Margherita Guidacci (1921-1992) – Il nostro mondo è meccanocentrico. La macchina è la nostra fede, è il totem della nostra èra. Il nostro dovere è rifiutare l’acquiescenza. Chiunque sente gridare dentro di sé una coscienza umana violentata, deve esternare, forte, questo grido.

Margherita Guidacci_Il nostro mondo 1945

 

Margherita Guidacci, Il nostro mondo, 1945

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Margherita Guidacci

Il nostro mondo

[1945]



Così scriveva nel 1945, a 24 anni:

Il nostro mondo è meccanocentrico.
La macchina è la nostra fede, è il totem della nostra èra.
Anormale e violenta è la vita fisica dell’uomo moderno.
Ma più ci interessa la sua rovina mentale.
Crisi, in tutti i campi, della persona umana, crisi tremenda come non si era mai verificata nella storia.

La Germania è stata la prima a slanciarsi sulla china della svalutazione completa della vita umana: fino a qual punto e con quali mezzi, tutti lo sappiamo. Ma la bomba atomica, che ha annientato in un momento migliaia e migliaia di «unità umane», persone, è un’invenzione dell’altro campo.

Chiaro è il nostro dovere.
Noi dobbiamo tenere vigile la nostra angoscia, unica lampada rimasta accesa nelle nostre tenebre.
Rifiutare l’acquiescenza, denunziare lo squilibrio che si nasconde sotto ogni equilibrio insano.
Chiunque sente gridare dentro di sé una coscienza umana violentata, deve esternare, forte, questo grido.



Il mondo dominato dall’idea di Dio

Vi sono state epoche in cui l’uomo, nella sua vita individuale e collettiva, era dominato dall’idea di Dio.
Tutto ciò che faceva e subiva era interpretato religiosamente.
Le sue azioni erano considerate in base alla conformità a principi superiori. Le trasgressioni, quando accadevano, erano sempre sentite come tali: l’uomo peccava allora ad occhi aperti, responsabilmente, conservando con ciò una sorta di ribelle grandezza, o riscattandosi in parte nel metafisico strazio del rimorso di cui si investiva nell’atto stesso di peccare.
Il peccatore sapeva volere e soffrire il suo peccato come il santo voleva e – diversamente – soffriva la sua santità.
Il peccatore ed il santo, agli antipodi nella situazione morale si sentivano giudicati da una stessa legge, e ad essa cercavano, con la stessa spontaneità, riferimento, per «fare il punto» del loro itinerario spirituale. Liberi gli individui di deviare a Est o a Ovest, la società era concorde nel riconoscere un unico Nord. E questo Nord era Dio.

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L’uomo guidato dalla coscienza di se stesso

In altre epoche l’uomo si è fatto guidare dalla coscienza di se stesso. Dalla coscienza della bellezza e dignità del proprio corpo e della propria anima, dell’importanza e della perfezione dell’uno e dell’altra.
Sono le epoche che chiamiamo antropocentriche. Nelle altre, che chiamiamo teocentriche, l’uomo considera specialmente il fatto di trovarsi sul più basso gradino del mondo invisibile, e volge lo sguardo verso il sommo della scala dove stanno i poteri superiori. Nelle epoche antropocentriche l’uomo si interessa soprattutto al fatto che questo limite inferiore dell’invisibile costituisce insieme il limite superiore del visibile e perciò da esso si rivolge indietro, a mirare il mondo della natura di cui si sente giustamente il vertice, e tende ad affermare in esso la sua signoria.

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Epoche teocentriche ed epoche antropocentriche

Ogni epoca civile è teocentrica o antropocentrica.
La società ideale dovrebbe essere l’uno e l’altro insieme e nello stesso grado: i due aspetti dell’uomo – inferiorità al soprannaturale, superiorità alla natura – ungualmente sentiti e ugualmente tenuti presenti nella speculazione come nell’azione. Tale sarebbe la vera società cristiana: teocentrismo e antropocentrismo insieme: poiché Cristo è Dio e Uomo.

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La nostra società non è teocentrica né antropocentrica

La nostra società non è teocentrica né antropocentrica.
Tanto meno è cristiana, poiché il Cristianesimo esige tutti e due quegli elementi e noi non ne possediamo più neanche uno.
Tanto meno è civile, se diamo ancora alla parola civiltà un contenuto positivo, e non ci rassegnamo ad umiliarla nella triste, derisoria inflazione che hanno già subíto altre grandi parole come libertà e giustizia.

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Gli antichi agivano in nome di Dio e in nome dell’uomo

Gli antichi oscillarono fra i valori divini e i valori umani, ora mettendo più forte l’accento sui primi, ora sui secondi.
Ma noi abbiamo soppresso gli uni e gli altri. È in questo che consiste l’essenza mostruosa del mondo contemporaneo, la nostra orrenda novità. Poiché veramente nella nostra storia non si può parlare, nemmeno in senso lato, di ricorsi. Non c’è avvenimento passato che possa orientarci per scoprire la nostra probabile destinazione. Siamo in un mondo del tutto disancorato, di fronte ad una eaperienza ignota e imprevedibile, essendo le sue premesse, le sue condizioni stesse, assolutamente inedite,inedito il principio che ci governa ed al quale noi obbediamo.

