«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Aula III – Palazzo Malvezzi – Via Zamboni, 22 Bologna
La pena di morte viva: Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico
Nel corso dell’ultimo secolo i paesi che hanno approvato la cancellazione della pena di morte, a vantaggio di misure detentive, hanno salutato il cambiamento come un passo in avanti nella tutela dei diritti civili. Ma l’ergastolo, la pena senza fine, è veramente una misura più umana? Elton Kalica ha deciso di scrivere della vita dei detenuti per aprire piccole finestre che permettano agli sguardi distratti della gente fuori di fermarsi un attimo e guardare dentro. Avvalendosi dei concetti di habitus ed ethos introdotti dal sociologo Pierre Bourdieu, Kalica raccoglie le testimonianze dei carcerati e riflette sulla disumanità dell’ergastolo ostativo.
Interventi di:
Elton Kalica
Elton
Kalica è dottore di ricerca presso l’Università di Padova in “Scienze Sociali,
Interazioni, comunicazione e costruzioni culturali”, ha svolto una ricerca sul
tema dell’Ergastolo ostativo. Collabora all’organizzazione scientifica del
Master di 1° livello in Criminologia critica e sicurezza sociale,
devianza, istituzioni e interazioni psico-sociali. Membro
del comitato redazionale della rivista “Ristretti Orizzonti” e
dell’Associazione Antigone Veneto, ha curato, con Simone Santorso, Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario
(2018).
Alvise Sbraccia
Alvise
Sbraccia è ricercatore in SPS12 presso il dipartimento di
Scienze Giuridiche dell’università di Bologna, dove tiene corsi in materie
socio-criminologiche. Attraverso metodi prevalentemente qualitativi ha svolto
ricerche sociologiche sui processi di criminalizzazione dei migranti, sul
recidivismo penale, sul sistema di relazioni nelle strutture penitenziarie, sui
dispositivi di controllo e segregazione in ambito urbano, sulla giustizia
minorile e sul sentencing
penale. Negli ultimi anni ha dedicato la sua attenzione all’evoluzione teorica
della criminologia post-coloniale e al dibattito sociologico in tema di
radicalizzazione. Inserito nei comitati di redazione delle riviste scientifiche
“Studi sulla questione criminale” e “Antigone”, è membro dell’Osservatorio
nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone e ne
coordina il comitato scientifico. Dal 2006 è rappresentante nazionale presso lo
European Group for the Study of Deviance and Social Control”. Ha collaborato
con il master in Criminologia critica e sicurezza sociale fin dalla prima
edizione ed è attualmente membro del suo comitato ordinatore.
Stefano Anastasia
Stefano
Anastasia, Università di Perugia, Garante dei
Detenuti Lazio e Umbria, presidente di Antigone ai tempi in cui fu elaborata
dall’associazione nel 1999 la prima proposta di legge diretta alla istituzione
dell’ombudsman, direttore del primo ufficio locale di tutela dei diritti dei
detenuti in Italia istituito dal comune di Roma nel 2003, promotore del
Difensore Civico dei detenuti della stessa associazione che, dal 2008, ha
seguito migliaia di casi, ricercatore in filosofia del diritto all’Università
di Perugia, grande esperto e conoscitore del sistema penitenziario.
Rosa Ugolini
Rosa
Ugolini, Avvocato, si è laureata con una tesi in diritto
penitenziario: “Ergastolo: storia, profili d’incostituzionalità e prospettive
di superamento”. Fa parte del Comitato Direttivo dell’Associazione Al-Sirat di
promozione sociale per i diritti dei
Migranti.
Come a raggio di sol che puro mei per fratta nube già prato di fiori vider, coverti d’ombra, li occhi miei;
vid’io cosìpiù turbe di splendori, folgorate di su da raggi ardenti, senza veder principio di folgori.
Dante Alighieri, Paradiso, XXIII, 79-84
Il tema dell’incontro porta con sé risonanze arcaiche. Mette un soggetto di fronte all’altro; evoca la conoscenza ma anche lo scontro, il dialogo ma anche il conflitto. L’altro può essere ascoltato, interpretato, attraversato dialetticamente; oppure aggredito o rifiutato ed escluso o anche ignorato. Il faccia a faccia può suscitare immediatamente sentimenti primordiali di amore e di odio, sino ai due estremi dell’innamoramento e del duello. L’incontro è anche scambio di segni, dunque linguaggio. Il sorriso con cui si saluta qualcuno quando lo si incontra è atto di socializzazione, ma esso – ci informano gli studiosi di etologia e di antropologia – nasce dal timore dell’aggressione e dall’esigenza preventiva di esorcizzarla comunicando cordialità o, almeno, assenza di aggressività. La scena dell’incontro è dunque fondativa della società umana, ne indica simbolicamente l’orizzonte linguistico, comunicativo e interdialogico e anche il rischio distruttivo che lo minaccia. E anche: l’altro può sfuggire al nostro controllo, diventare l’immagine di una diversità perturbante, di una materialità che si sottrae alla nostra capacità di comprensione e che ci sovrasta. Può rappresentare insomma un interlocutore con cui è possibile confrontarsi più o meno alla pari, colloquiando o duellando, oppure una alterità per così dire naturale (non importa se rappresentata da un animale, come in Tozzi di Bestie, o da una persona), che ci sta di fronte muta e irriducibile ai nostri parametri. L’altro insomma può indicare simbolicamente l’estraneità non solo del contesto sociale, ma del cosmo intero che ci fronteggia nella sua opaca insignificanza, nella sua impermeabilità alla nostra griglia semantica. In questo secondo caso la scena dell’incontro diventa fondativa del rapporto io-mondo, soggetto-oggetto: non esprime solo una relazione storica e sociale, ma anche una ontologica. Quando la scena dell’incontro si fa oggetto di rappresentazione letteraria, vale a dire di una operazione per propria natura plurisignificante e densamente simbolica, tutti questi aspetti possono confluirvi e convivere fra loro. Dietro l’incontro, insomma, si profilano un tessuto di rapporti sociali, che può essere espresso con il linguaggio della psicologia, della sociologia e dell’analisi sociale, e una rete di relazioni ontologiche con il mondo che possono essere comunicate con quello della magia o della scienza, della fantasia o della filosofia. Non per nulla i critici tentano di parafrasare i testi, di tradurne e interpretarne il messaggio, facendo ricorso, spesso, a tutti questi linguaggi. L’incontro è anche una grande metafora della condizione storica dello scrittore all’interno della società, del suo rapporto con i gruppi sociali, della sua funzione, del mandato che può assolvere o che gli può essere revocato, e anche della sua relazione con il mondo, mediata dalle ideologie scientifiche, filosofiche e religiose e dall’immaginario del suo tempo, nonché, ovviamente, anche da mitologie, attese, divieti, timori arcaici, filtri fantasmatici derivanti da una storia psicologica personale e da un inconscio collettivo di lunghissima durata. Nel suo complesso la parabola di un secolo tracciata attraverso il prisma dell’incontro sembra indicare un percorso che presuppone ancora, nel suo momento di partenza, una fiducia nella libertà e nella responsabilità dell’uomo, nella sua capacità di confrontarsi con l’altro, di modificarlo attraverso un duello di parole e di inserirsi mediante l’atto letterario nella costruzione di un tessuto sociale, e che testimonia invece, nel suo momento di approdo – la grande stagione del romanzo e del racconto modernisti –, la fine del mandato sociale degli scrittori, la loro condizione di isolamento, la loro sfiducia nella possibilità stessa dell’uomo di incontrarsi, di dialogare, di trasformare l’interlocutore e di poter conoscere e dominare il mondo. Contemporaneamente, a cavallo fra i due secoli, si è affermata la nuova antropologia di una società di massa in cui l’individualismo si è degradato a narcisismo diffuso e stereotipato, l’importanza della vita privata ha soverchiato quella di una vita pubblica in cui l’uomo occidentale è sempre più ridotto al ruolo di spettatore passivo e l’incomprensibilità della storia e del mondo si è tradotta nella sensazione crescente di essere alla mercé di un potere estraneo e di una casualità incontrollabile. Ovviamente […] non si tratta di un processo unidirezionale e rettilineo, ma di una spirale che può ritornare su se stessa, e non sono mancati infatti momenti di interruzione del processo e di inversione di rotta. E tuttavia l’apologo di Kafka commentato nell’ultimo capitolo e dedicato a uno spettatore impotente che non riesce più a intervenire sul palcoscenico della storia e neppure a decifrare la scena che vi si svolge mi pare ancora tragicamente attuale.
