Salvatore Bravo – La «Metafisica umanistica» di Luca Grecchi: … sfregando insieme, non senza fatica, queste realtà – ossia nomi, definizioni, visioni e sensazioni –, le une con le altre, e venendo messe a prova in confronti sereni, e saggiate in discussioni fatte senza invidia … … dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce nell’anima …

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Sommario

Estratto

I suoi libri

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Salvatore Bravo -Günther Anders tra Auschwitz e Hiroshima. Le vite parallele di Adolf Eichmann e Claude Eatherly come scandaglio filosofico.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Salvatore Bravo – Che tipo di umanità è l’umanità incapace di donare il proprio tempo? Parliamo del libro di Simone Lanza: «Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale».

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Ricorre, tra le pagine di questo intenso scritto, la domanda rousseauiana, se sia ancora possibile perdere tempo per educare le nuove generazioni. Come si può uscire dallo schiacciamento sul presente dando futuro con il passato? Partendo dalla quotidiana esperienza pratica di docente e formatore, l’autore sviluppa una riflessione teorica sulle difficoltà dell’educazione odierna segnata sempre più dalla velocizzazione, dalla perdita di autorità delle figure educanti, dalla perdita di mediazione umana dovuta all’espansione del tempo-schermo, del démariage e della crisi del matrimonio, tutti aspetti che mostrano le conseguenze sulla salute psico-fisica dei più giovani. Il saggio propone di risemantizzare parole quali autorità, testimonianza, limite, mediazione, ordine, disciplina, regole in una pedagogia dell’utopia. Pensate lontano dall’accademia e dalla formazione come scienza, ma scritte con spirito divulgativo e rigore scientifico, le riflessioni si rivolgono a insegnanti, genitori, nonne, educatori, animatrici, logopedisti, catechisti, e allenatrici, a chiunque, nella comunità educante, abbia ancora a cuore la questione politica della relazione tra generazioni

Simone Lanza, Perdere tempo per educare. Educare all’utopia nell’epoca del digitale. Prefazone di Serge Latouche, Editore Writeup, 2020, pp. 170.


Presentazione Streaming del 11 dicembre 2020. Discute con l’autore Piero Flecchia.


 

Intervista Radio Popolare, 1D2 del 9 dicembre 2020:

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Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.

Simone Lanza

Perdere tempo per educare

Frontespizio della prima edizione dell'Émile ou de l'éducation (1762) copia

Frontespizio della prima edizione dell’Émile ou de l’éducation (1762).

«Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Jean Jacques Rousseau, Emile, 1762


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comrpessionespaziotemporaleLa compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è» (Harvey).

compressionespaziotemporaleViviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale.[1] Nella nostra epoca tutto sembra schiacciarsi sul presente. Il futuro, anziché essere portatore di Progresso, come fu almeno dall’Illuminismo, è per la prima volta vissuto dalle nuove generazioni come minaccia. Viviamo in un’epoca di passioni tristi che al futuro promessa ha sostituto il futuro minaccia – ci spiega Benasayag.[2] La questione del tempo, la percezione soggettiva del tempo, è importante per capire la crisi dell’educazione oggi: mi chiedo infatti se alla luce della nuova percezione del tempo sia ancora valido l’ideale di Decroly e di tanti pedagogisti?

La crisi della modernità

La crisi della modernità

«Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre […] i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue».[3]

L' epoca delle passioni tristi

Il futuro minaccia sta investendo anche l’educazione? Quali sono i principali ostacoli e problemi nel tempo della globalizzazione in cui sono ingabbiate le sfide pedagogiche? Parlerò della questione del tempo affrontando la questione delle nuove tecnologie e della crisi dell’autorità.

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Una scuola per la vita attraverso la vita

Una scuola per la vita attraverso la vita

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La velocità delle bolle di sapone nell’epoca del tasto play

La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazionViviamo nell’epoca della pedagogia del tasto play.[4] Gli oggetti educano e le cose hanno da sempre avuto un potere educativo. Le bambole educano, le macchinine educano. I giocattoli di legno educano. È attraverso gli oggetti, i giocattoli, che si differenziano i generi. Adesso hanno persino inventato il Lego per bambine. Purtroppo non posso affrontare il tema di come ancora oggi gli oggetti servano a differenziare i generi. «Se gli oggetti educano – si chiede Laffi – qual è la pedagogia messa in atto da un ambiente materiale governato dal tasto play?». Si «indebolisce l’idea di una mediazione riflessiva come premessa dell’agire» e si rischia di formare al delirio di onnipotenza e al cinismo.

Ecco i rischi maggiori:

«A fare play non è il bambino ma il giocattolo, letteralmente è il giocattolo che gioca, suona e recita, chi è di fronte schiaccia e assiste, come davanti a un televisore. […] Quale idea del mondo, quindi: la realtà come spettacolo, noi come pubblico, l’eliminazione della fatica o dell’apprendimento, la promessa implicita che tutto ci è dato, ed è qui per noi, non per intrinseca necessità o autonoma esistenza, l’impossibilità di incontro e casualità, sotto il nostro primato di spettatori a cui il mondo deve la sua recita».

E ancora:

«Il consumo tecnologico disattiva la ricerca informativa: se le cose devono funzionare, non importa nemmeno il come e il perché, l’approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che ci precede – Chi l’ha inventato? Chi l’ha costruito? Da dove viene? Di che materiale è? – perché tutte quelle voci del sapere le archiviamo, delegando ai marchi di sicurezza una generica garanzia sull’utilizzo. Tutta la tensione dell’utilizzatore tecnologico è invece su ciò che segue da qui a poco, sull’incantesimo del funzionamento, sulla magia dello scatto. È anche così che si forma un rapporto con il mondo disinteressato alle origini, indifferente alla natura delle cose, che non interroga ma aspetta, che non chiede ma guarda ciò che arriva».

Senza pensarci mi sono imbattuto nel tasto play quando mi sono posto la domanda se regalare o meno una pistola elettrica che spara bolle di sapone. L’effetto è eccezionale: in pochi secondi uno spazio enorme si riempie di migliaia di bolle. Immaginatevi un bambino che con la sua pistola riempie una sala enorme come questa, immaginatevi gli sguardi di bimbe e bimbe spettatori che guardano in alto e ovunque le migliaia di bolle. Ma quale fatica, quali capacità sviluppa rispetto alle tradizionali bolle che con fatica e insuccessi uscivano due o tre alla volta e che bisognava rincorrere una a una? Si schiaccia un tasto e si guarda l’effetto. Quelle tradizionali sono un gioco, anche faticoso. Inutile dire che la durata del barattolo della pistola elettrica è dieci volte inferiore e che quindi spenderai dieci volte tanto: velocità e consumo.

La questione qui è però un’altra ancora: a quale idea di mondo ci educa questo oggetto elettronico che non è più un gioco ma uno spettacolo? La velocità degli oggetti della cameretta del tasto play cosa modifica a livello antropologico? Laffi ci chiede: che ruolo gioca nella capacità di aspettare e che tipo di concentrazione sviluppa?

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Tempo-schermo

Il dispositivo pedagogico che educa al mondo dello spettacolo è lo schermo. Con schermo bisogna intendere la TV, ma anche la console di gioco, gli smartphone, i computer, i tablet. Mentre il fascino degli schermi aumenta, il danno si estende: al tempo davanti alla TV si somma quello di fronte ad altri schermi. Lo schermo è l’oggetto davanti a cui adulti (e quindi anche minori) stanno la più parte del tempo. La questione diviene problematica non tanto perché lo schermo in quanto tale abbia caratteristiche negative ma perché un eccesso di tempo-schermo in età evolutiva è dannoso. Non perché lo schermo sia in sé neutrale e quel che conta sia l’uso (individuale) che se ne fa, come se ci fosse un uso buono e un uso cattivo delle tecnologie. Esiste un uso sociale delle tecnologie e le tecnologie riflettono e proiettano un modo concreto di stare al mondo: in questo caso educano a stare al mondo come spettatori e spettatrici. Lo schermo inoltre sviluppa, nell’età dello sviluppo, un tipo di concentrazione e di attenzione che inibisce lo sviluppo di altre capacità tra cui l’empatia e le capacità relazionali, la riflessione, il senso critico.

Al di là del fatto che la pubblicità (che è la condizione e il fine dello schermo) è stata giustamente definita da Latouche «inquinamento spirituale»,[5] quando si considera la questione dello schermo-educatore ci chiediamo quali sono gli aspetti pedagogici che l’esposizione a schermi pone in un’epoca in cui sembra – dalla ideologia dominante – che i nativi digitali abbiano propensioni quasi naturali a padroneggiare le tecnologie?

Miseria umanaLa più parte di pediatri e psicologi dello sviluppo, ritiene che in età prescolare non si debbano esporre a schermi prima di 3 anni e che fino ai 10 occorra parlare comunque di minuti al giorno. L’Associazione pediatri del Canada e degli Usa sconsigliano assolutamente l’esposizione di bambini/e prima di 2 o 3 anni. Siamo quindi di fronte a studi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e non da opinioni di sette luddiste anti-capitalistiche. Nella sua pratica una ricercatrice che lavora nei servizi sociali francesi ha riscontrato due motivazioni molto radicate nelle famiglie che per la grande maggioranza non seguono queste indicazioni: 1) lo schermo è un buon baby-sitter che riduce conflitti in famiglia; 2) lo schermo rende più intelligenti i bambini (per es. imparano persino le lingue).

Le conseguenze sono abbastanza note ma è utile riepilogarle.

  1. a) La sedentarietà. Tutti i programmi di lotta all’obesità segnalano la TV e gli schermi come un elemento negativo; lo schermo è un guinzaglio alla mobilità infantile.
  2. b) La mancanza di tempo per la conversazione: le stime parlano di un raddoppiamento dagli anni Ottanta del Novecento all’inizio del secolo XXI – da 15-20 ore settimanali alle 40 ore settimanali a cui corrisponde un dimezzamento del tempo di conversazione in famiglia in nord America e Europa.
  3. c) Forti limiti allo sviluppo psicomotorio. Per i bambini e bambine prima di 10 anni esposti a un tempo-schermo superiore a 1 ora la giorno c’è un impatto globalmente negativo a livello emozionale e intellettuale che – a seconda dei casi individuali e delle ore di eccesso – comportano: problemi di attenzione, problemi di lettura, problemi di sonno, di aggressività, incapacità di giocare da solo/a, ridotte capacità di immaginazione. In particolare, in età prescolare è essenziale lo sviluppo di capacità manipolatorie per le quali si rende importante usare quanti più materiali e supporti diversi: è la fase della scoperta senso-motoria in cui lo sviluppo di un solo senso (quello visivo) è limitante e anche inibente perché il tipo di attenzione richiesta è diversa e minima. L’attenzione è infatti capacità che si articola in due livelli: primaria e secondaria. È la capacità attentiva secondaria e volontaria quella prettamente umana intorno a cui si sviluppa, tra l’altro, la capacità di attenzione congiunta, la capacità di cooperazione e di empatia. Finora si sono segnalati i danni a prescindere dal contenuto a cui sono esposti/e.
  4. d) Problemi maggiori intervengono quando il tempo-schermo si riempie (come spesso succede) di pubblicità e contenuti violenti e machisti. I danni comprendono, in particolare, sviluppo di comportamenti quali:

– Disconnessione dalla realtà, intossicazione da internet.
– Bullismo, inciviltà, verbale e abusi fisici, criminali e non.
– Rischi di dipendenza, caso limite il gioco d’azzardo on-line.
– Ossessione dell’apparenza, disturbi alimentari, anoressia.
– Omofobia e misoginia.
– Ipersessualizzazione della vita, pornografia, esibizionismo, atteggiamenti sessuali a rischio.
– Lesioni dell’autostima, isolamento, depressione, suicidio.

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Invisibilità della gerarchia

Le meraviglie del possibile

Le meraviglie del possibile

Se deleghiamo il tempo per educare a macchine elettroniche e schermi, come possiamo pretendere il riconoscimento di autorità? L’analisi di Laffi si conclude con una splendida e tragica novella di fantascienza – Il Veldt – di Ray Bradbury,[6] che ci disegna un quadro preoccupante del destino dell’autorità quando molto tempo educativo viene affidato alla tecnica sostituendo alla relazione umana quella bambino/a – schermo o tasto play. La splendida cameretta computerizzata comprata apposta per i figli, in cui ogni desiderio si concretizza come vero spettacolo, finisce per inghiottire i genitori. I figli riconoscono come genitori solo la tecnica. Un 2001 Odissea nello spazio in versione pedagogica.

Siamo oggi di fronte a un fattore nuovo e assolutamente inedito. Educati in un mondo di pari, trattati come prìncipi e principesse, trattati da amici dai genitori, trattati da piccoli adulti capaci di scegliere i propri acquisti dal marketing e dalla pubblicità, enfatizzando smisuratamente la loro volontà, i bambini e le bambine di oggi non vedono la gerarchia. A me è capitato che una bambina di dieci anni mi chiedesse perché dovesse dare del Lei agli adulti se gli adulti continuavano a darle del tu. Ci sono un’infinità di aneddoti che si potrebbero raccontare al riguardo. Quel che conta è che siamo di fronte a quella che Marco Vinicio Masoni ha definito l’invisibilità della gerarchia. Consapevoli del proprio diritto al rispetto, sono anche consapevoli di essere individui e si percepiscono – perché vengono fatti percepire come tali – come individui alla pari con gli adulti. Consapevolezza strana che stride con quanto di più caratteristico ha l’essere dei nuovi venuti al mondo. Nella venuta al mondo si disvela la dipendenza e la socialità dell’essere umano, che invece oggi viene negato in nome del primato ontologico dell’individuo (mito su cui si fonda la pseudo-scienza economia; qualcuno non a torto parla di invenzione tutta moderna dell’individuo). Ovviamente non è solo la pedagogia del tasto play e il rapporto con le tecnologie che ha spinto il processo di individualizzazione e l’interiorizzazione del neoliberismo fin nella più tenera infanzia. Possiamo nominare almeno: la riduzione della mortalità infantile, l’idealizzazione dell’infanzia, le metamorfosi contemporanee della coppia e dei ruoli genitoriali. Questioni che qui non tocco.

