1] Immanuel Kant, Pedagogia, Liber Liber, pag. 9.
[2] Ibidem, pag. 11.
[3] Ibidem, pag. 14.
[4] Ibidem, pag. 12.
[5] Ibidem, pag. 15.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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LIvIO ROSSETTI – Due fALSI originali Di AUTORi di «QUalità»: Enrico Berti (Arisotele) e Mario Vegetti (Platone).

Livio Rossetti - Enrico Berti - Mario Vegetti

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Aristotele, Eubulo o della ricchezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, autentico falso d’autore di E. Berti, Guida, Napoli 2004, pp. 96.

Platone, Repubblica Libro XI, Lettera XIV. Socrate incontra Marx lo Straniero di Treviri, autentico falso d’autore di M. Vegetti, Guida, Napoli 2004, pp. 56.

Aristotele non ha scritto un dialogo intitolato Eubulo. L’Eubulo di Enrico Berti è una geniale ricostruzione di come potevano ‘funzionare’ gli incontri ad alto livello che avevano luogo, non sappiamo con quale frequenza, tra il vecchio Platone e i suoi allievi più accreditati. Egli ci porta dunque dentro l’Accademia platonica e ci fa assistere a una sessione filosofica, come si poteva svolgere in tempi così lontani e in un contesto così singolare. A sua volta Mario Vegetti ci porta nella sala in cui avrebbe avuto luogo la conversazione che poi ha assunto la forma del dialogo ed è universalmente nota col titolo di Repubblica, per farci assistere alla scena finale e a un dibattito aggiuntivo che Platone non ci ha raccontato: quando ormai Socrate considerava concluso il suo dire, uno sconosciuto volle prendere la parola, e ne sarebbe nata una significativa prosecuzione di quel dialogo: quello che è ora l’undicesimo libro della Repubblica di Platone. Che fascino assistere a Socrate che si confronta con uno sconosciuto e a Platone che si confronta con i suoi migliori discepoli, anzitutto Aristotele! Ci troviamo dunque a entrare in stanze nelle quali si ha da sempre l’impressione di non poter accedere, e con personaggi oltremodo famosi che, per una volta, vediamo in azione. E a farci entrare sono due grandi conoscitori di Aristotele (il Berti) e della Repubblica di Platone (il Vegetti di cui lamentiamo la scomparsa nel marzo del 2018) i quali, in un momento di grazia, trovano il modo di dare il meglio di sé.

Eppure, con questi due libretti siamo, a rigore, nel regno della pura affabulazione! Ma in questo caso sono scesi in campo alcuni riconosciuti maestri della filosofia antica in Italia, solo che il contesto ci parla di un progetto che in prima battuta si direbbe giocoso e solo giocoso: provare a immaginare un incontro tra Socrate e Marx che possa in qualche modo inserirsi nella cornice della Repubblica, oppure provare a scrivere un dialogo di Aristotele che non ci è pervenuto, dunque inventarselo di sana pianta. L’editore informa, del resto, che tra gli altri “autentici falsi d’autore” ora in preparazione ci sono un falso Marx che scrive la Storia della lotta di classe nell’agro nocerino-sarnese, un falso Torquato Tasso, una falsa Saffo e magari – provo ad immaginare – un falso Dostojevski e un falso Nietzsche, un falso Heidegger e un falso Wittgenstein. Il tutto ad opera di autentici professionisti, grandi connoisseurs dell’uno o dell’altro autore, come chiaramente sono i due soli studiosi finora usciti allo scoperto. Si ammetterà che la situazione incuriosisce, ma non invoglia poi tanto a fare dei pronostici su cosa possa mai venir fuori da una miscela del tipo indicato.

In compenso, ora possiamo andare a vedere. E capiamo subito che quella di Enrico Berti è stata un’idea felice: egli ha provato a scrivere un dialogo “di Aristotele” partendo dalla constatazione che in nessun caso noi siamo in grado di rappresentarci lo scambio di idee tra i personaggi messi in scena da Aristotele in questo o quel suo dialogo, perché sul conto di queste opere  disponiamo di informazioni decisamente troppo povere. Ha dunque provato a inventarne uno di sana pianta, sia pure con il tenue appiglio di poche e assai reticenti testimonianze, ed ha immaginato che ai tempi del vecchio Platone si organizzassero di tanto in tanto dei simposi ad alto livello, per i membri più autorevoli della scuola. Leggiamo dunque che Aristotele, in veste di personaggio leader del dialogo, esordisce dicendo: «Quest’anno, cari amici, tocca a me organizzare e presiedere il tradizionale simposio della nostra scuola. Non so se sarà altrettanto interessante di quello, organizzato alcuni anni fa dal nostro maestro, Platone, sulla sua dottrina delle idee», né di altri organizzati in seguito. Segue una garbata presentazione dei luoghi, dei personaggi, della figura di Eubulo e del tema: se gli uomini di governo sono troppo ricchi, se possiedono poco meno che il monopolio degli spettacoli, se hanno un potere fin troppo grande. Ne nasce una conversazione plausibile, a tratti addolcita da qualche bella trovata conversazionale, che coinvolge Platone, Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Tanto basta perché prenda forma una rappresentazione garbata e plausibile della scuola di Platone e dei suoi esponenti intorno all’anno 350 a.C., dunque di un momento particolarmente significativo della tradizione filosofica occidentale, di cui sarebbe difficile tracciare un rapido e convincente profilo. Il risultato è insomma istruttivo. Il libretto lo si legge con gusto e merita di essere non solo letto per curiosità, ma anche proposto, presentato, adottato e magari fatto recitare dai ragazzi di liceo, sicuri che così essi perverranno a fissare nella loro mente dei personaggi altrimenti esposti al più serio rischio di rimanere fin troppo evanescenti. Ne è nata infatti una sorpresa tanto istruttiva quanto gradevole da leggere.

Al confronto, Mario Vegetti osa, tutto sommato, ancora di più, perché esordisce con un Socrate che, avendo finito di raccontare quell’opera che conosciamo come la Repubblica di Platone, continua dicendo: «Credevo, a questo punto, di aver finalmente condotto a termine il lungo viaggio nel discorso che ci aveva portato da quaggiù a lassù, dalla notte del Pireo alla luce della “bella città” e dei premi che attendevano l’uomo giusto in questo e nell’altro mondo. Il primo chiarore dell’alba lambiva ormai il portico…». Ed ecco l’imprevisto: nella sala si agita, novello Trasimaco, uno straniero rozzo e barbuto, dalla voce potente, il quale pretende di parlare ed esordisce così: «Ma che favole ci vieni raccontando, Socrate? Prima dicevi che bisogna proibire alle balie di terrorizzare i bambini con le storie dell’orco e dell’uomo nero, e ora provi a spaventare gli adulti con queste … chiacchiere sull’aldilà, i viaggi dell’anima e i giudizi di Minosse?». Lo straniero insiste perché Socrate torni al tema della politica e procede quindi ad avanzare delle riserve sul comunismo della Repubblica, un comunismo che egli giudica non abbastanza radicale perché il Socrate della Repubblica ha appena delineato una poco rassicurante città di sudditi. Ed ecco che il discorso acquista subito una sua insospettata punta di plausibilità, come se il dialogo a noi noto continuasse in un undicesimo libro lanciando e discutendo qualche nuova idea, con Trasimaco che cerca di intromettersi e Socrate che trova il modo di obiettare qualcosa a Marx: i filosofi socratico-platonici sono poi così diversi dalla classe (dei proletari) che ha coscienza di sé e prende il potere anche per conto – oltre che nell’interesse – del popolo? Ciò che in tal modo perviene a prendere forma è uno stimolante confronto a distanza che il lettore competente avrebbe motivo di non lasciar cadere frettolosamente. Ed ecco che abbiamo, di nuovo, una bella provocazione a sviluppare dei pensieri sulla base di un accostamento senza dubbio ardito, ma non innaturale e non improponibile. E c’è dell’altro: Vegetti ci ha dato un esempio credibile di come si potrebbe provare a dare un qualche seguito ai dialoghi platonici, compito che è stato tante volte prospettato, ma senza tradursi in strade praticabili. Un altro punto a favore!

Siamo insomma in presenza di due felici invenzioni, oltretutto di agile lettura, che a mio avviso varrebbe proprio la pena di far conoscere largamente agli studenti di liceo e in altri contesti comparabili.

Detto questo, molto altro resterebbe da notare e commentare: il fatto di confrontarci con un Aristotele che funge da autore, da personaggio, da protagonista e da intellettuale leader del dialogo, oppure la singolare natura delle note apposte dal Vegetti alla sua introduzione, note nelle quali egli si diverte a stravolgere dati editoriali noti, come ad es. quando scrive: «Cfr. in proposito S. Pastaldi-Gambese, Bendidie, in M. Vecchietti (a cura di), Platone, Repubblica, libro I, Francopolis, Napoli 1998, pp. 6372-7277», alludendo a un articolo di Silvia Gastaldi e Silvia Campese incluso nel primo volume del grande commento diretto dallo stesso Vegetti e pubblicato da Bibliopolis… Il divertimento è certamente condiviso da ogni lettore in grado di individuare a colpo sicuro i nomi giusti, e a maggior ragione da chi ritrova il proprio nome e magari un proprio libro citati con diciture deformate ma non proprio irriconoscibili. Tutto ciò rientra nel lato accattivante e plausibile dei due falsi, che sono proprio “d’autore” e di qualità

Livio Rossetti

Recensioni già pubblicate in: «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Rivista Quadrimestrale, Nuova Serie n. 184 – gennaio/aprile 2005, pp. 86-87.


Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica



Enrico Berti – La crematistica va contro la stessa natura dell’uomo, è ingiusta e immorale. Vorrei una città in cui l’uomo realizzi tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia.

Mario Vegetti (1937-2018) – Il sognatore che pensa,  il pensatore che sogna nel «Racconto del Saggio del Capitale».

Livio Rossetti (1938) è stato professore di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni. Nel 1989 ha fondato la Intern. Plato Society a Perugia, nel 2006 ha dato il via agli incontri di Eleatica che si tengono tuttora a un passo dagli scavi di Elea (in pieno Cilento) e nel 2018 ha fondato la Intern. Society for Socratic Studies a Buenos Aires.
Tra i suoi studi su Parmenide e Zenone ricordiamo: Un altro Parmenide (2 voll., Bologna 2017) e Una tartaruga irraggiungibile (fumetto, Bologna 2013): nel 2019 questo volumetto è stato pubblicato in spagnolo, a Buenos Aires. Nel 2020 è in pubblicazione La filosofia virtuale di Parmenide Zenone e Melisso.