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Il nostro mondo è meccanocentrico

Gli antichi agivano in nome di un Dio o in nome dell’uomo.
Ma ad informare le nostre azioni c’è solo un principio meccanico che si contrappone ugualmente a Dio e all’uomo.
Il nostro mondo è meccanocentrico.
La macchina si è interposta tra noi e Dio, sostitutendo alle leggi divine, naturali e rivelate, le proprie leggi, basate solo sui concetti di materia, quantità e movimento.
La macchina s’è interposta fra noi e la natura, falsando e deformando il suo volto ai nostri occhi, togliendoci familiarità con esso, rendendocelo incomprensibile.
L’uomo moderno non si considera più l’anello di congiunzione tra il visibile e l’invisibile: è l’esecutore di leggi meccaniche in un mondo meccanico. La macchina non solo è il suo strumento ma è il suo modello e il suo fine. La vita umana tende sempre più a diventare, sul piano intellettivo come su quello pratico, nell’ambito dell’individuo come nell’ambito dello Stato, una perfetta imitazione della macchina. La macchina è la nostra fede, è il totem della nostra èra. Non siamo ormai lontani dal «Brave New Word» di Huxley!

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Il nostro corpo è minacciato quanto la nostra anima

Materialismo, senza dubbio, ma bisogna precisare di che specie di materialismo si tratta. La degradazione è più grande di quanto quel termine stesso faccia supporre. «Materialismo» può infatti far pensare che la nostra epoca veda lo sfogo spontaneo dell’animalità dell’uomo, l’esaltazione del suo corpo, come presso le tribù primitive.
Ma le cose stanno per noi molto peggio. Stanno tanto peggio che un semplice materialismo alla maniera maori o malgascia rappresenterebbe, nella nostra situazione, un enorme miglioramento, forse un principio di salvezza.
I feticci dei maori e dei malgasci sono più benigni dei nostri. Nella vita di quei popoli, cacciatori, pescatori o pastori, è almeno valorizzato il corpo, ed il corpo è l’uomo, anche se non è tutto l’uomo. Ma il nostro materialismo nega e distrugge anche il nostro corpo.
La decadenza fisica dovuta al ritmo della vita moderna (quel ritmo che è determinato appunto dal progresso meccanico) e alle condizioni sempre più innaturali che formano l’ambiente dell’uomo, non è che troppo evidente. Si ricordi l’analisi che ne faceva, e i gridi di allarme che lanciava, già molti anni or sono, Alexis Carrell. Il nostro corpo è minacciato quanto la nostra anima, la sua resistenza è continuamente diminuita dagli attacchi ora subdoli ora violenti che ci vengono dall’esterno, subisce scosse e ferite profonde che non compensano, a cui anzi per negatività si sommano, le eccitazioni brutali che d’altro canto ci vengono offerte.
Esclusi dalla civiltà come siamo, non abbiamo neanche i benefici fisici della barbarie. E la differenza fra la nostra e la barbarie primitiva sta proprio in questo: la nostra è una barbarie che non fa nemmeno bene alla salute.

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Anormale e violenta è la vita fisica dell’uomo moderno

Anormale e violenta è la vita fisica dell’uomo moderno. Ma più ci interessa la sua rovina mentale. Siamo in un tempo in cui il pensiero è un atto di coraggio e di ribellione. Non intendo parlare delle particolari coercizioni in cui ci siamo di recente trovati, né di determinate forme di pensiero a cui quelle coercizioni si applicavano e nuove coercizioni potrebbero applicarsi e si applicheranno. Tutto ciò è grave, ma più grave forse è la constatazione che la tendenza stessa, generale, del nostro tempo, l’oscura sotterranea corrente che lo pervade ed alla cui superficie galleggiano poi i vari fatti politici, va contro il Pensiero: non questo o quel pensiero, ma il Pensiero in se stesso, come attività.
Se gli organi del pensiero fossero stati davvero acquistati dall’uomo durante un’evoluzione, verrebbe fatto di credere che egli subisca ora una nuova evoluzione per riperderli.
Si pensi alla percentuale di umanità che nelle fabbriche – questi santuari del dio moderno – passa la vita nella ripetizione di un gesto meccanico, come alzare e abbassare una leva, o incastrare identiche ruote in identici ingranaggi; si pensi al numero parimenti infinito delle persone che negli organismi burocratici (dove il meccanicismo non è minore per il fatto di essere immateriale) lavorano asceticamente al proprio rincretinimento. Si può dire che due terzi delle azioni a cui l’uomo è attualmente costretto per procurarsi da vivere sono – considerate immediatamente e intrinsecamente – assurde: atte a paralizzare lo sviluppo della sua stessa personalità, spesso a disgregarla completamente.

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Crisi, in tutti i campi, della persona umana, crisi tremenda come non si era mai verificata nella storia

Lo sterminio perpetrato dalla Germania e la bomba atomica dell’altro campo

Crisi, in tutti i campi, della persona umana, crisi tremenda come non si era mai verificata nella storia. È questo il punto centrale intorno al quale gravitano tutti i mali del nostro tempo. Il meccanicismo pratico tende a fare dell’uomo una macchina, o un pezzo, un accessorio di macchina. Non diversamente agiscono i meccanicismi ideologici. Ho detto sopra che alle leggi religiose si sono sostituite leggi fondate esclusivamente sulla materia, la quantità e il movimento. La catastrofe mondiale di cui siamo stati attori e spettatori può illuminarci meglio di qualsiasi cosa sulla portata e le conseguenze di questa concezione. Abbiamo veduto masse di uomini e di armi lanciate contro altre masse di uomini e di armi come se in realtà non vi fosse nessuna differenza fra gli elementi animati e quelli inanimati, come se un individuo non fosse che un’arma meno efficace in se stessa ma necessaria per azionare le altre. E sarebbero avvenuti bombardamenti terroristici, sarebbero state distrutte tante città se a un agglomerato di persone fosse stata riconosciuta un’importanza superiore a quella di un agglomerato di macchine o di un deposito di carburante?
La Germania, la nazione provocatrice, è stata la prima a slanciarsi sulla china della svalutazione completa della vita umana: fino a qual punto e con quali mezzi, tutti lo sappiamo. Ma la bomba atomica, che ha annientato in un momento migliaia e migliaia di «unità umane» che, malgrado la loro nazionalità e il loro colore noi ci ostiniamo a chiamare persone, è un’invenzione dell’altro campo. E dopo questo ci domandiamo se lo spirito che urgeva sconfiggere sia stato realmente sconfitto, o se piuttosto, alzatosi, come da un piedistallo, dalla Germania, non vada ora battendo le ali per tutto il mondo.