Quella che dal punto di vista del bambino e della bambina è l’invisibilità della gerarchia è – per gli adulti – la crisi dell’autorità.

Tra passato e futuroPer Arendt[7] il secolo dell’infanzia avrebbe dovuto emancipare il bambino liberandolo dall’imposizione del mondo adulto. E Arendt si chiede quindi come è stato possibile che il fanciullo fosse esposto alla pubblicità. Anziché essere protetto e cresciuto in un mondo a misura di bambino, il bambino del XX secolo è stato infatti ridotto a piccolo individuo. La questione è così posta:

«[…] la crisi dell’autorità che educa ha un nesso strettissimo con la crisi della tradizione, ossia del nostro modo di considerare il passato. Sotto questo aspetto la crisi pesa soprattutto sull’educatore, il quale ha il preciso compito di mediare tra il nuovo e il vecchio, per cui il massimo rispetto del passato viene richiesto dalla sua stessa professione».

Perché, in realtà, il problema che ci pone Arendt è non solo che l’autorità dei genitori è in crisi, così come l’autorità religiosa, ma che questa autorità genitoriale viene meno quando i genitori non si sentono più responsabili del mondo in cui vivono, quando i valori del passato non servono a spiegare il presente. L’essere umano del XX secolo

«non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”».

In questo processo di deresponsabilizzazione, l’adulto/a perde autorità. Il bambino e la bambina vengono quindi in realtà esposti al pubblico. Arendt, parlando della crisi dell’istruzione della società statunitense degli anni Cinquanta del Novecento, coglie in realtà alcune questioni essenziali della crisi dell’educazione nella società di massa. Oggi, per me, l’esposizione al pubblico è soprattutto (ma non solo) esposizione allo schermo. In particolare, per Arendt questa esposizione al pubblico è il nuovo problema che a sua volta ne genera di nuovi. Perché, in realtà: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza». Ne sa qualcosa il Mercato e, ancor meglio, il Marketing.

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L’antiautoritarismo del mercato

Ne trae infatti vantaggio chi ha capito che psicologia e pedagogia possono servire anche al Marketing. Si chiama Kids Marketing. Il bambino viene infine incoronato dal mercato che «ha capito quanto vale la sua quota e come può influenzare le decisioni anche degli altri consumi famigliari».[8] Il Kids Marketing, senza alcuna remora etica, con la consulenza di psicologi e pediatri dello sviluppo, ha l’obiettivo di forgiare i desideri dei bambini. Sempre più spots pubblicitari sono infatti rivolti a loro nel tentativo di fidelizzare fin dalla più tenera infanzia e utilizzare i bambini e le bambine per influenzare i consumi familiari: si è calcolato che arrivano a modificare fino al 33% dei bilanci familiari. Il Mercato è quindi un agente “anti-autoritario” che fa leva su quella dittatura della maggioranza dei pari di cui parlava Arendt (salvo poi avere la sua autorità Suprema, il Dio, che per dirla con Marx, non ne tollera altri: il Denaro). La dittatura della maggioranza genera infatti conformismo sociale: il conformismo è usato dai Brand per promuovere prodotti e i prodotti sostengono il conformismo. Insomma anche se non guardi la pubblicità rischi di essere un “looser” se non hai l’ultimo paio di scarpe di marca, e senza che te lo chieda alcun marchio rischi l’emarginazione sociale.

Ci sono poi veri e propri stratagemmi usati dal Mercato che entrano nella relazione genitore/trice-figlia/o. Il potere esercitato per guadagnare l’acquisto di un bene che poi i piccoli consumeranno in prima persona, è conosciuto come Nag Factor. Il nag (brontolio e tormento) factor è quell’insieme di azioni assillanti che bambini/e mettono in atto durante l’infanzia (e anche nella prima adolescenza) per convincere/costringere i parenti ad acquistare uno specifico bene di consumo (dal famoso ovetto Kinder posizionato alla cassa all’altezza giusta nel momento giusto alla consolle di giochi).

Nati per comprareC’è poi il ricatto per chi non ha tempo da perdere in conflitti con i propri figli. È il Guilt Money, quella disponibilità a spendere ed essere vulnerabile ai capricci del bambino che è inversamente proporzionale al tempo. Secondo Judith Shor,[9] è ormai dimostrato da dati empirici che i genitori che passano più tempo al lavoro si sentono in colpa e comprano più giochi dei genitori che trascorrono più tempo con i loro figli.

Se confrontiamo il tempo-schermo con il tempo di dialogo in famiglia ci possiamo rendere conto di chi sta educando le nuove generazioni.[10] La tirannia della maggioranza di cui ci parlava Arendt è quindi rafforzata da un potere della società attraverso il conformismo e la pubblicità (che ha un ruolo chiave perché si serve del senso comune per promuovere un logo e rinforza il luogo comune). Un potere esercitato fortemente fin dalla tenera età sui bambini per indurli al consumo. Manca il tempo per esercitare il conflitto, manca il tempo per stare in relazione. Questo tempo viene riempito da oggetti che divertono e intrattengono nello spettacolo. Educano spettatori/trici e non cittadini/e.

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Vie di uscita

Il gioco libero oggi deve essere programmato. Anche se può sembrare un paradosso, lo è soltanto in apparenza. Purtroppo, vivendo in una società che programma tutto, bisogna pensare a lasciare tempo libero. Questo vale per la scuola, per le famiglie, per ogni istituzione educativa. Il gioco libero permette l’apprendimento. In primo luogo del saper giocare. Lasciateli liberi di giocare, di sbagliare, di cadere, di farsi male, di autogestirsi almeno i giochi! Nel gioco si impara a stare nelle regole, a divertirsi, a vincere, a perdere, a stare nelle regole del gioco, a inventare giochi, a fantasticare. Nel gioco libero si sta in relazione. Oggi manca il tempo libero. È tempo di ricrearlo almeno per loro! Meglio la noia, piuttosto che tante attività strutturate. Insegna di più a stare al mondo.

Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e feliciNel gioco e nelle attività senza adulti i bambini e le bambine imparano a litigare e gestire i propri conflitti. Per Daniele Novara la proposta contenuta nel libro Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e più felici,[11] riassume tutto il suo lavoro ormai più che ventennale. Il conflitto è il principale antidoto alla violenza (e non l’origine):

«[…] l’educazione alla socialità passa piuttosto attraverso l’educazione al litigio: è fondamentale insegnare a stare insieme anche quando è difficile; a gestire i problemi e le prepotenze senza utilizzare la violenza; a reagire ai comportamenti vessatori trasformando la relazione e il gruppo in occasioni di apprendimento e creatività piuttosto che in ambiti di paura e conformismo».

La proposta metodologica è molto interessante per genitori e insegnanti. Lasciate che i bambini litighino fra loro! Il litigio tra bambini sviluppa le capacità di mediazione, relazione e rinuncia che saranno necessarie da adulto/a. Per aiutare i nostri figli a gestire i conflitti e per crescere adulti più competenti nelle relazioni interpersonali occorre lasciare litigare i bambini, non cercare il colpevole, non imporre né fornire la soluzione, ascoltare e legittimare tutti i punti di vista, favorire l’accordo creato dai bambini stessi. Al primo accenno di litigio infantile la maggior parte degli adulti tende a intromettersi e reprimere il conflitto, nella convinzione che sia necessario imporre immediatamente una rappacificazione. Se lasciati liberi di agire, i più piccoli imparano a gestire le relazioni. Del resto il vissuto dei bambini è spesso diverso: «non stavamo litigando, stavamo solo giocando…».

Spesso i bambini trovano da soli l’accordo o comunque la soluzione. È quanto emerge da diverse ricerche sul campo: si è scoperto che lasciandoli litigare si sono ridotti i litigi e gli interventi degli insegnanti. Sono aumentati gli accordi spontanei e le rinunce. Lasciare litigare liberamente presenta quindi notevoli vantaggi: i bambini si autoregolano, i maschi usano più le parole della fisicità, tutti/e imparano a confrontarsi con altri punti di vista e sviluppano l’empatia, imparano a trovare un’alternativa e a lasciare perdere se necessario, sviluppando in compenso autostima e creatività.

La scuola e l'arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici

La regolazione del conflitto può anche essere facilitata e insegnata. Per questo bisogna perdere molto più tempo. L’ascolto, benché sia la capacità basilare per ogni materia, non è insegnato in nessun livello scolastico. Solo pochi insegnanti perdono tempo e non concludono il programma per ascoltare i/le propri/e alunni/e. La proposta di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli[12] prevede di insegnare l’ascolto attivo che è molto importante e si distingue dall’ascolto normale perché presuppone una relazione e la volontà di stare in relazione, di riconoscere che la persona che abbiamo di fronte è intelligente e ha le sue ragioni. È importante pensare che il conflitto sia inevitabile perché siamo diversi e non ne dobbiamo avere paura. Così il conflitto si può trasformare in risorsa e il punto di vista diverso può aiutare a dare maggiore profondità, come la visione binoculare. Per questo bisogna intendere il conflitto come qualcosa di creativo ed entrare in conflitto senza prefigurarsi l’esito ma prestando ascolto. C’è anche bisogno di una autoconsapevolezza emozionale, capace di cambiare l’idea comune di emozione. Solitamente infatti siamo soliti concepire le emozioni come qualcosa da controllare per evitare di perdere il controllo. Oggi sappiamo che le emozioni non sono nulla di naturale, tanto meno di istintuale: come il linguaggio le emozioni vengono apprese. Quindi, per ascoltare, occorre abbandonare il mito della spontaneità delle emozioni e incontrare qualcuno/a che pratichi l’arte di ascoltare. Si perde molto tempo, ma i risultati sono importanti.

Su come il corpo delle donne sia rappresentato dagli schermi televisivi italiani sta svolgendo un eccellente lavoro educativo Lorella Zanardo. Prima ha girato il documentario Il corpo delle donne. Ora sta girando per le scuole con il suo staff. Un esperimento molto interessante è quello promosso da Brodeur, che ormai si è diffuso in quattro paesi. Nel convegno Maitrise des écrans – Parigi il 30 aprile 2014 – insegnanti, alunni, genitori, studiosi hanno confrontato le loro esperienze di spegnimento degli schermi sperimentate in Francia dal 2006 e in Canada dal 2003. I tre risultati maggiori sono l’aumento del tempo della conversazione in famiglia, l’aumento del tempo dedicato allo sport (bicicletta soprattutto), l’aumento del tempo dedicato alla lettura. Sono i risultati sul lungo periodo, quando gli alunni tornano ad accendere gli schermi con maggiore senso critico. In questi esperimenti la settimana è vissuta come una partita sportiva. Nessuno è obbligato a spegnere la TV. Sono i bambini il vero motore, i giocatori entusiasti. Molto spesso è la prima volta che hanno questa possibilità di scelta. Nella testimonianza dei genitori mi ha colpito moltissimo sentire che molte famiglie avevano proprio il desiderio che ci fosse una istituzione pubblica e dei professionisti che offrissero finalmente ai propri bambini delle alternative agli schermi. Insegnanti e istituzioni danno invece la colpa alle famiglie come se il tempo-schermo fosse una questione individuale. Dobbiamo parlare di corresponsabilità educativa? La sociologa Sophie Jehel è per una regolazione pubblica e un intervento dei poteri pubblici, almeno per le pubblicità e le trasmissioni per bambini/e. In tale prospettiva gli attori del controllo dovrebbero essere tre: le famiglie, l’autoregolazione dei canali con codici etici, il controllo pubblico.[13]

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Per concludere

Non mancano educatori ed educatrici che danno importanza al rallentare il tempo: alla pedagogia della lumaca, alla pedagogia della lentezza, alla pedagogia slow, genitori e scuole slow.[14] Pedagogie che sono l’opposto del tasto play e degli schermi. Rallentare il tempo come esperienza di felicità. Pedagogie che banalmente ci ricordano che prima viene l’obiettivo, poi l’attività e poi il tempo (mentre oggi prima viene il tempo, che si riempie con attività di cui poi forse si esplicita l’obiettivo, se qualcuno proprio lo richiede).

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta


Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Elogio dell’educazione lenta

Elogio dell’educazione lenta


Slow school. Pedagogia del quotidiano

Slow school. Pedagogia del quotidiano

Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita

Pedagogia della decrescita

Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più.[15] Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci: «Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione?

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Oggi forse è importantissimo educare contro corrente con lentezza, perdendo tempo. Non si tratta di una pedagogia rivoluzionaria ma conservatrice ancorata ad antichi valori etici. Per parafrasare la Arendt si tratta oggi di educare in modo da conservare nei nuovi venuti la capacità di amare il mondo, di rinnovarlo e mettere in ordine il mondo.

