Daniele Guastini – «Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità». Un’analisi storica e un confronto teorico tra due grandi nozioni della cultura antica: quella di mimesis e quella di allegoria.

Daniele Guastini 01
Prima dell'estetica. Poetica e filosofia nellantichità

Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità

Introduzione

L’estetica ha con la propria storia un rapporto spesso elusivo. Non sempre negli studi estetici viene data la dovuta importanza al fatto che l’estetica è una disciplina nata in un periodo storico determinato, il Settecento, e formata tra il XV e il XVIII secolo, in perfetta coincidenza con il cammino della modernità. Quando questo atto costitutivo non viene addirittura taciuto o relegato in qualche nota a piè di pagina, il suo riconoscimento raramente oltrepassa la mera constatazione di fatto. D’altronde, non basta registrare in modo impassibile la nascita storica dell’estetica. Occorre farsi carico del significato essenziale che questo dato porta con sé: che l’estetica è un evento storico. E che se la sua formazione, la sua nascita, il suo sviluppo, sono parte di un evento storico, ciò vuoi dire, molto semplicemente, che c’è stato un prima dell’estetica in cui le cose – in particolare certe cose di cui diremo tra poco – si vedevano in modo diverso, e che ci sarà un poi in cui il modo di vedere le cose che ha portato all’estetica potrebbe venir meno.

Ora, non è della questione di un possibile dopo dell’estetica – che pure appare questione cruciale e su cui, da certi segnali, si avverte sempre maggiore l’urgenza di avviare una discussione – ma della questione del prima (che può tuttavia portare non pochi elementi di riflessione e chiarimento anche alla discussione su un eventuale dopo) che questo libro intende occuparsi. Cosa c’era prima dell’estetica? Cosa ne ha preceduto la costituzione disciplinare? E cosa è dovuto accadere perché ad un certo punto se ne cominciassero a gettare le basi? Tutte domande che aiutano a ritrovare il senso di quella storicità che l’estetica porta con sé in modo affatto peculiare e che spesso, come si è detto, nella passione del dibattito estetologico, viene dimenticata a tutto vantaggio di un occhio specialistico, di un’attenzione per il singolo problema, che talvolta fanno perdere di vista il quadro complessivo. Sia chiaro: questa storicità non viene dimenticata quando resta sullo sfondo. Non è indispensabile tematizzarla per farne agire le istanze fondamentali. Si può farla trapelare anche discutendo questioni di dettaglio interne all’orizzonte estetico. Viene dimenticata davvero solo quando si pensa l’estetica sub specie aeternitatis, come se fosse una parte sempre esistita della filosofia, che ha dovuto solo attendere più delle altre per vedere riconosciuto un proprio statuto disciplinare. Qui sta la vera dimenticanza, quella che finisce per appiattire all’interno di un unico orizzonte, l’orizzonte tipico della modernità, ciò che invece dovrebbe restarne fuori e che è significativo, appunto, perché ne resta fuori. Da questo punto di vista è sintomatico sentir parlare di “estetica antica”, espressione tutt’altro che innocente o convenzionale, nella quale è sottintesa l’idea che l’unica vera differenza tra l’estetica e le altre parti di cui nell’antichità si riteneva composta la filosofia – teoretica, logica, etica e fisica – alla fine riguarderebbe l’acquisizione del nome, che le altre discipline hanno assunto subito e che invece l’estetica, per avventura, non avrebbe acquisito prima dell’età moderna. Differenza, dunque, riguardante il nome e non anche la cosa, che fin dall’antichità invece si troverebbe già disseminata all’interno di vari filoni di studio: poietike, teoria del bello, psychagogia, lexis, elocutio retorica, e via dicendo.

La ricerca di questo libro muove dalla prospettiva opposta. Dall’idea che l’estetica, nel nome come nella cosa, non sia potuta esistere prima dell’età moderna. E per un fatto molto semplice: perché ne costituisce uno degli eventi storici fondativi. Perché, cioè, la sua origine storica è conseguenza del nuovo modo di vedere le cose tipico della modernità; di una lunga e laboriosa formazione rimasta sostanzialmente estranea all’orizzonte dell’antichità. A conferma di questo fatto basta guardare all’oggetto intorno al quale l’estetica si costituisce: l’arte. Ma cos’è l’arte? Anche qui, per comprendere, occorre fare una considerazione storica. L’oggetto costitutivo dell’estetica, quello che fin dall’inizio essa ha eletto a proprio contenuto disciplinare – l’arte bella, di cui l’estetica diventa presto la filosofia, finendo per autocomprendersi come ‘filosofia dell’arte’ – non può essere in nessun modo considerato un oggetto “naturale”. Non è, infatti, un dato e non può essere trattato come tale. La gran parte degli oggetti che dal Settecento la cultura comincia ad accomunare sotto la definizione di ‘opere dell’arte bella’ e su cui inizia a esercitarsi la riflessione estetica provengono da un passato che non li aveva mai considerati tali. Fino a tutto il Seicento – benché si sia già interamente consumata, nel Rinascimento, la distinzione tra arte e religione e sia già in atto quella, forse più decisiva, tra arte e scienza – attività, come poesia, pittura e musica, che di lì a poco saranno riunite sotto l’idea del bello, ancora vengono accomunate ad attività quali meccanica e ottica, la tradizione degli studia humanitatis resiste e il cosiddetto ‘sistema delle belle arti’ è ben là da venire.

Insomma: l’estetica è un evento storico perché lo è il suo oggetto disciplinare. Ed è proprio questa radicale storicità del suo oggetto, quando l’estetica sa riconoscerla come tale, a renderla una disciplina così unica, capace di offrire come nessun’altra un punto di vista interno sulla genesi della modernità. Mentre altre discipline, anche filosofiche, hanno per oggetto dei dati, ossia enti, fenomeni, eventi, che ne precedono la costituzione e che, in certo senso, si darebbero anche se tali discipline non si fossero mai costituite, viceversa l’estetica non ha per oggetto dati, ma si costituisce insieme ai suoi dati, forma i suoi dati. Il suo oggetto è effetto e non presupposto della sua formazione storica.

