«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«L’avvicinare degli spiriti che hanno vissuto solo per un ideale, per un mondo di ricerche che non ha bisogno del riconoscimento umano anzi che si fa un paradiso della propria solutudine, è una cosa che dà tanto coraggio».
Maria Corti, Lettera a Eva Terracini del 1938, in MF. Caputo – A. Longoni, Quasi un autoritratto, postfazione a: Maria Corti, I vuoti del tempo, a cura di Francesca Caputo e Anna Longoni, Bompiani, Milano 2003.
Maria Corti (Milano, 1915-2002) è stata una filologa, critica letteraria, scrittrice, semiologa e ha insegnato Storia della lingua italiana all’Università di Pavia. Ha curato importanti edizioni critiche (Leopardi, Vittorini, Fenoglio) e ha promosso la creazione a Pavia del Fondo manoscritti di autori contemporanei. Ha scritto vari romanzi, tra cui: L’ora di tutti (1962), Il ballo dei sapienti (1966), Cantare nel buio (1981), Voci dal Nord-Est (1986), Il canto delle sirene (1989), Catasto magico (1999), Storie (2000), La leggenda di domani (2007). Numerosi i saggi, tra cui: Metodi e fantasmi (Feltrinelli, 1969; 2001), Principi della comunicazione letteraria (1976), Il viaggio testuale (1978), La felicità mentale (1983), Percorsi dell’invenzione (1993), Ombre dal fondo (1997). Per i “Classici” Feltrinelli ha introdotto Vita Nuova di Dante Alighieri (1993; 2008).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere”,
Gianni Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 2010.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale. Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente. Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità di decolonizzarle, partendo dal mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve l’imperialismo post-coloniale: il linguaggio. In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di «studiare». La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura. […] In questa prospettiva imperialista, studiare significava allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo, che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito. Premesse e conclusioni non differiscono e nel mezzo c’è sfruttamento dell’altro, non meno che autosfruttamento di sé. La povertà culturale non è meno devastante di quella linguistica. Proprio perché la lingua è invece strumento per mediare fra me e gli altri, fra la mia e le altre identità, e crea diversità come ricchezza. […] Mai come oggi la borghesia africana subisce l’influenza della lingua inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane. La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza, lo svuotamento. La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di disciplinamento delle anime. Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene, perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi. Oggi questo l’imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza, trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza.
Ngugi Wa Thiong’o’, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, trad. di Maria Teresa Carbone, Jaca Book, Roma 2015.
I quattro testi di Ngugi Wa Thiong’o che compongono “Decolonizzare la mente”, sono la summa di un pensiero che si è andato formando con anni di studio e con dolorose esperienze vissute in prima persona; in particolare la scelta di scrivere una pièce di critica al potere nella sua lingua madre, il gikuyu, in modo da poter essere compreso da ogni strato di pubblico, gli costò nel 1978 un anno di detenzione. Fu in quei mesi che l’autore maturò la convinzione che “l’arma più grande scatenata ogni giorno dall’imperialismo contro la sfida collettiva degli oppressi è la bomba culturale, una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome, nella propria lingua, nelle proprie capacità e in definitiva in se stesso”. In tal senso, questo volume anche oggi può dire molto ai lettori occidentali che vogliano osservare criticamente i fenomeni connessi alla globalizzazione e gli effetti di una politica culturale omologante.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Un uomo con così rara combinazione di scintillante brillantezza e profondità». L. Tolstoj
«L’autobiografia di Herzen (Il passato e i pensieri) è uno dei grandi monumenti della letteratura russa, […] un capolavoro letterario da mettere sullo stesso piano delle opere dei suoi contemporanei e connazionali, Tolstoj, Turgenev, Dostoevskij […]». I. Berlin
«Stare ovunque e sempre in ogni cosa dalla parte della libertà, contro l’ingiustizia, dalla parte della conoscenza, contro la superstizione e il fanatismo religioso, dalla parte del popolo che matura, contro i governi reazionari – questa è la nostra linea».
Aleksandr Ivanovič Gercen [Herzen], Il passato e i pensieri [1861], Einaudi-Gallimard, Torino 1966.