[…] Vorrei spiegare il senso delle due terzine dantesche poste in esergo. Gli scrittori del grande canone europeo ci appaiono come «splendori», traiettorie «folgorate» da una luce che le muove e che per noi ormai è diventata incomprensibile. La nuvola che nasconde il sole, lasciando appena un varco attraverso cui i raggi riescono comunque a filtrare, copre pure noi con la sua ombra. Anche i nostri occhi, come quelli del pellegrino medievale, sono «coverti» da essa e incapaci di «veder principio di folgori». Ma per Dante quel principio esisteva: anche se non poteva essere individuato con lo sguardo, stava indubitabilmente lì, sorgente sicura di luce; per noi è diventato così problematico che forse nemmeno esiste più (o almeno così sembra pensare la maggior parte di coloro che ritengono in Occidente di appartenere al gruppo degli intellettuali). Il significato si è come ritirato dalla vita. Non sappiamo più rispondere a domande come: cosa muove quelle traiettorie? Perché, in nome di cosa, ci appaiono come «splendori»? Cosa sono e a cosa rinviano oggi i «raggi ardenti» che le illuminano? Eppure una risposta sarebbe dovuta. Anche se non sappiamo più darla, anche se la certezza della verità è venuta meno, una verità è pur sempre pronunciabile. […] Oppure l’uomo d’Occidente non è neppure in grado di percepire che incontrarsi, scambiarsi esperienze, dialogare, interrogare l’altro e farsi interrogare, e anche entrare nel conflitto delle interpretazioni e competere con ragionamenti e forza di parole, è condizione migliore della reciproca estraneità, della indifferenza e del silenzio che ci circonda nel frastuono in cui viviamo? L’unica ontologia accettabile, scriveva l’ultimo Lukács, è quella dell’essere sociale.
Adorno aggiungeva che esiste civiltà solo dove si può essere diversi senza paura. Eppure gli autori interrogati in questo libro ci parlano di un mondo in cui ogni individuo è isolato, il destino è diventato cosa privata, la dimensione della collettività, della storia e della vita pubblica si sta dissolvendo, l’uomo non è più in grado di controllare la traiettoria sociale della propria esistenza e la casualità sembra dominarla. […]
Se ogni discorso critico è un discorso allegorico – si parla di questo, il letterario, per parlare di altro, e fra le due sfere c’è uno iato, lo stesso che divide significante da significato –, l’allegoria di questo libro è scoperta e rivela, anch’essa, come tutte le allegorie moderne, il vuoto che la sottende. Il discorso critico è privo di garanzie. Trae la propria forza dalla interpretazione e dalla argomentazione, dunque da un pubblico, da un contesto comunitario, che però è sempre precario e mutevole. Quando questo, come oggi, è scarsamente presente o manca del tutto, la critica perde, o rischia di perdere, ogni valore o significato. Ma tentare fa parte della sua scommessa ermeneutica. Il suo punto di debolezza è anche il suo punto d’onore; e la sua umiltà non può disgiungersi da questo orgoglio.
Romano Luperini, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, Laterza, Bari-Roma 207, pp. 32-36.
***
Descrizione
L’incontro tra Ulisse e Nausicaa, quello tra Leopold Bloom e Gerty MacDowell, l’incontro di Lucia con l’Innominato e quello tra Emilio e Angiolina, in Svevo: nelle narrazioni di ogni genere e tempo l’incontro non è solo tema molto vitale dell’intreccio ma anche artificio della trama, contenuto e forma. Se i personaggi di Balzac e Manzoni vivono gli incontri come momenti decisivi dell’esistenza, desiderati, programmati o indotti, nel modernismo europeo e in buona parte della successiva letteratura del Novecento, con il prevalere di un senso di caos e incontrollabile casualità, la fecondità narrativa dell’incontro si ‘svuota’. Non più effetto di azioni consapevoli, si stempera nella gamma intangibile degli incontri mancati, sostituiti o impossibili, faccia a faccia perturbante con una imprendibile alterità, o prodotto di inconfessabili pulsioni. Dietro l’incontro interpersonale si percepisce, in filigrana, la condizione dello scrittore e il suo rapporto incerto e problematico con la realtà. Da Manzoni a Joyce, da Flaubert a Proust, da Maupassant a Svevo, Pirandello e Kafka, Romano Luperini guida il lettore in una suggestiva e densa indagine alle radici della rappresentazione letteraria del motore capriccioso che governa l’esistenza.
L’elemento originario essenziale: la pratica del sogno più antico, come vastissima esplosione della storia eretica, come estasi del camminare eretti e della volontà di paradiso, volontà impaziente, ribelle e ferma. Inclinazioni, sogni, sentimenti profondi e sinceri, entusiasmi rivolti ad una meta vengono alimentati da un bisogno diverso da quello più afferrabile, e tuttavia un bisogno che non è mai vuota ideologia; essi non tramontano, colorano realmente di sé un lungo tratto, scaturiscono nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuano ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche.