Appare, quindi, per molti versi un falso dilemma chiedersi se l’estetica sia nata come una filosofia dell’arte o come una teoria della sensibilità. Questa separazione diviene decisiva – per più di un motivo che qui non sarà possibile discutere – solo a nascita avvenuta. Precisamente da Kant in poi, e non prima. Ma alla sua nascita, l’estetica si mostra portatrice di entrambe le istanze: quella di concepire una nuova idea di sensibilità e contemporaneamente quella di tenere a battesimo una nuova nozione di ‘arte’. E, del resto, non potrebbe essere altrimenti. La nuova nozione di arte come la nuova idea di sensibilità non sono che l’effetto di un fenomeno unico, che abbiamo appunto chiamato ‘un nuovo modo di vedere le cose’ e che sostanzialmente corrisponde all’esito di quel movimento di creazione del soggetto moderno che ha avuto una lunga gestazione e trova uno dei più precisi riscontri proprio nella nascita dell’estetica. Il rendersi autonomo dagli altri campi dell’attività umana di qualcosa che da un certo momento in poi prende ad essere riconosciuta come «arte bella» e il diventare, da parte di questo nuovo campo di oggetti, terreno d’elezione di una nuova facoltà, la facoltà sensibile (estetica, appunto) a sé stante, ma allo stesso tempo «inferiore» rispetto alla facoltà intellettuale da un punto di vista conoscitivo, possono anche essere fasi procedute separatamente quanto ai tempi della loro elaborazione, ma portano tuttavia lo stesso segno. Un segno di fondamentale discontinuità con un passato di cui qui cercheremo di comprendere bene principi, motivi e conseguenze. Non per spirito antiquario o per passione filologica, ma perché ciò ci consente per un momento di prendere le distanze dall’orizzonte culturale in cui ancora ci troviamo, così da comprenderne criticamente certi tratti fondamentali e coglierne da un lato tutta la contingenza storica e dall’altro le radici lontane.

Sarà allora all’insegna di questa discontinuità tra passato e presente che il libro si muoverà, facendo attenzione a cogliere alcuni, seppur remoti, momenti fondamentali della complessa vicenda che porta alla formazione dell’estetica moderna. Per farlo, occorre ripercorrere un tratto di strada così lungo e tortuoso che si può sperare di colmare soltanto riuscendo a individuarne le tappe e i punti di svolta fondamentali e mettendo in preventivo qualche svista e qualche incidente di percorso. In questo compito, ci viene comunque in aiuto chi questa strada l’ha compiuta prima e con ben maggiore autorevolezza. Hegel, ad esempio, quando nella sua estetica indicò nel cristianesimo un nuovo inizio, il punto di svolta dal quale è possibile cogliere un cambiamento essenziale nel modo di intendere la sensibilità e quegli oggetti che molti secoli dopo l’estetica definirà arte bella. O Schelling, che nella sua Filosofia della mitologia si rese conto di come il mito, considerato per tutta l’età classica greca una delle forme di rivelazione del divino e in seguito considerato dall’estetica un’invenzione poetica, avesse già subìto un sostanziale mutamento di significato entro la nuova cornice allegorica ritagliata per l’interpretazione dei poemi omerici dall’ellenismo e poi dalla tarda antichità pagana.

Per anticipare in modo più specifico i temi che tratteremo, va detto che sono proprio questi tre – antichità classica, ellenismo pagano e avvento del cristianesimo – i termini della discussione che impegnerà il libro e dalla quale si cercherà di trarre indicazioni utili a determinare gli antefatti che hanno concorso al processo di formazione dell’estetica. Discussione che verrà organizzata attorno a un’analisi storica e a un confronto teorico tra due grandi nozioni della cultura antica: quella di mimesis e quella di allegoria. Perché questa scelta? Se l’intenzione fosse stata quella di ricostruire un quadro più completo della poetica antica, avremmo certamente dovuto discutere anche altre nozioni. Ma poiché lo scopo di questo libro non è, almeno in prima istanza, fornire una panoramica su certi processi, ma cercare di risalirne le cause, allora mimesis e allegoria si prestano perfettamente al caso e possono essere in certa misura isolate nel contesto delle teorie poetiche. Dato il rapporto diretto che mimesis e allegoria stabiliscono con la dimensione extra-poetica, nessun’altra nozione elaborata nel quadro della poetica antica può probabilmente prestarsi meglio a uscire da ambiti di stretta competenza specialistica e a ricondurre le questioni poetiche alla loro più autentica e generale portata ontologica e conoscitiva.

La ricerca sarà quindi condotta discutendo nei primi tre capitoli le tesi classiche sulla mimesis – da quelle rintracciabili in ambito preplatonico, alle teorie formulate da Platone e Aristotele – e nel quarto, più in sintesi, la svolta ellenistica e tardo antica, riflessa sia nel mutamento di significato della nozione di mimesis, sia nel progressivo farsi strada, prima in ambito pagano e poi in ambito giudaico-cristiano, della nozione di allegoria. Per condurre tale ricerca ci avvarremo di testi teorici (sempre citati in traduzione italiana), ma ci avvarremo anche di opere – testi poetici e non, dall’Odissea, a Pindaro, ad Euripide, ad alcuni passi biblici – ritenute emblematiche dell’epoca presa in esame. Seguirà poi una breve conclusione, da cui si cercherà di trarre i risultati del lungo itinerario percorso e di porre la formazione dell’estetica nella sua prospettiva storica più adeguata.

Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, 2003, pp. VII-XII.


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Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea

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Come si diventava uomini. Etica e poetica nella tragedia greca

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Il piacere del tragico

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Philia e amicizia. Il concetto classico di philia e le sue trasformazioni

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Parole chiave della nuova estetica

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Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai no-global

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Herbert George Wells (1866-1946) – Ecco la logica conseguenza dell’odierno sistema industriale. Il suo trionfo non era stato solo un trionfo sulla natura, ma un trionfo sulla natura e sull’uomo.

