«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
363 Maura Del Serra, In voce. 55 poesie lette dall’autrice. Il libro è in vendita con CD allegato.
ISBN 978-88-7588-302-7, 2020, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Foto di Maura Del Serra.
364 Costanzo Preve, Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci. Dialogo sulla progettualità, ovvero su come cambiare il mondo. Introduzione di Giulia Angelini. Seconda Edizione riveduta e ampliata.
ISBN 978–88–7588-299-0, 2020, pp. 320, formato 140×210 mm, Euro 27 – Collana “Il giogo” [125]. In copertina: Rilevo votivo di Atena pensosa, 460 a.C., marmo pario. Atene, Museo dell’Acropoli.
365 Diego Lanza, Il tiranno e il suo pubblico. Introduzione di Gherardo Ugolini: La tirannide come “ideologia” secondo Diego Lanza. ISBN 978–88–7588-303-4, 2020, pp. 400, formato 140×210 mm, Euro 30 – Collana “Il giogo” [126]. In copertina: Frammento di vaso attico a figure nere di Sophilos, VI sec. a.C., Museo Archeologico Nazionale di Atene.
366 Marco Gallo, Santiago Express. Appunti di viaggio. A cura di Ilaria Rabatti.
ISBN 978–88–7588-304-1, 2020, pp. 120, formato 130×200 mm, Euro 10. In copertina: Verso Santiago.
367 Costanzo Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente. Seconda Edizione ISBN 978-88-7588-265-5, 2020, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Divergenze” [70]. In copertina: Paul Klee, Maske der Furcht [Maschera di paura] (1932).
369 Giulia Angelini, Alberto Giovanni Biuso, Salvatore A. Bravo, Michele Di Febo, Alessandro Dignös, Lorenzo Dorato, Arianna Fermani, Alessandra Filannino Indelicato, Marco Guastavigna, Claudio Lucchini, Fernanda Mazzoli, Giancarlo Paciello, Franco Toscani, Tempi covid moderni. A cura di Alessandro Dignös.
ISBN 978–88–7588-273-0, 2020, pp. 256, formato 170×240 mm, Euro 25 – Collana “Il giogo” [127]. In copertina: René Magritte, Golgonde, olio su tela, 1953, The Menil Collection, Houston.
370 Sergio Rinaldelli, Solo l’irraggiungibile. Frammenti di cronaca interiore. ISBN 978-88-7588-277-8, 2021, pp. 208, formato 130×200 mm., Euro 15. In copertina: Sergio Rinaldelli, I fiori del silenzio, 2006, olio su tavola, 97,5 x 67,5.
321 Luca Grecchi, Scritti brevi su politica, scuola e società. ISBN 978-88-7588-209-9, 2019, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [101]. In copertina: Volta dell’Eremo di San Galgano, sec XII, Chiusino, Siena.
322 Gabriella Putignano, Flash di poesia, dipinti di versi. Prefazione di R. Pellegrino. Postfazione di F. Malizia. ISBN 978-88-7588-213-6, 2019, pp. 88, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: Tommy Ingberg, Reveal.
324 Arianna Fermani, Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele. ISBN 978-88-7588-246-4, 2019, pp. 64, formato 170×240 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [103]. In copertina: William A. Bouguereau,The Remorse of Orestes (1862). In quarta di copertina: Michelangelo Merisi da Caravaggio, La Maddalena penitente, 1594-1595, Galleria Doria Pamphilj, Roma.
328 Margherita Guidacci, Sibille. Seguito da Come ho scritto “Sibille”. A cura di Ilaria Rabatti. ISBN 978-88-7588-238-9, 2019, pp. 88, formato 140×210 mm., Euro 12 – Collana “Filo di perle”. In copertina: Luca Lucherini, Sibilla (2019).
330 Koinè, L’essere della libera comunità e l’amore. ISBN 978-88-7588-233-4, 2019, pp. 48, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [106]. In copertina: Henri Matisse, La danza, olio su tela, 1909. Ermitage di San Pietroburgo.
351 Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli, Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo. ISBN 978-88-7588-263-1, 2020, pp. 272, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [120]. A cura di Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato. Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», Università degli studi di Milano Bicocca, 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi.
352 Giancarlo Paciello, Piccola storia dell’Irlanda. ISBN 978-88-7588-270-9, 2020, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 12, Collana “Divergenze” [63]. In copertina: Arpa irlandese. Emblema della Society of United Irishmen.
354 David Ciolli, Le porte del silenzio. Il libro degli insegnamenti di Imdah. ISBN 978-88-7588-272-3, 2020, pp. 104, formato 105×155 mm., Euro 8 – Collana “lo spazio della vita” [4]. In copertina: Giovanna Incoronata Ghini, Selon que … (particolare), 2018
355 Salvatore A. Bravo, L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo. ISBN 978-88-7588-274-7, 2020, pp. 192, formato 170×240 mm., Euro 20 – Collana “Divergenze” [66]. In copertina: Hieronymus Bosch, Giardino delle delizie, trittico a olio su tavola, 1480-1490, particolare dell’Inferno, Museo del Prado di Madrid.
356 Fernanda Mazzoli, Di argini e strade. Un racconto di pianura. ISBN 978-88-7588-276-1, 2020, pp. 128, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Marc Chagall, La passeggiata, olio su tela, 1917-1918, Museo di San Pietroburgo.