Ernst Bloch
L’inquietudine e l’indifferenza Heidegger, in Essere e Tempo, ha analizzato la paura, quale sentimento che connota l’essere umano. Certo, il periodo storico in cui ha scritto Essere e Tempo può aver condizionato la sua visione. Eppure l’analisi di Heidegger è condivisa da Bauman: la società liquida, inquietante nel suo capillare strutturarsi e posizionarsi, è oggi, forse, già trascesa. La paura convive con l’indifferenza, con la pratica di un lassismo etico, la cui passività come destino, rende ciascuno distante rispetto al proprio prossimo. Il tempo accelerato delle metamorfosi che ci portano verso il transumanesimo, i messaggi che attraversano spazi quasi infiniti in tempi minimali – spazi in cui chiunque sembra raggiungibile – convivono con la distanza, la quale non è di ordine spaziale, ma emotivo: vicini e distanti. Si delinea in tal modo un nuovo sentimento che circostanze economiche e tecnologiche sollecitano: l’inquietudine è vissuta come un destino, come quotidiana condizione da cui non è possibile sfuggire, anzi si ritiene che essa governi il mondo. L’indifferenza sostanzia l’inquietudine: l’altro è nemico, la sua parola è solo calcolo, l’altro è un algoritmo distante. Si vive pertanto nascosti, mentre ci si mostra in immagine, in un’estetica che non conosce che l’astratta forma di sé. L’inquietudine non arde per la paura, non costruisce ponti per l’uscita da sé, ma è fredda ed avvolgente. La paura, nelle sue manifestazioni fino al panico, ritorna su se stessa, si sottrae alla chiacchiera per sostituirla con la posa: ci si mostra, ma senza il desiderio della parola viva. Pallida copia della parola, l’apparire –l’affermarsi di una presenza senza l’esserci – è l’unica fonte che rassicura. Mostrarsi e sottrarsi, perché in realtà l’indifferente narcisista cerca solo una gratificazione immediata, senza implicazione, un clic per vivere, un’immagine per dire a se stesso che c’è, che gli sembra di esserci: l’altro scompare nella coltre di immagini che possono essere prodotte in una quantità innumerevole in tempi brevissimi. Il cerchio si chiude, l’immagine restituisce se stesso in modo mitico, nell’immaginario dell’indifferente narcisista l’esposizione ha concluso nella distanza – ma in un tempo immediato – il bisogno di gratificazione: ci si sente normali e nel contempo gratificati, normali perché “così fan tutti”, gratificati poiché per un attimo l’immagine è passata nell’iride di qualcuno.
L’epoca delle emozioni tristi Non più passioni tristi, ma emozioni tristi. La passione vive in una temporalità che consente ad essa di rendersi fenomeno, ora invece non vi è che la tendenza a vivere emozioni brevi e come tali incomprensibili. L’essere si è consumato – e con esso la verità – parallelamente al tramonto delle passioni, per lasciare spazio e tempo alle emozioni fuggevoli, alla solitudine interiore, all’impossibilità di empatizzare, di tenere dentro di sé l’altro, di ascoltarlo. Soltanto i corpi, mere anatomie apparentemente liberate, corrono lungo le varianti dell’emozione. Nell’emozione tutto sembra possibile, tranne la prassi: la vita di questi corpi è interna al mercato, luogo del disperdersi in mille rivoli di piacere momentaneo.
Tramonto dell’Occidente Pensare ad un’alterità possibile, ad un mondo altro è in questi decenni impresa ardua, perché per la prima volta un’umanità sedotta deve confrontarsi con la propria indifferenza, con un’accidia divenuta ipostasi. Forse dovremmo cominciare a pensare l’indifferenzaprometeica: poter tutto, volontà di potenza del desiderio del mercato che sta mutando antropologicamente l’essere umano, ne sta consumando la densità emotiva, l’invisibile che, da sempre, è il fuoco che vivacizza l’intelligenza, stimola l’immaginazione per pensare-immaginare un altro mondo possibile, e specialmente educa a guardarsi dal di fuori ed a scorgere le proprie miserie, le proprie deficienze ed alienazioni. Un cambiamento politico-comunitario deve confrontarsi con tali situazione emotiva che dissangua l’Occidente. Il tramonto dell’Occidente andrebbe analizzato con lo scandaglio. L’economia che arranca, il collasso demografico, l’assenza di spazio per il pensiero, per la creatività profonda, hanno la loro ragione profonda nell’aver introiettato il nichilismo fino a farne carne ed anima. O meglio, l’Occidente si è lasciato portar via corpo ed anima, ed ora non resta che il simulacro. Ogni grande trasformazione-prassi necessita di impegno, passione, dedizione, resistenza. In assenza di tali moventi della prassi non vi è che il ricadere piano su se stessi, il lasciarsi vivere, il lasser aller/lasser faire che sta cristallizzando il corpo vivo dell’Occidente.
Passione e rivoluzione Ernst Bloch ci ricorda – profetico, in tal senso – che le rivoluzioni hanno la loro genesi profonda nello scandalo dinanzi all’ingiustizia, nell’immaginazione che eleva la razionalità e riporta in vita verità umane sedimentare nell’interiorità di ognuno. Tutto questo favorisce il definirsi della speranza in una vita comunitaria migliore, nel rappresentarsi il possibile, quale paradigma per valutare lo spazio ed il tempo presente. Si rompe l’angustia dello spazio-tempo per vivere oltre, per una prassi che dal presente crede nel futuro. La passione politica diventa speranza, gioia della partecipazione che dispone al coraggio. L’analisi della rivoluzione dei contadini e di Thomas Müntzer svolta da Bloch consente di individuare la costante del sentire rivoluzionario, il quale ha bisogno di progetti economici e di calcoli, ma questi non producono rivoluzioni; per i cambiamenti anche minimi sono necessarie le passioni in odore di verità:
«Lo stesso Marx ammette l’importanza dell’entusiasmo (Schwärmerei) almeno all’inizio di ogni grande rivoluzione: almeno finché i nuovi signori si sentirono romani e di nuovo pagani, finché i contadini tedeschi e più tardi anche i puritani attinsero dall’Antico Testamento (per la loro rivoluzione borghese) lingua, passioni e allusioni, o finché la stessa rivoluzione francese si drappeggiò con nomi, parole di battaglia, costumi del consolato e dell’impero romano. Marx stesso dà dunque alle “necromanzie della storia del mondo” perlomeno la realtà dell’impulso, anche se poi in modo diverso, in senso positivista, restrinse il comunismo da teologia a nazional-economia e a nient’altro che questa. Togliendogli così tutta la dimensione del suo concetto chiliasta, sia connaturato nella sua realtà cosale, sia storicamente tramandato. Tuttavia, per quanto riguarda il caso particolare della guerra dei contadini, dell’iconoclastia, dello spiritualismo, deve essere ancora considerato in sé, accanto agli elementi economici esistenti di natura disgregante e di contenuto conflittuale, l’elemento originario essenziale: come pratica del sogno più antico, come vastissima esplosione della storia eretica, come estasi del camminare eretti e della volontà di paradiso, volontà impaziente, ribelle e ferma. Inclinazioni, sogni, sentimenti profondi e sinceri, entusiasmi rivolti ad una meta vengono alimentati da un bisogno diverso da quello più afferrabile, e tuttavia un bisogno che non è mai vuota ideologia; essi non tramontano, colorano realmente di sé un lungo tratto, scaturiscono nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuano ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche non riscattati, continuano a proiettare in avanti, in una perdurante contemporaneità la profonda traccia del XVI secolo, il chiliasmo della guerra dei contadini e dell’anabattismo».[1]
Diritto alle passioni È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni. La pratica dell’indifferenza a cui la scuola, i social, le istituzioni formano e deformano sono la vera urgenza. In assenza di educazione emotiva, il capitalismo assoluto o qualsiasi totalitarismo, non può che proliferare per tempi indeterminati. La stessa filosofia può scoraggiare l’entusiasmo per la verità, per la sua ricerca: la filosofia accademica e la filosofia mediatica che – in nome del relativismo – sostengono il ciclo dell’indifferenza, della gabbia d’acciaio da cui nessuno può sfuggire, su cui regna il mercato come destino. Dobbiamo cominciare a pensare che il diritto alle passioni, alla propria indole, sia un diritto, una verità su cui si gioca il destino antropologico dell’umanità. La parola vivente contro il silenzio indifferente del calcolo, la resistenza delle passioni è oggi il logos vivente contro l’indifferenza dei giorni spazializzati, ma senza tempo vissuto.