 

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …


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Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica

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Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica


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ABSTRACT

Rodolfo Mondolfo non è “nato” come specialista di filosofia greca, ma come storico della filosofia moderna e autorevole intellettuale marxista. A un certo punto della sua vita, però, quando egli godeva già di un ragguardevole prestigio sia per le molte pubblicazioni che per la cattedra di Storia della Filosofia all’Università di Bologna, la filosofia antica è per così dire esplosa in lui, fino a diventare ben presto l’occupazione principale della sua vita, un elemento costitutivo della sua (nuova) identità culturale e la fonte di un vasto prestigio internazionale.

  1. Il lato insospettato della personalità di Mondolfo

Non sono più tanto pochi gli studiosi di “antica” ai quali sfugge che Rodolfo Mondolfo non è “nato” come storico della filosofia greca e non in questa veste ha fatto una brillante carriera nel sistema universitario italiano. Infatti la filosofia antica ha fatto irruzione nella sua vita quando egli era già prossimo ai cinquant’anni[1] ed era insediato nell’Università di Bologna quale autorevole professore di Storia della filosofia, con al suo attivo tanti studi su autori come Cartesio, Malebranche, Spinoza, Hobbes, Condillac, Romagnosi, Helvétius, Rousseau e Montesquieu, poi Beccaria, Feuerbach, Lassalle, Marx, Engels, Giordano Bruno, Acri, Fiorentino, Ardigò.[2] All’epoca il suo profilo di intellettuale era d’altronde non meno fortemente caratterizzato sotto il profilo politico-ideologico quale esponente del Partito Socialista e quale opinionista impegnato a marcare le distanze dal leninismo a favore di una concezione “umanistica” del marxismo inteso come filosofia della libertà, e nel quadro di una prospettiva riformistica della lotta politica[3] che alimenterà le ripetute critiche di Gramsci. Almeno fin verso il 1925 nulla dunque permise di sospettare in lui l’esistenza di un altro grande amore, e tanto meno il possesso di competenze eminenti in un ambito così lontano dai suoi interessi dichiarati. La figura di Mondolfo quale non meno autorevole specialista di filosofia antica è emersa pressoché all’improvviso nel corso degli anni Venti, ed ha costituito un evento più unico che raro.

A questo riguardo dobbiamo oltretutto registrare la penuria di memorie o testimonianze che aiutino a capire le ragioni di una simile svolta: ragioni che possiamo certamente immaginare e congetturare, ma sul conto delle quali chi poteva sapere non ha scritto. Sorprende, in particolare, che Eugenio Garin abbia parlato a più riprese del Mondolfo nelle sue famose Cronache della filosofia italiana, ma solo per collocarlo all’inizio tra i positivisti e poi tra i marxisti, non anche per registrare l’ulteriore grande virata che ben presto fece di lui un autorevole specialista di filosofia antica. Eppure, quando nell’immediato dopoguerra il Garin mise mano a queste sue cronache, la celebrità del Mondolfo antichista era già abbondantemente prevalsa sulla sua notorietà quale “modernista”. A ciò si aggiunga che il Garin non poteva non essere informato sul conto del “nuovo” Mondolfo, visto che il suo primo grande libro di filosofia antica – Storia della filosofia esposta con testi scelti dalle fonti da R. Mondolfo, E. P. Lamanna e L. Limentani, Volume I, Il pensiero antico. Storia della filosofia greco-romana, Milano-Genova-Roma-Napoli, Dante Alighieri, 1928: un volume di 600 pp. – nacque come parte di un programma editoriale nel quale era coinvolto anche Ludovico Limentani, maestro e mentore del giovane Garin all’Università di Firenze. Ora Limentani non solo accettò di associare il proprio nome a quello di Mondolfo quale previsto autore del terzo volume della serie – cosa già di per sé non priva di risvolti interessanti, visto che con ciò egli si faceva carico di esporre proprio quella filosofia moderna al cui studio Mondolfo aveva dedicato gran parte dei suoi scritti, e di lasciare al collega l’onere di pubblicare un volume su temi che, almeno in teoria, sarebbero dovuti risultare poco familiari all’uno non meno che all’altro – ma si accinse immediatamente a predisporre quel terzo volume, che infatti è uscito nel 1930 (dunque a breve distanza) col titolo: Il Pensiero Moderno. Storia della filosofia da R. Descartes a H. Spencer.[4]

 

Questo volume – leggiamo nella Prefazione – segue direttamente, nell’ordine cronologico della pubblicazione, l’antologia del Pensiero Antico, curata da Rodolfo Mondolfo, ed ha comuni con essa il programma e l’intento, pur con le variazioni richieste dalle caratteristiche peculiari, che differenziano la speculazione moderna dall’antica.

Sorprende dunque che il Garin, pur essendo senza dubbio a conoscenza della grande svolta che, come vedremo, ha segnato profondissimamente il profilo scientifico e la vicenda personale del Mondolfo, l’abbia passata del tutto sotto silenzio malgrado la sua evidente rilevanza e la sua stessa attitudine a fare notizia.[5] Analogamente sorprende che ne taccia anche lo Sciacca nelle pur numerose pagine da lui dedicate ai filosofi italiani della prima metà del XX secolo. Era appunto pensando a questi silenzi che ho accennato alla necessità di tracciare una storia solo congetturale della grande svolta.

A queste prime considerazioni è peraltro appropriato aggiungere che la singolare operosità del Mondolfo fino a un’età veneranda ha contribuito non poco a fare di lui una sorta di Giano bifronte, con una nitida caratterizzazione “modernistica” per il periodo 1900-1930, e un non meno nitida caratterizzazione “antichistica” per il successivo mezzo secolo anche se, nel secondo periodo, egli non mancò di ritornare di tanto in tanto sui temi che avevano polarizzato la sua attenzione nella fase “modernistica” della sua carriera. Quale poté essere dunque il senso, e quali le ragioni, di una così spettacolare virata, che oltretutto è unica nel suo genere? Tale è, in ultima analisi, il quesito attorno al quale ruoteranno queste note.

 

 

  1. Cambiar mestiere a cinquant’anni

Sempre in relazione all’uscita del Pensiero Antico ricorderò che, oltre al Pensiero Moderno di Limentani, era prevista l’uscita di un analogo Pensiero medievale (inizialmente affidato alle cure di E. Paolo Lamanna, poi annunciato come opera di Bruno Nardi) che non vide mai la luce. Di maggior interesse è però un’altra notizia: contemporaneamente all’uscita del Pensiero Antico il Mondolfo pubblicò, sempre nel 1928, anche una Sintesi storica del pensiero antico, breve testo di appena 80 pagine che venne in seguito incorporato nel Pensiero Antico come suo naturale complemento. Con l’uscita di queste due opere, pensate per formare un tutt’uno, il Mondolfo si trovò dunque a proporsi come specialista in un ambito che, all’epoca, sarebbe stato lecito giudicare non suo. Se infatti andiamo a sfogliare un libretto raro in Italia, il vol. 11 della collana “Grandes italo-argentinos” della Dante Alighieri di Buenos Aires (che si intitola Rodolfo Mondolfo, maestro insigne de filosofía y humanidad, ed è apparso nel 1992),[6] e consultiamo la “Bibliografía completa de los escritos de R. M.” (ben 465 titoli pubblicati tra il 1899 e il 1975), notiamo che il primo scritto di carattere antichistico – un articolo del 1925 sulla “negazione della realtà dello spazio in Zenone di Elea” – costituisce il titolo n° 137 della serie ed arriva a ben ventisei anni di distanza dal primo scritto mondolfiano, “L’eredità in T. Tasso”. Sempre nel 1925 uscì un articoletto sul tema “Veritas filia temporis in Aristotele”, mentre un secondo articolo su Zenone apparve nello stesso anno del Pensiero Antico, e nel repertorio bibliografico argentino figura come pubblicazione n° 152. La sproporzione (tre articoli sperduti in una messe di centocinquanta altri lavori a stampa) può solo far pensare a un interesse marginale ed episodico per questi autori di un’altra epoca. Del resto gli stessi due volumi coordinati del 1928 uscirono contemporaneamente a Der Faschismus in Italien (contributo al volume Internationaler Faschismus, Karlsruhe 1928, che l’autore firmò con uno pseudonimo), ad un altro articolo sugli inizi del movimento operaio in Italia fino al 1872 e sul conflitto Mazzini-Bakunin, apparso anch’esso in Germania, ed a svariati altri articoli su Fiche, Ardigò, Romagnosi, Nietzsche e la filosofia del Rinascimento. La disomogeneità non potrebbe essere più evidente e tale, ripeto, da rendere insospettato l’affiorare di una competenza tanto lontana da quelle di cui l’autore aveva dato prova nei precedenti venticinque anni ma, con ogni evidenza, effettiva.

Un pregevole e informato profilo, dovuto a Giacomo Marramao,[7] ci dice qualcosa di più. Il Marramao ricorda che, dopo la Marcia su Roma, Mondolfo continuò a dirigere la «Biblioteca di studi sociali» presso l’editore Cappelli, accogliendo in essa opere di Turati, Salvemini e Gobetti, nonché la III edizione del suo Sulle orme di Marx (1919, 1920, 1923).

 

 

Ma nel 1926 queste pubblicazioni non potevano più circolare. La stessa Critica sociale era soppressa. Il libro di Gobetti veniva, per esplicito ordine delle autorità fasciste, fatto ritirare dalla circolazione e passato al macero. […] Dopo la cessazione forzata della «Biblioteca», M. continuò a curare, sempre presso Cappelli, una «Collana di testi filosofici e pedagogici» nella quale apparvero le Opere di Rousseau e nel 1925, ad un anno dall’assassinio di G. Matteotti, il famoso libro di C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Benché si volgesse ormai sempre più allo studio della filosofia antica (nel cui campo produrrà contributi di eccezionale valore e rilievo storiografico) M. continuò a servirsi di sedi accademiche per stampare lavori di contenuto storico-politico, come la rassegna sul libro di N. Rosselli, Mazzini e Bakunin (in Nuova Rivista Storica, 1930), il saggio Germi in Bruno, Bacone e Spinoza del concetto marxistico della storia, l’ampia nota sull’edizione critica delle opere complete di Marx e Engels curata da Rjazanov e Adoratskij, e la recensione alla biografia di Engels scritta da G. Mayer (pubblicati su Civiltà moderna, rispettivamente nel 1930, 1931 e nel 1934). Ma il lavoro con cui M. poté esercitare, in pieno regime fascista, una vasta influenza sulla formazione culturale e politica dei giovani che più tardi passarono alla milizia antifascista, fu costituito dalla collaborazione all’Enciclopedia Italiana, per la quale scrisse (su diretta commissione di G. Gentile) le voci «Giordano Bruno», «Comunismo», «Filone di Alessandria», «C. A. Helvétius» (1930); «Antonio Labriola», «Internazionale e internazionalismo» (1932); «Materialismo storico» (1933); «Movimento operaio» (1934); «Sindacalismo», «Socialismo», «Scienza» (1935); «Unità», «Universo» (1937).[8]

 

Come si vede, la grande svolta ha il potere di compensare l’emergere di impedimenti di sostanza allo sviluppo della sua attività di filosofo militante: il nuovo filone di scritti da un lato trova un sicuro approdo editoriale e dall’altro concorre ad aprire all’autore le ambite porte dell’Enciclopedia Italiana, dove il Mondolfo ha modo di pubblicare sia alcune voci attinenti alla filosofia antica, sia svariate voci attinenti alla filosofia moderna, incluse alcune che, in teoria, sarebbero potute risultare ideologicamente pericolose.