Possiamo forse ancora credere nell’ideale dell’educazione di Decroly osando una pedagogia orientata dall’autorità della testimonianza? Non si può essere autoritari. Questa è la sfida. Le nuove generazioni fuggono questa autorità. Immediatamente. La fiutano da lontano, la riconoscono, la deridono. Di questo non possiamo dolerci e per fortuna non possiamo ricorrere a forza e violenza. Rimane invece per fortuna la possibilità bella e difficile di richiamarci alla autorità della testimonianza. Seguire le testimoni illuminate. Bell Hooks e Alice Miller[16] propongono proprio la figura del testimone illuminato capace di educare all’amore e trasmettere speranza rompendo le catene della pedagogia nera e di contesti familiari disfunzionali.

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Solo nella misura in cui in cui vediamo i nostri limiti e i limiti di questo mondo, la resurrezione (intesa non come il prolungamento della vita dopo la morte ma come la pienezza della vita e la dilatazione del presente) ci dà l’autorità di educare. È come se ci fosse un’altra realtà, noi sappiamo che c’è e la desideriamo perché ci è stata testimoniata e sentiamo che abbiamo un destino ulteriore. Quando mettiamo al mondo il mondo, quando scegliamo una relazione educativa lo facciamo per amore non tanto di questo mondo (né per avere un figlio, né per prolungare noi stessi) ma per amore della vita che è oltre questo mondo. Qualunque bambino/a ci rallegra perché cogliamo la figura di un futuro in cui riporre il meglio che ci è stato tramandato. La crisi dell’autorità disvela quindi anche il carattere religioso (spirituale o esistenziale, a seconda delle visioni) dell’atto educativo. Abbiamo fede/fiducia che le generazioni nuove venute potranno fare meglio, potranno migliorare il mondo – secondo la testimonianza dell’amore. E quindi nell’educazione amiamo la vita e non il mondo, o quel mondo che è oltre (prima? dopo?). L’educazione, così intesa, sarà una guida alla coscienza, alla coscienza (ma non di un qualcosa – questa sarebbe ideologia) bensì alla consapevolezza dello scarto tra il mondo così come è e il mondo di amore per cui educhiamo. L’educazione, quando faticosamente cerchiamo di seguire i maestri e le maestre testimoni illuminati d’amore – altro non è che un perdere tempo nel cercare (spesso errando) di dare una mano o di passare il testimone.

Simone Lanza

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Intervento di Simone Lanza alla giornata teologica Giovani Miegge, Pratiche di resurrezione tra speranza e predicazione, 21/8/2015 Torre Pellice, aula sinodale. Testo già pubblicato sul blog 400 colpi alla pagina: https://400colpi.net/2015/11/08/perdere-tempo-per-educare/

[1] Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993.

[2] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Feltrinelli, Milano 2004.

[3] Ovide Decroly, Una scuola per la vita attraverso la vita [1921], Loescher, Torino 1971: «Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre la cause di malintesi, i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».

[4] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014.

[5] È nota la dichiarazione di un direttore della televisione francese che spiegò molto chiaramente il ruolo della TV e il suo rapporto con al pubblicità: «Per fare sì che un messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore […] ciò che vendiamo alla CocaCola è tempo di cervello umano disponibile»; citato in: Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo [2004], Elèuthera, Milano 2006.

[6] Ray Bradbury, Veldt, in Meraviglie del possibile [1950], Torino: Einaudi, 1959.

[7] Hannah Arendt, Crisi dell’educazione [1961], in Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970.

[8] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[9] Juliet Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità [2004], Apogeo Editore, Milano 2005.

[10] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[11] Daniele Novara, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, Milano 2013.

[12] Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli, La scuola e l’arte di ascoltare: gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano2014.

[13] Convegno Les enfants face aux écrans, Paris, 30 aprile 2014 (video completo su youtube).

[14] Ecco alcuni tra più interessanti studi sull’importanza di una educazione lenta: Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna 2008; Carl Honoré, Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza, Rizzoli, Milano 2009; Joan Domenéch Francesch, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia 2011; Penny Ritscher, Slow school. Pedagogia del quotidiano, Giunti, Firenze 2011; Valerio Pignatta & Paolo Ermani, Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terranuova Edizioni, Roma 2011; Fabrizio Manuel Sirignano, Pedagogia della decrescita: l’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2012.

[15] Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio Editore, Palermo 2014.

[16] Bell Hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni [2000], Feltrinelli, Milano 2003.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Dove prende forma la felicità se non nell’incontro? Scopriamo allora in noi la virtù dello sguardo profondo che guarda nell’altro la “totalità” dove i più, invece, vedono solo “frammenti”. Saper guardare è “tenerezza” del logos che non rifiuta i suoi inciampi e i suoi limiti, ma ha fiducia nell’approssimarsi all’alterità, perché ha rinunciato all’autoreferenzialità e a ogni narcisistica postura.



«Nella domanda che nasce, si alimenta e dimora la filosofia. Invece, soprattutto in ambito accademico, perplessità e domande sembrano essere diventate qualcosa da temere a fronte della minacciata ostracizzazione da parte della comunità scientifica, che pretende una produzione “in serie” della conoscenza, oltre alla coerenza, alla verificabilità, e alla ripetibilità di procedure calcolabili: operazioni senza resto. […] Io parlo di quel resto, e cioè di quanto del riferimento antico eccede l’utilità scientifica, anche solo su un piano intuitivo, abitando invece una dimensione più simbolica e sacra, più umana o, anche, spirituale. […] Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile […]. La filosofia del tragico riguarda una spinta tutta simbolica e mitologica di aderenza alla vita. […] Questo lavoro intende dimostrare come per praticare la filosofia sia assolutamente inevitabile e necessario sporcarsi le mani immergendole nella materia mitologica, rivelando uno sguardo diverso anche su materie settoriali e molto ben standardizzate, che non siamo soliti trattare con un orientamento filosofico. […] La filosofia del tragico ci costringerà inevitabilmente a mettere in discussione tutto ciò che viene avulso dal mondo, nel parlare del mondo, e cioè, avulso dal divenire».

Alessandra Filannino Indelicato, Introduzione



Alessandra Filannino Indelicato

Per una filosofia del tragico

Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco

Prefazione di Claudia Baracchi

Mimesis Edizioni, Milano 2019, pp. 216, Euro 20




«Pochi sanno che Dioniso, il nume tutelare del teatro antico, è padre tanto della tragedia quanto della commedia, e che nel teatro della vita, proprio come durante uno spettacolo, abbiamo il compito di guardare, capire e fare spazio a ciò che succede, nostro malgrado. […] Coprendo e ricoprendo l’autentica densità del mito in se stesso, ammutolendolo e assottigliandone la profondità, non facciamo che seguire una modalità consumistica, anche di ricercare e di studiare».

Ancora sentiamo levarsi dall’Antica Grecia il terribile pianto di un capro sacrificale. Alle urla strazianti di dolore si uniscono i canti commossi e le danze sfrenate in onore di Dioniso: la tragedia nasce come un sacro rituale di compartecipazione al ciclo di vita, morte e rinascita. Nell’epoca del consumismo e del “tutto subito”, abbiamo urgente bisogno di una filosofia del tragico, aperta alla complessità simbolica della vita. In questa direzione, l’Euripide di Baccanti ci consegna un Dioniso δαίμων (daimon), mediano, misterioso e contraddittorio; incarnazione dell’eccesso panico così come maestro di una puntuale presenza all’istante – l’autentico compito di ogni filosofia. Dioniso lo Straniero, ma secondo soltanto ad Atena nei festeggiamenti; Dioniso l’Androgino, l’irrazionale, l’addolorato: molteplici nomi tentano di definirlo, nessuno riesce mai a comprenderlo. Perché la filosofia dovrebbe dunque, e provocatoriamente, occuparsi del tragico? Cosa significa rispondere a una vocazione al dionisiaco? E perché questo ci riguarda?



Indice

Prefazione. Nello specchio di Dioniso
di Claudia Baracchi

Introduzione
Filosofie del tragico, mitologie e scienze umane

Prima parte

Capitolo I

La filosofia del tragico: scenografie rapsodiche, panorami insoliti

  1. Al cuore della filosofia del tragico: etica comefilosofia prima e vita filosofica
  2. Il tragico dell’origine: spinte genealogiche e miti originari a partire da Esiodo
  3. Appunti su μῦθος (mythos) e ἀλήθεια (alḕtheia) nellaRepubblica di Platone
  4. Sulla μίμησις (mìmēsis), sulla vita: Aristotele e l’arte omeopatica delle passion
  5. Cantando il capro, cantare la vita:Nietzsche e la tragedia come paesaggio d’anima
  6. Per un tragico entelechiale: il contributo di Ernst Bernhard
  7. Tracce e risonanze junghiane e kerenyane per una filosofia del tragico
  8. Nicole Loraux e la voce addolorata della tragedia antica

Capitolo II

Introduzione a Dioniso, il nume tutelare del teatro antico

  1. Dioniso il tragico, Dioniso il comico: una scelta di campo
  2. Feste rituali e festeggiamenti in onore di Dioniso
  3. Morte e rinascita come πολυμορφία (polymorphìa)

11.1 Il Polinomio: innumerevoli nomi, innumerevoli identità

11.2 L’animale, l’agreste e il vegetale: simboli sacri e rappresentazioni mondane

11.3 Δίγονος (Dìgonos) e Πενθεύς (Penthéus):il “nato-due-volte” e il “dio dalle insopportabili sofferenze”

11.4 Sussurri e segreti sui misteri dionisiaci: gli ἀπòῤῥητα (apòrrhēta)

Seconda Parte

Capitolo III

Ermeneutica simbolica e filosofia del tragico Dioniso nelle Baccanti di Euripide

  1. L’esercizio e il suo contesto
  2. Leggere il tragico

13.1 “Eccomi a Tebe”. Una divinità daimonica

13.2 “Dioniso, chiunque egli sia”. Un’identità inafferrabile

13.3 “Io lo vedevo e lui vedeva me” La disperante ambiguità dei dialoghi

13.4 “Un dio non dovrebbe assomigliare agli uomini nell’ira”. Dioniso, troppo umano

Conclusione. L’uscita danzante

Nel passaggio da εὐδαιμονία (eudaimonìa) a ἐνδαιμονία (endaimonìa)

Postfazione.
La tragedia che siamo, la tragedia che dovremmo essere consapevoli di essere
di Romano Màdera

Bibliografia




«[…] Alessandra Filannino Indelicato nella figura di Dioniso interroga la vita tragica, che è la vita in quanto tale, così come noi la conosciamo. Tragica perché sempre sul punto di andare in pezzi, tenuta insieme soltanto da uno sguardo che ne colga nessi e strutture là dove, nel fitto degli avvicendamenti e dei coinvolgimenti, ci adoperiamo ciecamente. Tenuta insieme da uno sguardo che ne colga l’unità narrativa, la sensatezza, la necessità. […] Ed è qui che la vita tragica, A. Filannino Indelicato ci mostra, si fa una con la vita filosofica, con l’impegno a una vita consapevole. E con la cura, l’accudimento. La vita tragica contemplata, attraversata con consapevolezza, è vita accompagnata, non lasciata allo stato brado ma coltivata, lavorata, esercitata: non lasciata sola ma seguìta, ricordata, riaccordata, raccontata, curata. […] La proposta di Alessandra Filannino Indelicato colpisce per audacia, urgenza e verità. Perché chiama a più livelli a un rinnovamento e a una serietà».

Claudia Baracchi, Prefazione.

*
***
*

«Questo libro è un contributo serio e generoso alla rinascita e al rinnovamento della filosofia come modo di vivere e, quindi, come insieme di pratiche filosofiche. Un contributo che rinnova ritornando, secondo una lezione classica che riconosce la rivoluzione proprio mentre ne rintraccia la più oscura genealogia. Qui, a differenza del reperto archeologico, portare alla luce, esporre all’aria, non dissolve, ma fortifica e acuisce la capacità di vedere».

Romano Màdera, Postfazione.




RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento speciale va a tutti gli amici che mi hanno incoraggiato a portare a termine questo lungo lavoro, durato quasi sei anni. In particolare, a chi mi ha aiutato nella revisione del testo: Marina Barioglio, Elena Bartolini, Andrea I. Daddi, Donata Feroldi, Luca Grecchi. Grazie a Claudia Baracchi e Romano Màdera, maestri dalla grande anima e insostituibili, ai quali sarò grata per tutta la vita. Agli amici immensi: Amos Badalin, Carmen Cocco, Gloria Diffidenti, Fabio Galimberti, Tommaso Giovenzana, Giusi Negroni. E a tutti gli amici di Philo. Grazie della philia. Un anemone e una viola a D., e un grazie per accompagnarmi alla scoperta di Dioniso, grazie per essere rimasta. Anche a te, Chandra, donna sangue-carezza, alla tasca di cangura, perché le tue poesie salvano me e molte altre, anche se, forse, tu continui a non saperlo davvero. Ermione, quanto ti devo? Mi hai adottato, piccola e selvaggia felina, maestra d’altrove, famiglia. Fabrizio, grande anima, la tua umiltà e il tuo cuore mi hanno insegnato a temere meno l’esposizione, e a legittimarmi l’arrivederci: e ora guarda, guarda tutto questo e il nuovo e l’America e tu, la tua America e le nostre gatte. Alle Filannino, donne che corrono coi lupi, in special modo alle mie sorelle Michela e Manuela, a mia cugina Marilena e, ovviamente, alla grande Lena, mia madre, che avrebbe voluto studiare psicologia e greco antico. Ai miei nipoti, tutti quanti, con la preghiera che si involino all’ascolto appassionato del loro daimōn. In ultimo, un grazie a chi, pur non conoscendomi, deciderà di spendere un po’ del suo tempo per leggermi.