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Herbert George Wells, La macchina del tempo

H. G. Wells, La macchina del tempo

 «Il grande trionfo dell’umanità di cui mi ero illuso assunse nella mia mente ben altra fisionomia. L’educazione morale e la cooperazione universale non avevano affatto vinto come mi ero immaginato: al contrario, mi trovavo di fronte ad una vera aristocrazia che […] aveva portato alla sua logica conseguenza l’odierno sistema industriale. Il suo trionfo non era stato solo un trionfo sulla natura, ma un trionfo sulla natura e sull’uomo».
Herbert George Wells, La macchina del tempo, traduzione di Michele Mari, Einaudi, 2017, p. 64.

Leggi un estratto

Quarta di copertina

Un inventore mette a punto una macchina del tempo con la quale riesce a raggiungere l’anno 802 701. Vi trova un mondo diviso in due razze umane: gli Eloj, creature delicate e pacifiche che conducono una vita di svaghi, e i Morlock, esseri pallidi e ripugnanti che vivono nei sotterranei. Dopo angoscianti avventure, riuscirà ad andare ancora più lontano nel tempo, vedrà una Terra senza più tracce di uomini, abitata soltanto da crostacei con «occhi maligni» e «bocche bramose di cibo». Fantascienza, critica sociale, romanzo distopico: il capolavoro di Wells è soprattutto l’opera di un grande visionario. Michele Mari, nel ritradurlo, ha trovato pane per i suoi denti: il fantastico, l’avventura, l’horror vampiresco, lo sguardo cosmico sugli affanni del mondo. L’incontro tra lo scrittore-traduttore e uno dei suoi romanzi preferiti era destinato a produrre scintille…

«Era orribile sentire nel buio tutte quelle creature viscide ammucchiate su di me, come essere in una mostruosa ragnatela»

La Macchina del Tempo è del 1895, l’edizione definitiva dell’Uomo delinquente di Lombroso è del 1897: a Darwin, rapidamente divulgato, era già subentrato il darwinismo, tanto che Wells, che pure aveva fatto un discreto tirocinio prima come studente e poi come docente di biologia, arriva a concepire la regressione per una via tutta formale: se dalla scimmia è derivato l’uomo, si chiede, perché non immaginare un’ulteriore evoluzione non in avanti ma all’indietro? Perché escludere «l’idea opposta», cioè una «regressione zoologica»? Per questa via Wells giunse a ipotizzare la totale estinzione del genere umano, come inscenato appunto nella parte finale (la cosiddetta «visione ulteriore») della Macchina del Tempo. Dipendendo dal raffreddamento del Sole, la visione finale – un mondo senza esseri umani né mammiferi – ha comunque una sua pace; la cupezza della profezia wellsiana è invece tutta nel complementare destino dei ricchi e dei poveri rispettivamente come vegetali e come bruti, secondo la logica di un dissidio tutto interno all’evoluzionismo: da una parte Huxley e Wells, dall’altra un evoluzionista della prim’ora come Herbert Spencer, convinto che l’uomo avrebbe indefinitamente migliorato se stesso.
Dalla prefazione di Michele Mari


Prima edizione del 1895

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Tomaso Montanari – Costruire una società critica, una società del dissenso, è la condizione vitale per il futuro della democrazia.

Tomaso Montanari
Cassandra muta

Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità, Edizioni Gruppo Abele, 2017

 


Quarta di copertina

Quando Cassandra parla, dice la verità: ma è giudicata un intralcio, una sacerdotessa del no. Quando Cassandra tace è perché sta sul carro del potere: e poco cambia che ci sia salita volontariamente, o che sia stata portata in catene. Il risultato è lo stesso: il tradimento degli intellettuali, e cioè il silenzio della critica. Lo vediamo ogni giorno: nel conformismo dei giornali e dell’università, nella trasformazione della cultura in intrattenimento, nello svuotamento della scuola. Qual è il ruolo, quale lo spazio, del pensiero critico nel suo rapporto con il potere, con la comunità della conoscenza, con la comunicazione, con la scuola, con quella che chiamiamo “cultura”? Costruire una società critica, una società del dissenso, è la condizione vitale per il futuro della democrazia. Dire la verità lega alla politica, intesa come arte del costruire la polis, la comunità: ma, al tempo stesso, non si può fare politica attiva dicendo la verità.


Tomaso Montanari

Tomaso Montanari (Firenze 1971) insegna Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli Federico II. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e sui beni comuni. È presidente di Libertà e Giustizia. Tra i suoi libri: Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (Minimum fax, 2013), Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016).
Tutti i libri di Tomaso Montanari


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David Harvey – Il diritto alla città è un diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze.

David Harvey

 

Città ribelli, il Saggiatore, 2013

Città ribelli, il Saggiatore, 2013

«Il diritto alla città, è molto di più di un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse urbane è un diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Il diritto alla città è la libertà di costruire e ricostruire le nostre città e noi stessi è uno dei più preziosi tra i diritti umani e nondimeno è anche uno dei più negletti. Come si può esercitare al meglio questo diritto?». David Harvey

Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street” di David Harvey

 


Quarta di copertina

Un secolo e mezzo prima che Occupy riempisse le strade e le piazze del mondo, la città moderna era già fucina di idee rivoluzionarie, e fu dallo spazio urbano che soffiarono i primi venti del cambiamento sociale e politico. Da sempre le città sono teatri che mettono in scena il pensiero utopico, ma anche centri di accumulazione capitalistica, e quindi spazi di conflitto contro quei pochi che, controllando l’accesso alle risorse comuni, determinano la qualità della vita di molti. L’urbanizzazione ha giocato un ruolo primario nell’assorbimento del surplus di capitale, alimentando processi di “distruzione creatrice” che hanno sottratto alle masse il diritto di costruire e ricostruire le proprie città. Questo conflitto latente è esploso periodicamente in grandi rivolte popolari, come nella Comune di Parigi del 1871, a seguito della riconfigurazione urbanistica voluta da Napoleone III e realizzata da Haussmann, quando i cittadini espropriati si sollevarono per imporre il governo rivoluzionario sulla capitale. O come nel 1968, con i grandi movimenti sociali urbani che agitarono Chicago e Berlino, Praga e Città del Messico, o ancora, nell’estate 2011, con i riots che hanno bruciato le periferie di Londra e con l’ondata di indignazione contro il potere finanziario che ha scosso America ed Europa. “Città ribelli” ripercorre la storia delle città come centri propulsori della lotta di classe e dei movimenti di riappropriazione dei diritti collettivi.