Salvatore A. Bravo
[1] Ernst Bloch, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, Milano 2010, pp. 66-67.
Si tratti di fatti religiosi (miti, riti, rappresentazioni figurate) o si tratti di filosofia, di scienza, d’arte, d’istituzioni sociali, di fatti tecnici o economici, sempre li consideriamo in quanto opere create da uomini, in quanto espressione di un’attività mentale organizzata. […] C’è infine un’altra ragione che indirizza verso l’antichità classica lo storico dell’uomo interiore. Nel corso di alcuni secoli la Grecia ha conosciuto, nella sua vita sociale e nella sua vita spirituale, delle trasformazioni decisive: nascita della città e del diritto; sorgere presso i primi filosofi di un pensiero di tipo razionale e progressiva organizzazione del sapere in un insieme di discipline positive differenziate (ontologia, matematica, logica, scienza della natura, medicina, morale, politica); creazione di forme d’arte nuove, di nuovi modi di espressione rispondenti al bisogno di oggettivare aspetti fino allora ignorati dall’esperienza umana (poesia lirica e teatro tragico nelle arti della parola, scultura e pittura concepite come artifici imitativi nelle arti plastiche)».
Jean Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Torino 1970, pp. 3, 4.
«C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo … tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio […]. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo».
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964 [la prima edizione è del 1947].
“Mi ha sempre interessato l’aula giudiziaria come luogo dei diritti
in movimento, del confronto tra le istanze della società e i rapporti
codificati di potere, di una dialettica tra le parti che tende a
discutere e a ridefinire i confini di ciò che si intende per giusto o
ingiusto della vita sociale.”
“Nel mestiere e nella militanza ho cercato di far valere contro la legge del più forte i diritti dei più deboli. Non mi sono mai sentita antagonista per principio: quando mi sono battuta contro qualcuno era per difendere qualcun altro. Mi è piaciuto il fare e ho fatto quel che ho potuto cercando sempre di essere me stessa. Nel mio operare ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee. Non sono scontenta della mia vita non ho particolari rimpianti o rammarichi. Ne ho raccontato tutto il percorso lungo quasi un secolo tra le tante storie di giustizia ingiustizia che mi hanno coinvolto non solo professionalmente e in cui ho trovato un senso da dare al tempo che mi è toccato in sorte”.
Bianca Guidetti Serra
12/10/2009 presentazione del volume Bianca la Rossa di Bianca Guidetti Serra. Intervengono il presidente e il vicepresidente del Consiglio regionale Davide Gariglio e Roberto Placido
In pieno spirito di resistenza culturale riproponiamo al lettore il raro, prezioso discorso che Bianca Guidetti Serra, scomparsa il 24 giugno 2014, pronunciò per l’amico Primo nel fatale 1987 a pochi giorni da quell’attonito, orrendo sabato 11 aprile in cui si consumò «il mistero insindacabile della sua scelta» a cui, tuttavia, non sappiamo ancora rassegnarci.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele
Frida Kahlo, Autoritratto con vestito di velluto, 1926.
Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Un “dire sì alla vita” alla maniera nietzschiana, che sembra corrispondere all’enkrateia nel senso letterale del termine: padronanza di sé, capacità di darsi un contegno. È davvero padrone di sé chi è in grado di disporre delle proprie passioni e di non lasciarsi travolgere da esse. Dolore incluso. Anche se il dolore, come anche Aristotele riconobbe, è la più forte di tutte le passioni; infatti è molto più facile resistere al piacere che sopportare il dolore [Etica Nicomachea, III, 12, 1117 a 34-35]. Come dire: di fronte al dolore, forse ancor di più che di fronte a tutte le altre passioni, l’uomo si mostra in tutta la sua fragilità, in tutte le sue molteplici limitazioni, nella sua naturale debolezza.
L’uomo, è vero, è debole, ma ha delle risorse enormi, anche se talvolta ignorate o sottovalutate. Una canna, ma pensante. E l’uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, ha la possibilità di crearsi una vita, di darle uno o molteplici sensi e persino di rimetterne insieme i pezzi e di ritesserne faticosamente la trama, dopo che il dolore l’ha lacerata. Certo, occorre forza d’animo (quel coraggio “assennato” di cui Platone parla nel Lachete, non certo l’accanimento disumano, l’eroica pretesa di sconfiggere ogni male), ma senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus».
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Eum edizioni, Università di Macerata, Macerata 2006, pp. 104-105.
?A. Rodin,La Cattedrale, 1908.
«Le ferite non
scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se
non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è,
contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si
gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e
che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere» (A.
Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Eum,
Macerata 2006, p. 91).
