Mario G. Losano – Kelsen vuole non spiegare, ma descrivere, poiché la sua teoria formale lascia ad altri lo studio dei contenuti. In questo periplo della dottrina pura del diritto ho additato più le secche che i porti. Per me, l’esprimere pensieri e ripensamenti legati al testo kelseniano che tradussi da studente è non tanto un’opera accademica, quanto un frammento di autobiografia culturale.

Losano Mario G. 01

[…] Dal punto di vista della lotta contro il giusnaturalismo, il relativismo kelseniano dà buoni frutti, spiegando nell’ambito d’una dottrina coerente come sia inammissibile ogni giudizio di valore assoluto. Un successivo esame rivela però che questo relativismo ha un limite: esso è completamente astorico, cioè appiattisce i vari contenuti del valore di giustizia in un’irreale sincronia, mentre, nella realtà storica, quei valori non coesistono, ma si succedono nel tempo, sia pur con inevitabili sovrapposizioni parziali. Soltanto così si può spiegare perché in tempi e luoghi diversi esistano norme di giustizia diverse fra loro, ma funzionali ciascuna al proprio ambiente.
Tuttavia Kelsen vuole non spiegare, ma descrivere, poiché la sua teoria formale lascia ad altri lo studio dei contenuti. Dal punto di vista metodologico è quindi indubbiamente scorretto attribuire contenuti ad una dottrina che non vuole averne; tuttavia è questo l’unico modo per superare la paralisi in cui si irrigidisce la dottrina pura del diritto. Fuor di metafora, bisogna a questo punto prendere posizione fra due giudizi di valore mutualmente escludentisi: la conoscenza è fine a se stessa o deve servire all’azione? Si ritorna così, ancora una volta, alle opposte concezioni della scienza – strumento conoscitivo chiuso in se stesso ovvero strumento del progresso umano – quali già si erano viste nel dibattito sull’avalutatività tra Schmoller e Weber. Nel primo caso, la dottrina pura del diritto va bene così com’è; nel secondo caso, non può più essere seguita.
Fu lo stesso Kelsen – quando, il 17 maggio 1952, ritirandosi dall’insegnamento, tenne l’ultima lezione a Berkeley – a mettere in luce tanto la mancanza di risposte propria della dottrina pura del diritto, quanto la necessità di ottenere una risposta a certi quesiti, che sono poi la condizione stessa per l’esistenza sociale d’una persona: «Ho aperto questo saggio con la domanda su che cosa è la giustizia. Ora, giunto alla fine, mi rendo perfettamente conto di non avervi risposto. La mia unica scusa è che, a questo riguardo, sono in ottima compagnia: sarebbe stato più che presuntuoso far credere al lettore che io sarei potuto riuscire là, dove erano falliti i pensatori pi6 illustri. Di conseguenza non so, né posso dire, che cosa è la giustizia, quella giustizia assoluta di cui l’umanità va in cerca. Devo accontentarmi di una giustizia relativa e posso soltanto dire che cosa è per me la giustizia. Poiché la scienza è la mia professione, e quindi la cosa più importante della mia vita, la giustizia è per me quell’ordinamento sociale sotto la cui protezione può prosperare la ricerca della verità. La “mia” giustizia, dunque, è la giustizia della libertà, la giustizia della democrazia: in breve, la giustizia della tolleranza».
Giudichi il lettore quanto quest’ultima affermazione sia compatibile con i postulati della purezza metodologica illustrati in precedenza. Tuttavia anche Hans Kelsen non ha altra soluzione per sottrarsi all’immobilismo elencatorio cui lo costringe la sua dottrina. Non v’è dunque da stupirsi se anche altri studiosi sentono l’esigenza di sottrarsi al frustrante precetto dell’avalutatività: la purezza è infatti una virtù commendevole, ed all’asceta che la pratica deve andare tutto il nostro rispetto; però una società di asceti sarebbe condannata all’estinzione.
In questo periplo della dottrina pura del diritto ho additato più le secche che i porti. Quando Kelsen separava il diritto dalla natura, ho ricordato i passi in cui egli afferma che una certa concreta efficacia è necessaria perché il diritto esista, cioè sia valido. Quando Kelsen separava il diritto dai valori, ho ricordato che la sua norma fondamentale non fa parte dell’ordinamento positivo, ma deve essere presupposta proprio in base a valori. Quando Kelsen limitava il compito del giurista all’accertamento della semplice validità formale delle norme, ho ricordato come egli fosse consapevole della Gorgone del potere che si cela dietro l’ordinamento giuridico. Quando Kelsen limitava l’attività del giurista a puri compiti elencativi, ho documentato come talora anche Kelsen sentisse il bisogno di infrangere l’elencazione pura di valori di giustizia o di possibili interpretazioni per scegliere un valore o un’interpretazione.
«Quandoque bonus dormitat Homerus», anche il buon Omero ogni tanto s’appisola, si potrebbe pensare con Orazio. Ma si sbaglierebbe: ho colto non i momenti di assopimento del teorico, ma anzi i suoi soprassalti di umanità. Quando il vincolo del sistema che egli va costruendo diviene così innaturale, da imporgli la scelta tra il rispetto della realtà e la coerenza della costruzione, talora Kelsen rinuncia a questa coerenza per rispetto della realtà. La dottrina pura del diritto è quindi una teoria che contiene gli elementi non della propria distruzione, bensì della propria evoluzione futura. Perciò, in queste pagine, ho cercato di distinguerne i punti fermi dalle costruzioni caduche, applicando alla teoria di Kelsen quel relativismo in cui egli vedeva l’unico fondamento della scientificità.
Spero che l’indispensabile precisione della critica non venga scambiata per astio di scuola. Per me, l’esprimere pensieri e ripensamenti legati al testo kelseniano che tradussi da studente è non tanto un’opera accademica, quanto un frammento di autobiografia culturale. Nella mia vita di scholar, le opere del grande giurista di Praga mi hanno costantemente accompagnato, stimolandomi sempre, anche se spesso per dissenso. Dissenso d’altronde inevitabile nell’avvicendarsi delle generazioni: più di mezzo secolo di polemiche, un molteplice esilio e due guerre mondiali non passano senza lasciar tracce su una dottrina; ma la dottrina che resiste a due guerre mondiali, ad un molteplice esilio ed a mezzo secolo di polemiche è una dottrina che, nella scienza del diritto, ha conquistato una posizione ben definita e, in certa misura, anche definitiva.