Tutto ciò potrebbe far pensare a una forma di prudenza del Mondolfo che, di fronte all’avvenuta affermazione di un regime politico sfavorevole e piuttosto intollerante, semplicemente ha la buona idea di riciclarsi in un altro ambito, e precisamente in uno che, dal punto di vista ideologico, sarebbe passato facilmente per neutrale.

Ma un altro aspetto della storia richiede di essere chiamato in causa: l’alta, altissima professionalità di questa storia fatta al 90% con testi greci e latini appositamente tradotti e “cuciti” insieme. Ce ne rendiamo conto se diamo uno sguardo a ciò che di specifico era disponibile all’epoca. In italiano due volumi importanti erano stati pubblicati appena dodici-tredici anni prima. Si tratta del primo volume di una Storia generale del pensiero scientifico di Aldo Mieli (Le scuole ionica pythagorica ed eleata, apparso nel 1916) e del primo volume della Storia della Filosofia di Guido De Ruggiero (Bari 1917). Nel frattempo altre grandi storie della filosofia antica erano state pubblicate in Germania (quelle di Zeller, Überweg, Gomperz, Jöel), mentre il solo tentativo di ripercorrere quella medesima storia con i testi antichi risaliva, nientemeno, al 1838[9] ed era in latino (Historia philosophiae greco-romanae e fontium loci contexta di H. Ritter e L. Preller).

Rispetto a queste opere, tutte percepite come prestigiose, quella di Mondolfo si è caratterizzata in primo luogo come un contributo non meno professionale, tale dunque da evidenziare una mano non meno sicura, come se l’autore avesse potuto vantare una analoga consuetudine di lungo corso con gli autori antichi e, in misura non minore, con le premesse filologiche osservate nel trattamento delle fonti. Infatti l’opera presenta, debitamente selezionate, raccordate e appositamente tradotte dal greco o dal latino (quanto alla traduzione, Mondolfo ha cura di precisare che «solo in rarissime eccezioni, scrupolosamente indicate» si è avvalso di traduzioni altrui), alcune migliaia di unità testuali incastonate in una struttura di raccordo decisamente scarna che lascia ai testi d’autore un buon 90% dello spazio complessivo, ma che evidenzia una non comune funzionalità: veramente titoletti ed altri testi ottengono di inquadrare e dare un senso abbastanza preciso a ciò che questa struttura di volta in volta incastona.

Risalta insomma, e con ogni evidenza, che sin dall’inizio questo “modernista” si ritrova ad operare anche da consumato antichista e da grande storico della filosofia antica. Devo aggiungere che ciò è oltremodo raro? Devo ricordare le riserve degli antichisti nei confronti di famosi affondi filologici di Heidegger e, in anni a noi più vicini, dello stesso Giorgio Colli? Dovette essere proprio l’immediata, intuitiva e ben poco controversa impressione di sicura professionalità dell’opera ad accreditare da subito l’autore come specialista dotato di indubbia competenza. Va detto infatti che il maestro senigalliese si è accreditato con quest’opera, non con altro!

L’opera permette dunque al lettore colto di accedere a una impressionante quantità di testi spesso noti solo di seconda mano perché non tradotti o così tecnici da risultare accessibili solo a un manipolo di iper-specialisti. Ricordo, con l’occasione, che nelle grandi storie della filosofia antica allora in circolazione, da quelle relativamente brevi di Robin e De Ruggiero a quelle di grandi proporzioni redatte da Zeller, Gomperz e altri, i testi antichi erano praticamente assenti: al loro posto c’erano, di norma, unicamente le note contenenti le indicazioni (ma si potrebbe quasi dire: le istruzioni) per rintracciare i singoli testi pertinenti e andarseli a leggere – peraltro in un contesto in cui molti testi non erano disponibili anche in traduzione e non pochi erano addirittura rari e difficili da reperire. Da qui la specialissima utilità che rendeva l’opera una risorsa indispensabile per chiunque avesse a che fare con Platone, Aristotele, gli Stoici o i Presocratici.

Ma non è tutto. Sarebbe riduttivo trattare la “storia attraverso i testi” posta in essere con questo libro semplicemente come opera di uno studioso competente. Il volume, infatti, offre al lettore informato ben altro che la traduzione italiana del materiale a suo tempo confluito nel Ritter-Preller. Oltre a generali e ricorrenti asimmetrie, infatti, la nuova opera presenta intere sezioni creativamente innovative (per esempio quella sulle scuole socratiche minori). La mano dello studioso che indaga e si guarda bene dal limitarsi a riciclare informazioni già disponibili si vede peraltro molto bene anche a giudicare dalla articolata e competente bibliografia che figura a fine volume. Né questo è tutto, perché si deve ancora ricordare che l’insieme è inequivocabilmente pensato per fornire un orientamento, per cui titoletti, sottotitoli e brevi testi di inquadramento e commento permettono ogni volta di dare un senso non approssimativo al singolo testo o gruppo di testi. In questo modo viene pur sempre “raccontata” (anzi, più propriamente “mostrata”) la filosofia dei greci tappa per tappa, analiticamente. Ripeto poi che un patrimonio di testi d’autore e di evidenze testuali dirette così ricco, così coerente e così “leggibile” non si era mai visto, e non solo in Italia.

La pubblicazione di quelle seicento pagine testimonia pertanto di una mobilitazione enorme di energie intellettuali in direzione antichistica. Con Il pensiero antico Mondolfo ha fatto centro ed ha sorpreso o strabiliato tanto chi lo conosceva già (ma quale apprezzato “modernista”) quanto chi non aveva idea delle sue non comuni competenze di settore. Dobbiamo evidentemente immaginare anche un notevole successo editoriale, superiore a quanto le recensioni d’epoca lasciano sospettare.

Che dunque la comunità scientifica abbia potuto scoprire l’esistenza di un Mondolfo autorevole storico della filosofia antica solo a distanza di trent’anni dalla pubblicazione del suo primo articolo è soltanto un effetto dovuto all’assenza di adeguati prodromi. A sua volta, che la strozzatura rappresentata da un regime fascista solidamente installato al potere possa aver avuto un ruolo nell’indurre l’autore a valorizzare questa sua competenza collaterale più ancora di quella primaria è cosa possibile e comprensibile. La cosa strana è dunque un’altra: che l’autore abbia potuto tenere rigorosamente per sé, e tanto a lungo, una specializzazione che doveva aver cominciato a coltivare ben per tempo, che doveva pur amare, e che per un “modernista” poteva ben valere come un cospicuo fattore di eccellenza a titolo di competenza complementare. Oltretutto, a giustificazione di questo improvviso exploit, non si può invocare nemmeno una ipotetica volontà di emulare le gesta di Guido Calogero, perché nel 1927, quando questi pubblicò I fondamenti della logica aristotelica e, comprensibilmente, era ancora sconosciuto ai più avendo appena ventitré anni, Mondolfo aveva già messo mano al Pensiero antico.

 

 

  1. Il consolidamento della specializzazione antichistica

Dopo questo libro, Mondolfo ha immediatamente deciso di allungare ancora di più il passo. Se con Il pensiero antico egli aveva perlustrato alla grande le fonti antiche, con la nuova impresa editoriale cui mise mano subito dopo egli si propose di “regolare i conti” con l’intera letteratura specialistica. Egli intraprese infatti la traduzione italiana delle oltre 5300 fitte pagine di quella Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung di Eduard Zeller la cui pubblicazione era iniziata a Tubinga nel 1845, per poi protrarsi, in una lunga serie di nuove edizioni, fino alla settima del 1921-23, opera cui veniva unanimemente riconosciuto lo status di summa eminente della disciplina, con il non meno ambizioso proposito di metter mano a una edizione che lui stesso avrebbe minuziosamente aggiornato. Ed ecco che la Philosophie der Griechen di Zeller diventa, sin dal primo volume, lo “Zeller-Mondolfo”, opera che manifestamente attribuisce al curatore italiano lo status di co-autore, e dunque di nuovo e non meno autorevole maestro, meritevole di associare il proprio nome a quello di un insuperato connoisseur d’altri tempi.

Quale la strategia di La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico di Zeller e Mondolfo, pubblicata dalla Nuova Italia di Firenze a partire dal 1932? La risposta è una sola: una buona traduzione, opportunamente riorganizzata in modo da permettere un ragionevole “primato dei bianchi sui neri” (specchio di scrittura un po’ più piccolo, corpo dei caratteri e interlinea maggiorati, quindi fabbisogno di un maggior numero di pagine e scomposizione dell’opera in un numero molto maggiore di più maneggevoli volumi, tali da diventare, di fatto, altrettante monografie), e una serie di generosi aggiornamenti collocati a piè di pagina sotto forma di lunghe note poste tra parentesi quadre e, solitamente, corredate di titolo e sottotitoli.

Nel redigere queste note il Mondolfo si attribuì il compito di passare in rassegna molti decenni di letteratura specialistica, non soltanto allo scopo di documentare la varietà delle opinioni emesse, ma anche col proposito di consentire uno sguardo sinottico sulle interpretazioni, sulle ragioni di ognuna e sul diverso grado di attendibilità di ognuna. Alla prudenza esegetica era peraltro affidato il compito di non far troppo pesare le personali propensioni interpretative del Mondolfo. Se dunque lo Zeller si era speso per tener conto della letteratura critica, ma soprattutto per esplorare analiticamente la pressoché infinita serie delle fonti antiche, il Mondolfo individuava il suo compito peculiare (e complementare) nel proporre una esplorazione assolutamente sistematica della più accreditata letteratura specialistica, non senza spaziare tra molte aree linguistiche. Il risultato doveva essere (e cominciò ad essere) un’opera praticamente insostituibile perché tale da offrire quanto nessun’altra opera comparabile aveva mai offerto, e tale in effetti fu, solo che i tempi cominciarono ben presto ad allungarsi in maniera più che preoccupante. Se infatti il primo volume uscì nel 1932, ma ebbe ad oggetto solo il capitolo introduttivo del primo volume, Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, ossia una serie di pur sempre importanti généralités, per l’uscita del secondo volume, riservato ai soli Ionici e Pitagorici, si dovette attendere il 1938, il che, data la notoria prolificità dell’autore, poté ben considerarsi un tempo immenso.