Alessandra


Salvatore Bravo – La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione. Non vi sono più valori universali, non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. La tirannia del merito uccide la democrazia. La meritorietà è altro rispetto alla meritocrazia.

Salvatore Bravo

La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione

Non vi sono più valori universali, per cui non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. La tirannia del merito sta uccidendo la democrazia. Già nel 1958 Michael Young inventava questa parola nel suo romanzo distopico Rise of the Meritocracy [L’avvento della meritocrazia] in opposizione all’’esaltazione ideologica del principio del merito.

 

Meritocrazia

La parola “meritocrazia” è una delle parole più abusate e meno pensate nel sistema attuale. Il neoliberismo usa le parole come feticci, divengono dei catalizzatori di consenso non mediati dalla pubblica discussione. Il nuovo dogmatismo con le sue “prescrizioni religiose” è intessuto di parole che parlano attraverso gli ignari sudditi. Le parole disegnano mondi, organizzano le geometrie degli incontri e, specialmente, inscrivono confini tra inclusi ed esclusi o tra vincenti e perdenti. L’ordine del discorso costruisce gabbie invisibili nelle quali i soggetti sono gerarchizzati. Il loro consenso è strappato mediante la ripetizione continua delle parole-mantra e con l’oscuramento del pensiero critico. Le parole sono gli anelli che costruiscono e forgiano un’invisibile catena.

Il termine “meritocrazia” è uno dei termini più antidemocratici che il sistema liberista utilizza. Il merito (dal latino mereor: guadagnare) è associato al potere (crazia: kratos). Il singolo che raggiunge taluni risultati socialmente riconosciuti con la sua volontà e con il suo impegno è premiato col potere.

L’individualismo più spinto e astratto occulta che il merito dell’individuo è sempre legato alle istituzioni, al gruppo sociale di appartenenza e alla famiglia di provenienza. Il successo del singolo è il risultato di una cornice di relazioni positive, la meritocrazia è il mezzo con cui eliminare la società in nome del solo atomismo sociale. Il soggetto si autocrea al punto da meritare il potere.

La meritocrazia giustifica la gerarchia sociale, i più meritevoli ricevono l’investitura feudale, possono gestire personalmente il potere, sono i dirigenti del sistema indiscussi e indiscutibili, poiché nel campo di battaglia della competizione sono stati duri e competenti al punto da sbaragliare i contendenti.

La meritocrazia è negazione della democrazia sociale e reale.

La democrazia è potere collettivo e comunitario. Il potere, stile leader, invece, consegnato al singolo diviene antidemocratico, poiché è riposto in un singolo dal quale tutto dipende, i sudditi devono obbedire ed eseguire. Si esclude, quindi, dalla condivisione e dal controllo l’esercizio del potere che diviene dominio e gerarchia.

La linea è tracciata: nell’Empireo vi sono i nuovi signori e padroni, in basso i servi della gleba colpevoli di non essere resilienti. La gerarchizzazione si struttura con un processo linguistico non mediato dall’uso della pubblica ragione. In una democrazia un singolo non ha potere, si mette al servizio della comunità nel pubblico e nel privato come prevede la nostra Costituzione. La democrazia è una sinfonia a più voci, in cui il merito non interrompe la sinfonia, ma affina la corale musicalità, la meritorietà lavora per innalzare il livello medio della consapevolezza e della partecipazione, la meritocrazia introduce il razzismo senza razza, consegna i perdenti nel limbo della passività. La meritocrazia è cacofonica, è rottura dell’armonia, l’individuo canta a voce sola, silenzia le altre voci, è violenza legalizzata. Essa i principi costituzionali per diffondere il disprezzo e la paura per i perdenti-poveri. L’aporofobia, la paura dei poveri, e la violenza che ne consegue è il risultato della meritocrazia: potere ai meritocratici, l’abisso della precarietà ai perdenti.

L’astratto non consente di comprendere che la povertà è l’effetto della cattiva distribuzione della ricchezza, quest’ultima non è da intendersi solo in senso materiale, ma come opportunità formative sempre più legate al censo e meno al merito reale.

 

Meritorietà

La meritorietà è altro rispetto alla meritocrazia, è il premio senza il potere-dominio. È il riconoscimento sociale di una differenza, ma all’interno della cultura del servizio. I meriti personali non devono assediare le istituzioni democratiche e l’uguaglianza giuridica. Meritorietà è cultura dell’opportunità, è libertà di mettere in discussione il sistema. La meritocrazia è investitura con concorsi e selezione del personale nel quale chi vince la selezione è organicamente orientato a riprodurre il potere e il sistema sociale. Dinanzi a coloro che per “merito” sono i selezionatori sono vocati a dimostrare le loro competenze e a rassicurare di riprodurre il dominio.

La meritorietà spogliata del potere consente la libertà e l’uso pubblico della ragione: coloro che occupano posizioni di vertice, se detengono un potere minimo non possono impedire la ragione critica che innova il sistema, svela le contraddizioni e orienta verso il nuovo. L’uomo e la donna soli al comando sono l’immagine e la verità di un sistema che ha scelto il dominio e ha rinunciato alla democrazia.

Alla parola meritocrazia dobbiamo sostituire la parola meritorietà, in quanto in una democrazia il potere spetta non ai singoli, ma alle istituzioni etiche governate, vissute e pensate dalla comunità.

Il Ministero dell’istruzione ribattezzato Ministero dell’istruzione e del merito dovrebbe preoccupare tutta la comunità democratica. La meritocrazia nella scuola può tradursi, nel clima presente, in esclusione degli alunni socialmente deboli, e un’ulteriore spinta verso la verticalizzazione della scuola, la quale da istituzione etica e comunitaria rischia di diventare luogo anonimo in cui si sperimenta il neofeudalesimo e si abituano alunni e personale alla normalità del dominio dei dirigenti.

La meritocrazia è il nichilismo nella forma della competizione. Non vi sono più  valori universali, per cui non resta che la forza del censo a guidare l’atomistica delle solitudini. Il potere come dominio è ciò che resta dopo l’abbattimento violento di ogni metafisica e di ogni verità.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Ricordare il futuro. Ricordare Costanzo Preve significa renderlo compagno di viaggio nel presente. La filosofia è radicale, poiché i suoi testimoni vivono – nel loro tempo storico – il futuro, e proprio così smentiscono l’ideologica affermazione secondo cui “non c’è alternativa”.


Salvatore Bravo

“Ricordare il futuro”.

Ricordare Costanzo Preve significa renderlo compagno di viaggio nel presente.

L’attività del pensiero è intenzionalità significante, pertanto i veri pensatori nascono a nuova vita nella razionalità che li accoglie.

Ogni vero filosofo è al servizio dell’umanità: rielabora il passato per comprendere il suo tempo e nel contempo vive con la sua opera le potenzialità che i più non scorgono.

Non siamo chiamati ad essere eroi del cambiamento e della trasformazione, ma ad essere gli umili lavoratori che assediano il dominio capitalistico dall’interno e che testimoniano con la loro vita e attività il “no” al valore di scambio. Non è soltanto un “no” teorico, ma è reale testimonianza nella comunità di un futuro possibile. La filosofia è radicale, poiché i suoi testimoni vivono – nel loro tempo storico – il futuro, e proprio così smentiscono l’ideologica affermazione secondo cui “non c’è alternativa”.

Costanzo Preve fu tutto questo.

Progetti che non siano già vissuti nel presente rischiano di essere percepiti come distanti. Testimoniare significa anticipare quello che potrebbe essere nel tempo che verrà. La responsabilità verso il futuro non può aspettare, per questo è indispensabile il pensiero complesso contro il tatticismo tecnocratico. La responsabilità è un atto razionale e immaginifico: si esplora il proprio tempo storico per guardare le potenzialità e pensarle con la forza del concetto.

***

Ricordare un pensatore significa renderlo compagno di viaggio nel presente, solo in tal modo il suo pensiero può dispiegarsi verso ciò che verrà. Non si tratta di venerazione idolatrica, nulla è più distante dalla filosofia, ma di confronto dialettico e plastico. Pensare un autore non è solo condivisione di concetti e prassi, ma è, anche, confliggere, discorrere fino a prendere le distanze da errori e posture ideologiche.

Il nuovo ha il suo “humus” nell’incontro-scontro, si tratta di un urto fecondo dal quale possono emergere nuove prospettive. Nessun autore “resta nell’astratto” della mente: pensare, in filosofia, è prassi critica. I concetti si concretizzano nell’effettualità della storia ponendo un proficuo circolo dialettico nella pienezza della materialità storica.

L’attività del pensiero è intenzionalità significante, pertanto i veri pensatori nascono a nuova vita nella razionalità che li accoglie.

Il 23 novembre del 2013 Costanzo Preve ci ha lasciati. Ma la morte di un pensatore originale non conclude e chiude la sua fioritura concettuale, in quanto le sue idee possono germinare al sole della critica e della ricerca. I concetti sono rizoma da cui possono nascere possibilità inesplorate e sconosciute allo stesso autore. Vi sono inconsce possibilità nella teoretica di un autore che attendono “socratiche levatrici”. Ripensare un pensatore è un viaggio fenomenologico, in cui il passato e il presente si intrecciano con il futuro.

Nelle parole e nei concetti di Costanzo Preve vi è il nostro tempo storico pensato con la mediazione dialettica.

Non desidero qui soffermarmi sui testi pubblicati o solo sull’analisi critica del capitalismo, ma si vuole porre in atto un riorientamento gestaltico: cambiare prospettiva e palesare gli aspetti progettuali della riflessione di Costanzo Preve attraverso le sue interviste. Queste ultime si connotano per la spontaneità colloquiale non disgiunta dalla chiarezza concettuale. Le interviste consentono di cogliere nella concretezza della parola che prende forma l’autenticità del fare filosofico, il quale è logos, e quindi comunicazione che interroga il presente per delineare il futuro. La vita della coscienza si estende, attraversa la barriera del tempo e vive la vita che verrà. Il concetto diviene, in tal modo, responsabilità verso l’umanità del presente e del futuro. Ogni vero filosofo è al servizio dell’umanità: rielabora il passato per comprendere il suo tempo e nel contempo vive con la sua opera le potenzialità che i più non scorgono.

Filosofare è diventare i custodi dell’umanità, conservarne il nucleo creativo che emerge dall’agorà, senza pretese di esclusività proprietaria. Il logos è parola nella quale l’individualità cede il passo all’ascolto comunitario senza il quale il pensiero si desertifica nella malinconia della solitudine senza concetto.

La filosofia non è solo “domandare profondo”, ma è anche fatica della risposta.

La fatica del concetto è l’incontro tra domanda e risposta. I campi semantici del pensiero si aprono al tocco della domanda che cerca la risposta senza chiusure d’orizzonte.

Vi sono nel pensiero previano ipotesi e abbozzi progettuali, con essi ci si deve confrontare. Si possono dischiudere spazi di discussione e riflessione che mancano nel nostro quotidiano segnato dal capitalismo nella sua fase annichilente segnata dall’illimitato divorare-saccheggiare umanità e risorse. Il nichilismo crematistico è “non essere”, ovvero, sradicamento dal tempo storico e derealizzazione.

A tale esiziale assenza di senso dobbiamo rispondere con risposte che possano favorire la prassi della filosofia, la quale è prassi critica e processo di trasformazione individuale e storico e questo non può che rendersi reale nel connubio domanda-risposta.

Lavoro e guerra

Il punto imprescindibile per Costanzo Preve è il lavoro, il quale non è riducibile a semplice produzione o reddito, ma è espressione dell’identità olistica di ogni soggettività. Il lavoro è riconoscimento ed autoriconoscimento senza i quali non vi è dignità, ma solo una lenta discesa nella reificazione. L’hegelo-marxiano Costanzo Preve non può non mettere il dito-parola nella piaga del capitale. La svalutazione del lavoro a favore della finanza è giunta al punto che con l’euro nelle situazioni di crisi non si può svalutare la moneta per cui si deprezza il lavoro e con esso l’essere umano. I lavoratori sono merce di poco conto dinanzi al potere della finanza.

L’oligarchia ha svuotato la democrazia del suo senso, in quanto ha condotto una guerra contro il lavoro e i lavoratori. La svalutazione del lavoro coincide con lo stato di sussunzione dei lavoratori e delle classi medie da cui l’oligarchia astrae il lavoro vivo per renderlo astratto. I lavoratori sono i nuovi servi della “glebalizzazione” dominati nella mente e nel corpo:

«Ciò si presenta però in una situazione storica nuova, nella quale assistiamo al completo venir meno della sovranità monetaria dello stato nazionale e, pertanto, all’innesco di dinamiche finanziarie globalizzate non più controllabili. È una crisi di svalutazione del lavoro; essendosi l’Unione Europea basata sull’impossibilità di svalutare la moneta nazionale, in tempi di crisi si svaluta la moneta o il lavoro. O si svaluta la moneta, e questo rende possibile una maggiore concorrenzialità della moneta nazionale, come è stato per duecento anni in Europa, oppure si svaluta il lavoro. In questo momento si sta facendo questo. Ecco l’aspetto più noto della crisi per i lavoratori europei, particolarmente i giovani. Ma le cose che dico sono ben note a tutti. La causa strutturale è che con l’avvento della globalizzazione l’Europa non è in grado di sostenere il modello neo-liberale mantenendo le conquiste sociali del welfare state che hanno caratterizzato il Novecento europeo in tutte le sue varianti: comunista, fascista, socialdemocratica».1

 

La guerra è l’altro volto dell’euro. In un mondo multipolare, l’Europa unita in nome dell’euro e fedele suddita degli Stati Uniti – sono quasi 250 le basi NATO ufficiali sul territorio europeo – non può che cercare compulsivamente nuovi mercati e materie prime. Il primato nel controllo delle aree geopolitiche fondamentali non può che condurre al conflitto con la Russia, la Cina e le altre potenze emergenti. La globalizzazione ha reso il conflitto la normalità delle relazioni tra gli Stati e all’interno dei mercati. Il micro e il macro sono l’espressione della stessa bellicosa sostanza: sfruttamento e plusvalore.