David Harvey

Geografo, sociologo e politologo inglese.
Si occupa di geografia politica e, dal 2001, è professore di Antropologia alla Graduate School della City University di New York.
Precedentemente è stato professore di Geografia presso le università di Oxford e Johns Hopkins.
L’“Independent” ha citato il suo libro La crisi della modernità come una delle cinquanta opere più importanti del secondo dopoguerra. Nel 1995 gli è stata conferita la Patron’s Medal della Royal Geographical Society e nel 2007 è stato eletto membro della American Academy of Arts and Sciences.
Tra i suoi libri tradotti in italiano: La crisi della modernità (il Saggiatore, 2002), La guerra perpetua (il Saggiatore, 2006), Breve storia del neoliberalismo (il Saggiatore, 2007), Neoliberismo e potere di classe (Allemandi, 2008), Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2012), Città ribelli (il Saggiatore, 2013), Giustizia sociale e città (Feltrinelli, 1978), L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (Feltrinelli 2011) e Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, 2014).


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Clara Usón – Il valore assoluto, il dogma, l’ideale del XXI secolo è il profitto, il denaro. Il valore morale equivale a quello economico.

Clara Usón

«Il valore assoluto, il dogma, l’ideale del XXI secolo è il profitto, il denaro. Il valore morale equivale a quello economico». Clara Usón, il manifesto, 13-09-2016.

 

Valori

Clara Usón, Valori, Sellerio, 2016

Quarta di copertina

«Una volta gli eroi erano persone che dimostravano il loro valore, o la loro dignità. Oggi gli eroi sono i calciatori, non altro che mercenari, oppure gli imprenditori come Steve Jobs. Adesso che il lavoro è scarso ammiriamo i ricchi, i milionari. Siamo diventati schiavi consapevoli, rassegnati e vili». In queste parole di Clara Usón è la traccia di un romanzo di sorprendenti corrispondenze e simmetrie, in cui il destino dei personaggi diventa materia di riflessione e di passione civile.
Nei nostri giorni una direttrice di banca vende ai suoi clienti azioni privilegiate ma di nessuna consistenza economica. Nel 1930 un giovane militare, fedele agli ideali repubblicani, insorge con una rivolta armata contro l’oppressione della monarchia. Durante la seconda guerra mondiale un prete rivela il suo fanatismo nel campo di concentramento di Jasenovac, in Croazia. Un legame profondo, un comune dilemma morale, accomuna queste vicende distanti solo in apparenza. Nel mettere alla prova il proprio sistema di valori, che sia l’idealismo politico, la fede religiosa o il culto della ricchezza, i tre personaggi cercano di assicurarsi un futuro, di realizzare la propria vita. Nella loro sorte si incarnano la venerazione del denaro, il prezzo della libertà, la violenza della religione che diventa dogma, e la divergenza delle loro scelte li mette di fronte alla felicità o a un baratro di disperazione, a un segno esemplare di libertà e coraggio o allo stigma della più infame colpevolezza.
Clara Usón intreccia magistralmente i piani temporali e narrativi, e ispirandosi a fatti reali racconta l’integrità e la spregevolezza morale, i paradossi dell’audacia e della viltà, la potenza delle convinzioni personali, tratteggiando in momenti diversi della Storia le idee e i principi che hanno ispirato e causato atti di umanità esemplare, o di sconcertante barbarie. Nasce così una poetica della sopravvivenza, che nella simultaneità dei tempi e delle circostanze dei protagonisti dà forma a una nuova coniugazione, tutta contemporanea, del «romanzo politico».


Clara Usón è nata nel 1961 a Barcellona. Autrice di sette romanzi, all’esordio nel 1998 ha vinto il Premio Lumen e nel 2009 il Premio Biblioteca Breve Seix Barral con Corazón de napalm. È stata riconosciuta dalla critica spagnola come una delle maggiori scrittrici contemporanee, dotata di una grande creatività e di un’originale sensibilità espressiva, che fanno di lei una «degna erede di Čechov» (El Mundo). Con questa casa editrice ha pubblicato La figlia (2013), un caso letterario in Italia, e un grande successo di critica e di pubblico, e Valori (2016).


 


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Alberto Jori – Il pensiero di Aristotele acquista una straordinaria carica di attualità proprio nella misura in cui si presenta come una “sfida” alla nostra visione della realtà, e propone modelli alternativi, a volte probabilmente più validi, di comprensione dell’esperienza.

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Aristotele01


Quarta di copettina

Aristotele, “il maestro di color che sanno”, secondo la celebre formula dantesca, per molti secoli è stato considerato il Filosofo, e quasi il simbolo stesso della ragione umana. Ancor oggi, le prospettive aperte dallo Stagirita mantengono un’intatta vitalità: se la sua logica e la sua epistemologia sono state riscoperte nella loro grandiosa architettura, le sue analisi ontologiche sono tornate al centro del dibattito filosofico. Varie correnti dell’etica contemporanea hanno posto in luce la straordinaria attualità del pensiero pratico di Aristotele, mentre un’attenzione sempre più viva si proietta anche sulle sue indagini di filosofia naturale.
In tale quadro, la presente introduzione alla filosofia aristotelica «può essere collocata sullo stesso piano degli studi più importanti su Aristotele degli ultimi decenni» (H. Flashar) e rappresenta uno strumento prezioso per quanti cercano un accesso filologicamente rigoroso e filosoficamente affidabile ai testi dello Stagirita.
Emerge dal libro la complessa immagine di un filosofo criticamente aperto a tutte le vie del pensiero e attento, in parallelo, a coniugare l’ispirazione strutturale con un approccio fortemente problematico ai temi di volta in volta affrontati.