Ricordo che il 1938 è stato anche l’anno in cui Mondolfo, di fronte ai condizionamenti indotti dal fascismo e da un antisemitismo che andava acquistando crescente rilevanza sociale, decise di lasciare l’Italia e di provare a crearsi un nuovo avvenire in Argentina. Rimane che la realizzazione a tappe dello “Zeller-Mondolfo” ha accompagnato la vita del maestro senigalliese per quasi mezzo secolo, magari sempre meno in veste di autore e sempre più in veste di coordinatore dell’impresa editoriale, con la costante ricerca di sempre nuovi collaboratori in grado di portare avanti l’impegnativo progetto senza snaturarlo, ricerca che, dati i tempi, si configurò come vasto flusso di lettere dall’Argentina.

Dopo i primi due, il Mondolfo pervenne a redigere personalmente il IV volume della prima parte, dedicato a Eraclito e pubblicato nel 1961. Il volume uscì contemporaneamente al primo dei volumi affidati ad altri collaboratori: il VI della Parte III dell’opera, dedicato a Giamblico e la scuola di Atene e curato da Giuseppe Martano. Fu poi la volta, nel 1966, del vol. VI della parte II, Aristotele e i Peripatetici più antichi, a cura di Armando Plebe; nel 1967, del vol. III della parte I sugli Eleati, a cura di Giovanni Reale (con aggiornamenti di prim’ordine) e, nel 1969, del vol. V della parte I su Empedocle, Atomisti, Anassagora, a cura di Antonio Capizzi (con una offerta di aggiornamenti decisamente più esigua). Negli anni Settanta si è registrata infine la pubblicazione del vol. III (1-2) della parte II, Platone e l’Accademia antica, a cura di Margherita Isnardi Parente (1974) e del vol. IV della parte III, I precursori del Neoplatonismo, a cura di Raffaello Del Re (1979). Si sa che nel frattempo l’invito aveva raggiunto anche altri studiosi come Gabriele Giannantoni ed Enrico Berti, i quali però non pervennero alla pubblicazione della sezione loro assegnata (o, forse, declinarono l’invito). In totale, la benemerita editrice toscana pubblicò otto sostanziosi e ben curati volumi, che complessivamente coprono quasi la metà dell’intero programma editoriale, e che hanno certamente contribuito non poco a consolidare la fama del Mondolfo come specialista di prim’ordine. Ricordiamo inoltre che nel caso di più d’uno di questi volumi il Mondolfo curò personalmente la traduzione dal tedesco e che nel 1972 lo studioso, ormai vegliardo, pervenne a pubblicare, con la collaborazione di Leonardo Tarán (suo antico allievo, divenuto poi autorevole professore alla Columbia University di New York), anche un cospicuo Eraclito, Testimonianze e imitazioni (volume uscito, al pari di molti altri, presso La Nuova Italia).

Dopo aver doverosamente reso conto della vasta “filiazione” che accompagnò per più di quattro decenni la seconda grande iniziativa scientifica ed editoriale di stampo antichistico intrapresa dal nostro autore subito dopo l’uscita del Pensiero antico, ritorniamo ora agli anni Trenta, e più precisamente agli anni stessi anni in cui iniziarono le pubblicazioni dello “Zeller-Mondolfo”.

Tra il 1931 e il 1933 il nostro autore pubblicò anche nove articoli dedicati ad aspetti diversi del modo greco di rappresentarsi l’infinito, articoli che evidentemente preludevano a un’opera d’insieme. L’intero di cui quei nove articoli erano mere anticipazioni vide in effetti la luce, sempre presso La Nuova Italia, subito dopo: nel 1934. L’infinito nel pensiero dei Greci, altra opera di grande impegno e di sicura professionalità, risultò dedicato al tentativo di smantellare (letteralmente smantellare) la diffusa convinzione secondo cui i Greci (in particolare i filosofi greci) avrebbero espresso una generale attitudine a rappresentarsi l’infinitezza e l’indeterminazione con connotazioni rigorosamente negative.

Perviene, con ciò, a delinearsi una sorta di imponente trilogia, costituita appunto dal Pensiero antico combinato con la Sintesi storica (1928), dal primo tomo dello “Zeller-Mondolfo” (1932-) e dall’Infinito (1934). Converrà ribadire che è la penuria e scarsa consistenza delle pubblicazioni antichistiche anteriori al 1928, a fronte peraltro di un più che cospicuo flusso di studi sulla filosofia moderna e contemporanea che durava già da più di un quarto di secolo, a far risaltare la portata e l’unicità di questo evento complessivo.

Gli anni immediatamente successivi (fino al 1938, anno di pubblicazione del secondo tomo dello “Zeller-Mondolfo”: oltre 700 pp.) sono occupati non soltanto da una lunga serie di articoli che vertono sugli autori sui quali riferire nel volume in preparazione e da altri che si rifanno alle tematiche dell’infinito, ma anche dall’uscita di altri due volumi: i Problemi del pensiero antico (1936) e un Feuerbach y Marx apparso a Buenos Aires nello stesso 1936 (e fondato su Sulle orme di Marx, Bologna 1919, 19202, 19233). Il senso di questi titoli è chiaro: consolidare ulteriormente la propria caratterizzazione come studioso di filosofia antica senza per questo sconfessare l’attività “modernistica” e anzi ricercare una sponda all’estero: per l’appunto in Argentina.

 

 

 

  1. La migrazione in Argentina e i mitici anni Quaranta-Cinquanta

Appare desiderabile, a questo punto, prendere in considerazione un arco di tempo di circa dieci anni, dal periodo immediatamente successivo alla migrazione fin verso il 1950, epoca in cui il Mondolfo si avvicinava già ai 75 anni, perché si tratta di un periodo di incredibile fertilità dello studioso inizialmente impegnato a ritagliarsi uno spazio congruo nella patria di elezione, che oltretutto era rimasta fortunosamente estranea al secondo conflitto mondiale, mentre manteneva desti in vario modo i legami con la madrepatria (che, a sua volta, visse il travaglio di una radicale mutazione della propria identità politico-istituzionale e civile) e con la comunità scientifica internazionale. Furono, questi, gli anni in cui il nostro autore poté dare alle stampe, nella sola Argentina, ben quindici libri, con leggera prevalenza delle opere dedicate a temi di filosofia moderna e contemporanea su quelle dedicate a temi di filosofia antica. Va detto inoltre che, a partire dal 1946, ricominciò il flusso delle ristampe e nuove edizioni di suoi libri in italiano, inclusa la IV edizione di Sulle orme di Marx e qualche testo scolastico (Descartes, Rousseau) con traduzione, introduzione e note.

Il senso di questa impressionante operosità non lascia adito a dubbi: ora che l’autore si è abbondantemente accreditato anche come antichista, data anche la maggiore apertura del mondo argentino a temi diversi di storia della filosofia, egli non poteva non desiderare di riproporre almeno alcuni dei suoi libri, sia del primo che del secondo tipo. Questo atteggiamento trova riscontro anche nel flusso parallelo di articoli, che non vertono solo sulla filosofia antica. Del resto anche nel corso degli anni Cinquanta, malgrado l’incombere dell’età, assistiamo all’uscita di una ulteriore ventina di volumi, tra ristampe, edizioni ampliate e traduzioni in italiano o in spagnolo. Di nuovo, il mero dato quantitativo è tale da imporsi alla nostra attenzione: tra il 1940 e il 1960 Mondolfo pubblicò qualcosa come 40-45 libri[10] e un buon centinaio di altri lavori.

Ovviamente, nell’economia di queste note non sarebbe pertinente fornire un elenco, se non per quanto riguarda il versante antichistico. Ricorderò dunque il Sócrates del 1941 (ripubblicato con ulteriori apporti nel 1955), il Moralistas griegos del 1941 (in italiano nel 1960); la nuova edizione del Pensiero antico in spagnolo (1945), poi in italiano (1950; 1961; 1967), quindi in portoghese (1964); Problemi e metodi di ricerca nella storia della filosofia (Milano 1952); la traduzione spagnola dell’Infinito nel pensiero dell’antichità classica (non più dei soli greci: 1952; in italiano nel 1956) e soprattutto l’imponente Comprensión del suyeto humano en la cultura antigua (1955; poi Firenze 1956). Ricordiamo che nel 1955 il Mondolfo era già prossimo agli ottanta anni e che una delle sue opere più importanti e di più durevole memoria perché opera competente e professionale – il già ricordato Eraclito, Testimonianze e imitazioni – pervenne ad essere pubblicata solo ancora più tardi, nel 1972, quando l’autore si apprestava a festeggiare i suoi 95 anni.[11]

Osserviamo inoltre, a conclusione della retrospettiva, che l’immenso flusso di opere risalenti alla fase argentina della vita di Mondolfo appare connotata non soltanto dall’ormai acquisito primato degli studi di filosofia greca sugli altri temi, ma anche da un vasto recupero dei lavori pubblicati prima di mettersi alla prova anche come antichista, dunque lavori sulla filosofia moderna e contemporanea che allargano il quadro, documentano la vastità e ricchezza degli orizzonti, lasciano intravedere una concezione organica della tradizione filosofica occidentale in cui tanto gli uni quanto gli altri studi possono ben trovare la loro legittimazione.

Appare nondimeno significativo che i due ambiti non danno luogo a nessuna tentazione di raccordare ciò che inizialmente era – o poté sembrare – irrelato e giustapposto. La giustapposizione è rimasta, ed è significativo che qualche connessione ha preso forma, semmai, in Problemi e metodi di ricerca nella storia della filosofia, vale a dire in un testo anch’esso professionale che si propone di fornire criteri ed esempi di come si procede a fare storia della filosofia in genere, e che permette all’autore di aprire di tanto in tanto una finestra sui procedimenti che entrano in gioco quando il filosofo non è così antico come quelli da lui tanto a lungo prediletti. Il che equivale a ribadire il sacrosanto rispetto dell’autore per la specificità degli studi nei singoli settori, con connessa disponibilità ad accettare di presentarsi come una sorta di Giano bifronte.

 

 

 

  1. Mondolfo apripista per gli italiani e gli argentini

Che altro aggiungere? Con quanto si è riferito fin qui, non ha già preso forma un encomio eloquente e certamente più che meritato, ma proprio per questo anche un po’ scontato e prevedibile?