Nella lotta geopolitica per un presente ed un futuro a misura di essere umano, Costanzo Preve distingue le oligarchie dai popoli. L’avversione politica non è mai contro i popoli, è la finanza il pericolo. I popoli sono pedine nei giochi di potere-dominio dei nuovi feudatari cosmopoliti. La chiarezza del nemico è la condizione per l’unità dei popoli nel comune obiettivo di abbattere i nuovi oligarchi globali. L’imperialismo della finanza è antiumanesimo militante, lo scopo è la colonizzazione dei popoli come dei singoli: occupazione violenza delle menti e dei territori per desertificare le differenze in nome dei diritti universali usati come arma contro i resistenti:

«L’euro è stata un’idea sbagliata, un azzardo. È un fallimento che non potrà trascinarsi a lungo e provocherà una divaricazione ancora più forte tra le due Europe, quella del centro-nord e quella del centro-sud. Altra conseguenza prevedibile è il peggioramento della situazione geopolitica in Medio Oriente, probabilmente con il tentativo di distruggere il governo della Siria di Assad e il governo dell’Iran. La tendenza alla guerra è evidente, ma questo non necessariamente comporta una vera e propria guerra come quella contro la Libia o la Serbia».2

Il disordine mondiale foriero di guerre e tensioni è guidato dalla furia iconoclasta statunitense; la quale, in nome della sua presunta superiorità etnico-culturale, vorrebbe guidare le sorti del pianeta. L’ideologia puritano-protestante spogliata di ogni valore trascendente è divenuta la religione mondana della globalizzazione a guida anglofona. L’economicismo crematistico è il cuore della nuova missione divina: bisogna modellare ogni popolo, farne un produttore-consumatore senza verità e bene. Ogni metafisica deve essere desacralizzata, deve restare solo la hybris del consumo. Nessuna identità deve sopravvivere alla furia omologante. La guerra neocoloniale e imperiale conduce dalla Terza guerra mondiale (guerra fredda) alla Quarta guerra mondiale (globalizzazione) come verifichiamo nei nostri tristi e concitati giorni:

«Gli USA hanno vinto due guerre mondiali e la Guerra Fredda, o Terza Guerra Mondiale. Questa vittoria ha permesso di estendere il dominio sui Paesi dell’Europa dell’Est e adesso, con la cosiddetta Primavera Araba, fenomeno completamente occidentalizzante, anche in Medio Oriente. Queste sono due gigantesche vittorie geopolitiche. Non vi sono potenze avversarie e quelle emergenti (Brasile, Russia Cina e India) non hanno intenzione di opporsi in modo strategico. Molto pericolosa è l’ideologia che gli USA portano con sé, un’ideologia puritano-protestante, di origine veterotestamentaria, che li spinge a ritenersi il popolo eletto. Persino i non credenti si considerano parte di questo popolo, eletto dalla Storia e da Dio. È una concezione che si arroga il diritto di portare il bene del mondo attraverso gli interventi militari».3

La missione degli Stati Uniti, incarnazione del capitalismo assoluto, è annientare ogni comunità dalla famiglia alla patria, alla fine di questo processo di distruzione in nome dei soli diritti individuali non deve restare che l’individuo liquido senza legami comunitari, identitari e affettivi. L’opposizione attuale è comunità-individuo, da questa verità si deve partire per ipotizzare un’alternativa storicamente fondata alla bellicosa deriva nichilistica attuale.

Ogni “ismo” dev’essere rigettato, in quanto è veicolo di misologia e violenza. La comunità è il luogo dove sviluppare forme di partecipazione democratica, il pubblico è il centro della comunità, i cittadini sono chiamati ad esercitare il logos e il metron che ne consegue. La salvezza non può che giungere dalla partecipazione democratica: il logos è parola che si moltiplica nella comunicazione. La solidarietà fondata sulla natura umana comunitaria da “definire nella storia” è l’orizzonte verso cui muoversi, è il katechon alla deriva dell’individualismo/capitalismo assoluto che reca la guerra dentro e fuori della comunità ridotta a immenso ipermercato dello spreco:

«Passando al cosiddetto “comunitarismo”, e ricordando ancora una volta che si tratta di un ismo di cui non faccio parte, bisogna distinguere storicamente il suo profilo vecchio ed il suo profilo nuovo. Il profilo vecchio, che ha contrapposto la comunità (Gemeinschaft) alla società (Gesellschaft), è ormai un pezzo archeologico da museo della storia delle ideologie in Europa, ed è legato al conflitto fra l’Inghilterra vittoriana e la Germania guglielmina, come Domenico Losurdo ha brillantemente mostrato in una serie di opere storiche. Il profilo nuovo, che non c’entra assolutamente più nulla con quello vecchio, ormai morto e sepolto, è legato alla dialettica fra individualismo e comunitarismo attuali, o più esattamente al tentativo dall’alto di imporre un individualismo anomico legato alle nuove modalità di consumo e di colonizzazione della vita quotidiana, ed alle resistenze dal basso contro queste strategie di imposizione. Dal momento che questo nuovo comunitarismo, che a differenza del vecchio non presenta più elementi apologetici della gerarchia e dell’organicismo, si struttura e si sviluppa sulla base di strategie e di tattiche di resistenza, inevitabilmente differenziate caso per caso, ne consegue che non c’è nessun bisogno che si cristallizzi un ismo dottrinario con annesse forme di copyright ideologico di identità e di appartenenza. È un’ennesima ragione per respingere, cortesemente ma con decisione, ogni etichettatura dottrinaria di “comunitarismo”. Ma questo non dovrei più ripeterlo, perché mi sembra ormai chiaro, almeno per chi vuole confrontarsi con me in modo non pregiudiziale o polemico a priori. Per quanto riguarda la presunta opposizione fra un essere sociale (società) ed un dover essere sociale (futura comunità solidale senza classi), dichiaro solennemente, da filosofo professionale, di respingerne la formulazione di tipo neokantiano (o se si vuole, bobbiano). È vero che Marx concepisce il comunismo in termini al 100% comunitari, o più esattamente comunitario-solidali, ma è anche vero che Marx, che si richiamava filosoficamente a Hegel e non certo a Kant (più esattamente alla dialettica hegeliana e non certo alle antinomie di Kant o alle dicotomie di Bobbio), riteneva che a questa comunità ideale del futuro non si sarebbe mai arrivati se non esistessero già qui ed ora, nel presente storico in cui viviamo, delle comunità di resistenza e di progetto».4

Pensare per progettare

Non siamo chiamati ad essere eroi del cambiamento e della trasformazione, ma ad essere gli umili lavoratori che assediano il dominio capitalistico dall’interno e che testimoniano con la loro vita e attività il “no” al valore di scambio. Non è soltanto un “no” teorico, ma è reale testimonianza nella comunità di un futuro possibile. La filosofia è radicale, poiché i suoi testimoni vivono – nel loro tempo storico – il futuro, e proprio così smentiscono l’ideologica affermazione secondo cui “non c’è alternativa”.

Costanzo Preve fu tutto questo.

Progetti che non siano già vissuti nel presente rischiano di essere percepiti come distanti. Testimoniare significa anticipare quello che potrebbe essere nel tempo che verrà. La responsabilità verso il futuro non può aspettare, per questo è indispensabile il pensiero complesso contro il tatticismo tecnocratico. La responsabilità è un atto razionale e immaginifico: si esplora il proprio tempo storico per guardare le potenzialità e pensarle con la forza del concetto. Guardare con gli occhi della mente non è sufficiente, è necessario che il logos sia tensione dialettica di ogni sua capacità cognitiva. La totalità è la condizione per rappresentarsi il futuro. La responsabilità è lotta per tenere vivi i legami che dal passato conducono al futuro. Nella storia non vi sono leggi ferree e bronzee, pertanto il futuro è una scommessa aperta, questa è la nostra lucida speranza: lo fu anche per Costanzo Preve.

Elaborare un progetto politico che possa dar conto delle derive in atto non può che fare appello a un diverso modo di testimoniare la filosofia, la quale deve uscire dal politicamente corretto delle accademie per denunciare conflitti e le contraddizioni che inquinano l’ambiente e le menti con le tossine del feticismo delle merci, dei big data e del plusvalore. In questo ambiente alienante i lavoratori sono ridotti all’infimo rango di esercito di riserva: si incentiva la migrazione per poter tener basso il costo del lavoro e organizzare il conflitto orizzontale tra migranti e lavoratori precarizzati. La filosofia deve contribuire a neutralizzare l’ideologia guerrafondaia facendo cadere il velo dell’ignoranza, in modo che i lavoratori tutti possano sviluppare la coscienza di classe.

Non bisogna cadere nell’inganno del biopotere, filosofia popolare e organica al sistema, poiché affermando la circolarità del potere non distingue tra carnefici e vittime. Si rischia di porre sullo stesso piano la “manovalanza costretta all’esecuzione di mansioni di controllo sui lavoratori” e gli oligarchi. La filosofia deve emancipare dalla fascinazione delle filosofie organiche al capitalismo, perché filosofare è campo di battaglia fra le idee:

«Gli ultimi venti anni io li vedo come una specie di orgia del capitale finanziario mondiale, liberato dalla presenza del comunismo novecentesco e dallo stato keynesiano. Questo ha portato a una finanziarizzazione dell’economia incredibile, il cui effetto principale è il lavoro flessibile e precario normale, la vera novità, perché non tocca più solo i vecchi artigiani, ma riguarda tutti; tutti sono esercito industriale di riserva. Naturalmente la corporazione universitaria non si è affatto occupata di questo, si è inventata la biopolitica, come se il problema non fosse il lavoro precario, ma il controllo poliziesco, alla Foucault. Si tratta di un pensiero alla fine del quale risulta che un maestro elementare e una guardia carceraria sono entrambi agenti della repressione: un altro tradimento dei chierici».5

L’ontologia dell’essere sociale è il fondamento metafisico della natura umana. L’alternativa elaborata da Costanzo Preve ha quale punto nodale l’ontologia dell’essere sociale. L’essere umano per sua natura è autocoscienza, è relazione comunitaria con la quale diviene consapevole della sua singolarità concreta, poiché ogni singolarità presuppone la relazione con altre coscienze per definirsi. Riconoscersi significa creare legami: senza di essi gli esseri umani non hanno un volto, non hanno una storia e non possono tradurre in prassi le loro potenzialità. Solo in tale cornice la crescita umana dei singoli, delle comunità e della storia possono essere attualizzate. L’umanità intera è portatrice di possibilità, ma solo ciò che forma alla cura, all’attenzione solidale e al bene sviluppa ciò che è precipuamente umano. Costanzo Preve ha testimoniato l’essenziale in una realtà connotata dalla βρις, l’ontologia dell’essere sociale è umanesimo che si svela e si materializza nella storia:

«Nel mio libro Marx inattuale quando si parla di ontologia dell’essere sociale ci si riferisce alle caratteristiche strutturali dell’essere sociale, indipendentemente dal fatto che sia schiavistico, feudale o capitalistico. Significa considerarlo distinto dall’essere naturale. Quest’ultimo viene indagato dalle scienze della natura, ma cosa li distingue? L’autocoscienza. Mentre l’essere naturale ha una sua storia evolutiva ma non è caratterizzato dal passaggio dall’essere in sé all’essere per sé, l’essere sociale è caratterizzato dal passaggio dalla coscienza all’autocoscienza e questo deve essere messo al centro della filosofia. Ora, nella misura in cui il marxismo a partire da Engels fu fuorviato come Naturprozess e Naturgeschichte, era necessario restaurare l’ontologia dell’essere sociale come centro del marxismo stesso. Accettare tale ontologia significa rifiutare l’inevitabilità del passaggio al socialismo o al comunismo in quanto l’essere sociale, a differenza della natura, ha la possibilità di scegliere e quindi non ci può essere alcuna ineluttabilità nelle trasformazioni sociali, la scelta è sempre fondamentalmente non deterministica».6

L’ontologia dell’essere sociale deve tradursi in prassi politica. Costanzo lo ha dimostrato nella sua Una nuova storia alternativa della filosofia: la filosofia non può astrarsi dalla realtà politica e storica, ma deve cambiare il mondo, deve contribuire alla sua trasformazione senza titanismo. Il filosofo ha indicato tre principi, non contrattabili, su cui stabilire un progetto politico rispettoso dell’universale concreto che coniuga identità e comunità, uguaglianza e differenza, comunità e democrazia:

«La mia bussola di orientamento oggi si basa su tre parametri interconnessi:

  1. a) il principio di eguaglianza massima possibile all’interno di un popolo su diritti, consumi, redditi, partecipazione alle decisioni. Centralità del tema dell’occupazione. Posto fisso preferibile al lavoro temporaneo, flessibile e precario. Diritti eguali agli immigrati (che non significa immigrazione incontrollata). Messa sotto controllo del capitale finanziario speculativo di ogni tipo. Preferenza del lavoro rispetto al capitale. Difesa della famiglia e della scuola pubblica;

  2. b) il rifiuto del colonialismo e dell’imperialismo, che oggi hanno come aspetto principale l’impero USA ed in Medio Oriente il suo sacerdozio sionista, che utilizza per i suoi crimini il senso di colpa dell’Europa e dei suoi intellettuali rispetto al genocidio effettuato da Hitler, che ovviamente non mi sogno affatto di negare. Diritto assoluto alla lotta per la liberazione patriottica (lo stato nazionale esiste, eccome, ed è un bene e non un male, come dicono i seguaci di Negri e del Manifesto) per l’Iraq, l’Afghanistan e la Palestina. Appoggio a tutti i governi “sovranisti” indipendenti (Venezuela, Iran, Birmania, Corea del Nord, Bolivia, eccetera), il che non implica necessariamente l’approvazione di tutti i loro profili interni ed esteri;

  3. c) considerazione dell’elemento geopolitico e rifiuto della sua virtuosa ed infantile rimozione. A differenza di Losurdo, non penso affatto che la Cina abbia una natura sociale “socialista”. Ma la appoggio egualmente, perché un equilibrio multipolare è preferibile ad un unico impero mondiale USA con vari vassalli (fra cui l’Italia è la più servile, con possibile eccezione di Panama e delle Isole Tonga,). Chi appoggia questa cose è per me dalla parte giusta. Se poi si dichiara di destra o di sinistra, questo è affare suo, della sua biografia politica e della sua privata percezione valoriale. Ma la percezione valoriale è un affare privato, come i gusti sessuali e letterari e la credenza o meno in un Dio creatore».7”.