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios
teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di
mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi
concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto
con le rifªlessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i
numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i
dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la
costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra
cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica
della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come “eu
prattein”, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”,
sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi
sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto
ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Sommario
Introduzione
Prima parte
Semantica della felicità
Capitolo primo La felicità come domanda originaria * Domande “di” felicità * Domande “sulla” felicità ° Felicità: una questione terminologica ° Felicità e forma di vita
Capitolo secondo Felicità e dolore * L’esperienza del dolore ° Il dolore come accadimento ° Le forme del dolore ° Il dolore alla massima potenza: la morte ° Le figure della morte. Riflessioni conclusive * Cicatrizzazione del dolore e cura di sè ° Approcci al dolore ° Cura del dolore e cura di sè ° L’assunzione del dolore * Concludendo
Capitolo terzo Felicità e piacere * L’esperienza del piacere * Fenomenologia del piacere ° Il piacere nell’orizzonte della corporeità ° Dinamiche piacevoli e dolorose ° Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena ° Anima e corpo di fronte al piacere ° Verità / Falsità dei piaceri ° Unità e molteplicità della nozione di desiderio. ° Alcune note a margine dei testi platonici e aristotelici ° Piaceri e criteri di scelta * Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto Felicità e realizzazione di sé * Profili della virtù: tentativi di un recupero ° Virtù come eccellenza ° Virtù come forza ° Virtù come disposizione ° Virtù come giusto mezzo * La virtù come architettonica della felicità ° Vita felice e accordata: la virtù come musica ° Vita felice e ordinata: la virtù come misura ° La virtù come arte del viver beneCapitolo quinto
Capitolo quinto Felicità e beni esteriori * Primi approcci al problema * Felicità e fortuna ° Lampi di felicità, colpi di fortuna ° Fortuna e virtù ° Felicità e fortuna: osservazioni conclusive * Felicità e amministrazione dei beni ° Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Seconda parte Prassi di felicità
Capitolo primo Felicità e valorizzazione delle proprie risorse * Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti ° Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis ° Felicità al singolare, felicità al plurale ° Alcune riflessioni sulle nozioni di corpo e anima in Platone e Aristotele ° Anime e progetti di vita: osservazioni conclusive * Eudaimonia ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon ° Felicità come consapevolezza ° Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità * Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo Felicità come conquista di pienezza * Felicità: tra esperienze di pienezza e pienezza di vita ° Tentativi di articolazione della nozione di pienezza * Per una pienezza nell’orizzonte dell’ energeia * La difficoltà di far spuntar le ali: la felicità come conquista ° Felicità pienamente consapevole e pienamente umana * Riflessioni conclusive
Conclusioni
Per concludere
Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia Dizionari e lessici/Testi antichi/Testi moderni e contemporanei/ Letteratura critica e studi generali
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin
dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma,
al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco
il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione
risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame
delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia,
oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova
all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua
volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il
tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani
è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica
all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente
sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi
del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È
Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’
“International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo
Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia
Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella
Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È
Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele,Editore: eum, 2006
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios,
cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare
come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi
concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto
con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i
numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i
dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la
costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra
cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica
della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein,
inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra
risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle
modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò
che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
***
Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche
aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore
prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un
pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà
“si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora
devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”.
Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente
mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa
lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta,
persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di
alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte
innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli
studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di
vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi
***
Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a
fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”,
l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano
tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di
ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per
raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale,
sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum,
poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato
“Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti
permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e
degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica.
Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei
principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla
trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti
delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva
degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è
stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli
conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del
sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per
ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia
della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa
contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di
alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a
una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a
una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità:
emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini
stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la
dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica
ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della
dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo
storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici
greche delle nostra immagine di ragione.
***
Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo
greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia
dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale
inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal
significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi
che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo
ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo
psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso
l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di
scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare
in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima
elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e
nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da
essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste
tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si
confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente
innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi
sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con
una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità
ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza
del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero
contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
***
Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas”
1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La
riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M.
Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia.
Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la
dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono
insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani,
Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per
conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts,
and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda.
longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di
Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto
Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F.
De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo
Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
***
J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un
ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio
Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata,
Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con
l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
***
Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
***
ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque
saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di
ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla
filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e
all’aristotelismo di epoca imperiale.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
«Il coraggio […] è una cosa bella, e quindi lo è anche il suo fine; ogni cosa, infatti, si definisce in riferimento al fine. Quindi, per il bello, il coraggioso sopporta e compie le azioni che derivano dal coraggio».
Aristotele, Etica Nicomachea, III, 10, 1115 b 21-22.
«All’uomo nobile, prima di prorompere
nel grido, rimane come ultima possibilità il pudore […]. Se il coraggio allude ad un’arditezza che oltrepassa ogni timore, senza
perciò divenire temerarietà, il reggere nella sofferenza allude alla capacità
di tenere oltre ogni dolore, senza decadere al livello della semplice
sopravvivenza. Qui la dignità e la misura».
Salvatore Natoli, La felicità di questa vita. Esperienza del mondo e stagioni dell’esistenza, Mondadori, Milano 2000, p. 127.
Quarta di copertina
Felicità di questa vita.
Perché? Perché è qui, in questo mondo, che l’uomo ne fa esperienza, ma ancor
più perché è la vita a essere felice. Più che fugace evento occasionale, la
felicità è frutto della virtù, ma della virtù intesa nel significato originario
di “abilità”, di “perizia” nel fronteggiare e aggirare le
difficoltà. Per essere felici, gli uomini devono diventare in qualche modo
“virtuosi” dell’esistenza, così come si definisce virtuoso un grande
pianista, un acrobata, e in genere tutti coloro che sanno rendere facile il
difficile, sanno trasformare le difficoltà in stimolo, la fatica in bellezza,
in opera d’arte. In questo libro si parla di felicità percorrendo le tappe
della vita e indagandone il senso.
N.B.
Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati
di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di
terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
Max Picard, nato in Germania da genitori ebrei svizzeri, studiò medicina. Vicino al cristianesimo anche se rimase fedele all’origine ebraica. Abbandonò ben presto la pratica medica per dedicarsi interamente al pensiero filosofico. Tra i suoi libri più importanti, e tradotti in tutte le lingue europee e anche in giapponese, coreano e cinese, L’ultimo uomo (1921), La fuga davanti a Dio (1934), Hitler in noi stessi (1946), Il mondo del silenzio (1948), L’ultimo volto. Maschere mortuarie da Shakespeare a Nietzsche (1959).
Giorgio Kienerk, Il silenzio,1900.
Le grandi parole giungono nel delicato
frullio quasi impercettibile di un’ala di colomba aveva già affermato Nietzsche.
Max Picard (Schopfheim, 5 giugno 1888 – Sorengo, 3 ottobre 1965) è uno degli
eroi gentili della filosofia, dimenticato da molti. Ma le sue parole, la sua
vita attraversano lo spazio ed il tempo della tecnocrazia per parlarci ancora,
se si intenziona l’udito per accogliere parole metafisiche, parole per la trascendenza.