Mi permetto di affermare che le cose non stanno in questo modo. Il dato quantitativo, pur così imponente, richiede che siano evocati e immessi in circolo anche altri dati, perché altrimenti non si perverrebbe nemmeno a sospettare l’ulteriore valore aggiunto di cui si è fatta portatrice questa produzione così esemplarmente disciplinata sotto il profilo del rispetto per la specificità di singoli ambiti di ricerca. Il valore aggiunto di cui ora vorrò brevemente far cenno attiene alla fama in un senso, di nuovo, raro, rarissimo. Sappiamo che la comunità accademica di tanto in tanto esprime maestri che riempiono gli scaffali dei loro libri e si circondano di allievi, dando luogo a una diffusione vasta o vastissima dei loro scritti e a sempre nuove Festschriften, ma anche a fenomeni di saturazione, per cui accade talvolta che il decesso del grande maestro si traduca in un improvviso, irreversibile abbassamento della curva di attenzione diffusa per le sue opere. Orbene, Mondolfo non poté vantare un nugolo di allievi, né una vasta discendenza accademica. Al contrario, la sua collocazione nel sistema universitario argentino fu e rimase decisamente marginale, né ebbe luogo un flusso importante di riconoscimenti dell’ultima ora, anche se sono disponibili evidenze certe relative ad una non grande serie di iniziative congrue che furono assunte in Argentina come presso l’Università di Bologna e nella nativa Senigallia. Il rispetto e la considerazione furono semmai di sostanza.

Ed è in questa cornice che viene fuori una cosa importante sempre nel campo della filosofia antica. Comincerò col ricordare che, se Rossica non leguntur, anche Italica necnon Hispanica modice leguntur. Che la comunità scientifica internazionale fosse tradizionalmente ferma a tre sole lingue internazionali – il tedesco, l’inglese e il francese – è cosa arcinota. Ora il Mondolfo ha pubblicato appena qualche articolo in tedesco e in inglese, mentre solo pochi suoi libri in spagnolo vennero pubblicati in altri paesi terzi, come il Messico e il Venezuela, e solo poche cose vennero tradotte in portoghese per iniziativa di case editrici brasiliane. Ciò avrebbe potuto far pensare a un ostacolo linguistico di rilievo ai fini della circolazione della sua opera. In realtà è accaduto esattamente il contrario. Mondolfo ha contribuito come pochi ad imporre l’uso dell’italiano e dello spagnolo nel campo della filosofia antica. Agli occhi della comunità scientifica internazionale – e, se non altro per limiti nelle mie conoscenze, in questo caso confesserò volentieri di fare riferimento alla sola area antichistica – fu semplicemente necessario accedere alle sue opere più marcatamente specialistiche indipendentemente dalla lingua in cui venivano scritte.[12]

Il risultato è stato un processo di sempre meno episodica attenzione degli specialisti di filosofia antica tanto alla produzione in lingua italiana quanto alla produzione in lingua spagnola che, naturalmente, si è nutrito anche dell’operosità scientifica di interi gruppi di altri studiosi formatisi in maniera sostanzialmente indipendente dal Mondolfo. Sembra appropriato fare dei nomi, sia pure con il rischio di incorrere in peccati di omissione sempre spiacevoli.

Per quanto riguarda l’Argentina, è unanimemente riconosciuta la funzione di volano svolta da Mondolfo, in primo luogo quale fattore eminente di stimolo che invogliò giovani leve a impegnarsi a fondo in questi studi. Sapere che un argentino (un argentino acquisito, uno dei tantissimi argentini di origine italiana) era un maestro ed era trattato come tale dalla comunità scientifica internazionale, ha contribuito non poco nell’indurre più d’uno a proporsi di tener alta la bandiera. Come non molti sanno, un ruolo particolarmente importante in questo campo è stato giocato da Conrado Eggers Lan (1927-1996), che è stato professore della disciplina nell’Università di Buenos Aires, ha fortemente contribuito a tessere legami con la comunità scientifica internazionale, ha formato allievi, ha diretto e in parte realizzato i tre tomi di Los filosófos presocráticos con l’editrice madrilena Gredos, ha fondato Méthexis. Revista argentina de filosofía antigua (un periodico che non a caso ha ora una redazione in Cile e si pubblica in Germania, accogliendo contributi di frequente provenienza europea, oltre che latinoamericana), ed è stato tra gli animatori della International Plato Society fondata, se posso ricordarlo, a Perugia nel 1989, ma con un precedente importante costituito dal Symposium Platonicum 1986, che proprio Eggers organizzò in Messico (dove pure seppe dar vita a un gruppo di giovani specialisti). Ora Eggers – l’altro nome trainante espresso dall’Argentina nel corso del secolo ventesimo, grande studioso del pitagorismo e di Platone – non fu allievo di Mondolfo, anche se poté conoscerlo, ma fu assiduo lettore delle sue opere e fu tra i primi a rendersi conto del clima di attenzione per la filosofia antica e per gli studi di settore made in Argentina che si era venuto instaurando, clima che, senza la migrazione mondolfiana in quella terra, sarebbe stato semplicemente inimmaginabile.

Orbene, è almeno possibile che un comparabile effetto di rimbalzo sia avvenuto anche in Italia! Si deve considerare, in effetti, che ai tempi di Mondolfo gli studi di filosofia antica in Italia vennero coltivati da un ristretto manipolo di specialisti senza che, tolte poche eccezioni, i loro scritti avessero una diffusione comparabile in altri paesi. Naturalmente dobbiamo considerare l’angustia dei tempi (la guerra, i suoi prodromi e i suoi postumi), e sarebbe azzardato dare del fenomeno una lettura a senso unico. Sta di fatto però che gli anni Sessanta-Settanta fecero registrare una vistosa impennata degli studi in questo campo e una corrispondente impennata dell’attenzione della comunità scientifica internazionale per ciò che si veniva producendo nel nostro paese, con conseguente diffusione dell’idea che lo studioso di filosofia antica non potesse permettersi di ignorare la nostra lingua.

Da qui la domanda: siamo proprio sicuri che ciò non sia anche merito della celebrità raggiunta dal Mondolfo con le sue opere antichistiche? Che egli possa aver svolto funzioni reali come apripista è, come minimo, una eventualità che non si può escludere. Ma direi qualcosa di più, anche se mi rendo conto di avventurarmi, con ciò, in un terreno insidioso nel quale non può esserci posto per le certezze: direi che non c’è paragone tra la diffusa percezione di non poter non tener conto dell’opera del maestro di Senigallia e l’accesso molto più episodico ad una varietà di altri contributi specialistici dovuti ad autori italiani indipendentemente dal valore, talora cospicuo, di singoli contributi. In questo senso è appropriato riconoscere un ruolo nel promuovere gli studi italiani di filosofia antica anche alle note di aggiornamento dello “Zeller-Mondolfo”!

Va detto infine che questa funzione di apripista è legata molto più agli studi di filosofia antica che alla vasta messe di altri studi sulla tradizione filosofica occidentale che pure si devono al medesimo autore. Infatti la sua irruzione nel campo della filosofia antica fu di gran lunga più incisiva e si fece notare molto, molto di più. Emergono, in tal modo, più che solide ragioni per raccomandare che del personaggio si ricordi non solo la sua operosità come “modernista”, la sua inequivoca collocazione tra i marxisti non leninisti, il ruolo da lui svolto come opinionista autorevole o i significativi rapporti intercorsi con Turati, Gramsci e altri leader della sinistra italiana nei primi decenni del secolo, ma anche la grande rilevanza della sua opera come studioso della filosofia antica.[13]

Livio Rossetti


[1] Rodolfo Mondolfo, nato a Senigallia nell’agosto 1877, morì a Buenos Aires nel luglio 1976.
[2] Su questi temi il Mondolfo ha pubblicato, tra il 1895 e il 1929, una decina di volumi e quasi trenta articoli.
[3] Buona parte degli articoli di impegno politico sono apparsi sulla rivista Critica sociale.
[4] Si tratta di un volume di quasi 850 pp.
[5] Aggiungiamo che tra le opere del maestro senigalliese figurano due testi scolastici – Descartes, Discorso sul metodo e Descartes, Principi di filosofia – pubblicati da Sansoni nel 1946 e dovuti, per l’appunto, alla collaborazione tra Mondolfo e Garin.
[6] Il volumetto (96 pp.) include cinque discorsi di omaggio e commemorazione risalenti ad epoche diverse, e si conclude (pp. 71-94) con una pregevole bibliografia delle opere di Mondolfo. Ricordo che in questi cinque discorsi si parla del Mondolfo pensatore che vive intensamente il suo tempo, senza quasi una parola sul Mondolfo grande specialista di filosofia antica.
[7] Si tratta della voce «Mondolfo» di Il movimento operaio italiano: Dizionario biografico 1853-1943, a cura di F. Andreucci e T. Detti (Roma 1975-1979), vol. III, pp. 523-535.
[8] Il passo figura alle pp. 531-2 della voce «Mondolfo» ricordata nella nota precedente.
[9] Va detto, peraltro, che l’opera giunse alla nona edizione nel 1913, «via via arricchendosi nella serie delle edizioni, curate da vari studiosi» (così lo stesso Mondolfo nella Prefazione a Il pensiero antico).
[10] Sorge infatti un dubbio sulla possibilità di porre sullo stesso piano alcune grandi opere e un certo numero di volumetti.
[11] Non sarà male far presente che questo titolo non trova posto nella pur eccellente bibliografia mondolfiana del 1992 (di cui alla precedente nota 6), che pure si spinge, con gli ultimi titoli, fino al 1975.
[12] Posso forse ricordare, per analogia, che anche Chaïm Perelman scrisse sempre e soltanto in francese, e Martin Heidegger in tedesco.
[13] Riconosco, non senza un certo rammarico, di non aver indugiato a sufficienza, in queste note, sul modo in cui Mondolfo ha coltivato gli studi di “antica” e sulle idee di cui si è fatto promotore, ma non si può parlare di tutto, e in questo caso mi premeva fare appunto una sottolineatura storiografica su chi egli sia veramente stato. Sul suo modo di fare storia della filosofia antica si potrà magari ritornare in un’altra occasione.


Saggio già pubblicato in:
Piergiorgio Grassi, Antonio Pieretti, Livio Rossetti, Giancarlo Galeazzi, Vittorio Mencucci, Rodolfo Mondolfo 1877-1976, Introduzione cura di Galliano Crinella, Fabriano, AN, Centro Studi Don Giuseppe Riganelli, 2006.



Il 2 ottobre 2018, nell’Aula IV del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza (Via Carlo Fea, 2 Roma), nell’ambito dell’incontro organizzato per il Dottorato in Filosofia, La novità nella continuità. L’idea di progresso nella concezione della storia di Rodolfo Mondolfo [Sessione I: La ricerca del socialismo e l’interpretazione del marxismo; Sessione II: La “continuità” nella storia. Mondolfo storico della filosofia) – Relatori: Marcello Mustè, Elisabetta Amalfitano, Luca Basile, Francesco Fronterotta, Giovanni Casertano, Livio Rossetti, Coordinatore per il Dottorato di Filosofia Prof. Piergiorgio Donatelli –, Livio Rossetti, dell’Università di Perugia, ha svolto il tema: La novità nella continuità. L’idea di progresso nella concezione della storia di Rodolfo Mondolfo.