Indice del volume

Introduzione

Per quanto gli studi più autorevoli su Aristotele degli ultimi decenni abbiano dimostrato che la filosofia aristotelica, lungi dal costituire un complesso di dottrine di carattere dogmatico, è essenzialmente aperta, “flessibile” e problematica, tale immagine rinnovata e più fedele del pensiero dello Stagirita non pare esser stata adeguatamente recepita, a tutt’oggi, dalla communis opinio. Ancora prevale, al di fuori della cerchia ristretta degli specialisti, lo stereotipo di un Aristotele che presume di possedere un sapere assoluto e totalizzante.

Per mettere in luce l’infondatezza di tale stereotipo, abbiamo voluto mostrare in che modo lo Stagirita procede realmente nelle proprie indagini: ponendosi domande, confrontandosi criticamente con la tradizione, saggiando le soluzioni possibili, per formulare infine delle risposte che, comunque, non considera mai definitive. La strategia migliore per rendere manifesta l’intima articolazione di questo suo costante interrogarsi e interrogare l’uditore e il lettore è parsa quella di affrontare direttamente, una per una, tutte le opere di Aristotele, ricostruendone l’organica tessitura senza tuttavia perdere mai di vista l’orizzonte teoretico complessivo in cui ogni ricerca dello Stagirita – anche la più specifica – trova la sua collocazione e il suo significato.

Non v’è dubbio che la lettura dei testi costituisce il momento autentico e irrinunciabile di confronto con qualsiasi autore. All’incontro diretto con gli scritti aristotelici la presente opera non vuole dunque certo sostituirsi. Il nostro intento è, invece, quello di agevolare l’accesso ai trattati dello Stagirita, suggerendo possibili itinerari ermeneutici e lasciando affiorare, nel contempo, gli interrogativi che tali trattati pongono e ai quali, a volte, duemila anni d’indagini critiche non sono riusciti a dare risposte soddisfacenti.

Com’è ovvio, le analisi più approfondite da noi svolte hanno per oggetto le opere aristoteliche teoreticamente più ricche e complesse, ancor oggi al centro del dibattito filosofico. Così, i capitoli relativi alla Metafisica e all’Etica Nicomachea sono i più “corposi” e articolati; tuttavia, ogni opera dello Stagirita è studiata con attenzione.

Il nostro non è né intende essere un libro per “addetti ai lavori”, bensì uno strumento utile a un pubblico più ampio. Pertanto, abbiamo voluto evitare di appesantire eccessivamente il testo con note e richiami. Le citazioni di passi aristotelici (accompagnate, quand’è sembrato opportuno, dall’originale traslitterato) sono inserite nel vivo dell’analisi. Allorché, poi, abbiamo cercato di chiarire gli snodi fondamentali del filosofare dello Stagirita alla luce delle prospettive critiche odierne, abbiamo fatto un uso quanto mai parco di riferimenti alla letteratura secondaria, richiamandoci, in ogni caso, solo a poche opere d’indiscusso valore.

Nella nostra esplorazione del Corpus Aristotelicum ci siamo attenuti a un criterio preciso e siamo stati guidati, al tempo stesso, da una salda convinzione. Il criterio è quello dell’assoluta fedeltà ai testi. Il metodo più sicuro per evitare che il naturale desiderio di “dialogare” con Aristotele induca ad attribuire al nostro filosofo, più o meno inconsapevolmente, tesi anacronistiche e non sue, è infatti quello di rispettare con scrupolo e, anzi, con umiltà filologica, quanto di lui ci è rimasto.

La convinzione che ci ha guidati è, a sua volta, strettamente connessa con tale impegno di fedeltà e rispetto: si tratta della ferma persuasione che la fecondità e la stessa attualità del messaggio di Aristotele emergono nei termini più limpidi ed efficaci precisamente quando si rinunzia a piegare tale messaggio a contingenti mode di pensiero, e ci si studia, invece, di salvaguardarlo – nella misura del possibile – nella sua autenticità. Autenticità che vuol dire anche parziale alterità. Lo Stagirita non è un nostro contemporaneo, e sarebbe un errore cercare a tutti i costi di farlo diventare tale. Le sue coordinate ideali sono, in parte, diverse dalle nostre.

E tuttavia, a un Aristotele “addomesticato” è infinitamente preferibile, crediamo, il vero Aristotele. Il suo pensiero acquista una straordinaria carica di attualità proprio nella misura in cui, riscoperto nei suoi caratteri originari, si presenta come una “sfida” alla nostra visione della realtà, e propone modelli alternativi, a volte probabilmente più validi, di comprensione dell’esperienza.

Affrontare il Corpus Aristotelicum nel suo complesso è opera non facile, ma altamente gratificante. Per chi scrive, la stesura di questo volume ha costituito una sorta di viaggio, ricco di scoperte e di gioie intellettuali. Alla fine dell’itinerario, la filosofia dello Stagirita – una filosofia, peraltro, sempre in fieri, mai con chiusa in formule definitive –, dispiegandosi in un panorama grandioso, ci è realmente apparsa come una delle imprese più ammirevoli della storia dell’umanità. Al tempo stesso, a mano a mano che l’esplorazione procedeva, Aristotele è andato assumendo il profilo di un compagno di viaggio, le cui parole e riflessioni, affiorando da un lontano passato, possono essere d’aiuto anche all’uomo d’oggi, nel compito ineludibile di confrontarsi con i perenni interrogativi dell’esistenza. Il nostro auspicio è che pure al lettore lo Stagirita possa alla fine presentarsi come un tale compagno di viaggio: saggio e autorevole, e insieme benevolo e profondamente umano.

Alberto Jori, Aristotele, Bruno Mondadori, 2003, pp. 5-7.