Mario G. Losano, Introduzione a Hans Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. XXXII- XXXV.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Mario G. Losano…


Prima in Galleria,
poi, più sotto,
ogni singolo volume …

Galleria



Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto. Saggio introduttivo e traduzione di Mario G. Losano, Einaudi 1966.


Giuscibernetica. Macchine e modelli cibernetici nel diritto, Einaudi, Torino 1969


La teoria di Marx ed Engels sul diritto e sullo stato. Materiali per il seminario di filosofia del diritto, Università Statale di Milano. Anno Accademico 1968-69, Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino 1969



Libia 1970. Materiali sui rapporti fra ideologia ed economia nel terzo mondo. Corso di filosofia politica, Università di Milano. Anno Accademico 1969-70, Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino 1970


Corso di informatica giuridica, Cuem 1971


Rudolf von Jhering, Lo scopo nel diritto. A cura di Mario G. Losano, Einaudi, Torino 1972


Liςões de informática jurídica, Editora Resenha Tributaria, São Paulo 1974


Hans Kelsen, Il problema della giustizia, a cura di Mario G. Losano, Einaudi 1975


Informática Jurídica, Saraiva, Edusp 1976


I grandi sistemi giuridici Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Einaudi 1978


Corso di informatica giuridica. Informatica per le scienze sociali, Einaudi 1985


Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto. Saggio introduttivo e traduzione di Mario G. Losano, Einaudi 1991


Storie di automi, Einaudi 1991


Corso di informatica giuridica. Diritto privato dell’Informatica, Einaudi 1997


I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Ed. Laterza 2000


Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale, Laterza 2000


La legge italiana sulla privacy. Un bilancio dei primi cinque anni, Laterza 2001


Sistema e struttura nel diritto. Vol. 1. Dalle origini alla scuola storica, Giuffrè 2002


Sistema e struttura nel diritto. Vol. 2. Il Novecento, Giuffrè 2002


Sistema e struttura nel diritto. Vol. 3. Dal Novecento alla postmodernità, Giuffrè 2002


Automi d’Oriente. «Ingegnosi meccanismi» arabi del XIII secolo, Medusa edizioni 2003


Verso una costituzione federale per l’Europa. Una proposta inedita del 1943, Giuffrè 2003


Mario G. Losano – Francisco Muñoz Conde (org.), El derecho ante la globalización y el terrorismo. “Cedant arma togae”. Actas del Coloquio Internacional Humboldt, Montevideo abril 2003, Tirant lo Blanc, Valencia 2004


Un giudice e due leggi. Pluralismo normativo e conflitti agrari in sud America, Giuffrè 2004


Función social de la propiedad y latifundios ocupados. Los sin tierra de Brasil, Dykinson 2006


 Il diritto economico giapponese, Unicopli 2007


 Il Movimento Sem Terra del Brasile. Funzione sociale della proprietà e latifondi occupati, Diabasis 2007


Hans Kelsen, Scritti autobiografici. Traduzione e cura di Mario G. Losano, Diabasis, Reggio Emilia 2008


Peronismo e giustizialismo, dal Sudamerica all’Italia, e ritorno. A cura di Marzia Rosti, Diabasis, Reggio Emilia 2008


L’ammodernamento giuridico della Turchia (1839-1926), Unicopli 2009


Umberto Campagnolo, Conversazioni con Hans Kelsen. Documenti dell’esilio ginevrino 1933-1940, a cura di Mario G. Losano, Giuffrè 2010


La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla decolonizzazione, Bruno Mondadori 2011


Solidaridad y derechos humanos en tiempos de crisis, Dykinson, Madrid 2011


Parlamentarismo, democrazia e corporativismo, Aragno 2012


La macchina da calcolo di Babbage a Torino, Olscki 2014


Rudolf von Jhering, Lo scopo nel diritto. Introduzione e cura di Mario G. Losano, Nino Aragno Editore, Torino 2014


I carteggi di Pietro Luigi Albini con Federico Sclopis e Karl Mittermaier (1839-1857).
Alle origini della filosofia del diritto a Torino, Accademia delle Scienza 2015


Alle origini della filosofia del diritto in Giappone.
Il corso di Alessandro Paternostro a Tokyo nel 1889, Lexisi 2016


Il portoghese Wenceslau de Moraes e il Giappone ottocentesco.
Con venticinque sue corrispondenze nelle epoche Meiji e Taisho (1902-1913), Lexis 2016


Lo spagnolo Enrique Dupuy e il Giappone ottocentesco, Lexis 2016



El valenciano Enrique Dupuy y el Japón del siglo XIX. En apéndice. Enrique Dupuy, La transformación del Japón en la era Meiji, 1867-1894, Servei de Publicacions de la Universitat de València, Valencia 2017


La rete e lo stato islamico. Internet e i diritti delle donne nel fondamentalismo islamico, Mimesis 2017


Hans Kelsen, Due saggi sulla democrazia in difficoltà (1920-1925). A cura di Mario G. Losano, Aragno, Torino 2018


Norberto Bobbio. Una biografia culturale, Carocci 2019


INTRODUCCION A LA INFORMATICA JURIDICA, EDICIONES OLEJNIK 2019


La libertà d’insegnamento in Brasile e l’elezione del presidente Bolsonaro, Mimesis 2019


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Fallimenti e ricostruzioni teoriche. Note su Gianfranco La Grassa.