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Numero contro numero

«Io non ti odio, non ti conosco nemmeno, ma ti uccido perché tu sei parte di un insieme che si trova in urto con l’insieme di cui faccio parte io». Così sono stati compiuti la maggior parte dei delitti della guerra e dei partiti. Non il colpo diretto dell’uomo contro l’uomo. Ma numero contro numero, elemento di una serie contro elemento di un’altra serie, astrazione contro astrazione. In una sorta di innocenza bruta. Poiché la personalità umana è talmente disgregata che anche il peccato attuale – fino alla forma atroce dell’omicidio – sembra aver perduto i suoi caratteri distintivi, esser divenuto qualcosa di informe, di anonimo, di collettivo, di passivo. Avremo mai un ritorno – nella realtà, non a parole – a princípii di individualità e di responsabilità?
Intanto, grazie ai princípii contrari, il sangue umano è stato versato con l’indifferenza di un lubrificante. Il sangue che renderà per noi o contro di noi una così arcana testimonianza!
Poiché tre rendono testimonianza sulla terra: lo spirito, l’acqua e il sangue.

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Qualche sorso dell’acqua del Lete sarebbe certo la cura più efficace per l’umanità

Non sappiamo, abbiamo detto, dove il mondo moderno si avvii. Non ci preme neanche saperlo. Non ci preme indagare. È abbastanza, per noi, sapere cosa abbiamo perduto: abbiamo perduto Dio e l’uomo. Un’altra cosa importante sappiamo: che per ritrovarli non si può semplicemente rifare all’indietro i passi che abbiamo fatto in avanti (e che chiamiamo progresso, rallegrandoci al suono della parola come se ogni progresso fosse un bene, anche il progresso di un’infezione fosse un bene).
Qualche sorso d’acqua del Lete sarebbe certo la cura più efficace per l’umanità. Ma è altrettanto certo che l’umanità non si sottoporrà mai a qusta cura, e continuerà invece a mordere fino al torsolo il frutto dell’albero della scienza. A quanto abbiamo perduto bisogna dunque tornare per altra strada, attualmente ignota. Chiaro, tuttavia, fin che essa si sveli, è il nostro dovere. Noi dobbiamo tenere vigile la nostra angoscia, unica lampada rimasta accesa nelle nostre tenebre; rifiutare l’acquiescenza, denunziare lo squilibrio che si nasconde sotto ogni equilibrio insano.

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Rifiutare l’acquiescenza, denunziare lo squilibrio che si nasconde sotto ogni equilibrio insano
Di fronte alla Verità occorre gridare dal profondo

Chiunque sente gridare dentro di sé una coscienza umana violentata, deve esternare, forte, questo grido. Forse giungerà ad altri e sveglierà in essi l’identico disagio. E quando la coscienza di essere uomini, con tutto ciò che questa parola significa, dalla creta al suggello divino, e di esserci offesi e traditi da noi stessi, sarà diventata universale, sarà già cominciata la nostra lenta resurrezione.
Ma anche se il nostro grido fosse destinato a morire senza echi, noi dobbiamo ugualmente innalzarlo – perché sia stato innalzato, perché di fronte alla Verità qualcuno abbia gridato dal profondo. E in questo senso avrà peso, non sarà perduto, anche se fossimo perduti noi e ormai incapaci di operare altro che la nostra condanna – e solo per forza o per sorpresa Dio potesse ricondurci, secondo i suoi occulti disegni, a qualcuna delle realtà che ci sono patria.

Margherita Guidacci, Il nostro mondo, in «Rassegna», a. I, n. 5, settembre 1945, pp. 40-44.

 

Margherita Guidacci

Sibille

Seguito da Come ho scritto “Sibille”

A cura di Ilaria Rabatti

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Per tutto il tempo in cui rimasi in compagnia delle Sibille, le sentii sempre come delle presenze oggettive; erano per me delle persone reali, in carne ed ossa. Naturalmente, sono completamente disposta ad ammettere che esse non erano che delle proiezioni del mio inconscio. […] Come poeta, poco m’importa di obbedire a impulsi razionali o irrazionali – e meno che mai di compilarne un catalogo – purché essi siano vitali e si tradu­cano in un’opera. È il poiein, il fare che interessa al poeta e non il sottile scandaglio sul come o il perché del poiein. Razionale o irrazionale, ciò che l’aiuta ad ottenere un risultato è sempre il benvenuto. Se l’incon­scio mi ha aiutata a scrivere le Sibille, io gli sono grata: ha dimostrato di possedere immaginazione, memoria e passione. Spero bene che vorrà darmene altre prove in futuro. Che lo faccia lui o la parte razionale del mio essere, certamente non sarà in ogni caso nelle forme già sperimentate: se contassi sul loro ripetersi, mi sbaglierei totalmente. Gli esseri umani, e soprattutto gli artisti, possono sempre riservare nuove sorprese.