Aristotele, Il Cielo

Aristotele, Il Cielo

Il pane tra sacro e profano

Il pane tra sacro e profano

 

La responsabilità ecologica

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Lessing, Gli ebrei

Lessing, Gli ebrei

 

Medicina e medici nell'antica Grecia

Medicina e medici nell’antica Grecia

 

Panem et circenses

Panem et circenses


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Vincent van Gogh (1853-1890) – La maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura.

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Jean-François Millet, L'Angelus novus

J.-F. Millet, L’Angelus della sera

«Sono felice che ti piaccia Millet, perché “ci siamo proprio”. Sì, quel quadro di Millet L’angelus della sera “ci siamo proprio”. È ricco, è poesia. Come vorrei parlare con te ancora di arte, ma ora possiamo solo scrivene spesso l’uno all’altro: “trova cose belle” più che puoi, la maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura, perché è questo il vero modo per imparare ad amare l’arte sempre meglio. I pittori comprendono la natura e la amano e “ci insegnano a vedere”. E poi ci sono pittori che non fanno altro che cose buone, che non possono mai sbagliare, così come ci. sono persone normali che non combinano mai nulla di buono».

 

Vincent van Gogh a Theo van Gogh, Londra, inizio di gennaio 1874.

V. van Gogh, I primi passi

V. van Gogh, I primi passi

 

V. van Gogh, Il seminatore al tramonto

V. van Gogh, Il seminatore al tramonto

 

V.van Gogh, Contadini che seminano patate

V. van Gogh, Contadini che seminano patate

 

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V. van Gogh, Contadina che lega fascine di grano

 

V. van Gogh, Contadina che scava patate

V. van Gogh, Contadina che scava patate

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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi
Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà
Vincent Van Gogh (1853-1890) – Preferisco la malinconia che aspira e che cerca

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Punti Critici N° 3 (Maggio 2000) – Scritti di Vladimir I. Arnold, Laura Catastini, Franco Ghione, Sandro Graffi, Pietro Greco, Giovanni Lombardi, Angela Martini, Emanuele Narducci, Lucio Russo.

Punti Critici n. 3

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Comitato di direzione: Franco Ghione, Sandro Graffi, Paolo Maddalena, Angela Martini, Lucio Russo, Giovanni Stelli.
Comitato scientifico: Alberto Giovanni Biuso (Liceo Beccaria di Milano), Laura Catastini (Istituto Statale d’Arte, Pisa), Antonio Gargano (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Franco Ghione (Università di Roma Tor Vergata), Sandro Graffi (Università di Bologna), Antonio La Penna (Università di Firenze), Paolo Maddalena (Corte dei Conti per il Lazio e Università di Viterbo), Emanuele Narducci (Università di Firenze), Lucio Russo (Università di Roma Tor Vergata), Paolo Serafini (Università di Udine), Augusto Schianchi (Università di Parma), Giovanni Stelli (IRRSAE dell’Umbria, Perugia).

Segretaria di redazione: Carla Russo.

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   Presentazione

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   In questo numero

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 11-39 

Angela Martini,
Abitare le rovine.
Il destino dell’educazione liberale nell’epoca della globalizzazione


Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 41-56

Emanuele Narducci,
Umberto Eco. le Guerre Puniche e la luna rossa, nonché I Baluba

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 57-59

Giovanni Lombardi,
Formarsi sui videogiochi o progettarli? Il caso del Giappone

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 61-70  

Lucio Russo,
Due libri sulla scuola italiana

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 73-85    

Vladimr I. Arnold,
Sull’insegnamento della matematica

Logo Adobe Acrobat   Freccia rossa   pp. 87-98    

Lucio Russo,
L’articolo di Arnold e i rapporti tra storia della cultura e scienza esatta

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 99-128  

Laura Catastini e Franco Ghione,
Immagini, analogie e sassolini nei pitagorici

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Pietro Greco,
Ideali scientifici mediterranei

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 143-171    

Sandro Graffi,
Sull’origine dell’interpretazione statistica della meccanica quantistica

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Notizie sugli autori

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Per leggere le pagine

del n° 1.

coperta 01_pic

Punti Critici N° 1 (Maggio 1999) – Scritti di Fabio Acerbi, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Giovanni Lombardi, Paolo Radiciotti, Lucio Russo, Maria Sepe, Giovanni Stelli.

Per leggere le pagine

del n° 2.

Coperta N- 2

Punti Critici N° 2 (Settembre/Dicembre 1999) – Scritti di Paolo Maddalena, Alberto Giovanni Biuso, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Lucio Russo, Stefano Isola, Marco Mamone Capria, Angela Martini.

Per leggere le pagine

del n° 4.

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Punti Critici N° 4 (Febbraio 2001) – Scritti di Fabio Acerbi, Piero Brunori, Giovanni Lombardi, Angela Martini, Paolo Maddalena, Lucio Russo, Ledo Stefanini, Mauro Zennaro.

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Alberto Jori – La responsabilità ecologica. Con la «colonizzazione» concettuale e tecnologica della natura, la cultura moderna ha perduto la capacità di apprendere i limiti.

Alberto Jori
La responsabilità ecologica

La responsabilità ecologica

 

La «colonizzazione» concettuale e tecnologica della natura

Dall’«umanizzazione» della natura si è […] passati alla sua sistematica «colonizzazione» concettuale e tecnologica. Di tale processo si possono scoprire gli inizi nel nuovo atteggiamento verso la creazione che viene teorizzato da Francesco Bacone e, soprattutto, nella proposta, formulata da Cartesio, di un nuovo metodo d’indagine, imperniato sui principi della ragione analitico-deduttiva (ossia matematica).[1] Contestualmente si verifica un significativo spostamento di accenti e d’interesse, dalla dimensione del prattein a quella del poiein, dall’agere al facere.[2] Ed è precisamente lungo tale itinerario che l’uomo giunge a costituirsi come detentore di un potere assoluto sulla natura. Egli anzi diviene ai propri occhi la realtà assoluta in riferimento alla quale tutti gli altri enti acquisiscono il loro effettivo statuto ontologico: il progetto di un sapere «totale», inteso come equivalente alla capacità di produrre ogni genere di effetto (e, in fondo, ogni sorta di realtà), si accompagna infatti alla pretesa che l’uomo possa diventare simile a Dio, ossia all’auspicata sostituzione del regnum hominis al regnum Dei. Tutto ciò è chiaro già in Bacone.