Gianfranco La Grassa 01

Salvatore Bravo

Fallimenti e ricostruzioni teoriche

Note su Gianfranco La Grassa

Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista, definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga. È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita. Nella visione di Marx il capitalismo si sarebbe trasformato in capitalismo finanziario (III Libro del Capitale), per cui i padroni avrebbero lasciato la gestione delle fabbriche agli ingegneri e ai tecnici, i quali si sarebbero dovuti alleare con gli operai, al fine di controllare collettivamente le fabbriche, ribaltando il potere, e liberando operai e classe media. I padroni, ormai “aristocrazia della finanza”, si sarebbero dedicati a “produrre” plusvalore in borsa, il parassitismo finanziario con la loro autoesclusione dalla diretta gestione della produzione sarebbe stato l’inizio della rivoluzione.
La classe operaia idealizzata da Marx quale motore universale della storia, non aveva e non ha le competenze per una simile operazione politica e strutturale, essa è stata un mito catalizzatore che ha mostrato “nella storia” la sua verità. Il comunismo non ha mantenuto le sue promesse, il disincanto per le condizioni dei subalterni si è congiunto con il fallimento predittivo di Marx. La successione stadiale ipotizzata da Marx è stata cancellata dalla storia effettiva. I due elementi hanno prodotto il collasso del comunismo, la sua effettiva scomparsa e il disincanto generalizzato.
La Grassa non si definisce marxista, sperimenta una nuova identità partendo dall’analisi delle condizioni presenti del capitalismo. La verità nuda e cruda del comunismo è davanti a noi, distogliere lo sguardo significa solo rimandare il problema senza risolverlo:

“Perché l’elemento decisivo di tale teoria consisteva nella supposta oggettiva funzioni emancipatrice universale della classe operaia considerata nella sua (quasi) totalità ( le “masse proletarie”) oppure con più specifico riferimento alla sua presunta avanguardia che ne rappresentava la coscienza – il manifestarsi dell’incapacità rivoluzionaria di detta classe, che non si volle mai riconoscere formulando una sequela di ipotesi ad hoc sempre più inconsistenti, condusse infine al ripiegamento su una costruzione socialistica da parte dello Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialismo di Stato Lassalle, aspramente criticamente e sbeffeggiato da Marx[1]”.

L’incapacità operaia di gestire la produzione con la classe media si è confermata non solo ad Est, ma anche ad Ovest. Dinanzi ad una simile verità storica non resta che prendere atto dell’incapacità della classe operaia di essere la protagonista del movimento rivoluzionario, per cui bisogna congedarsi dai miti marxisti e marxiani per un sano principio di realtà da cui riteorizzare ex novo l’alternativa:

“Il passaggio dalla proprietà al potere di disporre fu per l’epoca – in cui la lotta dei comunisti rivoluzionari (che si consideravano neoleninisti) e dei marxisti rinnovatori mirava a sconfiggere dall’interno il presunto neorevisionismo delle dirigenze PCUS e di praticamente tutti i partiti comunisti, salvo per un breve periodo (fino alla morte di Mao nel 1976) quello cinese – un evento liberatorio, di cui è oggi estremamente difficile rendersi conto. Tale passaggio manteneva ferma la convinzione della centralità rivoluzionaria della classe operaia, non riprendendo quindi il concetto di lavoratore collettivo cooperativo, poiché era fin troppo evidente, anche in seguito all’esperienza accumulata nell’ambito del capitalismo occidentale, che le potenze mentali e le funzioni direttive della produzione (in realtà dei processi di lavoro) dimostravano di non essere per nulla in grado, malgrado alcune speranze sollevate dal movimento del 1968, di staccarsi dal potere delle classi proprietarie e di criticare queste ultime in funzione di una – in realtà mai innescata, né all’ovest né all’est – riappropriazione reale dei mezzi di produzione (capacità di utilizzarli per i propri fini, ecc.) da parte dell’intero corpo lavorativo[2]”.

 

Capitalismo e razionalità strategica
L’analisi “oggettiva” di La Grassa per teorizzare il movimento anticapitalistico parte dall’errore teorico di fondo dei marxisti, i quali hanno effettuato un riduzionismo puramente giuridico ed economicistico, per cui bisogna “ripartire” da un macroelemento economico, tecnico e sociale, ovvero più che la lotta tra capitale e lavoro salariato, è la lotta strategica tra gli imprenditori ad essere la forza sostanziale e dinamica del capitalismo che ha raggiunto la sua espressione evidente nella contemporaneità. Tale lotta non può che avvenire in presenza di altissime competenze manageriali che si traducono in strategie per conquistare i mercati e per conquistare le strutture statali al fine di affermare la supremazia dei gruppi in lotta tra di loro. La razionalità strategica diviene il perno operativo dei gruppi imprenditoriali-manageriali in lotta che per conquistare mercati, politica e Stato con forme concorrenziali aggressive che La Grassa denomina “conflitti strategici” con cui appropriarsi di quote di mercato e con esso “zone d’influenza” sociale, culturale e politica. Il denaro è per i “dominanti” un mezzo per conquistare un potere sempre più vasto, per penetrare in aree sempre più vaste della politica come della produzione culturale. In questo contesto “i dominanti” non sono assimilabili alle classi agiate, perché per essi il denaro è solo uno strumento per ritagliare porzioni sempre più larghe di potere, e lo stesso Stato è interno a questa strategia, esso non è caratterizzato da omogeneità strutturale, ma dietro la parvenza dell’unità è mosso dalle forze strategiche in campo:

“Concentrare l’attenzione teorica e analitica solo sull’oligopolio e/o la concorrenza, in quanto forme diverse di mercato, è appunto conseguenza di quella impostazione che pone al centro i problemi della proprietà o meno dei mezzi di produzione e che considera l’impresa solo come unità produttiva. Se teoria e analisi vengono fondate sul concetto di conflitto strategico, la lotte per le quote di mercato, e le varie forme di quest’ultimo, vengono ricomprese nel più vasto orizzonte dello scontro interdominanti per le zone d’influenza, sia con riguardo alle diverse sfere sociali (economica come politica e culturale) sia riferendosi, in senso geopolitico, alle diverse aree della formazione capitalistica mondiale[3]”.