In questo senso, ancora oggi, mi apro fiduciosa al futuro.

Margherita Guidacci

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Cominciando dalla fine

di Ilaria Rabatti

L’incontro con un libro racchiude sempre una storia. Ripubblicare oggi Sibille, dopo trent’anni dalla loro prima uscita in volume presso Garzanti nel 1989, è per me come chiudere un cerchio. Alle Sibille sono infatti profondamente legata perché quelle poesie – le ultime pubblicate dalla poetessa ancora in vita – sono state anche le prime che ho letto di Margherita Guidacci. Ho conosciuto infatti la sua poesia cominciando dalla fine, risalendo solo successivamente alla sorgente limpida della sua prima raccolta, La sabbia e l’Angelo, accorgendomi così, man mano che andavo avanti nella lettura, di quanto quella voce, profonda e potente nella sua apparente semplicità, dentro le parole mi parlasse.

Alla fine dei miei studi universitari a Firenze, nel 1996, io non sapevo nulla di Margherita Guidacci. Sapevo solo che quello era il titolo della mia tesi di laurea in letteratura italiana moderna e contemporanea, assegnatomi da Maura Del Serra dopo la bocciatura della mia prima scelta, Alda Merini, per cui nutrivo allora una specie d’incantata venerazione. Ricordo che dopo il colloquio con la mia professoressa, uscii dal dipartimento di italianistica un po’ disorientata, con in testa il nome di Margherita a caratteri cubitali, il suo volto sconosciuto e il buio immenso intorno. Tuffarsi subito nella lettura, pensavo, mi avrebbe aiutato a fare luce ed allora, ingenuamente, mi venne l’immediato impulso di avviarmi dritta e veloce in libreria. Allora, ripeto, ingenuamente, pensavo che la letteratura fosse custodita anche nelle librerie. Andai alla Marzocco in via Martelli, che, proprio davanti al mio liceo, era stata il luogo magico di tante scoperte bellissime, sicura di trovarvi quello che cercavo. Restai malissimo quando mi resi conto che sugli scaffali di Guidacci non c’era proprio nulla. Per fortuna da Marzocco vi lavorava Carlo Manzini, un fine e introverso libraio, che aveva conosciuto bene Margherita (così mi raccontò lui stesso) e che, proprio in virtù di quell’antica amicizia e, forse, del mio sguardo smarrito, mi prese in simpatia, e si dette un gran daffare per aiutarmi. Successe, come sempre succede, l’imprevedibile, ma per me fu un “segno”. Manzini, cercando bene in un angolo poco accessibile del negozio riuscì a scovare una copia “dimenticata” dell’unico libro di Margherita ancora in commercio, Il buio e lo splendore, appunto. Ho letto d’un fiato quelle pagine, senza neanche aspettare di arrivare a casa, appoggiata ad uno scaffale della libreria, cominciando, senza saperlo, tra apprendistato e iniziazione, uno dei viaggi più importanti della mia vita. Rubando a Paolo Nori un’immagine bellissima, potrei dire infatti che in quel momento, se fossi stata attenta, avrei sentito il rumore degli scambi del treno della mia vita che si spostavano, che portavano tutto in un’altra direzione.

Da allora non ho più dimenticato quella lettura che mi ha fatto scoprire la bellezza e la paura di lasciarsi andare, permettendo alla vita di farsi strada. E tutto quello che ho fatto e letto dopo, misteriosamente, s’è incamminato in quella direzione, illuminandola. Non ho dimenticato neppure quella libreria – diventata, ahimè, oggi un lussuoso negozio di prelibatezze gastronomiche – e quell’amico libraio sempre vivi e fantastici nel ricordo.

Ricongiunta in un anello di tempo e di nostalgia (1989-2019), affido dunque la voce “rivelata” delle Sibille a nuovi lettori, immaginando che, nonostante il rumore di fondo che abita i nostri giorni, essa conservi ancora intatta la forza di farsi ascoltare, ognuno ritrovandovi dentro, insieme al respiro, anche solo una piccolissima scheggia del proprio itinerario di libertà.

Indice

Sibyllae / Ellespontica / Cimmeria / Samia / Libica / Frigia / Persica / Eritrea / Tiburtina / Cumana I / Cumana II / / / Cumana III / Cumana IV / Cumana V / Delfica I / Delfica II / Delfica III

Sulle Sibyllae

Sibyllae

Note particolari sulle Sibyllae

Comment j’ai écrit Sibylles

Come ho scritto Sibille

Note di I. Rabatti alla traduzione

 

Ilaria Rabatti, Cominciando dalla fine


Margherita Guidacci

La voce dell’acqua

Quaderno di traduzioni [autori tradotti: William Blake, Hilda Doolitle, Thomas S. Eliot, Gabriela Mistral, Richard Eberhart, Robert Frost, Archibald MacLeish, Ezra Pound, Tu Fu, Mao Tse-tung, Federico García Lorca, Vicente Aleixandre, Jorge Guillén, Cristopher Smart, Marie Under, Kathleen Raine, Henrik Visnapuu, Francis Thompson, Czeslaw Milosz, Elizabeth Bishop, John Keats], a cura di Giancarlo Battaglia e Ilaria Rabatti.