Per i Greci antichi le attività tecnico-scientifiche avevano un codice etico interno

[…] Nel mondo greco, al quale appunto dobbiamo l’elaborazione della nozione di techne (ossia di scienza-tecnica), fu convinzione comune, almeno per un certo periodo, che ognuna delle attività tecnico-scientifiche avesse una sorta di codice etico interno, vale a dire un momento di autonormatività alle cui indicazioni l’operatore professionale doveva assolutamente attenersi sul piano pratico. In caso contrario, infatti, egli si sarebbe posto al di fuori dell’ambito medesimo di esercizio della propria techne. Così, nel quadro dell’autocoscienza delle technai si aveva una chiara consapevolezza non solo degli obiettivi-cardine (i telai) che andavano perseguiti dai technitai, ma anche e correlativamente dei limiti al di là dei quali per l’operatore professionale era impossibile o comunque inopportuno procedere: chi avesse compiuto tale tentativo sarebbe stato tacciato di hybris, ossia di tracotanza, di presunzione, mentre il suo comportamento sarebbe stato ritenuto obbiettivamente «atecnico».
In parallelo, i Greci manifestarono sempre una diffidenza pressoché insuperabile per quella forma di ingegnosità o di «astuzia» che permette all’uomo di aggirare gli ostacoli frapposti dalla natura e di carpirne i suoi segreti. Tale diffidenza costituì anzi, presumibilmente, una delle cause, se non addirittura la causa principale, del fatto che essi non giunsero né a conoscere né tantomeno a teorizzare l’impiego sistematico dell’ esperimento.

 

Cosmo ed etica «contestuale»

Determinante, nel quadro dell’esperienza greca della realtà – così di quella naturale come pure di quella sociale – fu la nozione di ordine, di armonia, di regolarità: in una parola, il concetto di kosmos. Il carattere «cosmico» (nel senso precisato) della totalità degli enti era inteso come preesistente all’iniziativa conoscitiva e pratica dell’uomo: esso veniva dunque a identificarsi con una gerarchia ontologica e valoriale dotata di significato oggettivo.
All’uomo spettava il compito essenziale di interpretare in modo adeguato l’ordine della realtà: è appunto da qui che scaturiva la centralità del ruolo che i Greci attribuivano all’investigazione «ermeneutica» della natura.
Proprio dall’ordine che struttura il dominio dell’esistente – puntualmente riflettendosi nella regolarità e nell’armonia dei processi che si verificano all’interno delle differenti «regioni antologiche» in cui tale dominio si articola – derivano, secondo i Greci, i criteri di autolimitazione inerenti alle diverse technai, ciascuna delle quali assume come proprio oggetto, teorico e operativo insieme, un differente ambito del mondo naturale. Si comprende agevolmente, allora, per quale motivo i principi etici cui facevano riferimento le technai, soprattutto nella loro fase applicativa, fossero intesi come principi ad esse interni, vale a dire intrinseci alla stessa ricerca e operatività tecnico-scientifiche, e non come «leggi» imposte da un’autorità esterna o, in generale, come norme contesto-indipendenti. La loro validità veniva infatti a fondarsi sull’ordine oggettivo e normativo della stessa realtà indagata. Quella dei technitai era dunque un’etica che potremmo chiamare «contestuale».

La cosiddetta «legge» di Hume

Le considerazioni ora svolte non sembrano del tutto prive di significato, in ordine a una valutazione di taluni rilevanti aspetti del pensiero moderno. Se, infatti, non si riconosce l’esistenza di un ordine naturale oggettivo – o comunque non si ammette la sua effettiva conoscibilità da parte dell’uomo –, inevitabilmente si arriverà a negare che la realtà possa, attraverso l’«ostensione» della struttura teleologica presente nelle sue varie «regioni», fondare la validità di determinate leggi «naturali» di carattere contestuale.
Non pare casuale, a tale proposito, che sia stato Hume a negare la legittimità del passaggio dalle proposizioni descrittive a quelle prescrittive, con la formulazione di quella che viene ricordata come la sua «legge». Lo stesso Hume, com’è noto, nega, infatti, in sostanza, anche l’intelligibilità del reale, o comunque la legittimità dell’impiego dei concetti – in particolare quelli di causa e di sostanza – mediante i quali si era tradizionalmente presunto di riuscire a comprendere la struttura oggettiva dell’esistente. E il mito maxweberiano dell’«avalutatività» della scienza, al quale è connessa l’elaborazione dell’immagine – e dell’ideale – dello scienziato «neutrale», trae la propria origine, in ultima analisi, precisamente dalla frattura, consumatasi nel quadro del pensiero humiano, tra descrizione e prescrizione, tra «fatto» e «valore».

La cultura moderna ha perduto la capacità di apprendere i limiti

Come scrive P. Donati, «non soltanto la cultura moderna ha perduto il senso del limite, ma ha anche perduto in buona misura la capacità di apprendere i limiti». Ciò finisce col configurare una situazione di notevole gravità, perché, com’egli ancora osserva, «i valori e l’autocoscienza possono emergere solo attraverso processi di autodelimitazione, di auto-imposizione, di auto-preclusione».[3] In tale prospettiva, potrebbe essere utile recuperare oggi almeno una parte dei contenuti concettuali che i Greci associavano alla nozione di techne. Questa nozione infatti implicava, come si è visto, la consapevolezza di avere a che fare con un ordine naturale-oggettivo dotato di una precisa portata normativa, che marcava anche i limiti entro i quali doveva porsi l’intervento del technites. Pertanto, con il recupero di tale visione e delle sue implicazioni si riproporrebbe, al livello della stessa attività tecnico-scientifica, l’esigenza di un approccio profondamente responsabile al mondo naturale, visto come un complesso da investigare nel suo ordine e nella sua interna articolazione, ma anche da rispettare nella sua fondamentale realtà di «cosmo». Questo significherebbe anche – ed essenzialmente – mettere nuovamente a fuoco il ruolo particolarissimo che la vita umana riveste nella totalità del reale.