Per realizzare il programma comunitarista è necessaria la logica del movimento e non del partito. Il movimento si distingue dal partito, in quanto si caratterizza per l’osmosi vertice-base. Il movimento deve strutturarsi per la sua organizzazione sul territorio, non dev’essere segnato dalle chiusure lobbistiche dei partiti. I movimenti sono organismi vivi, sono forme di democrazia radicale in cui si impara la libertà e la socratica pratica del logos:

«“Movimento” e non Partito, anche se ovviamente un movimento organizzato funziona poi come un partito, in quanto deve avere strutture di direzione chiare, riconoscibili, democraticamente elette e democraticamente revocabili. Questo non implica assolutamente “movimentismo”. L’opposizione astratta fra movimentismo e partitismo è pura metafisica scolastica. Tuttavia, linguisticamente, il termine “partito” indica maggiormente una “rappresentanza”, o di interessi economici o di missione storica (anzi, sovrastorica), mentre il termine “movimento” indica maggiormente una “attivazione” che intende favorire aggregazioni».8

Preve filosofo della prassi

La partecipazione comunitaria dev’essere finalizzata a trascendere la “democrazia oligarchica” per concretizzare il comunitarismo democratico, a tal fine è bisogna imparare l’arte della resistenza. Non si impara a resistere e a pensare nell’individualismo spregiudicato del mercato. La possibilità c’è, ma è estremamente rara e difficile. L’essere umano necessita di relazioni positive e di comunità nelle quali sia riconosciuto nella propria differenza sul sostrato dell’universale comune.

Si impara a non sentirsi stranieri e monadi, ma a sentirsi razionalmente parte dell’universale mediante la famiglia, le istituzioni, la patria e l’umanità in un positivo crescendo dialettico. La consapevolezza della comune umanità motiva alla lotta: non ci si percepisce più come atomi impotenti, ma come umanità in cammino.

La resistenza si impara praticando il logos e ponendo all’esame della pubblica discussione l’atomismo nichilistico del capitalismo assoluto. Il comunitarismo è dialettica democratica, la quale non può che essere perennemente minacciata dagli oligarchi e dalle loro manipolazioni artatamente organizzate:

«(I) Resistenza alla dittatura oligarchica dell’economia capitalistica, senza un’imposizione contestuale di un solo profilo ideologico che dovrebbe fare da unico fondamento legittimo di questa resistenza. (II) Resistenza all’attuale struttura imperialistica del mondo, di cui l’impero militare americano non è che l’odierno aspetto dominante, ma che certamente non è l’unico o quello cui bisogna ricondurre tutto. (III) La scelta di tenersi integralmente fuori dal bipolarismo, non per ragioni di principio astoriche eterne, ma sulla base di un giudizio politico determinato, che potrebbe anche essere modificato in futuro se cambiasse il panorama politico europeo e mondiale».9



La resistenza è il concetto incarnato dalla storia dal cui rizoma germinano le potenzialità occultate dall’individualismo assoluto.

Lo scopo della filosofia nell’attuale congiuntura storica è l’elaborazione di un progetto anticapitalistico.

Il capitalismo è negazione della natura umana e del logos.

Il logos è la materializzazione della natura umana, esso è misura del necessario, esodo dalla distruttività dell’illimitato.

Il capitalismo assoluto – espressione utilizzata da Costanzo Preve per indicare l’attuale fase del neoliberismo – non implica l’ipostatizzazione del capitale e il trionfo del valore di scambio. La definizione di capitalismo assoluto denota il tentativo del capitale di eternizzarsi con la cultura dell’astratto e con l’assimilazione di ogni forma di vita e cultura all’interno del solo valore di scambio, al punto che il capitale non vede che se stesso, fino alla fanatica illusione di essere il punto finale della storia. Il capitalismo è inclusivo, non lascia nulla fuori di sé, vorrebbe essere l’ultima parola, è il nulla che avanza nel consumo dell’umanità e del pianeta: alla fine del suo percorso ogni traccia di umanità e storia sarà cancellata per sempre.

La natura umana non può essere annientata, ciò è reso palese dai resistenti come dal malessere psicologico diffuso; quest’ultimo è il sintomo che l’attuale sistema economico non è a misura di essere umano, ma lo nega con la sua violenza crematistica e narcisistica.

Progettare è conoscere filosoficamente il capitale, è organizzare la resistenza. Costanzo Preve è nel nostro presente, le sue analisi attendono le nostre risposte e il nostro impegno. I filosofi sono scomodi ed inquietano, in quanto ci rammentano il dovere di agire anche ad un passo dall’abisso: si è umani per questo.

Non fu oratore al capezzale del potere

Non fu un oratores al capezzale del potere, non raccolse le briciole che cadevano dalla tavola del dominio. Ha portato nel presente la filosofia quale attività politica autonoma. L’indipendenza del pensiero l’ha pagata con un volontario isolamento. Ha dimostrato che la possibilità di deviare dal politicamente corretto è realtà, se ci assume la responsabilità di testimoniare nel presente una tradizione millenaria senza mummificarla.

La filosofia del futuro, coerentemente con la sua storia migliore, dev’essere autonoma pur partecipando alla prassi del mondo, non può appiattirsi all’interno di una cornice ideologica. L’intellettuale organico non è mai libero, ma è al servizio dell’istituzione – o del partito nei migliore dei casi –, ma facilmente “il servizio ad una causa” può diventare “servitù volontaria o involontaria”.

Il filosofo deve conservare una carsica anarchia creativa che lo induce ad una distanza critica e costruttiva dalle trappole del potere. La filosofia deve denunciare le derive ideologiche e condurre verso la fatica del concetto con la sua inesauribile dialettica. Non fu un intellettuale secondo i canoni attuali, ed è l’eredità più rilevante che il filosofo ci consegna per il futuro:

 

«Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare».10



Il filosofo vive la pienezza della “dynamei on”, testimonia che la possibilità del logos e della buona vita è di tutti, ma nel filosofo è realtà vivente nel presente. Non detiene verità indiscutibili, ma è la consapevolezza che il presente non è tutto. Il capitalismo e l’individualismo assoluto sono forme storiche nelle cui pieghe e contraddizioni dolorose vi è il mondo che verrà, ma per poterlo scorgere è necessario confrontarsi con i filosofi e con gli uomini e le donne che vivono nel presente la concretezza di un’esistenza nella quale la parola è dono, cura e riconoscimento dell’altro.

Questo è stato Costanzo Preve con le sua umane imperfezioni e il coraggio di divertere dalla dittatura del politicamente corretto.

Il futuro non vive nella cancellazione del passato, ma nella continuità-discontinuità: bisogna discernere ciò che dobbiamo portare nel futuro da ciò che bisogna abbandonare. Costanzo Preve è punto di riferimento per questa operazione complessa e problematica di continuità-discontinuità.

Fondamentale, perché vi sia un futuro, è non segare l’albero su cui siamo seduti:



«Ragioniamo piuttosto sulla metafora del “ramo”, che solo uno sciocco segherebbe se c’è ancora seduto sopra. Ma siamo proprio sicuri che ci siamo ancora seduti sopra, o piuttosto siamo doloranti da tempo con il culo per terra? E poi, per continuare con la metafora del ramo, tenersi stretti ad un ramo che la corrente impetuosa trascina verso una cascata non è altrettanto stupido?

Io non penso che siamo seduti su di un ramo chiamato “marxismo”. Io penso invece che siamo bensì seduti, ma seduti su di un grande albero frondoso con profonde radici, che è l’albero della tradizione filosofica razionalistica e dialettica, che c’era prima di Marx e ci sarà dopo Marx, e di cui Marx è ancora un ramo fiorito mentre nell’essenziale il marxismo è già da tempo un ramo spezzato, e spezzato dalla storia, non da uno sciocco che ha deciso di segarlo. Le metafore non sono mai innocenti».11

Sta a noi fare in modo che la fioritura e i rami continuino ad esserci: Costanzo Preve è ora uno dei rami su cui poggia il nostro futuro e da cui possiamo intravedere il futuro. La speranza razionale da coltivare nel presente è l’orizzonte in cui dialettizzare le contraddizioni del nostro tempo storico per formare i nuovi soggetti della prassi. La filosofia è speranza razionale, è sguardo della civetta che attraversa il mondo, non è attesa messianica nell’ottica di Costanzo Preve, ma è etica della partecipazione responsabile:

«In quanto alla speranza ne distinguerei due tipi: quella cieca, della possibilità dell’inserzione messianica nella storia di un meteorite comunista (un po’ alla Benjamin) che cade sulla terra (che per me è anche un alibi ipocrita per giustificare la propria mancanza di prassi), e poi c’è la speranza aristotelico-marxiana e cioè che all’interno della vita che stiamo già vivendo si inseriscano degli elementi alternativi che si sviluppano dentro di essa: questa è la speranza razionale».12

Dove vi è filosofia, vi è la Bestimmung, la passione durevole, per la prassi nella quale il presente apre al futuro. Costanzo Preve ha vissuto la filosofia non come esperienza accademica, ma come prassi che orienta al futuro da progettare e costruire nel presente, sta anche a noi ringiovanire il mondo continuando il suo cammino.

1 Intervista a Costanzo Preve: «Filosofia della crisi» Emanuele Guarnieri L’altra faccia della moneta – Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria n. 4/2013.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 Intervista a cura di «Indipendenza», agosto 2007.

5 Intervista a Costanzo Preve, a cura di Franco Romanò, in «Comunismo e Comunità», 2020.

6 Ibidem.

7 Alessandro Monchietto: Intervista a Costanzo Preve (Estate 2010, «SOCIALISMO XXI»), Petite Plaisance blog, 24 ottobre 2015.

8 In «Sollevazione», Di che movimento politico abbiamo bisogno? (inedito) di Costanzo Preve, DIC 27, 2014.

9 Ibidem

10 Costanzo Preve, Autopresentazione di Costanzo Preve [Scritta da lui medesimo] da https://www.filosofico.net/prevesipresenta.htm

11 Intervista a Costanzo Preve di Gianni Petrosillo; Gianluca Amodio; Elianna Zirpoli – 27/11/2006, Arianna editrice

12 Intervista a Costanzo Preve a cura di Franco Romanò, in Comunismo e Comunità pubblicata il 17 dicembre 2020.

Salvatore Bravo – «Il marchio di Caino». Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione dobbiamo liberarci del marchio di Caino dell’utile e della competizione. Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente ogni operazione di «umwälzende Praxis» non può che essere mera apparenza senza effettualità alcuna. Questo è il compito che ci attende.

Salvatore Bravo

«Il marchio di Caino»

Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione
dobbiamo liberarci del
marchio di Caino dell’utile e della competizione.
Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente
ogni operazione di
umwälzende Praxis non può che essere mera apparenza
senza effettualità alcuna.
Questo è il compito che ci attende.

***

Gustav Klimt, La Medicina, 1901-1907.
Particolare a colori di Igea, della serie
per l’Università di Vienna.