Gesù fu il regista della sua passione, con l’obiettivo di essere finalmente riconosciuto Messia, e di promuovere per questa via la realizzazione di una nuova società, chiamata regno di Dio. Tutto ciò fu espressione di un coraggio eroico. Il coraggio intellettuale di capire che la via del semplice appello predicatorio alla trasformazione non mutava le cose. Il coraggio morale di rimanere tuttavia fedele al suo ideale, in una situazione in cui chiunque altro sarebbe arretrato su posizioni conformistiche rispetto alle aspettative dell’ambiente. E, soprattutto, il coraggio spirituale e fisico di intuire e di volere il suo supplizio come unica maniera rimastagli di essere fedele a se stesso, e di poter ancora lottare per il regno di Dio. […] Lo spirito di Gesù è bensì inizialmente risorto attraverso Maria Maddalena, ma la sua memoria e poi stata gestita non da costei, ma dalla Chiesa apostolica e da Paolo, il vero fondatore della religione cristiana. Questa gestione ha determinato una frattura storica tra la fede per cui Gesù era morto e la fede successiva nel Cristo risorto […] In tal modo il regno di Dio cessò di essere pensato come un’attualità storica, da portare a compimento con un’azione storica, e diventò l’oggetto di un’attesa miracolistica, l’attesa della cosiddetta seconda venuta del Cristo. Lo spirito religioso cominciò di conseguenza a separarsi dalla volontà di trasformazione politico-sociale, mentre in Gesù i due momenti avevano mantenuto una stretta unità. Per Gesù credere nel regno di Dio era volere il crollo dei poteri mondani e la redistribuzione delle ricchezze, l’anno di grazia del Signore. Per Paolo è invece dovuta ubbidienza ai poteri terreni, e l’impegno religioso si riduce alla predicazione del Cristo risorto. […] I Vangeli sono stati redatti a partire da questa nuova fede della comunità cristiana primitiva. Essi, quindi, pur essendo basati sulla storicità di una tradizione di testimonianze su Gesù, ne reinterpretano la figura in chiave miracolistica. Per questo devono essere a loro volta interpretati, e la loro storicità deve essere enucleata da un involucro leggendario che talvolta porta fuori strada. Col trascorrere dei secoli, e il passaggio della Chiesa cristiana dalle catacombe al potere, la religione basata sulla figura teologica del Cristo diventò sideralmente lontana dalla fede proposta dal Gesù storico. All’impegno di trasformazione personale e collettiva necessario alla realizzazione delle profezie bibliche subentrò l’adesione fine a se stessa a Chiese istituzionalizzate. Al posto del regno di Dio di cui promuovere l’avvento storico sulla Terra venne messo il Paradiso ultraterreno. Tanto che oggi, quando i cristiani recitano il Padre nostro, e pronunciano la frase «venga il tuo regno», non sanno letteralmente cosa stanno dicendo, perché ignorano che il significato originario di quell’espressione era un auspicio di rovina per tutti i governi e i poteri economici della Terra. Nulla del progetto storico di Gesù ha quindi continuato a vivere nel cristianesimo storico bimillenario, che nel suo complesso, con l’eccezione di alcune sue esperienze minoritarie di trascurabile peso storico, rappresenta anzi l’ultimo e più grosso chiodo che l’ha fissato alla croce, l’estremo oblio della sua memoria. Diciamo allora la verità, una verità per noi tragica, quasi insopportabile: l’abbandono dei suoi seguaci e la vittoria dei suoi nemici hanno sconfitto Gesù non soltanto a Gerusalemme nel 36 d.C., ma anche, ed ancor più, nella storia successiva fino ad oggi. Gesù è, allora, soltanto uno dei vinti della storia, oppure la storia non esaurisce il significato e la portata della sua figura? La sconfitta subíta da Gesù a Gerusalemme è stata il dramma del suo amore. Ci vuole un immenso amore, per se stessi, per i propri amici, e per tutti coloro che amici potrebbero esserlo, per spendere una vita intera a coltivare l’ideale di una società in cui ogni essere umano sia libero di esprimere le sue potenzialità umane. E ci vuole una immensa potenza di questo immenso amore per andare volontariamente incontro ad un supplizio atroce, quando le circostanze non lascino altra possibilità di non indebolire la testimonianza di quell’ideale. Gesù ha trovato in se stesso tutto questo amore, e ne ha avuto compiuta consapevolezza, perché ha posto l’amore al di sopra di ogni altra legge, prescrivendo come suo unico comandamento: «Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore maggiore di chi dà la vita per i suoi amici, e voi siete miei amici. Non vi dico servi perché il servo non sa cosa fa il suo signore. Vi ho invece unito come amici perché vi ho fatto conoscere tutto ciò che ho ascoltato dal Padre mio». L’amore, d’altra parte, essendo ontologicamente radicato nel riconoscimento reciproco tra gli individui umani necessario alla costituzione della loro identità soggettiva, rappresenta una sorgente umanamente perenne di comportamenti creativi. Gesù, perciò, disegnando con i suoi atti, con il suo sacrificio finale, e con la consapevolezza del loro senso, la figura stessa dell’amore, si è collocato su un piano che è oltre la storia.
Gesù, poi, si è proposto come oggetto d’amore soltanto proponendo la sua identificazione con ogni individuo umano bisognoso d’amore. […] Attraverso questa identificazione, manifestata da tutti i suoi atti, Gesù si è identificato con un principio assiologico che trascende, in quanto fonte inesauribile di nuova storia, ogni storicità empirica: l’intrinseco valore etico dell’individualità umana, indipendentemente dalle circostanze fattuali e dai ruoli sociali in cui si presenta. Dare a ciascuno ciò che gli spetta in nome del valore universale della sua individualità, ed eliminare gli ostacoli che impediscono il pratico riconoscimento di questo valore, è sempre e dovunque, anche se diversamente declinato e variamente sminuito nei differenti tempi e luoghi della storia, il significato della giustizia. Tale giustizia è, nelle narrazioni evangeliche, la forza motivazionale di tutti gli atti di Gesù, e il contenuto reale del suo ideale supremo, per il quale è morto. Si potrebbe infatti mostrare, storicamente e filologicamente, come l’ideale del regno di Dio altro non sia che l’ideale della giustizia sulla Terra. E si potrebbe mostrare, filosoficamente, come la giustizia, in quanto potenzialità metastorica dell’essere umano, abbia la medesima radice ontologica dell’amore. Non è un caso, dunque, che Gesù ci abbia dato, nella sua vicenda storica, la simultanea figurazione metastorica dell’amore e della giustizia, e che, avendo raggiunto piena consapevolezza intuitiva dell’amore, sia stato compiutamente consapevole anche della giustizia. Egli ha sicuramente saputo, infatti, che la giustizia non consiste nel trattare tutti, potenti e deboli, oppressori ed oppressi, con lo stesso metro e la stessa considerazione. Ha saputo, cioè, che la violenza dell’oppressione deve essere riequilibrata da un’attenzione e da un impegno molto maggiore a favore degli oppressi, per poter eliminare gli ostacoli al pratico riconoscimento dell’universale valore di ogni individualità, di cui la giustizia consiste. Si noti infatti come l’attività guaritrice e consolatrice di Gesù sia stata svolta a favore degli oppressi e degli umili, mai dei potenti della Terra. Egli ha saputo, inoltre, che la giustizia viene per sua natura lesa non soltanto da coloro che la offendono direttamente ed esplicitamente con i loro atti, ma anche da coloro che si limitano alla fruizione soddisfatta e senza problemi dei loro privilegi. Al punto da maledirli, preannunciando la fame a coloro che sono sazi nel privilegio, il lutto e il pianto a coloro che irresponsabilmente se la ridono in un mondo ingiusto. La semplice, sia pur fattiva, carità verso i miserabili, alla Maria Teresa di Calcutta, è molto lontana dall’esempio dato dal Gesù storico, che non disgiunge mai la pietà verso i deboli da una volontà incrollabile di giustizia, che comporta anche l’ira verso gli oppressori. Gesù ha compreso che non si può essere giusti se non si sceglie la giustizia, quando è necessario, anche contro la pace. Il regno di Dio, nell’accezione originaria di Gesù, porta la distruzione, non la pace, ai reggitori e ai beneficiari di un ordine ingiusto. Seguire Gesù nel suo senso inflessibile della giustizia potrebbe però portare alla disperazione, in un mondo in cui l’ingiustizia abbia sempre dalla sua parte la forza e l’apparenza della necessità. Gesù, nel suo chiamare l’umanità alla giustizia, ha posto la sua persona come realtà della speranza. Se lui non è un uomo qualsiasi, ma porta il segno di Dio, allora acquistano un preciso significato di speranza le famose beatitudini del cosiddetto discorso della montagna. […]
Gesù, pur tragicamente sconfitto a Gerusalemme nel 36 d.C., e pur tragicamente obliato persino, e talora soprattutto, da coloro che hanno fondato su di lui la loro religione, non è soltanto uno dei sia pur grandi vinti della storia, perché non esiste soltanto come figura del nostro passato, storicamente omogenea ad altre precedenti e successive, ma è la figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza. Ma la forza creatrice dell’amore, il valore universale dell’individualità, la priorità assiologica della giustizia, il principio della speranza, sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica. Se non impropriamente chiamiamo Dio la natura trascendentale della verità perennemente umana, Gesù appare come una singolarità irripetibile segnata da Dio. Giustamente, quindi, egli ha detto ai suoi discepoli: «Se rimarrete nel mio logo conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi». Non si tratta, invero, di una conoscenza razionale della verità, perché Gesù non è stato un filosofo. Egli ha piuttosto seguìto, con irripetibile coerenza, una sua intuizione essenziale, anche se naturalmente concretizzata nelle forme culturali del suo tempo e del suo ambiente, della legge divina universale, che ha tradotto in tutti i suoi atti, nella vita e nella morte. In maniera più aderente al suo genio, egli ha parlato di un «fare la verità» mediante cui si va nella direzione della luce divina. Gesù è quindi stato un uomo nella storia, ma lo è stato in modo da collocare la sua figura oltre la storia, alle sorgenti di quella libertà morale da cui perennemente sgorga storia, e da porsi quindi come fonte di luce per ogni epoca.