La tomba di Aleksandr Ivanovič Herzen, a Nizza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare».
Giorgio Bassani, Il giardino dei Fizzi-Contini, Einaudi, Torino 1962.
“Nu couché bleu” è un olio su tela realizzato da Nicolas de Stael nel 1955.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Da tempo ormai il nuovo modo di lavorare, di organizzare il lavoro, la produzione e l’economia stavano cambiando l’uomo, il suo ambiente e le sue relazioni, ma mancavano alcuni indispensabili modi di discuterne. Certo, gran parte delle parole e dei concetti che noi oggi usiamo per parlare della grande fabbrica, dell’impresa, del primato dell’economia nella vita associata e di argomenti connessi erano disponibili da tempo – da Taylor a Marx –, ma chi aveva parlato dell’inconsistenza del soggetto, del vuoto mentale, chi aveva mostrato, o solo nominato, il legame psicologico del soggetto all’evanescenza persecutoria delle grandi costruzioni organizzative? Chi, pur parteggiando per i lavoratori, ne aveva narrato così bene la cecità, il vuoto interiore e le vuote illusioni e chi aveva altrettanto bene intravisto i contenuti profondi della progressiva e radicale atomizzazione degli individui?».
Disegno di Franz Kafka
Così Luigi Ferrari, nel suo recente Alle fonti del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka (prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, editrice Vicolo del Pavone, pp. 312, euro 21) ci introduce ad analizzare con una lente non letteraria e non tradizionale l’opera di Kafka (1883-1924). Ideale continuazione del suo monumentale L’ascesa dell’individualismo economico, pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2010, il lavoro di Ferrari è uno straordinario viaggio dentro il pensiero di Kafka «scrittore del lavoro, dell’economia e della realtà» e apre una prospettiva inedita nella comprensione della sua opera – restituita nella sua estrema varietà e complessità – e dei meandri di senso che sono all’origine dell’uso quasi universale del termine «kafkiano». Il libro si compone di una introduzione generale e di cinque capitoli che fanno perno su altrettanti nodi dell’interpretazione delle opere e delle lettere private dello scrittore praghese. Ne accenneremo qui per tratti fondamentali nella descrizione dei vari capitoli, certo non esaustiva del quadro ben più articolato che il lettore troverà nel volume.
Disegno di Franz Kafka
L’analisi del primo capitolo (il Lavoro) è innovativamente centrata sulla relazione tra i temi di alcune opere fondamentali di Kafka (Le Metamorfosi, Il Digiunatore e Il Castello) e le approfondite conoscenze sull’organizzazione del lavoro – riflesse in varie «relazioni tecniche» riportate alla luce da Ferrari – che lo scrittore aveva acquisito come analista dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia, a Praga, dove lavorerà tra il 1908 e il 1918. Lontano dall’immagine di «povero travet ‘scadente’ e svogliato, con il solo esclusivo interesse perla letteratura» che l’autore praghese, ancora prima dei suoi esegeti, ha voluto trasmetterci, Kafka aveva, in realtà, sempre rivestito un ruolo formale e soprattutto informale di primissimo piano nello studio tecnico, psicologico, legale e gestionale della prevenzione degli infortuni e, in senso lato, dell’organizzazione del lavoro. Così – sostiene Ferrari – i protagonisti delle opere di Kafka sono investiti – pur nei termini onirici che ne caratterizzano l’esperienza – dai processi e dalle condizioni che Kafka conosceva bene: l’interscambiabilità e fungibilità dei lavoratori nella produzione capitalistica; la perdita di senso dell’attività lavorativa del singolo; la sempre possibile e incombente sua «superfluità» e irrilevanza; l’immiserimento della vita interiore del lavoratore, il «vuoto mentale» che si produce in chi subisce. Nel secondo capitolo (Intermezzo metodologico) troviamo il tema degli strumenti metodologici – in particolare in attinenza alla scuola delle Annales – che permettono di comprendere il nesso tra