 
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Margherita Guidacci

Prose e interviste

a cura di Ilaria Rabatti

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Margherita Guidacci

Il fuoco e la rosa. I Quattro Quartetti di Eliot e Studi su Eliot

a cura di Ilaria Rabatti

 
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Margherita Guidacci

Il pregiudizio lirico. Consigli a un giovane poeta

a cura di Ilaria Rabatti

 
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Margherita Guidacci – Margherita Pieracci Harvell

Specularmente. Lettere, studi, recensioni

a cura di Ilaria Rabatti

 

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Ilaria Rabatti

Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore. L’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci
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Margherita Guidacci (1921-1992) – Il nostro mondo.
Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti
Margherita Guidacci (1921-1992) – Voi, guardie e doganieri, perché non chiedete il passaporto al tordo e al colombaccio? Si faccia dunque un bando rigoroso perché ogni uccello resti confinato nel proprio cielo territoriale. Fino a quel giorno anch’io, con tutti gli uomini, rifiuterò le frontiere.
 
Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo.
Margherita Guidacci (1921-1992) – «Sibille». Per tutto il tempo in cui rimasi in compagnia delle Sibille, le sentii sempre come delle presenze oggettive. erano per me delle persone reali, in carne ed ossa.
Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in questi vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo …
Margherita Guidacci (1921-1992) – Sono i pazzi quelli che hanno ragione, in una società disumana e soffocante come la nostra. Si impazzisce perché si ha l’impressione che il mondo non sappia che farsene dell’anima né delle sue facoltà più importanti, come ad esempio l’immaginazione.

Aulo Gellio (125-180) – Humanitas è paidéia. Coloro che con sincerità aspirano ad esse, sono di gran lunga i più umani (“vel maxime humanissimi).

Aulo Gellio 01


Qui verba Latina fecerunt quique his probe usi sunt, “humanitatem” non id esse voluerunt, quod volgus existimat quodque a Graecis philanthropia dicitur et significat dexteritatem quandam benivolentiamque erga omnis homines promiscam, sed “humanitatem” appellaverunt id propemodum, quod Graeci paideian vocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artis dicimus. Quas qui sinceriter cupiunt adpetuntque, hi sunt vel maxime humanissimi. Huius enim scientiae cura et disciplina ex universis animantibus uni homini datast idcircoque “humanitas” appellata est.

 

Coloro che hanno creato le parole latine e coloro che le hanno usate correttamente, non hanno voluto che humanitas significasse ciò che significa nell’uso comune e che i Greci definiscono col termine philanthropia: ossia una disponibilità e una benevolenza rivolta indiscriminatamente verso tutti gli uomini. Piuttosto hanno usato humanitas nel senso in cui i Greci usano paidéia, ciò che noi definiamo piuttosto erudizione ed educazione nelle arti liberali. Infatti, coloro che con sincerità ambiscono e aspirano ad esse, sono anche di gran lunga i più umani (vel maxime humanissimi), perché la ricerca di queste conoscenze e l’educazione che ne deriva, fra tutti gli esseri animati sono state concesse solo agli uomini. Ecco perché è chiamata humanitas.

 

Aulio Gellio, Noctes Atticae, XIII, 17.


Aulo Gellio così come raffigurato
nel frontespizio dell’edizione delle Noctes Atticae,
pubblicata nel 1706 dai filologi Johann Friedrich e Jacob Gronov

Chimamanda Ngozi Adichie – Le ragazze diventano donne che non sanno di avere dei desideri. Crescono e diventano donne che si reprimono. Crescono e diventano donne che non possono dire ciò che pensano. Crescono – ed questa è la cosa peggiore – e diventano donne che fanno della finzione un’arte.

Chimamanda Ngozi Adichie 01

Questa è la versione rivista di un intervento che ho tenuto nel dicembre del 2012 alla TEDxEuston Conference, un incontro annuale dedicato all’Africa in cui oratori provenienti da varie discipline pronunciano brevi discorsi con l’obiettivo di scuotere e ispirare un pubblico formato da africani e amici dell’Africa. Qualche anno prima avevo partecipato a un’altra TED Conference con un intervento intitolato The danger of the single story, in cui mostravo come gli stereotipi limitano e plasmano il nostro modo di pensare, soprattutto riguardo all’Africa. Ho l’impressione che la parola «femminista», e l’idea stessa di femminismo, siano altrettanto limitate dagli stereotipi. Quando mio fratello Chuks e il mio migliore amico Ike, entrambi organizzatori della TEDxEuston Conference, hanno insistito perché partecipassi, non ho potuto rifiutare. Ho deciso di parlare di femminismo perché è una cosa che mi tocca da vicino. Avevo il sospetto che non fosse un tema molto popolare, ma speravo di avviare un confronto necessario. E cosí quella sera, sul palco, mi sembrava di avere di fronte dei parenti: un pubblico benevolo e attento, ma che avrebbe potuto non apprezzare l’argomento del mio discorso. Alla fine, la loro standing ovation mi ha dato speranza.


In questo saggio molto personale, scritto con grande eloquenza – frutto dell’adattamento di una conferenza TEDx dal medesimo titolo di straordinario successo – Chimamanda Ngozi Adichie offre ai lettori una definizione originale del femminismo per il XXI secolo. Attingendo in grande misura dalle proprie esperienze e riflessioni sull’attualità, Adichie presenta qui un’eccezionale indagine d’autore su ciò che significa essere una donna oggi, un appello di grande attualità sulle ragioni per cui dovremmo essere tutti femministi. In un contesto in cui il femminismo era considerato un ingombrante retaggio del secolo scorso, la posizione di Adichie ha cambiato i termini della questione. Alcuni brani della sua conferenza sono stati campionati da Beyoncé nel brano Flawless e hanno fatto il giro del mondo. La scritta FEMINIST a caratteri cubitali come sfondo della performance dell’artista agli Mtv Video Music Awards e il famoso discorso dell’attrice Emma Watson alle Nazioni Unite in cui si dichiara femminista sono segni evidenti del fatto che c’è un prima e un dopo “Dovremmo essere tutti femministi”.
 