Il capitalismo assoluto impone capillarmente parole finalizzate esclusivamente al
bisogno ed all’utile, ma le parole possono essere l’immagine profonda dell’essere
umano, se muovono al desiderio della totalità, se mostrano che il bisogno ha
legittimità ad esserci solo in tensione con la parola metafisica. Max Picard ha
vissuto l’esperienza del silenzio profondo, della creazione metafisica con
coerenza. La filosofia è prassi, comportamento consapevole e teleologico,
altrimenti si è solo facitori di parole. Max Picard, laureato in medicina e
medico di valore, dinanzi al cartesianesimo della medicina, al rifiuto di ogni
approccio sistemico, ha rinunciato alla professione medica per vivere nel
Ticino. Cercava luoghi dove il silenzio fosse ancora possibile per vivere la
sua umanità. Il silenzio non divide, ma unisce alla comunità, alla natura, a
Dio.
Lo
scandalo del silenzio
Il silenzio è scandalo per il capitalismo assoluto, perché dove il silenzio prende dimora, appare l’essere umano. Nel silenzio della parola tacciono le parole dell’utile, della televendita perenne, dell’onnipresenza dell’immagine allo scopo di muovere i bisogni per necrotizzare il desiderio metafisico dell’altro e di sé.
Il silenzio è scandalo, perché non si
può vendere. Il silenzio favorisce l’unità, palesa la menzogna quotidiana del
frastuono delle merci che tutto silenziano con la violenza dell’astratto che
annichilisce la vita:
«Il silenzio è oggi l’unico fenomeno “senza utile”. Esso non conviene al mondo di oggi che è mondo dell’utile, non ha nulla di comune con questo mondo, sembra privo di qualsiasi scopo, non si presta allo sfruttamento. Il mondo dell’utile si è annessi tutti gli altri grandi fenomeni. Persino lo spazio fra cielo e terra è ridotto oggi a un pozzo luminoso che serve solo a far volare gli aeroplani. L’acqua e il fuoco, gli elementi, sono assorbiti dal mondo dell’utile e considerati solo in quanto prendono parte alla vita di questo mondo, perduta ormai ogni esistenza indipendente da esso. Invece il silenzio sta al di fuori del mondo dell’utile, non è possibile “farsene” nulla, dal silenzio non si ricava nulla nel vero senso della parola; il silenzio è improduttivo e quindi privo di qualsiasi valore».[1]
Frastuono
e parola
Il silenzio è proprio dell’umano. La
parola necessita del silenzio perché crei ed autocrei se stessa. Malgrado la
pervasività del chiasso, il silenzio resta sul fondo della natura umana come la
sua possibilità più propria. Il furore del mondo, con i suoi ritmi poietici,
non può azzerare la forza della parola parola,
che indica la non verità del rumore
dell’utile, le sue dissonanze, la sua aggressività ideologica. Il bisogno
necessita del gesto, del
meccanicismo, il cui fine è assicurare la sopravvivenza. In tal senso l’essere
umano è simile agli altri animali non umani. Ma la parola non ha la sua
genealogia nel gesto, nella biologia, perché è creatività, impalpabile presenza
tesa verso la totalità:
«Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale come alcunché di remoto. Non però come una cosa morta, bensì come un giacente ma vivo animale preistorico. Si scorge tuttora il dorso possente del silenzio, ma l’intero corpo affonda sempre più in mezzo alla sterpaglia degli odierni clamori e come se quell’animale di altri tempi affondasse lentamente nel limo del proprio silenzio. Eppure tutto il frastuono di oggi sembra solo un mormorio di insetti ronzanti intorno all’immane dorso di quell’animale preistorico, il silenzio».[2]
Gesto
e parola
La parola non è mera attività fonetica,
la sua genesi non è meccanicamente legata agli apparati fonatori. La parola ha
come radice il silenzio. L’essere
umano è un albero le cui radici sono nel metafisico: l’immagine metafora di
Platone nel Timeo rende la verità della
parola. Essa si genera in modo libero per entrare nella contingenza della
storia. L’utile teme la parola. La riduzione della libera parola in spazi
sempre più ristretti rivela la verità del capitalismo assoluto: la libertà, la
parola che genera mondi in una ascesi erotica verso un universale
irraggiungibile svela la verità dell’essere umano. L’umanità non è
semplicemente un legno storto,
secondo la definizione di Kant, o un lupo,
secondo la metafora di Hobbes. L’essere umano è sempre oltre i semplicismi
ideologici che imprigionano la parola in angusti recinti interiori, mentre lo
lasciano “libero” di perdersi negli spazi della globalizzazione:
«Il silenzio può stare senza la parola, ma la parola non può stare senza il silenzio. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. Tuttavia il silenzio non è superiore alla parola, ma anzi il silenzio in sé e per sé, il mondo del silenzio senza la parola, è solo qualche cosa di precedente alla creazione, è creazione non ancora compiuta, creazione imminente. Proprio perché la parola sorge dal silenzio, il silenzio passa dallo stato di pre-creazione a quello di creazione, dal non storico allo storico umano, e in prossimità della parola diventa parte dell’uomo e parte integrante e indispensabile della parola. Ma la parola è superiore al silenzio anzitutto perché solo in essa la verità si fa immagine. L’uomo diventa tale per mezzo della parola».[3]
La
catabasi del silenzio
Villa Litta, Allegoria del silenzio.
Il frastuono divide. La parola, nella
forma della riduzione dell’altro a strumento per i propri bisogni, non è
parola, ma estroflessione dei bisogni. Di conseguenza non può esserci, in
questa circostanza/contingenza, che l’atomismo sociale: solitudini speculari
che raccontano la stessa storia. La parola, il logos, che si prepara nel silenzio, in una dimensione distante dal
fenomeno, è già comunità, perché nel
silenzio-parola gli esseri umani ritrovano il volto dell’altro ed il proprio.
L’alienazione
è il rumore che distrae da sé e dagli altri per vivere mille vite al giorno
nell’ottica dell’utile senza toccare, mai, neanche per un attimo se stessi e
gli altri. Nel silenzio il soggetto umano si scopre parte di una totalità
storica, contingente eppure metafisica. La catabasi (κατάβασις “discesa”, da κατα- “giù” e βαίνω “andare”),
la responsabilità politica, non può che iniziare con l’anabasi (ἀνάβασις, der. di ἀναβαίνω «salire») del silenzio:
«Dove arriva il silenzio, l’individuo non avverte nessuna opposizione fra sé e la comunità, poiché individuo e comunità non sono reciprocamente opposti, ma entrambi opposti al silenzio, e quindi la differenza fra individuo e comunità vien meno di fronte al potere del silenzio. Oggi di fronte al silenzio non sta più l’individuo, né la comunità ma un frastuono generale, e individuo è solo colui che non ha più il frastuono, il frastuono comune, ma non ha nemmeno il silenzio. È isolato dal rumore e isolato dal silenzio, è un derelitto».[4]
Affinché ci sia rivoluzione
necessitiamo di riascoltare il silenzio, per discernere il bene dal male, il
senso dal non senso. Il silenzio rivela che l’essere umano è abitato dalla
trascendenza nella sua pluralità di forme.