storia oggettiva e soggettiva nell’opera kafkiana, con ampio riferimento ai processi descritti da Ferrarine L’ascesa dell’individualismo economico e la discussione di merito riguardo il senso della scelta della forma nell’apologo onirico, «ovvero di una narrazione al contempo sfrenata e imperturbabile e perciò adatta a riflettere il caos del nuovo nelle società» in comparazione con Freud dell’Interpretazione dei sogni. Di notevole importanza appare, poi, l’insieme delle considerazioni condotte nel terzo capitolo (Le Organizzazioni), che verte sull’analisi kafkiana delle forme del potere organizzativo, così come si mostra in opere quali Il Processo, Il Castello, La Colonia Penale. In questo capitolo, Ferrari capovolge l’interpretazione di Kafka come esegeta delle strutture organizzative totalitarie, monolitiche e impenetrabili nelle loro logiche occulte, mostrando come in realtà egli parli delle grandi organizzazioni come strutture deboli o meglio, indebolite, dal «brulicare», al loro interno, di interessi individuali e privati, da procedure vaghe e imprecise, da disordine organizzativo e resistenza al cambiamento – anticipando riflessioni che solo oggi l’evoluzione del lavoro e delle organizzazioni ha reso del tutto attuali. Il nodo della visione che Kafka mostra di avere dell’economia che si andava affermando e del lavoro dipendente in cui si identifica contrariamente al «destino» che la famiglia vorrebbe per lui, viene affrontato nel quarto capitolo (Affetti e denaro), con una disamina del groviglio intricatissimo di affetti e interessi economici che hanno riguardato la relazione tra KaIka e la sua famiglia, in particolare con la figura patema (Lettera al padre), nel contesto generale del precipitare, nel periodo, di quella «ribellione al padre» che andava maturando da molto tempo con il disgregarsi progressivo della società agrario-feudale.
Disegno di Franz Kafka
Oltre l’individualismo, verso l’individualismo economico, tema del capitolo finale, si svolge sullo sfondo dei processi storici che sono alla base della riflessione di Ferrari. Vediamo così, attraverso le parole delle lettere, dipanarsi il pensiero di Kafka su se stesso, sul proprio individualismo e tendenza all’isolamento, sul suo rifiuto della famiglia e del matrimonio, sul «nucleo più interno dell’incipiente atomizzazione degli individui e dell’eclisse generalizzata della socialità», arrivando infine – tra altre opere – alla cupa visione che si esprime nella Tana (1923-24), scritto sei mesi prima della morte e rimasto incompiuto. In quel racconto, come vorrebbe oggi il liberismo economico, «il mondo è popolato solo da predatori e ogni forma di relazione con l’altro è un duello: non ci può essere cooperazione e dunque totalmente assente è la fiducia». Quindi, «il mondo è atomizzato: quella che inizialmente era la difesa dell’individuo dal collettivo si è poi trasformata nel primato dell’individuo e, infine, nel culto totalitario del singolo».
Sergio Finardi, Il j’accuse di Franz Kafka contro il lavoro capitalista nel libro di Luigi Ferrari «Alle fonti del kafkiano». Luigi Ferrari, Alle fonti del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka, prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, a cura di V. Guerrini, D. Dondi, Editrice Vicolo del Pavone, Castelnuovo Scrivia AL 2014. La recensione di Sergio Finardi è stata pubblicata su il manifesto del 29-04-2014, p. 11.
Vuoi sapere chi sono? cosa faccio? dove vado? Sono colui che ero e sarò sempre nella vita: non bestia, né albero, né schiavo, ma uomo! Ad aprire una strada non calcata da piedi, per focosi temerari sia in prosa sia in versi, ai cuori sensibili ed alla verità, io verso la paura e verso il carcere di IIimsk mi dirigo.
Il testo su Aleksandr Nikolaevič Radiščev, tradotto dal russo per la prima volta da Alessandro Niero (su «il manifesto» del 21-02-2006, p. 12), venne scritto dal grande critico letterario Jurij Michajlovič Lotmanper la Ucebnik po russkoj literature (Manuale di letteratura russa).