«L’albero della conoscenza del bene e del male» e «L’albero della vita»
L’uomo storico è costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.
«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad oriente […]. Il Signore Dio vi fece germogliare ogni sorta di alberi gradevoli alla vista e pieni di frutti buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male […]. Il Signore Dio prese quindi l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché ne godesse e lo tenesse in custodia. Gli diede questo comando: “Saranno tuoi tutti i frutti del giardino, ma non dovrai mai mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché quando lo mangiassi, ne moriresti”. […] Il serpente era la più astuta delle bestie fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio non vuole che mangiate i frutti del suo giardino?”. Gli rispose la donna: “Dei frutti degli altri alberi possiamo cibarci, ma Dio ci ha detto che non dobbiamo mangiare e non dobbiamo toccare il frutto dell’albero che sta nel mezzo del giardino, altrimenti moriremo”. Replicò però il serpente: “Non morirete affatto! Al contrario, se lo mangiaste, i vostri occhi si aprirebbero, e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna, vedendo come il frutto era bello e desiderabile per acquistare la sapienza, lo prese e lo mangiò, dandone un pezzo anche al marito, che era con lei […]. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino, e si nascosero in mezzo agli alberi. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo dicendogli: “Dove sei?”. Quegli rispose: “Ho udito il tuo passo, e ho avuto paura, perché sono nudo, per cui mi sono nascosto”. E Dio: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai dunque mangiato dall’albero dal quale ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che mi hai posto accanto mi ha dato quel frutto, ed io l’ho mangiato”. […] Disse allora Dio: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre”. Il Signore Dio scacciò perciò l’uomo dal giardino di Eden».
Questi sono, all’inizio della Bibbia, i passi salienti di un celebre e antichissimo mito, che gli Ebrei avevano ereditato, attraverso i Babilonesi, dalla più antica di tutte le civiltà conosciute, quella dei Sumeri. Il nome stesso del luogo in cui il mito è ambientato, Eden, non è originariamente ebraico, ma deriva dal termine sumerico edin, con il quale veniva indicata una pianura non irrigata. L’Eden biblico è certamente la Mesopotamia preistorica, dato che il testo menziona espressamente il Tigri e l’Eufrate come appartenenti alla regione. Nella sua zona più meridionale, dove i due fiumi si avvicinavano, creando spazi irrigui ricchi di vegetazione, i primi coloni sumeri dovettero trovare diversi angoli di terra dove pochi abitanti potevano vivere senza fatica, semplicemente raccogliendone i frutti spontanei, a cominciare dai gustosi e nutrienti datteri. Qualcuno di questi angoli di terra, particolarmente incantevole, fu certamente considerato un giardino piantato dagli dèi, e immaginato come dimora felice dell’uomo e della donna primigenio Il testo biblico conserva la memoria del politeismo sumerico, originariamente connesso con la raffigurazione del giardino di Eden, in uno dei termini che usa per designare Dio, e cioè Elhoim, che è un plurale. E Adamo è un nome tratto da una espressione della lingua sumera, ada-mu, che vuol dire “padre mio”.
I più antichi miti religiosi, oltre a contenere i relitti mnestici di remotissime esperienze storiche, condensano anche, nei loro racconti storicamente più inverosimili, grandi verità umane, sia pure espresse in forma non razionale, e nascoste sotto il velo della pura immaginazione. Ben lo sapeva Platone, quando parlava del mito come narrazione menzognera nella quale si trovava tuttavia una verità. E ben lo sapeva Hegel, quando definiva il livello più autentico e profondo della religione come comprensione dell’Assoluto nella forma della rappresentazione mitica, anziché in quella del concetto razionale.
Una maniera di cominciare a riflettere sulla natura della verità umana nella sua dimensione assiologica può dunque essere quella di interrogare il mito biblico del giardino di Eden. Ciò di cui esso essenzialmente ci parla è infatti la conoscenza del bene e del male, rappresentata dal frutto di un albero posto in mezzo al giardino paradisiaco di Dio. Tutti i momenti in cui la sua narrazione si articola riguardano questo frutto, che è oggetto prima della proibizione divina, poi del discorso tentatore del serpente, quindi della disobbedienza umana, ed è successivamente causa della paura dell’uomo, della preoccupazione di Dio, e della cacciata della coppia primigenia dal giardino di Eden. Può dunque essere interessante capire quale intreccio di significati si celi nell’immaginaria rappresentazione dell’albero del giardino di Eden.
La fondamentale questione interpretativa concerne, in proposito, il perché il frutto proibito da Dio sia proprio quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male. Perché, cioè, il mito presenta il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male come tentazione da evitare?
La risposta usuale a questa domanda è che la conoscenza del bene e del male a cui si riferisce la narrazione biblica indica in realtà il potere di stabilire cosa sia bene e cosa sia male. L’uomo che mangia il frutto proibito sarebbe dunque l’uomo che rifiuta il riconoscimento di una tavola di valori precostituita da Dio, e che pretende di farsi lui stesso creatore del suo proprio ordinamento morale. Si tratta di una risposta che emerge quasi naturalmente da una lettura moderna del testo biblico, sia perché è suggerita, in maniera magari inconsapevole, da una tradizione culturale sul peccato originale che percorre tanta parte della nostra storia, sia perché risulta per un verso tranquillizzante per la coscienza cristiana, e per un altro verso corrispondente alle inclinazioni dell’odierno pensiero post-metafisico. Il sacrificio redentore di Cristo, che è al centro della coscienza cristiana, appare infatti necessario proprio sulla base di un originario rifiuto, da parte dell’uomo, del fondamento divino dell’ordine morale. E la morte di Dio avviene, nell’orizzonte post-metafisico dei nostri tempi, proprio nella misura in cui l’uomo si pensa creatore autonomo di ogni sua norma.
L’albero del giardino di Eden racchiude davvero questi significati? Nel mito originario certamente no. Essi sono stati proiettati sul mito soltanto da una sensibilità culturale formatasi in epoche successive. Nel mito originario, infatti, la condizione umana prima della tentazione non è quella di un obbediente riconoscimento della distinzione tra il bene e il male voluta da Dio. È piuttosto uno stato anteriore ad ogni coscienza etica, tanto è vero che Dio si accorge che l’uomo ha ceduto alla tentazione proprio perché lo trova impaurito della sua nudità. La narrazione biblica non dice affatto, poi, che, mangiato il frutto proibito, l’uomo ha rifiutato il fondamento divino dell’ordine morale, ed ha preteso di stabilire lui stesso cosa sia il bene e cosa sia il male. Essa dice bensì che l’uomo si è reso simile a Dio, non però per la creazione, ma per la conoscenza dell’ordine morale. Nel mito, cioè, la distinzione tra il bene e il male sussiste senza essere creata, neppure da Dio, e Dio è divino perché ne conosce la natura, cosicché l’uomo stesso diventa divino quando arriva a conoscerla, cibandosi del frutto dell’albero del giardino di Eden. Non dimentichiamo che nella narrazione biblica Dio esclama, una volta saputo che l’uomo ha mangiato il frutto proibito: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male». È dunque la conoscenza del bene e del male, non la sua creazione, non la sua statuizione, che appartiene alla sfera divina.