La lotta strategica produce nuovi bisogni, per vendere nuovi prodotti. L’agire strategico si rafforza mediante la cultura del consumo, con l’omogeneizzazione delle scelte dei consumatori/dominati orchestrata dai gruppi manageriali. La razionalità strategica non agisce semplicemente incrementando la produzione, ma “studia” strategie di condizionamento sociale per cambiare modi di vita, tradizioni e morali, per cui il “nuovo prodotto” non è solo un elemento materiale che produce plusvalore, ma è veicolo di nuovi modelli culturali che calano dall’alto delle strategie manageriali e che colgono i consumatori nel ruolo dei “dominati” nel lavoro come fuori di esso:

“L’anello di congiunzione tra esterno e interno dell’impresa capitalistica, tra i ruoli della strategia di conflitto interimprenditoriale e quelli di coordinamento interno orientato al minimax, è rappresentato dalle innovazioni di prodotto[4]”.

 

Crisi e opportunità
Il conflitto strategico interimprenditoriale è il tallone di Achille del capitalismo, poiché le lotte per la conquista imperiale di quote di mercato e potere sempre più ampie a livello globale, e le tensioni interne per controllare gli apparati statali da usare per favorire i gruppi in ascesa espone il capitalismo a crisi, le quali possono essere un’opportunità per il suo ribaltamento. Non vi sono le fasi stadiali marxiste a profetizzare il cambiamento, pertanto la crisi è una partita aperta, in cui si muovono sia movimenti anticapitalistici, sia movimenti ed ideologie di diverso genere. La crisi è un momento fluido come il potere del capitale, è un’improvvisa fessurazione del potere all’interno del quale possono agire forze dinamiche di opposizione. Non vi è nulla che assicuri il risultato, ma nelle crisi ci si gioca una possibilità di cambiamento verso destra o verso sinistra non realizzabile nei momenti di “solidità fluida” del capitalismo:

“E’ in una situazione di simile complicatezza – per nulla affatto caratterizzata da un’omogenea massa di dominati in movimento in movimento contro la minoranza dei dominanti – che deve destreggiarsi l’eventuale gruppo di azione strategica per la trasformazione anticapitalistica. La tensione morale, di cui ho detto, è condizione necessaria ma non sufficiente; ad essa deve aggiungersi la capacità di analisi delle condizioni di possibilità che la crisi, con la lotta acuta scoppiata tra i dominanti per il rivoluzionamento delle posizioni di supremazia precedenti la crisi stessa, apre alla trasformazione anticapitalistica. Non c’è nulla di precostituito, nessuna ricetta di carattere generale in grado di indicare le modalità, storicamente specifiche, delle azioni strategiche che i gruppi mossi da intenti trasformativi della formazione sociale esistente debbono compiere per ottenere successo; mai immancabile, più spesso contrarie[5]”.

Gianfranco La Grassa ha sicuramente posto in essere problematiche rimosse dal marxismo ufficiale. Non si può per le sue posizioni teoriche definirlo un comunista, diventa difficile collocarlo all’interno di una categoria ben determinata, ciò non necessariamente è negativo, benché senza un’appartenenza esplicita il quadro teorico rischia di desertificarsi in assenza di tensione dialettica. Nella teoria del filosofo di Conegliano non vi è un fondamento metafisico, pertanto non è chiaro il percorso che “le forze morali anticapitalistiche dovrebbero percorrere”. Le crisi possono essere momenti congiunturali di grandi opportunità, ma in assenza di un fondamento metafisico è facile che l’opposizione anticapitalistica si sciolga in una pletora di posizioni, poiché il semplice “anticapitalismo”, non può tenere assieme movimenti e partiti che si connotano sempre più per la loro pluralità frammentata, mentre i fondamenti metafisici comuni permettono con più facilità di trovare compromessi e progettualità chiare da perseguire. Il soggetto che dovrebbe in situazione di crisi operare la svolta, non è in alcun modo esplicitato. Si può dubitare della formazione improvvisa in una situazione emergenziale di un soggetto rivoluzionario, credo che esso debba configurarsi nei periodi di apparente quiete del sistema, giacché il capitalismo non è solo conflittuale a livello globale, ma anche al suo interno agisce secondo modalità “distribuitive” che creano squilibri economici e di potere e specialmente produce una “qualità di vita” non rispondente ai bisogni umani. Il tema dell’alienazione è aggirato e la “normale violenza” che scorre nel sistema può, invece, diventare il nucleo concettuale trasversale per aggregazioni progettuali condivise. La Grassa ci offre strumenti per decodificare il presente, ma non ci aiuta ad orientarci verso il futuro che, in tale contesto, risulta nebuloso e distante, e ciò può demotivare la ricerca di un’alternativa al capitalismo come “stile di vita”. I gruppi che tumultuosamente si muovono nella crisi, in assenza di fondamenti metafisici e preparazione dialettica, possono sviluppare tendenze distruttive quanto il capitalismo:

“Nella crisi dunque – ma è solo in essa che si muovono in senso proprio, e tumultuosamente, le masse – i gruppi strategici trasformativi debbono attuare la guerra di movimento, e puntare piuttosto direttamente al controllo degli apparati del potere statale[6]”.