Livio Rossetti (1938) è stato professore di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni. Nel 1989 ha fondato la Intern. Plato Society a Perugia, nel 2006 ha dato il via agli incontri di Eleatica che si tengono tuttora a un passo dagli scavi di Elea (in pieno Cilento) e nel 2018 ha fondato la Intern. Society for Socratic Studies a Buenos Aires.
Tra i suoi studi su Parmenide e Zenone ricordiamo: Un altro Parmenide (2 voll., Bologna 2017) e Una tartaruga irraggiungibile (fumetto, Bologna 2013): nel 2019 questo volumetto è stato pubblicato in spagnolo, a Buenos Aires. Nel 2020 è in pubblicazione La filosofia virtuale di Parmenide Zenone e Melisso.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Erich Fromm (1900-1980) – L’uomo moderno non ha raggiunto la libertà in senso positivo di realizzazione del proprio essere. Questo isolamento è intollerabile.

Erich Fromm, Fuga dalla libertà

L’uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società pre-individualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà in senso positivo di realizzazione del proprio essere […] Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è intollerabile e l’alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull’unicità e sull’individualità dell’uomo […] la comprensione dei motivi della fuga totalitaria dalla libertà è premessa ad ogni azione che miri alla vittoria sulle forze totalitarie.

Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 2020.

Erich Fromm (1900-1980) – La nostra è una società composta da individui in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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G. Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Tutti i possibili, ossia tutto ciò che esprime l’essenza o realtà possibile, tendono con egual diritto all’esistenza.

G. Wilhelm von Leibniz

«Tutti i possibili, ossia tutto ciò che esprime l’essenza o realtà possibile, tendono con egual diritto all’esistenza, in proporzione alla quantità di essenza o di realtà cioè al grado di perfezione che implicano: la perfezione, infatti, non è altro che la quantità dell’essenza. Da ciò si comprende, nel modo più evidente, come fra le infinite combinazioni di possibili e di serie possibili, esiste quella che porta all’esistenza la massima quantità di essenza o di possibilità».

G. W. von Leibniz, Sull’origine radicale delle cose, in Id., Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Fubini, vol. III, Torino, UTET, 2000, vol. I, p. 219.

Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza.

Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) – La causa perché la mente agisca, ovvero il fine delle cose, è l’armonia. Il fine della mente è l’armonia massima

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) – La causa perché la mente agisca, ovvero il fine delle cose, è l’armonia. Il fine della mente è l’armonia massima

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«Operare la scelta migliore e conforme all’armonia universale […] Che ciò che esiste è il meglio e il più armonico lo si dimostra invincibilmente in quanto la prima e unica causa efficiente delle cose è la mente; la causa perché la mente agisca, ovvero il fine delle cose, è l’armonia; il fine della mente più perfetta è l’armonia massima».

G. W. von Leibniz, Confessio Philosophi e altri scritti, Napoli, Cronopio, 2003, pp. 64-65.


Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Leggendo «Il Monaco nero» di A. P. Čechov. La vera gioia è nell’ascolto della creatività. La creatività massimamente espressa è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo.

Čechov Anton Pavlovič , Il monaco nero
Salvatore Bravo

La vera gioia è nell’ascolto della creatività



Il capitalismo assoluto è sistema senza alterità, quest’ultima è possibile dove vige la creatività. La pluralità implica un lavoro di traduzione, ovvero di avvicinamento senza possibilità di sovrapposizione all’altro. L’attività creativa umana pone ponti, ma non sono mai percorribili in toto, le identità restano inafferabili, perché creatrici e germinatrici di vita. Senza tale processo la comunità è solo “luogo computazionale”, in cui regna l’intelletto unico, prospettiva eguale, che rende le attività automatiche e sincrone. Il grande sogno del capitalismo assoluto è la realizzazione di questo immenso intelletto comune mediante il quale ridurre l’alterità, il pericolo della creatività a semplice “attività organica al sistema”. Si tratta di realizzare compiutamente l’atomismo per impedire lo scambio creativo e politico.
La divisione facilita l’installarsi dell’intelletto computazionale comune, l’anomia diventa la legge del capitale. Se ognuno è come gli altri il sistema è protetto da critiche e prassi e può in tal modo eternizzarsi e diventare globale. Si tratta di utilizzare il senso comunitario nel suo negativo, ovvero da “essenza della relazione per creare” a sterile contatto trasmissivo di informazioni, a uso del capitale umano ai soli fini produttivi. Alla vita, che con i suoi processi semina altra vita, si sostituisce la violenza della sola produzione, dell’accumulo divenuto mezzo e fine del sistema. È il nuovo imperativo categorico che i popoli debbono prima omaggiare e poi trasformare nell’unico modello da realizzare. È il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche, la mediocrità sterile che diviene legge della vita.

Il regno dell’ultimo uomo è stato profetizzato anche nella letteratura russa. La mediocrità divenuta legge è descritta come parametro medico, a cui ci si deve conformare. La medicalizzazione dell’alterità, di coloro che vivono lo spirito dionisiaco e dunque creativo, è ben descritto da A. Čechov in un breve racconto Il monaco nero, con il quale descrive la medicalizzazione del diverso, dello spirito creativo. Nel racconto vi è il montare di una scienza minacciosa che tutto vuole assimilare a paradigmi ritenuti “oggettivi”. Scienza medica incapace di metalettura, e dunque al servizio dei poteri di normalizzazione. Nel racconto dello scrittore russo emerge dunque, il problema della creatività e specialmente la domanda su che cosa sia la creatività e quale sia la sua genealogia. Anton Pavlovič Čechov (Taganrog, 29 gennaio 1860 – Badenweiler, 15 luglio 1904) per poter denunciare la minaccia del potere di normalizzazione che avanza chiarisce che la creatività massimamente espressa nel genio è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo. La creatività è un dentro ed è contemporaneamente un fuori, è dunque relazione nella profondità di sé che apre varchi verso il mondo, verso la comunità, è attività che forma ed informa le relazioni. Il monaco che il protagonista scambia per allucinazione, in realtà è l’io profondo nel quale ciascuno intuisce la presenza della vita non sclerotizzata in forme precostituite, ma che necessita di essere tradotta in forme sempre vive:

«”Devi essere un miraggio”, disse Kovrin.Perché poi te ne stai qui fermo seduto? La leggenda e diversa. E lo stesso rispose il monaco non subito, piano, girando la faccia verso di lui. La leggenda, il miraggio e io, tutto questo e un prodotto della tua immaginazione eccitata. Sono un fantasma.Quindi, non esisti? chiese Kovrin. Pensala come ti pare rispose il monaco e fece un lieve sorriso. Esisto nella tua immaginazione, e la tua immaginazione fa parte della natura, quindi esisto anche in natura. Hai una faccia molto vecchia, intelligente e moltissimo espressiva, proprio come se vivessi davvero da più di mille anni disse Kovrin. Non sapevo che la mia immaginazione fosse in grado di creare fenomeni del genere. Ma perchè mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio? Sì. Sei uno dei pochi che si possono giustamente chiamare eletti da Dio. Sei al servizio della verità eterna. I tuoi pensieri, le tue intenzioni, i tuoi studi sorprendenti e tutta la tua vita portano un’impronta divina, celeste, poiché sono dedicati al razionale e al bello, ossia a ciò che e eterno. Hai detto: verità eterna… Ma e accessibile e necessaria, agli uomini, la verità eterna, se la vita eterna non esiste? La vita eterna esiste disse il monaco. Tu credi nell’immortalità degli uomini? Sì, certo. Un grandioso, brillante futuro aspetta voi uomini. E più sulla terra ci sono uomini come te, prima si realizzerà questo futuro. Senza associazione culturale Larici di voi, al servizio del principio supremo, che vivete con coscienza e liberta, l’umanità sarebbe insignificante; sviluppandosi in modo naturale, aspetterebbe ancora a lungo la fine della propria storia terrestre. Voi invece la fate entrare con qualche migliaio d’anni di anticipo nel regno della verità eterna – e in questo sta il vostro grande merito. Voi incarnate la benedizione divina che riposa negli uomini. E qual e il fine della vita eterna? chiese Kovrin. Come di tutte le vite: il piacere. Il piacere autentico sta nella conoscenza, e la vita eterna offre innumerevoli e inesauribili fonti di conoscenza, in questo senso e scritto: nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se tu sapessi com’e piacevole starti a sentire! disse Kovrin sfregandosi le mani dalla soddisfazione. Sono molto contento. Ma lo so: quando te ne andrai, la questione della tua essenza non mi dara pace. Sei un fantasma, un’allucinazione. Quindi sono malato di mente, anormale?». [1]

 

Vera gioia è nell’ascolto della creatività
La vera gioia è nell’ascolto della creatività fine a se stessa che rompe i limiti dello spazio e del tempo per armonizzare il soggetto con il cosmo, il quale è un organismo sempre vivo, l’anima mundi è la legge che “passa” e “vive” nell’atto creativo donando gioie non estemporanee, ma che si radicano in emozioni e formano strutture caratteriali positive. Il creativo non è invidioso, perché ha in sé più vita. La creatività insegna che per “essere diversi” non c’è bisogno di essere fenomeni da baraccone da vendere nel mercato dell’immagine. La diversità è l’ascolto del proprio “demone” come Socrate ci ha già insegnato. Se non si ascolta la propria voce interiore, la creatività è solo un volgare succedaneo di se stessi, pertanto diviene esibizionismo egocentrico, visivo e logorroico. La creatività autentica è nell’atto di coltivare il proprio sé profondo nel quale reincontrare se stessi e l’umanità intera. La mediocrità da sistema vuole avvelenare la fonte della libertà per imporre la normalità statistica come legge scientifica, e dunque si arroga il diritto di normalizzare e sanare chiunque rompa il protocollo del sistema gregge:

«E se fosse. Non c’è da essere imbarazzati. Sei malato perché hai lavorato al di là delle tue forze e ti sei esaurito, e quindi hai sacrificato la tua salute all’idea ed e vicino il tempo in cui le darai la vita stessa. Cosa c’è di meglio? E l’aspirazione di tutte le nature nobili che hanno doti celesti. Se so di essere malato di mente, posso credere in me stesso? Ma come fai a sapere che le persone geniali a cui crede tutto il mondo non abbiano visto fantasmi anche loro? Ora gli scienziati dicono che il genio sia affine alla follia. Amico mio, sani e normali sono solo i mediocri, che stanno in mezzo al branco. Le riflessioni sull’epoca delle malattie nervose, del sovraffaticamento, della degenerazione e cosi via possono mettere in seria agitazione solo chi vede lo scopo della vita nel presente, cioè quelli che stanno nel branco. I romani dicevano: mens sana in corpore sano. Non tutto quello che dicevano i romani o i greci e vero. L’animazione, l’eccitazione, l’estasi: tutto quello che distingue i profeti, i poeti, chi soffre per un’idea, dagli uomini normali e l’opposto dell’aspetto animalesco dell’uomo, cioè della sua salute fisica. Ripeto: se vuoi essere sano e normale, entra nel branco. E strano, ripeti quello che spesso viene in mente a me disse Kovrin. Sembra che abbia spiato, origliato i miei pensieri reconditi. Ma non parliamo di me. Cosa intendi per verità eterna?”». [2]