Torna a questo punto, ancora inevasa, la questione fondamentale. Perché il frutto che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male è proibito da Dio? Perché il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male è quindi raccontato come una tentazione da evitare? Se la conoscenza dell’ordine etico appartiene alla sfera divina, non è forse la cosa più bella che l’uomo, potendolo, si renda divino acquisendo tale conoscenza?
Gli dèi degli antichi miti religiosi sono spesso gelosi degli uomini, perché temono le grandi potenzialità della specie umana. Essi temono, cioè, che alcuni uomini possano utilizzare tali potenzialità per usurpare il loro superiore rango divino. Perciò proibiscono agli uomini la piena utilizzazione delle facoltà umane, cosicché la mitica umanità primigenia deve confrontarsi con la tentazione proibita di rendersi divina. Se essa cede a questa tentazione, gli dèi la puniscono con una mutilazione permanente, che la allontana per un altro verso dal rango divino. Nasce così la natura umana attuale, che incorpora in se stessa un aspetto divino, acquisito seguendo la tentazione originaria, ma riequilibrato da un elemento dissolutivo di ogni perfezione, che costituisce la punizione per la colpa originaria dell’uomo di aver voluto diventare dio. La mitica vicenda della tentazione, della colpa e della punizione è quindi esplicitamente riferita ad una umanità non più esistente, e non ancora umana nel senso attuale del termine. Essa rappresenta dunque un puro giuoco dell’immaginazione, costruito come presupposto narrativo, come genesi fantastica degli elementi formativi della natura umana attuale.
Perché allora nel mito del giardino di Eden il frutto proibito da Dio è quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male? Perché la comprensione della natura del bene e del male si colloca al di sopra della vita biologica, in una sfera divina. L’uomo che comprende la natura del bene e del male possiede quindi un dono divino, ovvero diventa lui stesso divino in questa sua conoscenza. Ma Dio è personificato dal mito in un essere creatore che non tollera alcuna condivisione della sua divinità da parte delle sue creature. Il mitico frutto che dona la conoscenza del bene e del male è dunque un frutto proibito per l’uomo, perché cibarsi di esso significa sfidare la gelosia di Dio, elevandosi al suo stesso piano divino, e attirando perciò la sua punizione.
L’uomo a cui il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è proibito non è però, nel mito, l’uomo storicamente esistente, bensì l’uomo primigenio. Quando comincia la storia umana fuori dal giardino di Eden, infatti, l’uomo ha ormai mangiato quel frutto, e si è già attirato la punizione di Dio. All’uomo storicamente esistente, quindi, non è più interdetta la sfera divina della conoscenza del bene e del male, dato che essa fa ormai parte della sua natura, già irreversibilmente elevata al di sopra della vita biologica. Questa capacità divina, che era proibita all’uomo primigenio, e che invece l’uomo storico è chiamato ad esercitare, non rende tuttavia divina la persona umana, in quanto è sempre imprescindibilmente connessa ad un elemento che l’uomo è stato costretto ad incorporare nella sua natura come punizione per la colpa originaria, e che ristabilisce una distanza abissale tra la persona umana e quella divina.
L’elemento riequilibratore che fa risprofondare nella biologia animale anche l’aspetto divino acquisto dalla natura umana, vale a dire la mutilazione permanente inflitta all’essere umano come punizione per la colpa originaria, è nel mito biblico la mortalità dell’uomo. La verità che quel mito esprime e cela nella vicenda immaginaria della sua narrazione è dunque la connessione indissolubile, nella natura umana, tra il suo destino di morte e la sua possibilità di comprendere il bene e il male. La morte, cioè, si prospetta anticipatamente all’uomo come necessità ineludibile della sua esistenza perché l’uomo sa cosa sono il bene e il male.
È questo ciò che il mito del giardino di Eden essenzialmente ci dice. In tutto il corso della sua narrazione, infatti, l’albero della conoscenza del bene e del male si trova in relazione con un altro albero speciale, quello della vita. Di questo secondo albero non ci viene detto inizialmente nulla se non che si trova anch’esso nel giardino di Eden. Ma quando Dio si accorge che l’uomo ha ormai mangiato il frutto proibito, esclama: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre». Il senso è come si vede molto chiaro: l’uomo non può mangiare il frutto dell’albero della vita, cioè allontanare la morte dal suo orizzonte, perché è diventato come un dio attraverso l’acquisto della conoscenza del bene e del male. Prima di tale acquisto, ovvero in un immaginario tempo anteriore alla storia, l’uomo aveva a sua disposizione, in mezzo al suo giardino, l’albero della vita, il cui frutto non gli era stato proibito. La sua evoluzione era quindi ancora in bilico, perché avrebbe potuto, mangiando quel frutto, ricadere in una totale immedesimazione con l’immediatezza della sua vita, retrocedendo così al livello degli altri animali, che vivono al di fuori di ogni rapporto con la morte. Ma l’uomo primigenio, dice il mito, non ha avuto l’occasione di mangiare il frutto dell’albero della vita prima di essere stato spinto a mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Si è così avuto il salto evolutivo che lo ha portato definitivamente oltre la restante animalità. Ne è derivato l’uomo storico, elevato al di sopra della vita meramente biologica da una capacità di conoscere non più animale, bensì divina. La parte conclusiva del mito narra come proprio per questa sua capacità divina l’uomo storico sia stato condannato a percorrere la sua storia fuori dal giardino di Eden. All’ingresso di quel giardino, narra il mito, Dio ha posto due cherubini con le spade fiammeggianti, incaricati di tenere l’uomo per sempre lontano dall’albero della vita. L’uomo storico è così costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana. Questo ci dice il mito. Si tratta ora di vedere quanto questa verità del mito rimanga vera alla luce della ragione.
Massimo Bontempelli,La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia 1998- 2001, pp. 11-18.