Logica conseguenza delle idee propagandate dall’illuminismo fu l’esigenza di libertà per tutti gli uomini, esigenza portata fino a riconoscere al popolo il diritto di conquistarsi questa libertà con la forza. Colui che, nella letteratura russa del XVIII secolo, formulò nel modo più completo e coerente questo pensiero fu Aleksandr Nikolaevič Radiščev. Di antica estrazione nobiliare, ancorché di una nobiltà non ricca, Radiščev studiò all’università di Upsia e nel 1790 pubblicò il libro Viaggio da Pietroburgo a Mosca, che gli costò la condanna alla decapitazione. La pena fu poi commutata nell’esilio in Siberia, dove visse fino al 1796, data della morte di Caterina II. Nel periodo in cui regnò Paolo, dal 1796 al 1801, Radiščev visse esiliato in un villaggio. Alessandro I nel 1801 lo restituì all’attività di Stato, affidandogli un alto incarico nella «Commissione per la stesura delle leggi». Tuttavia Radiščev nel 1802 si suicidò. Le cause del suo gesto non sono chiare: i contemporanei vi lessero una sfida al governo. Viaggio da Pietroburgo a Mosca è l’opera più importante di Radiščev: il libro è redatto in forma di note di viaggio dal punto di vista di un viaggiatore che percorre in carrozza postale il tragitto che separa le due capitali dell’impero russo. Gli amici chiamavano Radiščev «colui che non vedeva tutto rosa». Guardava in faccia alla realtà russa del suo tempo e con eccezionale coraggio sottopose a giudizio sia il dispotismo politico dominante in Russia – l’arbitrio delle autorità, la mancanza di diritti dei sudditi – sia la terribile condizione dei contadini. Radiščev riconosce il diritto del popolo alla rivolta, sebbene non rigetti anche la possibilità che un governo illuminato possa compiere trasformazioni pacifiche. La serie di questioni contemplate nel suo libro è straordinariamente ampia: oltre ad essere in possesso di una formazione specifica in campo giuridico, egli era anche un insigne economista, un filosofo e uno storico. Il suo libro è una vera e propria enciclopedia dell’illuminismo del XVIII secolo. Proprio con Radiščev ha inizio l’intreccio fra la letteratura russa e la lotta per la libertà e la felicità del popolo, che di quella letteratura divenne il tratto caratteristico. Riservando nella lotta di liberazione un posto speciale alla parola dello scrittore, Radiščev era persuaso che è efficace soltanto quella parola per cui lo scrittore è disposto a pagare con la propria vita. Lo scrittore può essere profeta di verità o essere al servizio della menzogna. Pagando con il sangue le proprie parole, egli si guadagna la fiducia dei lettori e la gratitudine dei posteri. Gli scrittori che aspiravano alla ricchezza e ai riconoscimenti, invece, erano chiamai da Radiščev «leccapiedi». Con Radiščev ha inizio nella letteratura russa la tradizione rivoluzionaria. Egli stesso in un breve componimento [riprodotto qui sopra] disse di avere «aperto la strada» per la Siberia. Quella strada fu percorsa in seguito dai decabristi, da Fëdor Dostoevskij, da Nikolaj Gavrilovič Černyševskije da molti altri scrittori russi.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace».
Milan Kundera,L’arte del romanzo [1986], Adelphi, Milano 1988, pp. 68, 70.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Francesco Petrarca scriveva a Giovanni Anchiseo (Familiari, III, 18) della sua insaziabile brama di libri: «Vuoi dunque sapere la mia malattia? Non so saziarmi di libri. Probabilmente ne posseggo piu del necessario ma con i libri succede come con le altre cose: il riuscire ad avere ciò che si cerca stimola ulteriormente il desiderio. Nei libri c’è anzi un fascino particolare. L’oro, l’argento, le pietre preziose, le vesti di porpora, i palazzi di marmo, i campi ben coltivati, i dipinti, i palafreni con splendidi finimenti e tutte le altre cose di questo genere danno un piacere muto e superficiale, mentre i libri ci offrono un godimento molto profondo: ci parlano, ci danno consigli e, vorrei dire, vivono insieme a noi con una loro viva e penetrante familiarità. A chi legge non offrono soltanto se stessi ma suggeriscono anche il nome di altri e ne stimolano il desiderio».
Francesco Petrarca, Le familiari. Ed. critica, 4 voll., Le Lettere, Firenze 19997, a cura di V. Rossi, U. Bosco.
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