Salvatore A. Bravo
[1] Max PIcard, Il mondo del silenzio, Edizioni Comunità, 1951, p. 10.
N.B.
Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati
di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di
terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere,
ad un tempo,
fragile e misteriosa cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.
———————– C. F.
Scritte durante gli anni di
detenzione, molti dei quali passati in carceri di massima sicurezza,
queste poesie sono state composte in condizioni di prigionia
particolarmente pesanti, dove è ancora più difficile coltivare un
pensiero, un affetto. Attraverso questa forma letteraria, Notarnicola ha
inteso coltivare tutto ciò che gli è stato sottratto: gli affetti e i
sentimenti più intimi, come il ricordo dei compagni caduti. Le poesie
sono anche il mezzo che ha per rompere l’isolamento, sono una voce, un
grido, un urlo che spazza via il muro di cinta della prigione. Poesie
che esprimono rabbia e delusione, ma anche tenacia e sicurezza delle
proprie convinzioni politiche. Sono uno strumento che è stato un motivo
di resistenza, sono la memoria di una vita che ha avuto il carcere come
momento centrale, come terreno di lotta, di scontro e di maturazione.
Sante Notarnicola
(Castellaneta, 1938), emigrato con la madre e i fratelli a Torino,
trascorre l’infanzia in collegio. Il contatto con la realtà operaia
torinese lo porta alla presa di coscienza politica e alle prime
esperienze di militanza nella FGCI e poi nel PCI. Allontanatosi dal
Partito, si avvicina alla banda Cavallero con cui nel 1959 inizia una
serie di rapine. Il 25 settembre 1967 a Milano, durante l’ultimo colpo
della banda, c’è un conflitto a fuoco con la polizia: Sante riesce a
scappare, ma viene catturato alcuni giorni dopo. Condannato
all’ergastolo, in carcere inizia a studiare e scrivere racconti e
poesie, che confluiranno ne L’evasione impossibile (1972), primo di una serie di libri di grande successo.
Alessandro Barile
Il verso della storia
Discutendo del libro di Sante Notarnicola, «La nostalgia e la memoria».
«Imprigionati qui, noi viviamo, sapete … ». Così Sante Notarnicola dal carcere di Palmi, settembre 1983. Eppure, nel paese venato di ecclesiastico perbenismo, c’è ancora chi non ha accesso all’ipocrisia del perdono. Gli «irriducibili» li chiamano. Ne abbiamo confermequotidiane. A Milano uno scontro tra tifosi porta all’arresto di alcuni di questi. Chi parla viene rilasciato, chi decide di non tradire rimane in carcere (stessi capi d’imputazione). Ancora: il giorno dopo gli allori nazional-popolari tributati a De Andrè, ecco la cattura di Battisti a rinfocolare il coro vendicativo: «È finita la pacchia» gridano gli stessi che, fino a poche ore prima, avevano «un solco lungo il viso come una specie di sorriso».
Ma se fino a qualche anno fa anche questi dannati potevano vedersi riconosciuto un incerto «diritto di parola», quantomeno autoprodotto, oggi gli spazi si assottigliano, e insieme alle narrazioni contrapposte viene meno la comprensione della storia italiana. A uscire dal coro, letteralmente, rimangono in pochi coraggiosi. Tra i quali la casa editrice Pgreco. Dopo aver ripubblicato e aggiornato la biografia di Pasquale Abatangelo (Correvo pensando ad Anna), ecco rieditare le poesie di Sante Notarnicola, La nostalgia e la memoria. Poesie scritte in carcere tra i primi anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. Cosa si può dire di nuovo e di attuale oggi? Sono, queste di Sante, “storie del carcere”, luogo che oggi viene associato all’idea del «pentimento» e della «rieducazione», e che prima costituiva un fronte di lotta. Uno dei tanti. Dentro al carcere Sante e quelli come Sante trovarono una forma più alta di emancipazione, al tempo stesso individuale e collettiva.
Come ricorda nella prefazione lo stesso Sante, «il carcere, in pochi anni, si era trasformato in scuola per rivoluzionari». Erano, le carceri degli anni Settanta – e in particolare il circuito degli “speciali” – veri luoghi di tortura, certificata oggi da fior di sentenze. A dispetto dunque della narrazione edificante dello Stato che sconfisse il terrorismo con gli strumenti della democrazia. Ma sarebbe un errore inseguire il filo di questi ragionamenti. Porterebbero comunque a un vicolo cieco, a criticare cioè lo Stato attraverso gli argomenti del potere. Quello che invece può essere colto di un’esperienza così particolare e, però, generale, è altro. Per dirne una: che la storia, per quanto tragica, non è solo patita, ma può essere affrontata senza remore reverenziali. Anche quelli come Sante possono divenirne protagonisti, e così fecero. Senza per questo sottacerne i limiti, le responsabilità: non si tratta, oggi, di essere tifosi, quanto saperne ricavare aspetti più prossimi alla verità. Come infatti coglie pienamente l’autore nella sua prefazione:
«Questa generazione, certamente la più generosa dalla Resistenza in poi, non ha conti da rendere. Agli opportunisti, ai parolai, questa generazione dice: noi ciabbiamo provato. E coloro che vorranno provarci ancora dovranno necessariamente ripartire da questa storia».
Non occorre essere comunisti, reduci o nostalgici per ammetterlo. Primo Levi, nel 1979, ne riconobbe il valore letterario e umano:
«Le tue poesie sono belle, quasi tutte: alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis».
Ancora, e per concludere: chi domani vorrà nuovamente salire la scala già salita dalla generazione di Sante Notarnicola, per questi problemi dovrà passare. Messi in forma lirica, in questo caso, e inevitabilmente: troppo l’orrore per farne freddo racconto (e pure sempre Sante ce ne ha lasciato testimonianza, nella sua Evasione impossibile). Come che sia, a leggere questi versi con quelli scritti in altre epoche e da altre generazioni di rivoluzionari, ne scopriremmo la notevole somiglianza. Un’affinità non solo di temi, ma anche di parole, di sensazioni e sentimenti. Segno che la storia lascia dietro di sé tracce che vanno raccolte e valorizzate più che rimosse. Non è cosa da potersi fare da soli però. È un processo collettivo, perciò possibile solo dentro nuovi cicli di lotte, nuove mobilitazioni. Nell’attesa, tramandiamo almeno il valore della memoria.
ALESSANDRO BARILE
Recensione già pubblicata su«Le Monde diplomatique. il manifesto», febbraio 2019, p. 23.