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Il nichilismo di cui è impregnato l’orizzonte storico nel quale siamo immersi viene qui criticato al suo alto livello di espressione, quello tematizzato dal dispositivo teorico di U. Galimberti. C’è un nichilistico filo teoretico che unisce M. Heidegger, U. Galimberti ed E. Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Come Heidegger, Galimberti presenta uno sviluppo della tecnica planetaria mosso esclusivamente da una sua intrinseca spinta all’autopotenziamento ininterrotto. Come Severino, egli si raffigura un capitalismo che, avendo nella tecnica la condizione indispensabile per raggiungere il proprio fine, tende a subordinarlo al potenziamento della tecnica, e tende quindi a perdere, con esso, la propria specifica natura. Severino, infatti, parla dell’attuale sistema mondiale come di un modo di produzione scientifico-tecnologico, più che capitalistico. Per Galimberti non c’è dunque varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente, ed offre solo una filosofia (teoreticamente povera) dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico (ecco il suo nichilismo). Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia. Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica, e mettersi in cammino verso la realtà nel criticare il nichilismo, al duplice scopo di suscitare la consapevolezza della sua valenza distruttiva delle basi stesse della convivenza umana, e di illuminare la possibilità di percorsi di vita sottratti al suo peso disumanizzante. Un compito che ha perciò risvolti e riferimenti sociologici ed esistenziali, economici e psicologici, ma la sua prospettiva è di natura teoretica. Si tratta appunto, infatti, di un discorso filosofico, e la cui base sta nel presupposto che non si possa capire il nichilismo se non sul piano trascendentale, e quindi filosofico. Ciò in quanto il nichilismo è individuabile come tale soltanto come negazione della realtà umana dell’uomo, e dunque occorre, per individuarlo, un concetto filosofico di realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento. Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Massimo Bontempelli (1946-2011), si è occupato prevalentemente di storia antica e di dialettica platonica e neoplatonica. Ha pubblicato, tra gli altri: Il senso dell’essere nelle culture occidentali (con F. Bentivoglio), 3 voll., 1992; Storia e coscienza storica, 3 voll., 1993; Antiche strutture sociali mediterranee, 2 voll., 1994; Percorsi di verità della dialettica antica (con F. Bentivoglio), 1996; Nichilismo, Verità, Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo (con C. Preve),1997; Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero, 1997-2017; La conoscenza del bene e del male, 1998; La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, 1998; Tempo e memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro, 1999; L’agonia della scuola italiana; Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945), Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.
Sommario
Il nichilismo contemporaneo va criticato nel suo più alto livello di espressione
Il discorso filosofico di Galimberti è prigioniero del suo presente storico avendolo pensato come assoluto
Il dispositivo teorico di Galimberti è derivato dalla filosofia heideggeriana
Nel dispositivo teorico heideggeriano non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente
L’heideggerismo è una filosofia dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico
Il dispositivo teorico hedeggeriano è devastante delle poche risorse culturali non ancora avvelenate dal nichilismo
L’errore capitale di Hedigger appare come verità alle intelligenze di oggi
Il filo teoretico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino
La tecnica non è il fondamento dell’attuale orizzonte storico
Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia
Non è vero che non si dia essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico
Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica
Il principio hegeliano secondo il quale il reale è razionale rappresenta una posizione culturale niente affatto prefigurante la razionalità tecnica, ma una posizione del tutto alternativa
La povertà filosofica di Umberto Galimberti in ordine a: conoscenza, verità, anima, cultura e valori spirituali
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Appendice
In cammino verso la realtà
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Il 31 luglio 2011 a Pisa veniva a mancare Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011). La Filosofia ha perso un uomo silenzioso e caparbio che ha vissuto la filosofia come esperienza totale e concreta. Secondo l’opinione corrente Massimo Bontempelli potrebbe essere definito un autore minore. Il giudizio del circo mediatico è dominato dalla chiacchiera, innalza sugli altari i nichilisti organici al sistema che hanno perso non solo la misura, ma specialmente il fondamento ontologico del bene. È inevitabile allora che autori radicali come Massimo Bontempelli non appaiano, ma ciò malgrado sono essenziali per comprendere il presente, decodificarne la matrice nichilista per elaborare percorsi alternativi. Dal nichilismo non si esce che con la verità, con la teoria che si coniuga con la prassi, ma ancor più con la testimonianza che un altro modo di esserci e vivere lo studio, l’impegno politico e sociale è possibile. La forza del nichilismo è nella capacità di convincerci che l’omologazione regna e dunque non vi è speranza, perché la verità è solo un gioco di parole, un’illusione fugace e pronta a svanire al tocco del principio di realtà. La trasvalutazione dei valori dei nichilisti nella forma dell’economicismo coltiva la disperazione per rafforzare il potere costituito, per annichilire ogni speranza. Il serpente sibila che niente ha senso, per cui tutto è possibile, rilevante è solo l’immediatezza, la certezza sensibile da afferrare e consumare. Massimo Bontempelli dinanzi alla violenza del nichilismo non solo ha argomentato il suo “no”, demistificandone i fondamenti ed i dogmatismi, ma specialmente ne ha colto la trasversalità, mostrando che dietro i grandi paraventi della propaganda, nella destra come nella sinistra, alligna lo stesso male che agisce e dissolve ogni programma politico in clientelismo, in logica crematistica ed asservimento dei popoli. Ha guardato con gli occhi della mente, con l’acutezza della civetta filosofica, le convergenze della destra e della sinistra. Dinanzi al disincanto non ha reagito, ma ha agito con l’esodo silenzioso e proficuo da categorie vetuste e dunque irrazionali per cercare la verità, per rifondare una nuova metafisica umanistica.
Filosofare con lo scandaglio Filosofare con lo scandaglio, secondo la nota metafora di Hegel, è pericoloso. Massimo Bontempelli è andato fino in fondo, per dimostrare con la sua ricerca che solo la metafisica può riportare il senso dove vige l’irrazionale nella forma della categoria della sola quantità senza qualità. L’antiumanesimo è la verità tragica e terribile del capitalismo nella sua fase attuale. La destrutturazione delle autocoscienze scientemente programmata dai potentati economici, si realizza mettendo in pratica processi di derealizzazione. Sembra un paradosso, ma nell’epoca della realtà aumentata, Massimo Bontempelli ha dimostrato che reale non è il virtuale o il godimento dell’attimo che fugge via, ma saper cogliere mediante processi di astrazione la verità che dà senso all’empirico. Senza la razionalità oggettiva l’essere umano è travolto dalle stesse dinamiche che governano gli enti. Si vive, così, in un mondo irreale e muto. Solo il concetto può umanizzare, riportare con la verità la razionalità, strappare l’essere umano dalla passività dei processi di derealizzazione per riportare la prassi al centro della storia e della vita. È stato questo il senso della sua vita come filosofo, storico ed educatore. L’intreccio di filosofia, storia e paideia lo avvicina ai grandi della filosofia. La specializzazione in campo filosofico è depauperamento della filosofia che per suo statuto è disciplina olistica, capace di avere una visione generale per coglierne le connessioni logiche, le cesure ed astrarne il senso. Senza l’abitudine a pensare non vi è essere umano, ma solo un simulacro di esso. Filosofare è un viaggio, in cui si può naufragare o approdare alla verità per ricostruire percorsi di senso, altrimenti si affonda nella palude dell’immanenza. Non l’ho conosciuto di persona, ma dai suoi testi traspare la sofferenza di colui che constata quotidianamente come l’umanità si disperda nelle paludi delle mercificazioni. Il suo lavoro di ricerca è stato finalizzato ad uscire dalla tempesta del nichilismo economicistico. Hegeliano per preparazione e convinzione, ha scelto il percorso più difficile. Ovvero dinanzi ad un mondo che ha rinunciato alla metafisica, ha testimoniato la necessità del ritorno ad Hegel, non per idolatrare, ma per capire, poiché la filosofia elabora categorie ermeneutiche eterne, ma che necessitano di essere mediate con la concretezza della realtà storica. Verità e storia non sono in antitesi, ma la verità vive nella storia. L’aziendalizzazione della vita in ogni espressione, dalle istituzioni alle relazioni umane, è la prova vivente che Massimo Bontempelli ha colto il problema nella sua drammaticità, lo ha trasformato nel senso della sua vita. Dobbiamo rimetterci alla giustizia del tempo, perché autori che hanno vissuto la verità come processo logico e dimostrativo, non periranno, saranno fonte di ispirazione per studiosi e filosofi del presente e del futuro. Sembra poco credibile, i tempi ingrati i cui siamo immersi, ci insegnano che la menzogna e la chiacchiera trionfano, ma ciò malgrado l’essere umano ha bisogno di senso, verità e bene. È stata la sua speranza, è il messaggio che ci lascia. Si può essere eredi della sua filosofia, solo se si riprende il cammino nella verità e verso la verità.