 

Nel regno del dicitur
L’attività creatrice è oggi osannata solo se funzionale al sistema produttivo, ma la creazione per sua natura risponde solo a se stessa, la creatività è anarchica. Il creativo oggi è perennemente minacciato, la pletora di messaggi che gli giungono, le pressioni istituzionali e la logica dell’utile inquinano il contatto con “il monaco nero”. Ognuno gioca la sua partita esistenziale nel coraggio di dire “sì” a se stesso, in un mondo che osanna i “dicitur”. Solitudine del genio e solitudine dell’umanità intera suddita di valori che necrotizzano la gioia e la fiducia nel proprio io profondo. Il potere si installa fin nelle viscere della persona, svuotandola e riducendola a semplice copia perfettamente sostituibile. La violenza diventa, così, legge, perché colui che è stato defraudato di sé diventa portatore di rabbia ed aggressività. Dobbiamo imparare dagli uomini che vissero la gioia:

«Nell’antichità un uomo felice fini per aver paura della propria felicita tanto era grande! – e, per propiziarsi gli dei, porto loro in sacrificio il suo anello preferito. Lo sai, anche me, come Policrate, comincia un po’ a inquietare la mia felicita. Mi sembra strano di provare dal mattino alla notte solo gioia, mi riempie tutto e ottunde tutti gli altri sentimenti. Non so cosa sia la malinconia, la tristezza o l’angoscia. Come ora che non dormo, ho l’insonnia, ma non mi angoscio. Dico sul serio: comincio a non capacitarmene. Ma perché? si stupì il monaco. La gioia e forse un sentimento sovrannaturale? Non deve essere la condizione normale dell’uomo? Più è elevato lo sviluppo intellettuale e morale di un uomo, più è libero, più piacere gli dà la vita. Socrate, Diogene e Marco Aurelio provavano gioia, non tristezza. Anche l’apostolo dice: Rallegratevi sempre. Quindi rallegrati e sii felice”».[3]

Il protagonista muore, perché è stato oggetto di un’operazione di normalizzazione, la morte fisica è il completamento della sua morte psichica avvenuta con la sua normalizzazione, con la scissione da se stesso con la quale ritrovare la acclamata normalità che il sistema vuole:

«Un’ altra colonna nera simile a un vortice o a una tromba d’acqua apparve sull’ altra riva della baia. Attraversava la baia a velocita spaventosa in direzione dell’ albergo, diventando sempre più piccola e scura, e Kovrin fece appena in tempo a scansarsi per lasciarla passare… Un monaco con la testa canuta scoperta e le sopracciglia nere, a piedi nudi, le braccia incrociate sul petto, gli sfreccio accanto e si fermo in mezzo alla stanza. Perché non mi hai creduto?” domando con aria di rimprovero, guardando tenero Kovrin. Se allora avessi creduto che sei un genio, questi due anni non li avresti passati in modo cosi triste e misero.” Kovrin credeva già di essere un eletto da Dio e un genio, gli vennero in mente nitide tutte le conversazioni precedenti col monaco nero e voleva parlare, ma il sangue gli usci dalla gola dritto sul petto e lui, non sapendo che fare, si passava le mani sul petto e i polsini gli si intrisero di sangue. Voleva chiamare Varvara Nikolaevna che dormiva dietro il paravento, fece uno sforzo e disse: Tanja!” Cadde a terra e, sollevandosi sulle braccia, chiamo di nuovo: Tanja!”».[4]

La morte del genio è la morte dell’occidente culturale che in nome dell’utile e della sicurezza ha rinunciato all’essenziale per il superfluo, in questo scambio vi è la verità del capitalismo assoluto che abbaglia per favorire “la cecità di massa”.

Salvatore Bravo

 

[1] Anton Pavlovič Čechov, Il monaco nero, associazione culturale Larici http://www.larici.it pagg. 12-13.

[2] Ibidem, pag. 13.

[3] Ibidem, pag. 17.

[4] Ibidem, pag. 24.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alessandro Dignös – Uno Spinoza diverso. L’«Ethica» di Spinoza e dei suoi amici, di Piero Di Vona.

Spinoza- Di Vona Pietro-Alessandro Dignös
Alessandro Dignös

Uno Spinoza diverso. L’Ethica di Spinoza e dei suoi amici

di Piero Di Vona

Un possibile nuovo punto di partenza
per una reinterpretazione della filosofia di Spinoza

***

Lo scopo principale del presente studio di Piero Di Vona (1928-2018), insigne conoscitore e interprete della filosofia di Spinoza, è quello di «sollevare qualche dubbio sul modo in cui l’Ethica», il capolavoro del pensatore olandese, «si è formata» (p. 5). Tali dubbi non comportano il rifiuto del testo dell’opera in nostro possesso, giacché, come osserva lo studioso, esso appartiene alla storia del pensiero e, come tale, deve essere accettato. L’obiettivo del saggio di Di Vona è invece quello di chiarire se, e in che misura, «l’Ethica che possediamo uscì per intero dalla penna di Spinoza» (p. 9).
Secondo lo studioso, l’opera a noi giunta non riflette interamente il pensiero dell’autore, poiché «fu corretta dagli amici cristiani di Spinoza» (p. 10), cioè da quegli amici che, alla morte del filosofo, lavorarono all’edizione degli Opera Posthuma, di cui l’Ethica è parte integrante. Essi, per Di Vona, non si limitarono a correggere il latino dell’autore, ma intervennero sull’Ethica e sull’Epistolario, «stabilendo quali lettere si potessero pubblicare e quali no» (Ibidem). Dati gli interventi degli editori sul testo dell’opera, più che di Ethica di Spinoza, sarebbe corretto parlare di Ethica “di Spinoza e dei suoi amici”. Il presente lavoro di Di Vona è volto a fare luce sulle ragioni a supporto di questa tesi.

Ora, per capire quale sia l’intento degli amici di Spinoza, è opportuno rivolgersi al sottotitolo che compare nella traduzione nederlandese (dal latino) del Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità. In tale sottotitolo, scritto non da Spinoza ma dal traduttore, un suo amico, si sostiene che il trattato è stato tradotto «a beneficio degli amanti della verità e della virtù, […] affinché i malati nell’intelletto siano guariti con lo spirito di mitezza e tolleranza, secondo l’esempio di Cristo, nostro miglior maestro» (Sottotitolo). In verità, nell’opera di Spinoza non si fa riferimento a Cristo; l’accostamento tra la dottrina del filosofo e la morale cristiana si deve unicamente al traduttore. Da qui, sottolinea Di Vona, risulta evidente «il tentativo di fare di Spinoza un cristiano, o di presentarlo come un cristiano» agli occhi della comunità intellettuale – un intento che «è dunque antico tra gli amici di Spinoza e risale alla sua giovinezza» (p. 10), vale a dire al tempo dei suoi esordi filosofici.

L’obiettivo degli amici-editori degli Opera Posthuma di Spinoza è anzitutto quello di «difendere la filosofia di Spinoza dalle principali obiezioni filosofiche che circolavano su di essa già a quei tempi» e «assolvono questo compito cercando di dimostrare che non c’è nessuna discrepanza tra le idee di Spinoza e la dottrina di Cristo e degli apostoli» (p. 11). Che l’intento degli amici di Spinoza fosse proprio questo, rileva lo studioso, emerge con chiarezza nella Prefazione a tali scritti. Costoro, tuttavia, non riconducono a sé l’idea che si dia una concordanza tra la filosofia spinoziana e gli insegnamenti di Cristo, ma asseriscono che tutto ciò appare evidente nella parte IV dell’Ethica.

Ed è qui che, per Di Vona, vi sarebbero alcune “anomalie” che portano a pensare ad un intervento sul testo spinoziano. In particolare, nello scolio della proposizione 68, si fa riferimento alla vicenda di Adamo ed Eva e si sostiene che l’uomo cessò di essere libero allorché cominciò ad agire come gli animali, ritenendo che fossero suoi simili; subito dopo, si afferma che la sua libertà fu recuperata dai Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio, dalla quale sola dipende che l’uomo sia libero e che desideri per gli altri uomini il bene che desidera per sé» (Prop. 68, Scolio).

Questo passo dell’Ethica di Spinoza risulta problematico per diverse ragioni. Innanzitutto, si deve osservare come esso sia il solo luogo del capolavoro spinoziano in cui si fa riferimento a Cristo – un fatto che «deve renderci molto vigili nel giudicarne il valore conoscitivo e l’attribuzione a Spinoza stesso» (p. 20). In secondo luogo, l’idea che lo Spirito di Cristo si sia, in un certo senso, manifestato ai Patriarchi contrasta con ciò che Spinoza afferma in altri luoghi della sua opera, nonché con ciò che scrive nel Tractatus Theologico-Politicus – un’opera pubblicata mentre costui era vivo, dunque impossibile da “correggere” per gli editori cristiani. Come mette in luce Di Vona, Spinoza, quando si riferisce a Cristo, allude sempre a «come visse e si manifestò in un dato tempo e in una certa regione della terra e non asserisce mai, né suppone mai, che prima che Abramo fosse Egli era (Giovanni, VIII, 58) […]. Cristo non parla, né si manifesta mai a uomini di un tempo passato, né Spinoza fa mai la supposizione ch’egli si fosse mai manifestato ad uomini del passato» (p. 36). Stando così le cose, «sembra evidente che», nella prospettiva spinoziana, «non si potesse avere lo Spirito di Cristo prima che Gesù Cristo fosse» (p. 37). L’identificazione dello «Spirito di Cristo» con l’«idea di Dio» presuppone la dottrina trinitaria cristiana, che fa coincidere Cristo col Verbo di Dio, e dunque con Dio stesso; in questa prospettiva, lo Spirito di Cristo è chiaramente precedente l’esistenza dell’uomo Gesù. Tuttavia, si tratta di un’idea inconciliabile con la concezione spinoziana del Dio-Natura, la quale, rigettando l’idea che Dio possa «diventare una res finita come Gesù» (p. 39), implica ovviamente la ferma negazione dei dogmi cristiani dell’incarnazione e dell’eucaristia.