 

Ricominciare da Marx?
L’incapacità manageriale degli operai evidenziata da La Grassa ha un senso all’interno del capitale, ma rovesciato il capitalismo la gestione delle imprese e delle fabbriche dovrebbe essere non certo fondata sul paradigma manageriale che risponde alla logica della razionalità strategica e competitiva, ma sul servizio e sulla soddisfazione dei bisogni delle comunità. Non sono pochi gli esempi, anche se isolati, di operai che gestiscono direttamente imprese con un’organizzazione solidale. Il fallimento del comunismo e la momentanea vittoria del liberismo rischiano di oscurare la complessità dei fenomeni storici, i quali se sono letti sotto il “solo” cono d’ombra dell’evidente sconfitta storica, rischiano di eternizzare il liberismo. La storia non è prevedibile, pertanto si può ipotizzare che sia possibile ripensare il comunismo su nuova fondamenta e concettualizzando la sconfitta storica. Se si rinuncia a tale progetto si diventa complici della trasformazione della società in un “eterno mercato”. Un punto teorico da cui ricominciare, lo esplicita lo stesso La Grassa, il comunismo teorizzato da Marx esaltava l’individualità comunitaria, mentre il comunismo reale ha appiattito le individualità come la partecipazione:

“Sono tuttavia convinto che secondo Marx e il migliore marxismo – non certo quello, ad es., dei “sessantottini”; né quello sindacale, ecc. – il comunismo volesse e dovesse esaltare l’individualità, non avvilirla né soffocarla. Non si predicava un egualitarismo grigio, conformistico, piatto, buono per portare in primo piano i mediocri, privi di ogni idea propria, annientando invece le qualità di spicco, come purtroppo accadde nel “socialismo reale” (e in molti partiti comunisti). A ciascuno secondo il suo lavoro non significava, per Marx, far soltanto riferimento alla quantità, al tempo di lavoro, ma anche alla sua creatività e originalità. Altrimenti non nasce mai il nuovo, tutto continua in una routine mortificante che, alla fine, provocherà la rivolta contro “l’uomo medio”, quello di cui vorrei ci si ricordasse sempre la definizione datane da Pasolini, tramite il personaggio del regista interpretato da Orson Welles, nel suo forse più bel gioiello cinematografico: La ricotta da Rogopag. Nemmeno però si può accettare il tipo di competitività che regna nella nostra società, nel capitalismo borghese e ancor più in quello dei funzionari del capitale: una lotta fondata sulla sopraffazione, la coercizione, l’inganno, la menzogna, l’ipocrisia, il raggiro, e chi più ne ha più ne metta; e molto spesso, ovviamente, sull’uccisione (di massa), le guerre e distruzioni immani, le torture, ecc[7]”.

Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca. Marx non è rimasto sepolto solo sotto il crollo del muro di Berlino, ma specialmente è stato ideologizzato dal comunismo reale fino a renderlo prigioniero delle nomenclature che lo hanno congelato in un lungo e sterile inverno. Prima di abbandonare Marx e il comunismo si potrebbe riprendere la lettura di Marx per trarne le potenzialità irrigidite dalla corrente fredda della storia, e per “esplorare” le potenzialità sistemiche non ancora esplicitate. Il comunismo ha una storia breve, pertanto come tutti i movimenti di grande respiro non possono essere giudicati e congedati per i risultati ottenuti in un tempo relativamente breve. Si “obliano”, pertanto, nella veloce liquidazione le conquiste che il comunismo ha favorito in Occidente come in Oriente. Se si afferma che la vittoria del capitalismo è “totale[8]”, l’effetto inibente diventa drammatico, ed è facile perdere con la speranza, la creatività e la lucidità storica. La vittoria del capitalismo, può essere l’inizio della sua fine, perché è fondato sull’illimitato, e dunque, perso ogni limite ed opposizione è possibile che mostri la sua verità, maciullando Stati e persone, con l’effetto di svelare la sua “intima” verità spaventevole. La verità è tutto, affermava Hegel, per cui il giudizio dev’essere sulla totalità aperta al futuro dell’esperienza trascorsa, e non certo finalizzata solo a conteggiare gli errori. La posizione di Costanzo Preve verso il marxismo reale è indubitabilmente più complessa, rileva i limiti teorici di Marx, evidenzia le tragedie storiche del comunismo reale e le sue conquiste, il confronto dialettico con “il tutto” lo porta al comunitarismo quale forma di comunismo democratico con fondamenta metafisiche:

“Nell’ultimo saggio di La Grassa, insieme a una certa interpretazione di Marx che paradossalmente io stesso condivido in buona parte (ma per un settario se non la condividi tutta sei un analfabeta ignorante), ci sono due affermazioni: comunismo e marxismo sono morti, la prima; e la storia non è storia delle lotte di classe fra dominanti e dominati, la seconda. E’ possibile commentarle senza essere investiti di pittoreschi insulti e di accuse di non conoscere Marx, oppure no? Tutti capiscono che non appena alcune tesi vengono affidate alla carta stampata diventano “pubbliche”, ed esiste ancora il kantiano “uso pubblico della ragione”. Esiste per tutti, salvo che per La Grassa. Ripeto quello che per me è il punto essenziale: chi si mette sul terreno della falsificazione epistemologica del marxismo e del comunismo sceglie di interpretare Marx come il portatore di una semplice scienza previsionale non filosofica, che come tutte le scienze previsionali non filosofiche cade sotto il criterio popperiano della falsificazione[9]”.

Il crollo del comunismo teorico e storico lascia uno spazio aperto di potenzialità, si può uscire dal comunismo, ma questa è una possibilità, non è una necessità determinata da “ragioni superiori”, si può scegliere anche di proseguire il cammino di emancipazione all’interno della storia comunista senza dogmatismi, e trasformando i fallimenti in spessore teorico da cui riprendere l’iter della storia emancipativa.