Contro i pregiudizi La solitudine del filosofo è causata dalla sua lotta contro i pregiudizi, nel trasgredire all’ordine del discorso. Lo scientismo laicista non è scienza, ma visuale unidirezionale, pregiudizio socialmente accettato senza inquietudine mediante la derealizzazione in atto. Massimo Bontempelli ci rammenta il pericolo di un mondo senza qualità, in cui l’umano non dona la sua teleologia alla quantità: questo è causa di un infausto destino che disumanizza fino a rendere impossibile la vita. Il filosofo, dinanzi ad un pericolo tanto immenso, non può tacere. Massimo Bontempelli è stato funzionario dell’umanità, poiché ha denunciato con la profondità logica del concetto che la scienza senza metafisica è esiziale:
«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».[1]
La memoria dà senso alla vita ed all’impegno di coloro che ci hanno preceduto, e specialmente consolida il radicamento positivo e plastico nella storia. Affinché ciò possa essere abbiamo bisogno di maestri, Massimo Bontempelli lo è stato.
Salvatore Bravo
[1] Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, pp. 5 6.
Storia e coscienza storica (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1983.
Storia (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984. [Per il triennio]
Civiltà e strutture sociali dall’antichità al medioevo (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984.
Antiche civiltà e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1993.
Civiltà storiche e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1994
Storia e coscienza storica. (nuova edizione, 3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1998. [Per il triennio]
Il senso dell’essere nelle culture occidentali (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Milano, Trevisini, 1992.
Il tempo della filosofia (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011. [riedito nel 2016 in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum]
Eraclito e noi, Milazzo, Spes, 1989.
Percorsi di verità della dialettica antica, con Fabio Bentivoglio, Milazzo, Spes, 1996.
Nichilismo, verità, storia, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT, 1998.
La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT, 1998.
Tempo e memoria, Pistoia, CRT, 1999.
Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, con prefazione di Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 2000.
L’agonia della scuola italiana, Pistoia, CRT, 2000.
Per conoscere Hegel. Un sentiero attraverso la foresta del pensiero hegeliano, Pistoia, CRT, 2000.
Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, 2000.
Diciamoci la verità, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 2000.
Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, 2001.
Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia 2001.
L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, 2001.
Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush, con Carmine Fiorillo, Pistoia, CRT, 2001 [ristampato nel 2017 dalla casa editrice Petite Plaisance]
Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001.
Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945, Pistoia, CRT, 2002.
Il mistero della sinistra, con Marino Badiale, Genova, Graphos, 2005.
La Resistenza Italiana. Dall’8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, 2006.
La sinistra rivelata, con Marino Badiale, Bolsena, Massari, 2007.
Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008. [ristampato nel 2018]
Civiltà occidentale, con Marino Badiale, prefazione di Franco Cardini, Genova, Il Canneto, 2010.
Marx e la decrescita, con Marino Badiale, Trieste, Abiblio, 2011.
Platone e i preplatonici. Morale e paideia in Grecia, con Fabio Bentivoglio, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011.
Un pensiero presente. 1999-2010: scritti di Massimo Bontempelli su Indipendenza, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
Capitalismo globalizzato e scuola, con Fabio Bentivoglio, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
La sfida politica della decrescita, con Marino Badiale, prefazione di Serge Latouche, Roma, Aracne, 2014.
Gesù di Nazareth, con prefazione di Marco Vannini, Pistoia, Petite Plaisance, 2017
A cura di) Il respiro del Novecento, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 1999
(A cura di) Metamorfosi della scuola italiana, “Koiné” n.4, Pistoia, CRT, 2000
(A cura di) Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, “Koiné” n.5, Pistoia, CRT, 2000
(A cura di) Scienza, cultura, filosofia, “Koiné” n.8, con Lucio Russo e Marino Badiale, Pistoia, CRT, 2002.
I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Massari, 2007.
In copertina: Paul Klee, Einst dem Grau der Nacht enttaucht … (Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte …), acquarello, inchiostro e matita su carta argentata, 1918, Berna, Kunstmuseum.
Il titolo dell’opera fa riferimento all’incipit di una poesia scritta probabilmente da Klee: Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte poi grave e prezioso e reso forte dal fuoco … Infine etereo avvolto di blu, si libra su campi innevati, verso cieli stellati.
Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e politico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.
Questi i temi discussi
Prologo / L’uroboro / Nichilismi / La tirannia del presente: l’isola di Pasqua / Il verme nel nocciolo / Il pensiero debole / Massimo Bontempelli / L’olismo come paradigma irrinunciabile / La bicicletta di Bontempelli / La metafora della caffettiera / Concreto ed astratto / Lo sguardo contro il nichilismo / Destra-Sinistra / Pedagogia della passività / Le categorie della quantità e della qualità / La categoria della quantità e la morte / Modelli metafisici / Il regno dei lupi / La libertà / La derealizzazione / La sussunzione / Il bene / Il narcisismo-derealizzazione / Perché educare? / A scuola di nichilismo / Filosofia e Storia / La storia come necessità / Tempo e memoria / Msssimo Bontempelli/Costanzo Preve / Narcisismo, concretismo e arbitrarismo / Le miserie dell’abbondanza / La metafora della valle / Verità e libertà / “Ex ducere” / Mutazione antropologica / La Storia come asse culturale / Il Gesù di Bontempelli / La società del disprezzo di sé / Bontempelli interprete di Marx / Marx ed Hegel / L’esperienza della decrescita / Umanesimo integrale.
Tanta fretta. Perché? Per prendere la barca che non va da nessuna parte. Amici miei, tornate! Tornate alla vostra sorgente!
Non abbandonate l’anima nel bicchiere della morte.