Alberto Jori, La responsabilità ecologica, Edizioni Studium, 1990, pp. 27-48.

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Note

[1] Cfr. E. BERTI, Ragione scientifica e ragione filosofica nel pensiero moderno, Roma 1977, p. 43 ss.

[2] Va ricordato, a tale proposito, che negli ultimi decenni si è andato manifestando, soprattutto in Germania, un particolare interesse per la problematica relativa all’eclissi, nel quadro della cultura moderna, della dimensione della prassi. In quest’ottica, è stata riscoperta la filosofia pratica classica, con espliciti richiami al pensiero greco e soprattutto ad Aristotele: cfr. E. BERTI, Le vie della ragione, Bologna 1987, p. 55 ss. e p. 271 ss.; si veda anche F. VOLPI, Spaesamento postmetafisico? Per una contestualizzazione dell’attuale diballito sulla razionalità pratica, in AA.VV., La ragione possibile. Per una geografia della cultura, a cura di G. Barbieri e P. Vidali, Milano 1988, pp. 75-87. Ancora E. Berti fornisce un’analisi eccellente del metodo della filosofia pratica in Aristotele nel volume Le ragioni di Aristotele, Roma-Bari 1989 (p. 113 ss.); cfr. anche P. RICOEUR, Dal testo allazione. Saggi di ermeneutica (tit. or.: Du texte à l’action. Essais dherméneutique II), trad. it. G. Grampa, Milano 1989, soprattutto pp. 238-39 (appunto dedicate al concetto aristotelico di praxis).

[3] P. DONATI (a cura di), La cultura della vita. Dalla società tradizionale a quella postmoderna, Milano 1989, p. 26.

 


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Romeo Castellucci – «ETHICA. Natura e origine della mente». Il teatro è nato nella polis, è un mondo sperimentale, scuote, fa inciampare, cambiare direzione. Costringe a riconfigurare lo sguardo. L’essenza del teatro è stupore primario.

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ETHICA. Natura e origine della mente

Fotografie di Guido Mencari

«Il teatro è un pugno nello stomaco, necessariamente. […] Politico lo è per natura. Il teatro è nato nella polis, la tragedia greca è espressione della politica e della città, ha a che fare con il vivere comune, non c’è niente di mistico o di naturale: è un mondo sperimentale, un laboratorio in cui si constata la disfunzione dell’essere. Quindi sì, il teatro è politico. Ma quando i contenuti sono politici, per me è un fallimento. […] Il teatro deve scuotere necessariamente lo spettatore […]. È il lascito della tragedia greca […] Per questo lo spettacolo scuote, fa inciampare, cambiare direzione. Costringe a riconfigurare lo sguardo […] Nel teatro ci sono elementi viscerali che scavalcano la funzione stessa del linguaggio ed entrano nel corpo in modo diretto. Esattamente come fa la musica. […] Il teatro ha a che fare con una dimensione primaria che tocca corde profonde. […] L’essenza del teatro è stupore primario».

 

Intervista a cura di Annachiara Sacchi, pubblicata su la lettura, 18-06-2017, p. 34.

ETHICA. Natura e origine della mente

ETHICA. Natura e origine della mente

Fotografie di Guido Mencari

 

 

ETHICA. Natura e origine della mente02

ETHICA. Natura e origine della mente

Fotografie di Guido Mencari


Romeo Castellucci, ETHICA. Natura e origine della mente.

 

È il titolo del secondo dei cinque libri che compongono Ethica di Baruch Spinoza (1632-1677) e ispira l’azione.
In scena una giovane donna è sospesa a un cavo, a diversi metri dal suolo e impersona la Luce. Guardando più attentamente, lo spettatore si accorge che è tenuta solo dal dito indice della mano sinistra. Sembra che per poco possa essere vittima di una caduta vertiginosa. In mezzo al pubblico si aggira un cane poliglotta: parla sia il linguaggio dei gatti, sia quello umano. Il cane impersona una Telecamera. C’è poi un terzo personaggio, composto da una moltitudine di presenze, che dà voce alla Mente.
Lo spettacolo ha l’obiettivo di congelare questo pensiero nell’atto di ricevere l’immagine, non da un punto di vista scientifico, ma per consacrare la fusione tra la ricezione dello spettatore e la creazione dell’immagine d’orgine.
Il titolo è tratto dal libro secondo dell’Etica di Spinoza, nel quale il filosofo esplora la natura del pensiero superiore e la potenza dello spirito, ossia “la sorgente della mente”.

Romeo Castellucci nasce nel 1960 a Cesena. Si diploma in Pittura e Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 1981 insieme a Claudia Castellucci e a Chiara Guidi fonda la Socìetas Raffaello Sanzio. Da allora realizza numerosi spettacoli come autore, regista, e creatore delle scene, delle luci, dei suoni e dei costumi. Noto in tutto il mondo – i suoi lavori sono stati presentati in più di cinquanta nazioni. Le sue regie propongono linee drammatiche non soggette al primato della letteratura, facendo del teatro un’arte plastica, complessa, ricca di visioni. Questo ha sviluppato un linguaggio comprensibile come possono esserlo la musica, la scultura, la pittura e l’architettura. Il suo lavoro è regolarmente invitato e prodotto dai più prestigiosi teatri di prosa, teatri d’Opera e festival internazionali.

Nel 1998 riceve il Premio Europa come nuova realtà teatrale, Taormina

Nel 2013 è insignito del Leone d’Oro alla Carriera da La Biennale di Venezia.

 

 

Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

 

 

Intervista a cura di Matteo Marelli, pubblicata su il manifesto, 03-03-2017, p. 12.

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Epitaph, Ubulibri, 2000

Epitaph, Ubulibri, 2000


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