La tragedia del tempo presente non ha un centro, non è identificabile una causa prima da cui far discendere con chiarezza logica e adamantina soluzioni e obiettivi. Il nichilismo crematistico è la logica che permea e si infiltra maligno in ogni istituzione. Non c’è un centro, è ovunque, come il dio di Cusano è in ogni punto vivente della realtà storica e contingente. Siamo tutti direttamente coinvolti, benché siano diversi i livelli di consapevolezza e di responsabilità.
Bisogna prender atto che non vi sono istituzioni che possano essere laboratori dove si pensa il tempo storico in cui siamo implicati, dove si colgono le contraddizioni e si elabora un’alternativa.
L’istituzione predisposta a tale operazione etica e politica dovrebbe essere l’Università. L’istituzione universitaria, invece, è parte sostanziale del problema. Al baronato si aggiunge l’adattamento servile al capitalismo e allo scientismo. Essa è l’istituzione nella quale il sistema si riproduce con la fede sempiterna nella forma mentis dell’economicismo aziendale e nel nichilismo crematistico conseguente.
Le giovani generazioni sono addestrate a scegliere le facoltà secondo un ordine e una priorità esclusivamente economica e individualistica. La professione futura è scelta in funzione del reddito. La logica crematistica impera sovrana con i suoi processi di patologizzazione depressiva dell’intero organismo sociale. La si incentiva, la si consolida con l’abitudine alla competizione selettiva. L’iscrizione alle Università diviene il marchio di Caino: ai giovani studenti e alle giovani studentesse si insegna la selezione con i test di ingresso. Devono competere senza sosta sin dagli esordi della vita universitaria. L’altro è il nemico: se cade, si hanno maggiori possibilità di ingresso e di carriera. Le facoltà senza test d’ingresso, sono facoltà irrilevanti per il sistema. Si scoraggia l’iscrizione ad esse: non hanno test d’ingresso, e dunque non sono appetibili per il mercato. Senza il marchio di Caino si è perdenti in partenza.
Il marchio di Caino è impresso sulla pelle e nella vita psichica, gli studenti devono disimparare ogni barlume di vita comunitaria e solidale. Si insegna loro, una volta superato il test, a guardare al mercato globale come ad una possibilità immensa e indefinita di occupazione e carriera. La globalizzazione è intesa come trionfo cosmopolita delle opportunità per i migliori. Naturalmente, spesso, i migliori sono gli studenti e le studentesse che per censo possono attingere alle Università che rispondono maggiormente alle richieste del mercato globale. Quest’ultimo non è fuori l’istituzione, ma è già all’interno. Nelle facoltà si vive secondo i desiderata del mercato, esse sono amministrate con criteri imprenditoriali: lo studente è un cliente, è un bonifico annuale da conservare. Le Università sono, dunque, parte del problema, da esse, in generale non possiamo aspettarci l’elaborazione di un contro-pensiero. Sono piegate e sussunte alla religione del mercato. Non formano la classe dirigente, ma sudditi fedeli, eticamente anonimi.

Filologia filosofica”
Potremmo aspettarci un sussulto di vita critica dalle facoltà di filosofia. Invece, in esse impera la filosofia analitica e l’allevamento al nichilismo. Il relativismo è rappresentato come liberatorio e inclusivo, in realtà si tratta di un’abile operazione ideologica. Se le prospettive si eguagliano, se non vi è un alto o un basso, se tutte le prospettive hanno la loro ragion d’essere, la verità è solo una chimera del passato. L’immobilità politica è coltivata con il relativismo, in quanto prospettive interscambiabili rendono impossibile con la critica radicale la fondazione di un’alternativa al sistema vigente. L’ostilità verso Hegel e Marx ne è la dimostrazione. Tali autori sono ammessi al simposio delle facoltà di filosofia solo se scientemente decaffeinati. Tale deriva è intrinseca all’affermarsi del capitalismo: in Nietzsche vi troviamo la sua chiara codificazione e concettualizzazione. Nietzsche denuncia la sottomissione delle facoltà di filosofia alla religione tradizionale sostituita, oggi, con la religione neoliberista:

«Sulla filosofia delle università.
Il danno prevale.
Il governo non assume gente che contraddice la religione.
Conseguenza: conformità tra la filosofia delle università e la religione del Paese: il che scredita la filosofia.
Esempio: lo hegelismo e la sua caduta.
Scopi del governo nell’assumere professori di filosofia: l’interesse dello Stato.
Conseguenza: la vera filosofia viene misconosciuta e passata sotto silenzio».1

La vera filosofia è radicale, non conosce feticci, ma è iconoclasta. Nelle facoltà di filosofia si erigono feticci, si dogmatizza il tempo presente rappresentandolo come eterno. Si uccide la passione creativa, l’eros platonico, si insegna e si studia ad occhi bassi. Il mercato è ovunque: non possiamo che prenderne atto. Si è installato in ogni punto del sistema istituzionale. In questo modo può prodursi e autoriprodursi con docile certezza. I sudditi sono formati al guinzaglio gerarchico.

L’azione è talmente radicale che nelle facoltà tutte si uccide la passione per le materie di studio con l’approccio analitico.

Ogni esperienza didattica è curvata all’analisi, alla divisione ossessiva in funzione della specializzazione. Si perde la visione del tutto che dona la bellezza e il senso di una disciplina. L’analisi, senza la visione d’insieme, riduce sia un testo e sia un corpo ad anatomia senza senso e bellezza. L’Università è un immenso obitorio.

L’approccio è di tipo filologico, la parte è astratta dal tutto, la parola o l’organo è solo un corpo morto. La visione d’insieme che viene a mancare addestra a non guardare la realtà sociale e storica in cui si è situati. Si insegna l’atomistica dell’analisi che diviene modo di vivere e di pensare. Il soggetto impara a dividersi dal tutto, la comunità è sostituita con l’individualismo astratto. Si pone in atto una vita senza bellezza e senza prassi, poiché bellezza e politica sono nello sguardo che coglie l’insieme. Siamo in un’epoca specialistica e filologica, in cui non vi è né politica né bellezza né passione:

«Aspettarsi dai filologi il più vivo godimento dell’antichità è come aspettarsi dallo scienziato (Naturforscher) il più vivo senso della natura e dall’anatomista il più raffinato senso della bellezza umana».2

L’elaborazione di una critica radicale e di un progetto alternativo non verrà dalle Università, malgrado vi siano eccezioni. Ciò ci deve indurre a un atteggiamento saggiamente anarchico. Solo fuori delle istituzioni, lontani dal guinzaglio del politicamente corretto, è, e sarà, possibile porre in atto la marxiana umwälzende Praxis (che Rodolfo Mondolfo nel suo Sulle orme di Marx,3 traduce «prassi che si rovescia», perché «in luogo d’alterare il genuino concetto marxistico, lo si esprime più integralmente, includendovi anche l’elemento – essenziale e non semplice sfumatura – della Selbstveränderung [autotrasformazione]).
Questa è un’epoca di catacombe, in cui la verità dev’essere elaborata e diffusa all’ombra e nel silenzio, in attesa che la critica e la fondazione veritativa possa trovare le condizioni storiche per un’ampia circolazione. Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione dobbiamo liberarci del marchio di Caino dell’utile e della competizione. Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente ogni operazione di umwälzende Praxis non può che essere mera apparenza senza effettualità alcuna. Questo è il compito che ci attende.

1 Friederich Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869 – Omero e la filologia classica, Adelphi, Milano 1993, p. 162

2 Ibidem, p. 202

3 Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx, Petite Plaisance, Pistoia 2022, p. 97.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – L’umanesimo metafisico dello psicologo Lev S. Vygotskij, che pone al centro la comunità e l’interazione tra il soggetto e la comunità: pertanto lo sviluppo cognitivo linguistico necessita della buona comunità, senza la quale il soggetto è limitato e offeso nella sua evoluzione.

Salvatore Bravo

L’umanesimo metafisico dello psicologo russo Lev Semënovič Vygotskij.

L’essere umano non è riducibile a sola biologia o a strutture di ordine economico; le implica, ma ad esse dona senso e significato con il linguaggio. Vygotskij pone al centro la comunità e l’interazione tra il soggetto e la comunità, pertanto lo sviluppo cognitivo linguistico necessita della buona comunità, della koinè, senza la quale il soggetto è limitato e offeso nella sua evoluzione. Comunità e individuo non sono separabili. L’essere umano per sua natura è comunitario. Lo psicologo russo dimostra che senza la cura della buona comunità il soggetto non sviluppa al massimo le sue potenzialità razionali. La comunità dev’essere luogo di accoglienza e cura delle nuove generazioni.

La scienza non è neutra, i suoi dati e le sue dinamiche sono condizionate dai contesti sociali, economici e dalla formazione educativa dei suoi protagonisti. È comunque possibile estrarre ciò che supera e va oltre le contingenze con l’ausilio del logos.
Le prospettive non sono realtà intrascendibili – esse sono all’interno di contingenze –, ma il logos può elevarsi verso l’universale con il metodo dialettico della filosofia. Tale metodo ha come scopo quello di delineare con sempre maggiore precisione ciò che è approssimativo: è pertanto esperienza linguistica fondante che pone al centro la comunità.
Le verità filosofiche non sono calcoli, ma universali che si elevano dal tempo storico: sono immagini concettualizzate nella storia dell’eterno.
Lev Semënovič Vygotskij (1) è stato non solo psicologo, ma anche pensatore con forte impronta filosofica, precorritore della metafisica umanistica. I suoi studi di psicologia cognitiva sono prossimi alla filosofia, poiché assume come centrale l’essere umano quale soggetto che dà forma al mondo, e in tal modo lo strappa dal caos percettivo, per dar forma ad un’identità storica perfettibile. Il linguaggio è l’ele˝mento che consente l’umanizzazione.
Lo psicologo russo prende le distanze dalla visione botanica (secondo la quale l’essere umano si svilupperebbe spontaneamente come una pianta) e dalla visione zoologica che pone in relazione funzioni biologiche e funzioni superiori nell’essere umano come se fossero presenti in tutti gli animali.
L’umanesimo metafisico dello psicologo russo riporta l’essere umano alla sua differenza qualitativa dagli altri animali non umani, poiché le funzioni superiori (pensiero e linguaggio) sono esclusive dell’essere umano. Il pensatore si differenzia dalla visione botanica che separa l’essere umano dal contesto e ritiene possibile lo sviluppo etico e linguistico in modo spontaneo. La visione botanica in realtà ha l’obiettivo di eliminare le “interferenze” sociali, le quali sono giudicate negative. Rousseau è stato il modello per lo sviluppo della tesi botanica.
Lev Semënovič Vygotskij pone al centro la comunità e l’interazione tra il soggetto e la comunità, pertanto lo sviluppo cognitivo linguistico necessita della buona comunità, della koinè, senza la quale il soggetto è limitato e offeso nella sua evoluzione.
Comunità e individuo non sono separabili. L’essere umano per sua natura è comunitario. Lo psicologo russo dimostra che senza la cura della buona comunità il soggetto non sviluppa al massimo le sue potenzialità razionali. La comunità dev’essere luogo di accoglienza e cura delle nuove generazioni.
Il bene è, in tal modo, posto dal logos che si forma nella comunità.
Il bene è la razionalità linguistica con la quale dare significato e senso all’orizzonte individuale e comunitario.
Il soggetto in formazione non è semplice presenza passiva, non è orcio da riempire con dati e contenuti. Il soggetto in formazione, al contrario, usa il linguaggio e gli stimoli che gli sono stati donati in modo creativo e personale. L’anti-economicismo è palese nel pensiero e nella pratica di ricerca dello psicologo. L’essere umano non è riducibile a sola biologia o a strutture di ordine economico; le implica, ma ad esse dona senso e significato con il linguaggio.
Vygotskij individua tre fasi nello sviluppo linguistico: il linguaggio interiore, il linguaggio egocentrico e il linguaggio esteriore o adulto. La prima fase si caratterizza per il linguaggio gestuale: già in questa fase il bambino, se sostenuto in modo adeguato e consapevole con sollecitazioni positive, è protagonista della trasformazione del linguaggio gestuale in linguaggio egocentrico, il quale si concretizza nei suoi monologhi in presenza degli altri.
Il linguaggio egocentrico è intermedio fra il linguaggio esteriore e quello interiore.
Intorno ai sette anni il bambino matura una seconda interiorizzazione.
Tali passaggi non sono meccanici, non sono iscritti nella biologia, necessitano del supporto biologico, ma senza la cura sociale, possono rallentare fino al prodursi di danni cognitivi permanenti nello sviluppo e nella formazione.
Dal linguaggio egocentrico, dunque, si passa al linguaggio interiore o pensiero. In Piaget l’egocentrismo non ha funzione positiva, è un limite all’evoluzione del pensiero del bambino. Secondo Vygostkij, invece, il linguaggio egocentrico è imprescindibile per giungere al linguaggio adulto.
Il linguaggio è funzione che umanizza, è sostanza dell’essere umano: non a caso il suo sviluppo investe tutte le funzioni psichiche.
Il linguaggio, dunque, è la casa dell’essere umano. Dove vi è linguaggio vi è l’essere umano. Il linguaggio è relazione, partecipazione politica ed ascolto.
L’umanesimo che potremmo definire metafisico di Vygostkij è dunque evidente. Le ragioni dell’ostilità dello stalinismo nei suoi confronti si spiegano con il suo umanesimo metafisico, il quale non rigetta Marx, non ripudia Spinoza, ma anzi ne completa i più loro profondi concetti filosofici con la propria originale speculazione in campo linguistico ed educativo. L’essere umano – e il linguaggio prima di tutto –, dunque, avversando dialetticamente ogni riduzionismo che, in tal senso, nega il fondamento dell’umano e dell’umanesimo:

«Tutte le più alte funzioni psichiche sono processi mediati, e i segni sono i mezzi fondamentali adottati per padroneggiarli e dirigerli. Il segno mediatore è incorporato nella loro struttura come una parte indispensabile, o per meglio dire come il perno del processo totale. Nella formazione dei concetti, il segno è la parola, che da prima svolge il ruolo di mezzo nella formazione di un concetto e successivamente diventa il suo simbolo». (2)

 

Interazione e concetto

Il concetto è operazione linguistica, esso è strumento metafisico. Dove vi è concetto il linguaggio acquisito si evolve in modo divergente. Gli stimoli della comunità e le domande che essa pone, così come l’interrogarsi sui grandi temi, conducono all’interazione concettuale. Il concetto è l’universale con cui si risponde creativamente alle contingenze e si organizzano nuove strategie mai battute in precedenza. Senza linguaggio non vi è trascendenza critica.