Ecco alcuni stralci di un intervento di questa scrittrice nigeriana al TED X talk
 

Ma la cosa di gran lunga peggiore che facciamo agli uomini, è costringerli a pensare di dover essere dei duri e il lasciarli con un ego molto fragile. Più gli uomini sentono di dover essere degli “uomini duri” più il loro ego è debole. Facciamo un danno anche più grande alle ragazze perché le educhiamo a compiacere il fragile ego degli uomini. Insegniamo loro a limitarsi, a farsi più piccole, diciamo alle ragazze: “Puoi essere ambiziosa, ma non troppo.”
“Dovresti ambire ad avere successo, ma non troppo, altrimenti minaccerai l’uomo.” Se sei colei che porta i soldi a casa in una relazione devi far finta di non esserlo, specialmente in pubblico, altrimenti lo castreresti.

E se rimettessimo in discussione la premessa? Perché il successo di una donna deve essere una minaccia per un uomo? Se decidessimo di liberarci semplicemente di questa parola, non c’è parola in inglese che io detesti di più di “castrazione”. Un conoscente nigeriano mi ha chiesto una volta se non avessi paura di intimidire gli uomini. Non ero per niente preoccupata. Non ho mai avuto questa preoccupazione perché un uomo che si sente intimidito da me è proprio il tipo di uomo che non mi interessa affatto.

Tuttavia questa domanda mi ha colpita. Dato che sono una donna, ci si aspetta che aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che prenda le mie decisioni tenendo sempre in mente che il matrimonio è la più importante. Il matrimonio può essere una buona cosa: una fonte di gioia, di amore e di supporto reciproco. Ma perché insegniamo alle ragazze ad aspirare al matrimonio e non lo insegniamo ai ragazzi?

Conosco una donna che ha deciso di vendere casa perché non voleva intimidire l’uomo che avrebbe potuto sposarla. Conosco una donna non sposata in Nigeria che, quando va alle conferenze, porta una fede al dito perché in questo modo vuole che gli altri partecipanti le “diano rispetto”. Conosco molte donne giovani che subiscono la pressione della famiglia, degli amici, anche al lavoro perché si sposino e sono spinte a fare delle scelte terribili. A una certa età una donna che non è sposata è spinta dalla società a sentire un enorme senso di fallimento personale. Di un uomo che a una certa età non è ancora sposato, pensiamo solo che non si sia ancora deciso a scegliere. È facile dire: “Le donne sono libere di dire no a tutto questo”. La realtà è più difficile e più complessa di così. Siamo tutti esseri sociali. Assimiliamo le idee dalla nostra società. Persino il linguaggio che usiamo quando parliamo di matrimonio e relazioni lo dimostra. Il linguaggio del matrimonio è spesso la lingua della proprietà piuttosto che della collaborazione. Usiamo la parola “rispetto” per descrivere qualcosa che una donna mostra a un uomo ma spesso non ciò che un uomo mostra a una donna.

Così le ragazze diventano donne che non sanno di avere dei desideri. Crescono e diventano donne che si reprimono. Crescono e diventano donne che non possono dire ciò che pensano. Crescono – ed questa è la cosa peggiore – e diventano donne che fanno della finzione un’arte.



Eschilo (525-456 a.C.) – C’è bisogno di un pensiero profondo, salvifico, che si immerga nell’abisso come un tuffatore dallo sguardo limpido, sgombro dall’ebrezza del vino, così che rovina non tocchi la città …

Eschilo023

C’è bisogno di un pensiero profondo,
salvifico, che si immerga nell’abisso
come un tuffatore dallo sguardo limpido,
sgombro dall’ebrezza del vino,
onde rovina non tocchi la città …

 

Eschilo, Supplici, 407 ss.

 

Le Danaidi di J.W. Waterhouse

Eschilo (525-456 a.C.) – «Specchio dell’immagine è il bronzo, ma il vino lo è della mente».
Eschilo (525-456 a.C.) – «È bello anche da vecchio imparare la saggezza».

Henry David Thoreau (1817-1862) – È impossibile descrivere l’infinita varietà di sfumature della natura. Per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate.

Henry David Thoreau 02

È impossibile descrivere l’infinita varietà di sfumature, toni e gradazioni perché la nostra lingua non ha nomi per tutti e noi siamo costretti ad usare lo stesso termine per designare venti cose diverse. Se potessi mostrare altrettanti alberi diversi o anche foglie diverse, l’effetto potrebbe essere differente, ma il fatto è che anche quando i colori sono gli stessi, essi variano talmente in purezza e in delicatezza che la nostra tavolozza, non solo dovrebbe essere straordinariamente arricchita per descriverli, ma addirittura tingersi degli stessi colori e poter così parlare all’occhio non meno che all’orecchio […]. Per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate.

Henry David Thoreau, Vita di uno scrittore (I Diari), a cura di Biancamaria Tedeschini Lalli , Ed. Neri Pozza, Vicenza 1963, pp. 300-302.