La seconda ragione per cui il passo in questione appare estremamente dubbio emerge, secondo Di Vona, se lo si confronta con ciò che Spinoza scrive nel Tractatus Theologico-Politicus a proposito di Adamo e dei Patriarchi. Qui il filosofo «rigetta interamente la caduta di Lucifero, la caduta di Adamo e la sua conseguente riduzione allo stato di natura lapsa» (p. 43), ossia di natura decaduta; in generale, se è vero che il nome di Adamo compare in più luoghi dell’opera, è altresì vero che non si dice mai che in seguito alla sua caduta gli uomini si snaturarono e divennero animali. Per Spinoza «non c’è mai stata una natura lapsa, e tanto meno una riduzione di Adamo e dei suoi discendenti allo stato animale»: infatti, «l’intelletto di Adamo e dei suoi discendenti è rimasto integro e capace di condurre l’uomo alla libertà della mente ed a riconoscere l’eternità della mente, sebbene come noi fosse soggetto agli affetti e alle passioni» (p. 47). Per quanto concerne i Patriarchi, lo studioso osserva come dalla lettura del Tractatus risulti evidente che «per Spinoza […] ebbero, come tutti gli altri Ebrei, una conoscenza del Dio delle narrazioni sacre, non la conoscenza chiara e distinta dovuta al lume naturale» (p. 42). Essi non compresero dunque l’«idea di Dio» grazie allo Spiritus Christi, ma ebbero una concezione antropomorfica del divino identica a quella di ogni altro Ebreo.

Dato quanto emerge, secondo Di Vona è lecito concludere che la parte dell’Ethica in cui si allude alla caduta di Adamo e alla restituzione della libertà da parte dei Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio», sia «una aggiunta estranea di cristiani troppo zelanti nel vano intento di difendere Spinoza dall’accusa di empietà e di ateismo» (p. 47). Questo obiettivo è perseguito dai suoi amici per mostrare che le sue idee sono in linea con i racconti delle Sacre Scritture e per suggerire che la libertà umana, per costui, coincide con la libertà cristiana. Si spiega in questo modo la totale discordanza tra ciò che si afferma in quel luogo dell’Ethica e ciò che Spinoza sostiene nel Tractatus Theologico-Politicus. Poiché, come emerge in quest’opera, «non c’è mai stata una natura lapsa» a causa di Adamo, «non c’era nessun bisogno per il nostro filosofo che i Patriarchi, ignoranti e capaci solo di avere un’idea antropomorfica di Dio, grazie allo Spirito di Cristo identico alla “idea di Dio”, non si sa come ottenuti, venissero a restituire non si sa come la libertà della mente a uomini ridotti allo stato animale» (Ibidem). In conclusione, lungi dall’essere dovuta ad “errori” o “sviste” dello stesso Spinoza, questa discrepanza è dovuta ad un vero e proprio intervento esterno da parte degli editori.

A questo punto, è forse possibile chiedersi se vi fosse una “ragione profonda” dietro tale tentativo di “cristianizzazione” della filosofia di Spinoza compiuto dai suoi amici. Di Vona mette in luce come quest’implicita “apologia di Spinoza” non fosse soltanto volta a scagionarlo dalle accuse succitate, poiché mirava a dimostrare che «Spinoza aveva insegnato che gli ignoranti che avessero creduto e praticato l’insegnamento degli articoli della fede universale del capitolo XIV del Tractatus Theologico-Politicus, e li avessero seguiti nella loro vita, in morte per le promesse, il perdono e la grazia di Gesù Cristo avrebbero conseguito anch’essi l’eternità della mente» (Ibidem). Sembra dunque questa la “ragione profonda” alla base dell’interpretazione cristianeggiante degli amici: dimostrare che, secondo Spinoza, tutti gli uomini possono conseguire l’eternità della mente attraverso la fede.

L’idea che, per Spinoza, l’eternità della mente sia conseguibile da ogni uomo per mezzo della fede sembra, in effetti, sostenersi su ciò che si legge in alcuni luoghi della parte V dell’Ethica. Di Vona ricorda che al termine dello scolio della proposizione 20 il filosofo afferma di aver concluso la trattazione di ciò che ha a che fare con la vita presente, e che è giunto il momento di trattare ciò che riguarda la durata della mente, senza relazione con il corpo, mentre nello scolio alla proposizione 40 sostiene di aver esposto ciò che intendeva mostrare sulla mente «senza relazione all’esistenza del Corpo». Anche Spinoza, dunque, come i cristiani, pare ammettere l’idea di una durata della mente indipendente dal corpo. Non solo: nella proposizione 30 si afferma che la mente conosce «il Corpo sotto la specie dell’eternità», cioè il corpo come un elemento eterno. Si tratta di un’idea che sembra conciliarsi con quella della «resurrezione della carne» affermata dal Cristianesimo. Ma Spinoza – è giusto chiedersi – ha davvero sostenuto idee così affini a quelle su cui si fonda la religione cristiana?

Secondo Di Vona, anche in questo caso ci sono buoni motivi per pensare a delle aggiunte apocrife nel testo dell’opera. Se, ad esempio, si considera la proposizione 39, si può notare come Spinoza, in contrasto con quanto si legge negli scoli delle proposizioni 20 e 40, dichiari che il conseguimento dell’eternità della mente è possibile solo con un «Corpo atto a moltissime cose» (Prop. 39, Scolio). Non solo dunque non si parla di “durata della mente senza relazione con il corpo”, ma addirittura si sostiene che soltanto il possesso del corpo consente di conseguire l’eternità della mente. Inoltre, se è vero che nella proposizione 30 si parla di «Corpo sotto la specie dell’eternità», è altrettanto vero che in alcune proposizioni precedenti si parla invece di «idea che esprime l’essenza di questo e di quel Corpo umano sotto la specie dell’eternità» (Prop. 22), di «idea che esprime l’essenza del Corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 23, Scolio) o di «essenza del corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 29). Si passa così, in maniera graduale, dall’idea che la mente conosca “l’idea dell’essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” a quella secondo cui la mente conosce l’“essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” e, infine, all’idea che la mente conosca il “corpo” stesso come eterno.

Dinanzi a tali incongruenze, per lo studioso non è illecito supporre che gli editori fossero intervenuti su questi punti dell’Ethica proprio allo scopo di «difendere, per quanto era possibile e in accordo con la Prefazione delle Opere Postume, le idee cristiane dell’immortalità dell’anima e della resurrezione della carne» (p. 52). In questo modo, essi «misero il lettore di Spinoza nella necessità di ritenere che, se per avere l’idea di corpo nella durata occorre un corpo esistente in atto nella durata, come afferma Spinoza nel corollario della proposizione 8 della parte II dell’Ethica e nello scolio della proposizione 23 della parte V, allora per avere una idea di noi stessi nella eternità, occorre avere un corpo sub specie aeternitatis, e perciò lo premisero nella proposizione 30 alla proposizione 31 della parte V che afferma che la mente stessa è eterna» (Ibidem). Non fu dunque Spinoza a sostenere e insegnare tesi e idee che richiamano alcuni dogmi del Cristianesimo ma, al contrario, furono i suoi amici cristiani a “modificare” il suo capolavoro e ad “adattare”, per quanto possibile, il suo pensiero filosofico alla concezione cristiana del mondo. Intervenendo sull’Ethica e “avvicinando” Spinoza a tali dogmi, gli editori delle Opere Postume cercarono di attribuirgli l’idea che tutti gli uomini, compresi gli ignoranti, possono conseguire l’eternità della mente se aderiscono alla fede cristiana. Per effetto del loro intervento, Spinoza non appare solo come un autore cristiano, ma addirittura come un filosofo che chiarisce e insegna come il Cristianesimo rappresenti il “grande veicolo” in virtù del quale ciascun uomo viene condotto al conseguimento dell’eternità della mente.

Alla luce di quanto è emerso, è possibile comprendere che cosa abbia veramente detto Spinoza? Se l’idea che la religione cristiana costituisca il medium per conseguire l’eternità della mente non può essere ascritta a costui, com’è possibile che ciò avvenga? Chi, per Spinoza, può conoscere l’eternità della mente? Nel Tractatus Theologico-Politicus, com’è noto, egli sostiene che agli ignoranti che rispettano le regole e i dogmi della fede si aprono le porte della salvezza; tuttavia, ben altra cosa è il conseguimento dell’eternità della mente, come si evince da alcuni passi fondamentali dell’Ethica. Ciò è possibile soltanto a quei «pochissimi» che dispongono della «conoscenza intuitiva» (scientia intuitiva), cioè ai «sapienti», «cui Spinoza ha rivolto la dottrina della parte V dell’Ethica» (p. 105). Ad essi si contrappone la stragrande maggioranza del «volgo», cui appartiene chiunque sia schiavo dell’immaginazione, delle memoria e delle passioni. Stando così le cose, come potrebbero i cristiani conoscere l’eternità della mente? Essi compongono il «volgo» al pari di tutti coloro che ignorano la verità dell’essere – siano essi reggitori, nobili, dotti, filosofi o uomini comuni. Di Vona suggerisce, in conclusione, che la “difficilissima” conoscenza dell’eternità della mente abbia, nella prospettiva spinoziana, un carattere “esoterico”: essa, infatti, «intendere non la può chi non la trova. […] Spinoza ha potuto parlarne da filosofo, ma non può comunicarcela ed essa non è comunicabile. La consapevolezza dell’eternità non s’insegna e non si partecipa: “può tuttavia essere trovata”. Questo è tutto» (Ibidem).

L’analisi di Di Vona, condotta sulla base di una profonda conoscenza del pensiero di Spinoza, ha il merito di sollevare alcuni dubbi sulla formazione del suo capolavoro filosofico, arrivando a mettere in discussione l’autenticità di alcuni suoi punti e le interpretazioni della filosofia spinoziana che su di esso si reggono. In ogni caso, l’obiettivo del presente saggio non è quello di negare l’importanza storica della lettura data dagli amici del filosofo: «con la Prefazione» agli Opera Posthuma, infatti, «comincia lo Spinozismo e l’interpretazione cristiana di Spinoza, destinata a un lungo avvenire» (p. 14); né – è bene ripeterlo – è quello di «infirmare il testo che ci è pervenuto» (p. 5): come ammette lo stesso studioso, «bisogna saper distinguere il testo definitivo che ci è pervenuto, dalla sua formazione, perché esso appartiene ormai da secoli alla storia della cultura filosofica moderna» (p. 48). Nondimeno, l’immagine di Spinoza che emerge dalla sua analisi è diversa da quella tramandata da una lunga tradizione di studi, ed è per questa ragione che non sembra scorretto considerare il presente studio un possibile nuovo punto di partenza per una reinterpretazione della sua filosofia.

Alessandro Dignös
Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.
Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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