Federico Garcia Lorca
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L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE
[…] C’è stato […] nell’Occidente degli ultimi secoli un processo direzionalmente univoco, anche se differentemente articolato nei differenti tempi e luoghi, e variamente accidentato da ritorni e deviazioni, di razionalizzazione irrazionale delle forme di conoscenza. Le forme di conoscenza, cioè, si sono gradualmente ristrutturate in relazione alla ridefinizione dei loro oggetti teorici. Questa ridefinizione è sempre andata nella direzione di un restringimento e di un isolamento dell’oggetto teorico. Ad esempio la nozione di moto, diventando oggetto teorico della nuova fisica galileo-newtoniana, subisce un restringimento di significato rispetto alla cornspondente nozione platonico-aristotelica: ora i processi di germinazione, di invecchiamento, di alterazione qualitativa non rientrano più nel moto fisico. Questo moto è ora solo spostamento nello spazio nel corso del tempo. Ad esempio la nozione di ricchezza, diventando oggetto teorico della nuova economia di Quesnay, va a designare uno spettro molto più ristretto di fenomeni: ora è ricchezza soltanto il prodotto netto economico di una società, e non sono una sua ricchezza i livelli di intelligenza e di moralità dei suoi membri. Ad esempio le nozioni di rivoluzione e di reazione acquistano con Constant un significato molto più ristretto che in passato: ora esse indicano soltanto un mutamento forte delle istituzioni che organizzano la società. La costituzione di un oggetto teorico dal significato più ristretto e maggiormente separato dagli altri, rispetto ad un precedente oggetto da cui è derivato, rappresenta un progresso nel possesso razionale del mondo, è cioè un momento di razionalizzazlone delle cose. Definire un oggetto teorico attraverso il restringimento e il maggiore isolamento di un oggetto anteriore significa infatti migliorare la precisione con cui esso identifica un aspett.o della realtà. Quando ad esempio Quesnay restringe il significato della ricchezza a quello del prodotto netto sociale, fa emergere una nozione di ricchezza meno vaga e meglio identificabile che in passato. D’altra parte ragionare è distinguere, come spiegava Croce, e per distinguere occorre astrarre. Il restringimento e l’isolamento dei significati sono il processo stesso dell’astrazione, e per questo costituiscono sempre un momento di razionalizzazione. La rivoluzione scientifica cinque-seicentesca ha rappresentato un formidabile salto in avanti nello sviluppo dei procedimenti razionali proprio perché ha ridefinito gli oggetti teorici attraverso nettissime astrazioni dai significati dell’esperienza comune. Inoltre, ogni riduzione e maggiore separazione di un oggetto teorico accresce la sua efficacia come strumento di previsione, e quindi di azione. Ciò è mostrato, a livello molto banale, da qualsiasi esperienza pratica quotidiana, in cui quanto più numerose e indiscriminate sono le cose che si vedono, tanto minore è l’efficacia con cui le si possono controllare. Nella scienza ciò è ancora più vero: quanto più un oggetto teorico è ritagliato dal suo sfondo, e quanto più sono isolate le sue singole relazioni con gli altri oggetti, tanto più risultano prevedibili e riproducibili determinati suoi effetti particolari. La consapevolezza della crescente precisione ed efficacia che la ragione può ottenere frammentando e separando i suoi oggetti è molto antica. Già Platone, infatti, nel Sofista e nel Politico guida il lettore in faticose e progressive scomposizioni e separazioni di concetti. In età moderna Hegel ha scritto, nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, che «il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un’esistenza propria ed una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo, che è l’energia del pensiero». L’energia del pensiero è definita negativa perché consiste, per così dire, nell’irrealizzare la realtà, scindendone la totalità in elementi teorici separati, resi irreali, cioè estranei alla totalità che sola è reale, appunto dalla loro separazione. Ma, osserva Hegel, «l’elemento scisso e irreale è tuttavia essenziale: il concreto, infatti, è automovimento solo perché si scinde e si fa irreale». La negatività dell’astrazione, dunque, è positività razionale nella prassi. Platone ed Hegel sapevano, però, che la negatività che frammenta il campo teorico e separa i suoi oggetti tra loro scissi, pur generando l’analisi, la precisione, l’efficacia e la potenza della razionalità, è in se stessa irrazionale. Perciò Platone, nel Fedro, pone accanto alla divisione la sinossi, come momento essenziale di un equilibrato sviluppo della facoltà razionale. Perciò Hegel, nella Scienza della logica, fa valere l’esigenza che, accanto ad un intelletto «astraente e con ciò separante, che permane nelle sue separazioni», operi una ragione che riunifichi l’intero campo teorico mediante la congiunzione dialettica dei concetti separati. Là dove l’oggetto teorico è costituito in modo da poter essere pensato soltanto dall’intelletto astraente, e non anche dalla ragione dialettizzante, allora, scrive Hegel nella Introduzione alla Scienza della logica, «in questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto della verità va perduto, la ragione viene ristretta a conoscere una verità soltanto soggettiva, a conoscere cioè soltanto qualcosa cui la natura dell’oggetto non corrisponda. Il sapere torna ad essere l’opinione» . Questo è stato appunto l’epilogo della razionalizzazione irrazionale della modernità. Si tratta di un epilogo di non facile lettura, sia perché vi siamo ancora completamente immersi, e ci manca quindi quella distanza cronologica ed ideale che consentirebbe di metterlo meglio a fuoco, sia perché è costituito dalla massima intensificazione di elementi intrinsecamente antinomici. Abbiamo simultaneamente raggiunto, in primo luogo, il massimo della razionalità ed il massimo della irrazionalità storicamente prodotte, ed alla ragione non risulta facile pensare congiuntamente, come deve, entrambi questi aspetti della situazione. D’altra parte, se essa non comprende l’irrazionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna a sottomettersi alle corrispondenti forme di vita come ad una fine della storia, a pensare come inconoscibile ciò che è più importante per la condizione umana, a veder emergere questo inconoscibile come sentimento primitivo, disperato, nichilistico. Se non comprende, invece, la razionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna ad una critica antiscientifica, regressiva ed impotente della modernità. È dunque importante capire che la modernizzazione delle idee è stata […] un’opera simultaneamente di razionalizzazione e di irrazionalizzazione. La costituzione di oggetti teorici sempre più astratti, tipizzati, parziali e separati ha potenziato al massimo la razionalità come precisione, previsione, calcolo ed efficacia settoriale. Ma questa stessa costituzione ha potenziato al massimo anche l’irrazionalità come incapacità di dialettizzare concetti separati, come impotenza di fronte al movimento della totalità sociale, come demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, come perdita della conoscenza del bene e del male. Questo epilogo è antinomico anche perché da un lato esalta al massimo l’individualità, separandola come non mai nella storia da ogni matrice socializzante, e dall’altro la deprime al massimo con la serializzazione dei comportamenti e degli stessi pensieri. Ed è antinomico perché porta a compimento e invera la modernità, abbandonando nello stesso tempo tutte le sue promesse emancipatrici, tanto che si è parlato, in contrapposizione al moderno, di un postmoderno. Il processo di razionalizzazione irrazionale è stato alimentato […] dai processi sociali di generalizzazione della fonna di merce e di universalizzazione delle relazioni tecniche. Anzi, è stata proprio la razionalizzazione irrazionale progressivamente diffusasi nelle relazioni sociali che ha generato quegli snodi nelle idee. […] Ebbene: il modo di produzione moderno, la cui logica si dispiega nella circolazione delle merci, è sempre più penetrato, nel corso degli ultimi secoli, nello spazio sociale. Negli ultimi decenni lo spazio sociale ne è stato quasi interamente pervaso, cosicché oggi viviamo, per fare un paragone fisico anziché biologico, in un universo le cui masse interagenti sono merci e galassie di merci. Dove tutto è merce, tutto