Henry David Thoreau (1817-1862) – Questa è la biblioteca, ma il mio studio è là fuori, oltre la porta. Credo che non esista niente – neppure il crimine – maggiormente contrario alla poesia, alla filosofia e alla vita stessa che questa incessante smania per il business.


Nadeem Aslam – Qualcuno, da qualche parte, ha sempre bisogno di aiuto. Per questo scrivo. Se vogliono costruire un muro non possiamo fermarli. ma saremo i Frida Kahlo in piedi su quel muro, ribelli.

Nadeem Aslam
Frida Kahlo, Autoritratto al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, 1930
Il libro dell’acqua e di altri specchi, 2019

« Ricordo un periodo, quando avevo tra i 20 e i 30 anni, nel quale mentre leggevo un giornale diventavo sempre più ansioso mano a mano che mi avvicinavo alle pagine interne. Era li che si trovava la maggior parte delle notizie “internazionali”, le news che arrivavano da fuori l’Occidente, i disordini, i massacri e le ingiustizie che avvenivano nei paesi in via di sviluppo, una parte del mondo a cui mi sento profondamente connesso. Ma con il passare degli anni, mi sono scoperto ansioso già quando comincio a leggere la prima pagina del giornale. Il veleno e il sangue sono penetrati attraverso gli strati di carta e sono ormai visibili fin dalla “prima”. E ogni luogo è parte di ogni luogo, tutto è interconnesso, intrecciato, quasi non ci fossero più le vecchie divisioni tra Oriente e Occidente. Forse è anche per questo che mai come oggi il mondo è apparso cosi ossessionato dalle divisioni. Al riguardo, Donald Trump che vuole costruire un muro mi ricorda un bellissimo dipinto realizzato da Frida Kahlo negli anni Trenta, in piedi in un abito rosa al confine tra Messico e Stati Uniti. Guardo quel dipinto e penso: se vogliono costruire un muro non possiamo fermarli; ma saremo i Frida Kahlo in piedi su quel muro, ribelli, con gli abiti più belli che possiamo trovare».

 

Nadeem Aslam, “Qualcuno, da qualche parte, ha sempre bisogno di aiuto. Per questo scrivo”, il manifesto, 4 settembre 2019, p. 11.

Nadeem Aslam, figlio di un poeta e produttore cinematografico, è nato in Pakistan nel 1966 e dall’età di quattordici anni vive in Inghilterra. Ha frequentato l’Università di Manchester che ha però lasciato prima di laurearsi per mettersi a scrivere il suo primo romanzo, Season of the Rainbirds, apparso nel 1993, con il quale ha vinto alcuni prestigiosi premi. Ha trascorso poi i successivi undici anni impegnato nella stesura di Mappe per amanti smarriti, tradotto in una decina di lingue, edito nel 2004 da Feltrinelli che pubblica anche La veglia inutile (2008) e Note a margine di una sconfitta (2014).



Alexandre Dumas (1802-1870)- Il cattivo pensiero non nasce da una buona indole. Alla natura umana ripugna il delitto. Tuttavia la civiltà ci ha dato dei vizi, dei bisogni, degli appetiti fittizzi, che qualche volta hanno l’influsso di soffocare i nostri buoni istinti e di condurci al male.

Alexandre Dumas 01

Ecco quanto dice l’Abate Faria a Edmond Dantès in uno dei loro primi colloqui nella cella del vecchio studioso, detenuti entrambi senza colpa nella prigione del Castello d’If:

«C’è un assioma di grande profondità […]: il cattivo pensiero non nasce da una buona indole. Alla natura umana ripugna il delitto. Tuttavia la civiltà ci ha dato dei vizi, dei bisogni, degli appetiti fittizzi, che qualche volta hanno l’influsso di soffocare i nostri buoni istinti e di condurci al male» (p. 130).

Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo, Crescere Edizioni, 2018.


Veduta della prigione-fortezza nota come il Castello d’If
Prima edizione originale del 1846

Margherita Guidacci (1921-1992) – Sono i pazzi quelli che hanno ragione, in una società disumana e soffocante come la nostra. Si impazzisce perché si ha l’impressione che il mondo non sappia che farsene dell’anima né delle sue facoltà più importanti, come ad esempio l’immaginazione.

Margherita Guidacci, Neuroisuite
«Sono i pazzi quelli che hanno ragione,
in una società disumana e soffocante come la nostra.
Si impazzisce perché si ha l’impressione che il mondo
non sappia che farsene dell’anima
né delle sue facoltà più importanti,
come ad esempio l’immaginazione».

Margherita Guidacci, Lettera a Mladen Machiedo, 15 giugno 1970, in Id., Lettere di Margherita Guidacci a Mladen Machiedo, a cura di Sara Lombardi, Firenze University Press, 2015.

Prigione

Se il muro fosse di pietra e non d’aria,
se attraverso il muro non si toccassero gli alberi,
se le alte sbarre d’ombra che ti rigano l’anima
fossero l’ombra di vere sbarre a cui potersi aggrappare,
se ricordassi lo scatto d’una porta che si chiude
alle tue spalle e il tintinnìo delle chiavi
alla cintura del carceriere che si allontana:
quale sollievo ne avresti nell’orrore!
Perché ciò che si chiude può tornare ad aprirsi,
la rocca più imponente può essere distrutta.
Ma dove sei non è porta, e nessuna porta s’aprirà.
E non è muro: nessun muro sarà abbattuto.
Le sbarre d’ombra sono le vere sbarre,
non saranno divelte. Tu confini con l’aria,
tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera,
e sei tu stessa la tua prigione che cammina.