Sante Notarnicola L’anima e il muro
Introduzione e cura di Daniele Orlandi disegni diMarco Perroni
pp.192 € 18,00
ISBN 978-88-96487-29-7
dalla quarta di copertina
Questa
scelta antologica di poesie scritte durante un trentennio diventa
l’occasione per una particolare scansione della storia d’Italia, perché
questi versi oscillano, lenti o vorticosi, tra l’anima e il muro di
tante prigioni. Corredato di un ampio saggio introduttivo e di note che
ne inquadrano la mole di rimandi alla cronaca e alla cultura di quegli
anni che l’autore riversa sulla pagina, L’anima e il muro,
duellanti senza pace, ne raccoglie i momenti principali. Sante
Notarnicola ha attraversato il Novecento italiano da ribelle: operaio,
bandito, carcerato. I tre tempi della sua vicenda biografica sono
scanditi dalla poesia, una vera e propria autobiografia in versi,
contemporanea a quella generazione che ingaggiò una guerra senza
esclusione di colpi con lo Stato lunga circa un ventennio. In disaccordo
con la linea attendista del Pci negli anni Cinquanta, rompe con il
Partito e seguendo un progetto di guerriglia diviene rapinatore con la
famigerata Banda Cavallero. Arrestato nel 1967 e condannato
all’ergastolo, prosegue e insieme inizia la sua vera attività politica.
Da allora, la Storia d’Italia s’incaricherà di fargli visita nelle varie
patrie galere del suo lungo soggiorno. Notarnicola la accoglierà a suo
modo: animando il movimento per i diritti dei detenuti sul finire degli
anni Sessanta; conoscendo e confrontandosi con lo stato maggiore della
lotta armata, dalle Br ai Nap a Prima Linea, tentando l’evasione e
sperimentando sulla pelle il regime di articolo 90 nelle carceri
speciali. Dopo vent’anni, otto mesi e un giorno si riaffaccerà alla vita
esterna fino alla lenta estinzione della pena. Poesie di lotta e inni
rivoluzionari, gridi muti di rabbia e squarci di lirismo nati in un
contesto, come la carcerazione politica, dove la speranza della libertà è
una quotidiana collettiva eucarestia o non è.
Sante Notarnicola
(Castellaneta 1938), «operaio, comunista, rapinatore di banche,
carcerato, scrittore, poeta». Nel 1972 ha pubblicato con Feltrinelli la
sua semibiografia L’evasione impossibile (ristampata da Odradek a partire dal 1997). È autore di tre raccolte poetiche: Con quest’anima inquieta (Senza Galere, 1979), La nostalgia e la memoria (Giuseppe Maj, 1986) e l’ibrido Materiale interessante (Edizioni della Battaglia, 1997). Alcuni suoi versi compaiono nel volume collettivo Mutenye. Un luogo dello spirito (Odradek, 2001).
L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972
Sante Notarnicola
L’EVASIONE IMPOSSIBILE
Con un’introduzione di Pio Baldelli e un’intervista all’autore
II edizione 2005 Con una prefazione di Erri de Luca
L’evasione impossibile
ha attraversato con grande forza il ciclo di movimenti tra il ’68 e il
’77. Libro di culto per la generazione degli anni ’70, ormai
introvabile, aggiunge all’interesse per le autobiografie esemplari
quello dell’analisi distaccata nei confronti di nodi impresentabili – e
quindi rimossi – per la sinistra; come la violenza e il carcere.
E’ il racconto della nascita e del percorso di quel gruppo che
attraversò i fugaci onori della cronaca alla fine degli anni ’60 come
“banda Cavallero” una banda di rapinatori di banche, nata per
autofinanziare un’improbabile rivoluzione, e che aveva mantenuto per
anni la propria salvaguardia evitando qualsiasi rapporto con la
malavita. Un’anomalia che ne fece allora una leggenda. Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, I’ex partigiano Danilo Crepaldi
sono invece fino in fondo figli del “popolo comunista” torinese, delle
“boite” e delle officine della ricostruzione industriale del dopoguerra.
La grande forza emotiva non fa velo alla capacità di comunicare con
lucidità e distacco il quadro storico-sociale che fa da sfondo alla
trasformazione del Pci, alla nascita della sinistra extraparlamentare e
poi delle organizzazioni guerrigliere.
Furono fortunati e abili nel riuscire a operare per tanti anni; furono
sfortunatissimi nell’essere arrestati proprio un attimo prima che il ’68
facesse la sua apparizione, dando nuova linfa e nuove idee alla
trasformazione radicale dell’esistente. Anche se c’è da dubitare che
questi uomini – esclusi ormai da anni dal confronto con le realtà di
base – sarebbero stati in grado di maturare un rapporto proficuo con un
movimento tanto diverso da quello che si potevano attendere o sperare.
La condizione di prigionieri, paradossalmente, favorì invece questo
incontro. E furono i gruppi extraparlamentari (non senza contraddizioni)
a riconoscere in questa banda dei “compagni di strada” provenienti
dalla generazione “perduta”: quella che era stata troppo giovane per fare la Resistenza, e troppo vecchia per attendere un nuovo ciclo radicale di lotte.
L’intervista
al Sante di oggi, in appendice, chiude il cerchio di una vita spesa
senza rimpianti alla ricerca di una rivoluzione che non ha vinto. Un
capitolo della lunga “guerra civile” italiana, visto dall’ interno dei
gruppi sociali che in modi diversi, ma più di tanti altri, hanno pagato
sulla propria pelle il prezzo della “normalizzazione” del conflitto: la
classe operaia torinese e i detenuti. In tempi di pensiero debole,
l’unica ricaduta positiva è probabilmente il rinnovato interesse per le
“vite”, per la memoria, per le testimonianze.
Quella di Sante Notarnicola è una coscienza estesa e possente, che
sviluppa ed elabora una minuziosa e basilare critica della politica e
della rappresentanza, perché il carcere, come luogo della
intensificazione delle espenenze, dell’elaborazione collettiva, risulta
un momento estremo di analisi della politica e di conoscenza dello
Stato.
In un precedente libro di poesie che
ebbi l’onore di curare, l’intento non era quello di raccontare in
un’ottica cronistico-giudiziaria la storia di Sante Notarnicola
(Castellaneta, 15 dicembre 1938) “bandito” o, in una dimensione
politica, quella del rivoluzionario (ammesso che per il potere le due
definizioni possano andare disgiunte). Non era nemmeno quello di fare
critica letteraria. Rappresentava semmai il tentativo di scovare le
maglie più larghe in cui i tre aspetti potessero collegarsi per fornire,
in una prospettiva storica, un ritratto di Sante il più possibile
vicino al vero. Per questa storia, quindi, che prima o poi il lettore
ricercherà vanamente in queste pagine, non si può che rimandare a quella
sintesi… [continua a leggere].
N.B.
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