è quantificabile, e, su scala locale, tutto diventa calcolabile, prevedibile, manovrabile: la razionalità trionfa. Ma il movimento globale, frutto di innumerevoli interazioni, diventa incontrollabile, e valori, vincoli e sentimenti perdono qualsiasi visibilità: l’irrazionalità trionfa. L’universalizzazione delle relazioni tecniche è l’altro processo sociale che ha prodotto e plasmato la razionalizzazione irrazionale. Tecnica è, in senso proprio, una capacità di produzione data dall’uso di determinati strumenti in conformità a determinate regole. Si parla più specificamente di tecnologia quando le regole, o addirittura gli strumenti, della tecnica, sono la concretizzazione di nozioni scientifiche. Lo sviluppo dei mezzi tecnici e dei concetti scientifici nel corso dell’età moderna ha dato un’impronta sempre più tecnica, e tecnologica, alle relazioni sociali. Oggi viviamo infatti in un universo tecnico. Ciò significa non tanto che viviamo in mezzo ad apparecchi tecnici, quanto piuttosto che le regole tecniche da un lato sono condizioni di efficacia di tutte le nostre azioni, e dall’altro non sono estrinseche agli strumenti, ma sono incorporate in strumenti, i quali sono a loro volta semplici articolazioni di un apparato complessivo. Questo apparato scientifico-tecnologico è dunque l’apparato di comando dell’azione sociale, che determina la divisione sociale del lavoro e i corrispondenti rapporti sociali. […] In un siffatto universo tecnico si realizza il paradigma, proprio della razionalità, dell’unità della molteplicità. Innumerevoli interazioni sociali hanno infatti un unico apparato come luogo di coordinamento (sia pure di un coordinamento che amplifica, invece di comporre, gli antagonismi). Ogni azione, inoltre, viene esattamente predeterminata dalla tecnica, in conformità al criterio razionale della precisione e del rigore. Infine si determina la prevedibilità di catene, lunghe quanto mai in passato, di cause e di effetti. La razionalità, insomma, trionfa. Nell’universo tecnico, d’altra parte, il soggetto non è più sorgente di azioni, in quanto le azioni si trovano già prescritte nel complessivo apparato scientifico-tecnologico. La libertà, quindi, perde di significato, e con essa la ragione. Prendersi la libertà di compiere un’azione contraria alle prescrizioni implicite nelle relazioni tecniche significa farla scadere dall’efficacia all’inefficacia, e quindi spogliarla del suo carattere attivo. Un’azione inefficace, cioè, non è più un’azione. Né è possibile farle attribuire un valore di altro genere, perché il riconoscimento di un valore presuppone l’accoglimento di un messaggio, e nell’universo tecnico gli unici messaggi di cui è possibile la trasmissione sono quelli conformi alle regole tecniche delle relazioni sociali, sono cioè quelle regole stesse. Nell’universo tecnico, dunque, cade la distinzione, paradigmatica della ragione, tra valore ed efficacia, perché il valore viene a coincidere con l’efficacia. L’irrazionalità, insomma, trionfa. Una razionalità irrazionale non è affatto, come potrebbe sembrare, una contraddizione in termini. Si tratta, invece, di un modello di razionalità, che possiede, cioè, caratterizzazioni proprie della ragione (precisione, rigore, calcolabilità, prevedibilità, efficacia), ma che non ha scopi, e che perciò include tutte quelle caratterizzazioni in un orizzonte di irrazionalità. Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre, il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. La storia degli ultimi secoli, dunque, da un lato ha potenziato ininterrottamente la razionalità, e dall’altro ci ha condotto, per la prima volta nella storia, ad una razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale. Il terreno a questo epilogo è stato preparato, sul piano delle idee, da tutti quegli autori che hanno dissociato la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana. […] Il modello di una razionalità divenuta priva di scopi, a cui è approdato il processo di razionalizzazione irrazionale degli ultimi secoli, annulla qualsiasi possibilità di distinguere la vita dalla morte, il bene dal male. Abbiamo visto infatti, nel secondo capitolo, come la vita e la morte, il bene e il male, siano connessi alla intrinseca natura teleologica dell’esistenza. Un modello di razionalità come quello dell’attuale epilogo della razionalizzazione irrazionale, costruito separando la ragione dalla teleologia, è perciò necessariamente cieco di fronte alla vita e al bene. Esso si rispecchia, quindi, in uno stile di vita e di pensiero in cui l’orizzonte della morte è rimosso, oppure nichilisticamente contemplato, in cui l’operare della morte è scambiato per espressione di vita e di conoscenza, in cui il bene è ineffabile, e sostituito in pratica dall’efficacia.
L’universo sociale contemporaneo, risultato dal processo di razionalizzazione irrazionale della modernità, è realmente l’inferno dello spirito. Dirlo non è elegante, non fa fare buona figura nell’ambiente sedicente colto della sinistra intellettuale e dell’intellettualità accademica e mediatica, e suscita il sarcasmo riservato, da ogni buon scientista o detentore del potere culturale, alle nostalgie premoderne e alle visioni apocalittiche. Lo si deve però dire, se si vuol dire la verità. Come altrimenti definire un mondo in cui la produzione economica, cresciuta e “razionalizzata” al punto da avvelenare sempre più la terra, l’acqua e l’aria con i suoi rifiuti, tiene tuttavia i tre quarti del genere umano in una penuria superiore a quella dei secoli precedenti?
Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, 1998, pp. 115-125.
Il 31 luglio 2011 veniva improvvisamente a mancare, a Pisa, Massimo Bontempelli. Chi ha avuto la fortuna di leggere i suoi libri, sa che, con lui, è venuto a mancare uno dei pensatori italiani più originali, autore di opere filosofiche, storiche e politiche che trovano raramente degli uguali fra quelle più note ai contemporanei; essendo pensatore critico verso il modo di produzione capitalistico, ed estraneo alla università, né in vita né in morte i suoi meriti gli sono (almeno per ora) stati adeguatamente riconosciuti. Queste pagine non ripagano il debito, né ne ricostruiscono l’opera, ma vogliono semplicemente essere un ricordo filosofico.
Tempo soggettivo della persona e tempo “oggettivo” della scienza, tempo della memoria e tempo del progetto, ricordo del passato ed anticipazione del futuro: si tratta di dimensioni che la filosofia, la scienza e la letteratura indagano da sempre, e che questo piccolo libro cerca di definire alla luce della riflessione filosofica. Il discorso, ad un tempo denso e lineare, viene svolto in sette brevi distinti capitoli. Nel primo (Gli enigmi del tempo) la realtà umana è indagata sotto gli aspetti della speranza, della perdita e della conservazione, con riferimento soprattutto ad Agostino e ad Aristotele. Nel secondo (Gli equivoci della scienza) è analizzato il complesso dualismo fra il tempo della fisica ed il tempo della filosofia, da Newton a Einstein e da Penrose a Prigogine. Nel terzo (Le riflessioni di Heidegger) la custodia del passato e il progetto del futuro vengono indagati alla luce del nesso heideggeriano fra futuro e morte. Nel quarto (I segreti di Platone) il pensiero del grande filosofo greco è indagato sotto l’aspetto del tempo come mobile riflesso dell’eternità. Nel quinto (Gli abissi di Hegel) il pensiero del filosofo tedesco è segnalato come il punto più alto della riflessione moderna sul tempo. Nel sesto e nel settimo (I volti del passato e Il futuro come memoria) sono tratte infine le conclusioni filosofiche del discorso storico fatto in precedenza. Il libro si segnala per la chiarezza con cui viene svolto un tema tradizionalmente complesso e difficile, ma anche per l’originalità teoretica delle sue proposte filosofiche. Esso ha dunque una doppia natura, puramente saggistica e pienamente didattica.
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Indice del volume
Introduzione
GLI ENIGMI DEL TEMPO I TEMPI DELLA SCIENZA LE RIFLESSIONI DI HEIDEGGER I SEGRETI DI PLATONE GLI ABISSI DI HEGEL I VOLTI DEL PASSATO IL FUTURO COME MEMORIA
«L’unico luogo in cui è possibile custodire la memoria del passato è la progettazione del futuro, così come l’unico modo per progettare un futuro ricco di essere è quello di costruirne il progetto con le memorie del passato” (Tempo e memoria, CRT-Petite plaisance, Pistoia, 1999, pag. 103).
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