Margherita Guidacci (1921-1992) – Il nostro mondo.
Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti
Margherita Guidacci (1921-1992) – Voi, guardie e doganieri, perché non chiedete il passaporto al tordo e al colombaccio? Si faccia dunque un bando rigoroso perché ogni uccello resti confinato nel proprio cielo territoriale. Fino a quel giorno anch’io, con tutti gli uomini, rifiuterò le frontiere.
Margherita Guidacci (1921-1992) – «Sibille». Per tutto il tempo in cui rimasi in compagnia delle Sibille, le sentii sempre come delle presenze oggettive. erano per me delle persone reali, in carne ed ossa.
Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in questi vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo …


Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in questi vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo …

Margherita Guidacci-Eritrea

Sibille.
Seguito da Come ho scritto “Sibille”.

A cura di Ilaria Rabatti.

indicepresentazioneautoresintesi

Chi ha veramente a cuore la sapienza,
non la ricerchi in questi vani giri,
come di chi volesse raccogliere le foglie
cadute da una pianta e già disperse dal vento,
sperando di rimetterle sul ramo.
La sapienza è un pianta che rinasce
solo dalla radice, una e molteplice.
Chi vuol vederla frondeggiare alla luce
discenda nel profondo ...

Eritrea

Non qui, su questo sacro
suolo di Eritre, dove siete venuti
per riscrivere i libri che per impulso vostro
non avreste mai scritto, e che ora il fuoco
vi ha sottratto; non qui, dove in un tempo
lontano io rivelai la prima volta
la sapienza che vi era contenuta;
né a Samo o Delfi o Cuma (più vicina
a voi) da cui li trasse senza intenderli
il vostro re superbo; né in alcuno dei luoghi
che, come specchi successivi, mandarono
lampi arcani, voi troverete mai
quel che cercate. Troverete forse
un mormorio trasognato di vecchi
che storpiano parole già storpiate
dai loro padri: e di quello farete
i vostri nuovi libri, per illudere
il popolo e voi stessi. Ma se uno
ha veramente a cuore la sapienza,
non la ricerchi in questi vani giri,
come di chi volesse raccogliere le foglie
cadute da una pianta e già disperse dal vento,
sperando di rimetterle sul ramo.
La sapienza è un pianta che rinasce
solo dalla radice, una e molteplice.
Chi vuol vederla frondeggiare alla luce
discenda nel profondo, là dove opera il dio,
segua il germoglio nel suo cammino verticale
e avrà del retto desiderio il retto
adempimento: dovunque egli sia
non gli occorre altro viaggio.

M. Guidacci, Sibille. Seguito da Come ho scritto “Sibille”, a cura di Ilaria Rabatti, Petite plaisance, Pistoia 2018, p. 20.


Margherita Guidacci (1921-1992) – Il nostro mondo.
Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell – «Specularmente. Lettere, studi, recensioni». A cura di Ilaria Rabatti
Margherita Guidacci (1921-1992) – Voi, guardie e doganieri, perché non chiedete il passaporto al tordo e al colombaccio? Si faccia dunque un bando rigoroso perché ogni uccello resti confinato nel proprio cielo territoriale. Fino a quel giorno anch’io, con tutti gli uomini, rifiuterò le frontiere.
 
Margherita Guidacci (1921-1992) – Chi ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo.
Margherita Guidacci (1921-1992) – «Sibille». Per tutto il tempo in cui rimasi in compagnia delle Sibille, le sentii sempre come delle presenze oggettive. erano per me delle persone reali, in carne ed ossa.


Max Frisch (1911-1991) – In amore non si vede un punto di arrivo, né un appagamento. L’amore autentico è solo un continuo proseguire.

Max Frisch 01
«In amore non si vede un punto di arrivo, né un appagamento.
L’amore autentico è solo un continuo proseguire».

Max Frisch, II silenzio. Un racconto dalla montagna (Antwort aus der Stille. Eine Erzählung aus den Bergen, 1937), trad. di Paola Del Zoppo, Roma, Del Vecchio Editore, 2013.

Max frisch, Antwort aus der Stille, copertina della prima edizione.

Quarta di coepertina

Balz Leuthold non ha mai voluto essere una persona ordinaria. Poco prima del suo trentesimo compleanno, però, si rende conto di non potersi neanche considerare davvero una persona straordinaria. Nella vita, fino a ora, non ha compiuto azioni degne di particolare nota, nessuna invenzione, nessuna creazione artistica o letteraria che lo elevino a persona speciale. Allora ha preso una decisione: scalerà quella montagna che da giovane guardava ergersi sulle sue passeggiate, che faceva ombra ai discorsi con il fratello “adulto”. Compirà un atto eroico, e con questa azione “virile” darà un senso compiuto alla sua esistenza. È deciso: azione o morte. Ma giunto in montagna alla locanda dove sostava anche in gioventù, incontra una giovane straniera, che lo guarda e lo vede come nessuno fino ad allora lo ha mai guardato e visto. Chi è lei, da che vita proviene? Perché sembra non aver paura di nulla? E dall’incontro tra i due scaturiscono gli interrogativi, e la narrazione si sviluppa e trascina via il lettore proprio come un torrente montano scorre rumoreggiando tra i crepacci, e il vortice di pensieri e accadimenti lascia senza fiato, travolge come il senso di assoluto degli ambienti montani, dove il sorgere del giorno e il calare della notte sono eventi che penetrano le fibre dell’individuo tanto quanto fame, sonno e sete. E la domanda echeggia: cosa fa di una vita una vita veramente compiuta? Ha a che fare, questo, con la felicità?

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