Il concetto investe la comunità nella sua storia. Il concetto è condivisione olistica, in quanto esso è interazione con l’esterno e nel contempo interiorità che modifica le funzioni psichiche. Tale attività, precipuamente umana, è possibile solo in un clima di libertà corale. Il linguaggio è attività complessa nella quale vige la logica della interazione creatrice:

«La formazione del concetto è il risultato di un’attività complessa a cui prendono parte tutte le funzioni intellettuali fondamentali. Il processo, tuttavia, non può essere ridotto ad associazione, attenzione, immaginazione, inferenza o a tendenze determinanti. Queste funzioni sono tutte indispensabili, ma non sono sufficienti senza l’uso del segno e della parola, che sono i mezzi con cui dirigiamo le nostre operazioni mentali, controlliamo il loro corso e le incanaliamo verso la soluzione del problema che ci sta dinanzi. La presenza di un problema che richiede la formazione di concetti non può essere considerata di per sé la causa del processo, anche se i compiti che la società pone davanti ai giovani, quando entrano nel mondo culturale, professionale, civile degli adulti, costituiscono indubbiamente un fattore importante nella comparsa del pensiero concettuale. Se l’ambiente non pone tali compiti all’adolescente, se non gli pone nuove domande, non stimola la sua intelligenza fornendogli una serie di nuovi fini, il so pensiero non raggiunge gli stadi più elevati, o li raggiunge con grande ritardo. Il compito culturale tuttavia, di per sé, non spiega il meccanicismo di sviluppo che risulta nella formazione del concetto». (3)

L’approccio di Vygostkij è olistico: non si può separare la parte dal tutto, ma bisogna cogliere le reazioni-azioni tra il soggetto e la comunità. Quest’ultima è una rete di punti di tensione e di produzione di saperi. La qualità della comunità coincide con la capacità di far circolare parole e immagini che possano favorire la concettualizzazione e l’evoluzione psicologica del bambino.

Una comunità che pone al centro il calcolo e l’utile immediato quale paradigma valutativo è destinata, sembra dirci il pensatore russo, all’asfissia concettuale. Senza circolazione dei linguaggi non vi può che essere che la sterilità del nichilismo passivo pronto a mutarsi in violenza e negazione dell’altro. Il linguaggio è il metodo e lo strumento con cui si decodifica il mondo. Senza di esso l’essere umano si disumanizza:

«Il ricercatore deve cercare di capire i legami intrinseci tra i compiti esterni e la dinamica dello sviluppo, e vedere la formazione dei concetti come una funzione di tutto lo sviluppo culturale e sociale dell’adolescente che influenza non solo il contenuto, ma anche il metodo del suo pensiero». (4)

 

Ambiente e linguaggio

Il linguaggio non può essere liquido o ancipite. Una comunità deve comunicare i suoi significati in modo chiaro, non vi devono essere ambiguità. Senza la stabilità del linguaggio il bambino non può essere avviato verso il concetto. Si deve sviluppare una rete sociale positiva. La fiducia del bambino nei significati delle parole è fondamentale, egli deve riconoscere nelle persone che ne curano la formazione l’autorevolezza lessicale. Un linguaggio instabile favorisce la schizopatia linguistica, non permette ai significati di consolidarsi e di essere esplorati nelle sue possibilità significanti:

«Il linguaggio dell’ambiente, coi suoi significati stabili, permanenti, indica la via che le generalizzazioni del bambino prenderanno. Ma, pur così coartato, il pensiero del bambino procede lungo questo cammino preordinato nel modo che è peculiare al suo grado di sviluppo intellettuale. L’adulto non può trasmettere al bambino il proprio modo di pensare. Egli gli fornisce semplicemente il significato già pronto di una parola, intorno a cui il bambino forma un complesso, con tute le particolarità funzionali, strutturali e genetiche del modo di pensare per complessi, anche se il prodotto del suo pensiero è in effetti identico per il contenuto ad una generalizzazione che avrebbe potuto essere stata formata secondo un modo di pensare concettuale». (5)

 

La parola originaria è l’archetipo che pone le condizioni per la costruzione di quadri concettuali sempre più ampi, si dipinge con il linguaggio l’immagine del mondo. Il processo di significazione necessita della mediazione dei segni con i quali dare significato al mondo: essi sono la risposta alle stimolazioni educative della comunità in tutte le sue forme:

«La parola originaria non è un simbolo diretto per un concetto, ma piuttosto un’immagine, un quadro, uno schizzo mentale di un concetto, una breve storia su di esso – in verità una piccola opera d’arte. Nel dare un nome ad un oggetto per mezzo di tale concetto di natura pittorico, l’uomo l’unisce in un gruppo con molti altri oggetti. Sotto questo aspetto il processo della creazione del linguaggio è analogo al processo della formazione dei complessi nello sviluppo intellettuale del bambino». (6)

 

Il bambino dev’essere stimolato proponendogli situazioni problematiche che favoriscano lo sviluppo qualitativo della sua evoluzione.

Lo sviluppo prossimale consente di presentare problemi in linea con le capacità del bambino o dell’adolescente, ma che si trovano al limite tra la fase di sviluppo in atto e la successiva. In tal modo si evita la noia del troppo facile e nel contempo non si cade nella frustrazione del troppo difficile. La centralità è, sempre, la formazione linguistica, è il logos tradotto in filosofia. Senza la preminenza del linguaggio le città e le istituzioni divengono “non luoghi”, poiché si vive in uno stato di abbandono linguistico e metafisico.

Leggere Vygostkij è comprendere il nostro presente e il suo tradimento metafisico. L’aver posto la merce al centro, anziché il concetto, spiega le tragedie etiche presenti e l’assenza di una politica a misura di essere umano.


1 Lev Semënovič Vygotskij (17 novembre 189611 giugno 1934).

2 Lev Semënovič Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Giunti Barbèra, p. 79.

3 Ibidem, pp. 81-82.

4 Ibidem, p. 82.

5 Ibidem, p. 92.

6 Ibidem, p. 99.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Come alberi, è necessario attingere alle sorgenti di linfa rimaste vive; un nuovo germoglio, più basso, un nuovo germoglio sordamente perfora la dura scorza, un germoglio venuto dall’interno e dal profondo, dall’interno durevole dell’albero, emissario segreto.

Le immagini e le metafore della filosofia ci accompagnano nel nostro cammino accidentato nel quale la speranza è la prassi da cui germogliano la resistenza e le idee per un nuovo mondo che potrebbe venire a noi, se distogliamo l’attenzione dall’indifferenza dei nostri giorni e dalle macchinazioni delle logiche di dominio.

Il potere, nella forma del dominio produce servi; questi ultimi affinano la loro azione nella ricerca di schiavi da sottomettere. I servi sono alla ricerca di schiavi per sopportare la condizione di sterili adulatori. La mortificazione che ne consegue, per tutti a tale vista, è uno scoramento che si infrange contro la dura realtà del niente. In un periodo storico in cui i giochi del dominio sembrano prevalere sulla speranza e sul logos, le immagini e le metafore possono indicarci il movimento razionale ed emotivo da tenere, mentre tutto sembra accadere fatalmente, al punto da sembrarci che non vi è bivio alcuno.

Dove vi è speranza vi è scelta, si è sempre ad un bivio, il quale non è semplice condizione spaziale, ma postura della coscienza che si spazializza in agire e prassi. L’agire, nel rispetto etimologico del termine “agere”, è libertà, è un nuovo inizio. Il novus che si presenta a noi non è mai senza storia, ma è la linfa dell’esperienza storica divenuta concetto. La forza plastica e creatrice del logos ripensano il già stato, per portarlo a noi in forma di concetto. Non si tratta di semplice attività finalizzata a duplicare il già stato, ma dalla profondità della linfa storica il discernimento consente di abbandonare possibilità regressive per ricreare in forme nuove il già stato, in tal modo si è ad un bivio: è necessario scegliere tra forme regressive che inducono e conducono all’indifferenza e la responsabilità del nuovo che si associa al timore del rischio. Non vi sono percorsi posti per sempre in sicurezza, ma solo il cammino responsabile può evitare tragedie e sclerotizzazioni nefaste.

Il percorso è arduo, l’attimo più difficile ed esteso consta della capacità di scendere nella profondità della storia dello spirito per ritrovare il senso smarrito. Sono processi in cui il singolo non riscopre semplicemente la sua storia, ma sente il suo esserci al mondo come “comunitario”, in lui vive e germina una storia più grande che spontaneamente dona ed indica la scelta, sta a lui ascoltarla. Nulla è più difficile e grande che l’ascolto. L’Umanesimo è pensiero che si riorienta nell’ascolto che trascende i limitati orizzonti individualistici per nuove prospettive comunitarie.

Charles Péguy ci dona una metafora eterna, oggi più vera che mai, poiché nei periodi storici in cui il tatticismo becero e l’adulazione più volgare sembrano prevalere sulla verità e l’ateismo sembra trionfare, tale metafora è più fortemente vera. L’ateismo è disperazione che si ribalta in indifferenza, se non vi è verità, tutte le prospettive sembrano eguali e non si può che naufragare nell’indifferenza e nella violenza del politicamente corretto con i suoi applausi bugiardi. Dinanzi all’ateismo che mostra ancora una volta il suo volto nichilistico nel quale le parole e i volti sembrano oscurarsi nell’omologazione per lasciarci in una cupa disperazione limitrofa all’indifferenza Charles Péguy ci offre una metafora su cui meditare e che ci può essere di ausilio per far emergere la speranza quale prassi viva del pensiero:

 “Quando in un albero, generalmente in un vegetale arbusto o arborescente, per una ragione qualunque, gelata, colpo di gelo, colpo di vento, colpo di sole, trauma, siccità, un germoglio abortisce, […] essa abbandona al suo destino di sterilità la cima agonizzante; essa fa una sussunzione, una profonda esaltazione, una assunzione, una ripresa; essa riprende più in profondità: un nuovo germoglio nasce sotto il primo, spesso molto più sotto, spesso tanto sotto al primo quanto gli è necessario per attingere alle sorgenti di linfa rimaste vive; un nuovo germoglio, più basso, un nuovo germoglio sordamente perfora la dura scorza, un germoglio venuto dall’interno e dal profondo, dall’interno durevole dell’albero, emissario segreto[1]”.

Come alberi nella tempesta dobbiamo scendere nella profondità di noi stessi e ritrovare la linfa duratura con la quale creare il nuovo. Senza fondamenta profonde non vi è comunità, ma non vi è neanche l’individuo il quale si disperde nelle contingenze e nelle funzioni burocratiche.

 

Prospettive

Viviamo in pieno nichilismo e dimenticanza. Ma malgrado la desertificazione della vita e delle idee, come in un deserto che attende pioggia per germogliare sotto lo strato di sabbia del presente, radici profonde continuano a vivere e ad attendere ascolto e parole. Il chiasso dell’adulazione rende sterili, in quanto l’ascolto si oscura per la sola parola servile disponibile a vivere in superficie e a lasciarsi esiccare dalle contingenze. La profondità è olistica, insegna a mirare il mondo nello stupore delle prospettive che si completano. Fuori della caverna muschiosa le prospettive sono l’humus per il pensiero libero da clericalismi di ogni genere. Alla disperazione della prospettiva unica che diviene caverna e tomba a camera senza uscita, bisogna opporre la profondità che tocca la terra per innalzarsi al cielo delle possibilità malgrado resistenze e ramificate sconfitte, solo nella pluralità delle prospettive capaci di ritrovare il comune fondamento è possibile uscire dalle prigioni del politicamente corretto e dalla ridda degli opportunismi senza futuro e pensiero:

 

“La realtà non è proprio fatta in prospettiva né esaurita da una prospettiva, tanto quanto un paesaggio non è fatto in prospettiva né esaurito da una prospettiva. Qui come là, e giustamente perché il paesaggio stesso è una realtà, un frammento della realtà, una sorta di realtà, una parte integrante della realtà, qui come là è necessaria almeno, in prima battuta, un’infinità di prospettive; e è necessario inoltre uscire da là, è necessario in seconda battuta uscire da tutta(e) la(e) prospettiva(e), uscire dall’ordine stesso della prospettiva e delle prospettive, provare a contemplare con un tutt’altro sguardo[2]”.

 

Prima di riprendere la lotta impariamo a vivere l’ispirazione di paesaggi che abbiamo smesso di guardare per la cappa depressiva della logica crematistica dei banchieri che infettano i pensieri comunitari e l’impegno oblativo, cioè (come si può anche semplicemente leggere in un vocabolario della lingua italiana) del livello più alto dello sviluppo affettivo, contraddistinto dalla capacità di amare e di offrire liberamente senza contropartite.

[1] Ch. Péguy, Brunetière, Edizioni Milella, Lecce 1988,in OPC II, pag. 583

[2] Ch. Péguy, À nos amis, à nos abbonés, in OPC II, p. 1294


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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