Salvatore Bravo

***

[1] Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi dalla proprietà al conflitto strategico Per una teoria del capitalismo, Petite Plaisance Pistoia 2004, pag. 15.

[2] Ibidem, pag. 24.

[3] Ibidem, pag. 89.

[4] Ibidem, pag. 81.

[5] Ibidem, pp. 180-181.

[6] Ibidem, pag. 183.

[7] Gianfranco La Grassa, Nel tempo della globalizzazione non si può invocare una rinascita di Karl Marx, occorre un ripensamento ‘globale’ dell’intera sua prospettiva storica.

[8] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio, Vangelista, 1994, pag. 15.

[9] Costanzo Preve, Note su Gianfranco La Grassa, 24/10/2011, in pauper class.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Günter Anders (1902-1992) – «Lo sguardo dalla torre». I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità.

Günter Anders 10

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria.

Goffredo Fofi


Salvatore Bravo

I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo
di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità

***

 

Cinismo
Il cinismo dei nostri giorni ha bisogno d’essere compreso, trasformato in concetto per poter ipotizzare la possibilità della prassi e dell’esodo dal pantano dall’anomia etica in cui siamo intrappolati. Solo lo sguardo filosofico della civetta-filosofia può penetrare il buio senza distogliere la vista dal vorticoso nichilismo nel quale siamo immersi. Il nichilismo lasco nelle parole, e distruttivo nelle azioni è la verità con cui ci si deve confrontare senza infingimenti. Quando il reale storico con la sua violenza opportunistica aggredisce ogni energia positiva, ogni pensare creativo – rappresentandolo come “pia illusione” per poter giustificare la pratica del cinismo – è facile lasciarsi conquistare dalla cattiva politica per disperazione. Il nichilismo inquina le acque della creatività ed insidia ogni resistenza con la sua rappresentazione del reale come unico possibile, come un destino che fatalmente tutto divora senza speranza alcuna. A volte, rileggere i racconti brevi di Günther Anders, quasi degli aforismi, può essere di ausilio per vedere con gli occhi della mente ciò che solitamente rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare. La letteratura filosofica può essere un percorso di liberazione dal velo di Maya che offusca l’agire e la visione della verità. Essa è, con i suoi simboli-concetto, veicolo di attraversamento della notte oscura in cui siamo. Guardare il buio è già l’inizio di una nuova alba. Le contraddizioni sono la breccia verso un nuovo mondo: senza di esse non vi è prassi e non vi è vita degna di essere vissuta.

Lo sguardo dalla torre
Lo sguardo dalla torre è un breve testo scritto da Günther Anders nel 1932. Lo sguardo che cade dall’alto è il segno di una distanza che modifica il reale storico in sguardo psicotico, in fuga dalla realtà, per rifugiarsi in una distanza che non vuole vivere e pensare la tragedia con le sue contraddizioni. La distanza rende la verità un gioco, una finzione a cui si può assistere senza esserne coinvolti: pertanto è respinta la responsabilità etica e la sofferenza che comporta. La distanza diviene il rifugio da cui ci si protegge nell’illusione che ciò che accade non ci coinvolge e non ci chiama in causa. La torre descritta da Günther Anders è metafora dell’uso delle tecnologie che allontanano dall’impegno storico, esse sono il mezzo con cui il potere neutralizza la partecipazione. Lo sguardo della tecnologia si installa in noi ed educa alla distanza, all’anestesia del concetto e del sentimento. La sostituzione della realtà diretta con l’immagine di essa forma ad un comportamento “psicotico”: ci si rifugia in una torre interiore che non si lascia toccare da nulla. Si assiste, dunque, passivamente all’accadere storico. Anzi, l’inquietudine della realtà e l’incapacità acquisita ad orientarsi nelle tragedie storiche rafforzano l’eternizzarsi del gioco, del virtuale sul reale, eternizzando il presente. Scendere dalla torre interiore diviene, in tal modo, il primo atto di emancipazione senza il quale nulla può iniziare:

 

«Quando la signora Glü dalla più alta torre panoramica[1] gettò lo sguardo verso il basso, dalla strada sottostante, simile a un minuscolo giocattolo ma riconoscibile inequivocabilmente per il colore del cappotto, sbucò suo figlio; e un secondo dopo, questo giocattolo venne travolto e distrutto da un autocarro rassomigliante anch’esso a un giocattolo – comunque la faccenda si sbrigò a malapena nell’arco di un istante di irreale brevità, e il tutto si svolse solamente fra giocattoli. “Io non vado giù!”, urlò a quel punto la signora Glü, rifiutandosi di scendere le scale, “io non abbandono la torre! Lì sotto potrei disperarmi!”».[1]

 

Lo sguardo all’insù
Lo sguardo all’insù, del 1957, ancora una volta descrive la distanza da un’altra prospettiva. In questo caso dal basso. Non più un singolo, ma un gruppo umano – abituato ad un quotidiano senza emozioni – assiste al suicidio di un loro simile senza far nulla per la sua salvezza. Lo spettacolo del tentativo di suicidio è vissuto come un evento che rompe il ritmo quotidiano: pertanto è occasione per liberarsi dalla noia. Gli spettatori non si pongono domande, non empatizzano. Continuano, mentre assistono all’insolita rappresentazione, a gestire i loro affari. L’impazienza e la curiosità li solleticano a restare, perché desiderosi di sapere-vedere se il suicida porterà a termine il suo proposito. La distanza cinica è la vera protagonista del racconto. Ripiegati su se stessi, “educati” all’atomistica delle solitudini, quegli uomini sono ormai incapaci di sentirsi parte di un tutto, sono monadi abituate a consumare le loro vite come fossero pratiche burocratiche da espletare. Il suicida ha su di sé lo sguardo degli altri. Per la prima volta è oggetto, si può dedurre, dell’attenzione dei suoi simili. Deve accontentarsi di una sguardo anonimo, perché vive in una realtà di cecità emotiva assoluta. Il suicida è la disperazione della normalità che cerca di essere riconosciuta in modo distorto e assurdo, perché solo un gesto estremo può provocare l’attenzione di coloro che vivono nell’indifferenza. La disperazione cade dall’alto e si muove dal basso, le disperazioni si incrociano, ma sono diverse: il suicida ha un livello di consapevolezza più alto, ma senza prospettiva. La curiosità – alla fine – è soddisfatta: il suicidio si realizza, e quindi il gruppo raccogliticcio ed occasionale si scioglie e ritorna «alla patologica normalità di ogni giorno»:

 

«”Coraggio, sbrigati!” gridava la folla verso l’alto, dove alcuni avveduti – stavano ancora indicando all’insù coi loro bastoni da passeggio – avevano individuato sul davanzale della più alta finestra della torre qualcosa di minuscolo, riconoscibile dai nuovi sopraggiunti solo dopo pochi istanti, qualcosa di nero, che non poteva essere nient’altro che un uomo arrampicatosi fin là per buttarsi nel vuoto “Coraggio, sbrigati!” gridavano, perché, come annunciava uno sprezzante brusio, era già da un’ora buona che quell’uomo stava perdendo tempo, e dopo quest’ora buona non era ancor riuscito a prendere la sua decisione – “Coraggio, sbrigati!” gridavano, e alcuni: “Salta, deciditi!” e altri: “Per quanto tempo ancora dovremo aspettare in piedi?” – e poco a poco le loro voci sfociarono in un generale mormorio collettivo, e poi in un generale gridare spazientito e indignato, come se egli, per il fatto di starsene lassù in alto, avesse assunto l’obbligo di fare ciò per cui loro erano appostati lì con le bocche aperte: vale a dire, o lasciarsi cadere come una pietra, oppure – cosa che avrebbero forse preferito vedere – esibirsi in un perfetto tuffo di testa attraverso il blu del cielo di mezzogiorno; e come se costoro, dal momento che era proprio per amor suo che erano rimasti lì in piedi, e per amor suo avevano abbandonato i loro affari, avessero diritto non soltanto a questo spettacolo, ma anche a che egli non continuasse a rimandarlo di un altro istante; e come se quel che si trovava lì sotto di lui non fosse la marea di tetti della città, ma il mare vero nel quale gettarsi e immergersi, in questa caldissima giornata d’agosto, per poter rimediare un invidiabile refrigerio. Ed era per lui, che in maniera così imperdonabile veniva meno ai propri doveri, che essi ora là sotto, altrimenti così tanto coscienziosi, stavano sottraendosi ai loro doveri – cosa che comunque continuavano a giudicare inconcepibile–; e se poi egli, mentre si raccoglieva per la sua ultima decisione impiegandoci così tanto tempo, potesse in qualche modo distinguere la folla che da laggiù, accalcata testa a testa, lo stava scrutando, e se avesse percepito il baccano dell’affollamento, se egli facesse in qualche modo riferimento a questo chiasso, sempre che l’avesse percepito, se egli intuisse che fra coloro i quali avevano perso la pazienza, perché la lunga attesa cominciava a essere un peso per tutti e perciò iniziarono tutti insieme a gridare in coro, se intuisse che fra questi vi fossero anche conoscenti o suoi amici, non ci è dato saperlo con certezza. È certo invece che il loro numero cresceva di minuto in minuto. E che a nessuno, fra le persone bloccate tra la folla in attesa già da un’ora, parve saltar in mente di abbandonare lo spettacolo prima dell’atto conclusivo, o addirittura tentar di defilarsi dalla folla per dare seguito ai propri affari. In ogni caso rimasero tutti così immobili, come se quel giorno fosse stato un giorno di festa in cui a nessuno sarebbe potuto sfuggire qualcosa, e con lo sguardo fisso verso l’alto; ed è verosimile che costoro sperassero al tempo stesso non soltanto ch’egli finalmente saltasse giù, ma anche che non saltasse proprio adesso, no, forse che addirittura non saltasse mai, perché dopo il salto sarebbe tutto tornato come un tempo – una situazione estremamente sgradevole e mortalmente noiosa che, già adesso probabilmente, nessuno vedeva di buon occhio, tanto quanto il fatto che l’uomo non fosse ancora saltato giù. Solo dopo, quando l’attesa fu interrotta dal suo lancio nel vuoto, e senza nessun preavviso per altro, cosicché molti di loro mancarono scandalosamente il momento cruciale; solo dopo che egli, rotolando in aria più volte su se stesso come un sacco o una pietra, si era lanciato sfiorando il muro della torre, per poi schiantarsi a terra con un tonfo, laggiù dove egli (sicuramente il più irriconoscibile) si era ferito mortalmente assieme a tre dei curiosi che la folla aveva spinto direttamente ai piedi della torre; solo dopo essersi rassicurati, perché «era proprio ora», solo in seguito iniziarono tutti a spingersi lentamente l’un contro l’altro, molti col viso indispettito, e solo in seguito iniziarono a confessarsi che gli affari, tuttavia, sarebbero continuati, e che forse erano addirittura continuati nel frattempo».[2]

 

Il fuori che è andato perduto
Dove fuggire in un mondo reso omogeneo dalla tecnocrazia, dalla violenza dell’efficientismo orbo di ogni ideale e senso?
In Il fuori che è andato perduto, del 1958, Günther Anders descrive il pianeta ormai globalizzato e sussunto al pensiero-governo unico, in cui le nazioni sono scomparse perché il potere è globale. Il pianeta è una grande prigione senza speranza e senza politica, non vi sono modelli sociali alternativi, non vi è la dialettica politica, ma regna solo la violenza del pensiero unico. Il racconto sembra parlarci dell’attualità e del futuro prossimo possibile, in cui l’imperio della lingua unica, l’inglese, si associa al modello economico unico, il liberismo, che penetrano ogni spazio geografico e mentale per restituirci la trasformazione del globo in un’immensa gabbia d’acciaio senza uscita e prospettiva:

 

«Quando nell’anno 2058, mezzo secolo dopo la fondazione dello Stato mondiale, un alunno lesse nella ‹Storia del 20° secolo› la frase: “Nei momenti in cui qua e là il peso delle dittature diveniva insopportabile, c’erano sempre folle di fuggiaschi”, chiese – perché per lui che il mondo fosse uno ed ermeticamente chiuso era assolutamente scontato: “Folle di fuggiaschi? Ma che significa? E dove mai poterono scappare? C’era davvero un fuori?” – Ed esclamò, colmo di disprezzo, come se per lui queste domande fossero già state risolte, e come se la condizione misera in cui era nato potesse essere un motivo d’orgoglio o addirittura un merito personale: “Guarda un po’, un ‹peso› le avevano definite quelli!” – Dal che si deve imparare che dovremmo riflettere tre volte prima di fondare uno Stato mondiale. Perché laddove ve ne è soltanto uno, allora non rimane più nessuno spazio al di fuori. Quindi nemmeno alcun rifugio possibile».[3]

 

Günther Anders tratteggia con la sua scrittura pungente e priva di “ogni morbidezza” i pericoli del tempo presente, in lui lo sguardo filosofico diviene “senso storico” e capacità di inseguire le dinamiche storiche nel loro sviluppo futuro. Günther Anders ci avverte dei pericoli a cui andiamo incontro, descrive il tempo presente con la lucidità e l’onestà tipica di un inattuale come lui, che – per comprendere – si è reso disorganico ad ogni potere.
La resistenza è sempre possibile ed è sempre in fusione combinata con la concettualizzazione del reale storico. Ma resistere non basta, è necessario partecipare alla creazione di una nuova visione del mondo, è necessario sottrarsi all’accettazione passiva degli automatismi indotti in ogni sfera e ri-forgiare l’umanità di ogni atto umano, consapevole e/o spontaneo, al fine di poter contribuire allo sviluppo un nuovo umanesimo comunitario.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Günther Anders, Lo sguardo dalla torre: Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, Mimesis, Milano 2011, pp. 8.

[2] Ibidem, pp. 106 107.

[3] Ibidem, pp. 57-58.


Dalla Prefazione

di Goffredo Fofi

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria. Che non sentono affatto il peso di quella «vergogna prometeica» che pure è avvertita più o meno coscientemente anche da persone comuni e senza studio: la nostra dissociazione dalle cose che noi e quelli come noi hanno prodotto, la perdita di senso della nostra esistenza divisa tra le immense potenzialità della tecnica (dei suoi prodotti continuamente rinnovati, e tutti in definitiva destinati alla distruzione, il cui solo scopo è quello di venir distrutti) e la nostra possibilità di intenderli, l’incapacità di ciascuno di elaborare una morale del loro uso, la nostra sottomissione ai nostri prodotti, l’acquiescenza ai messaggi mediatici che ce li impongono e che, imponendoceli, impongono altresì l’adesione al sistema che ce li offre.
L’uomo stesso, dice Anders, sta scomparendo, grazie all’oscura azione della tecnica e della genetica, e cambia di sensibilità e di conformazione, secondario alle cose e infinitamente più deteriorabile delle cose a cui ha dato forma e presenza, cui ha permesso il diritto a un’esistenza che ci oltrepassa. L’uomo è diventato antiquato, non può che contare sempre di meno rispetto al concreto inganno in cui si è involto, e se ci saranno ancora uomini, a costoro – come già ci accade così spesso di constatare –, delle qualità che hanno caratterizzato nei secoli l’umano resterà ben poco: mutanti e mutati, astorici per la mutazione stessa della storia.
Tra poco, se sopravviveremo – perché è di noi medesimi che parliamo –, e già ora per notevole parte, saremo irriconoscibili a noi stessi.
Abbiamo conosciuto per primo l’Anders del «pilota di Hiroshima», del rischio atomico, del pacifismo radicale, grazie, in Italia, all’opera di traduttore e diffusore di Renato Solmi presso le edizioni Einaudi. Anders venne a Torino nei primissimi anni sessanta e ricordo, al Centro Gobetti, un incontro non felice con il gruppo dei Quaderni Rossi, ancora presi di rivoluzione operaia e di «marxismo critico» e troppo chiusi sull’immediato dei «rapporti di proprietà» per accettare una visione del presente e del futuro più ampia e, per dirla tutta, post-socialista… Anche coloro che, vicini all’area nonviolenta dei movimenti di quegli anni di «prima del ‘68», non mi pare capissero fino in fondo la novità e l’attualità del discorso di Anders, poiché tutti, dico tutti, eravamo imbevuti di quell’ideologia del progresso che si era imposta al senso comune negli anni della ricostruzione, e da quell’illusione di rivoluzione che, in vario modo, attraversava allora il pianeta – una guerra perduta. Il contingente ci velava il soggiacente, il mutamento irreversibile che pure, a saper guardare, era più che evidente.
Ritrovammo Anders molti anni dopo, nel pieno di quegli anni ottanta che volevano sancire la «fine della storia» e che ormai rendevano evidente la sua attualità e la centralità del suo pensiero, capace di spingersi più oltre di qualsiasi altro e vedere quel che ci si era ostinati e ancora ci si ostinava a non voler vedere. Fu sulle colonne di “Linea d’ombra”, dove la firma di Anders comparve più e più volte grazie alla nostra affettuosa insistenza sullo stesso Anders, per il tramite di un’amica che lo visitava spesso a Vienna comunicandogli la nostra ammirazione e il nostro affetto, Ea Mori.
Ora Anders veniva infine conosciuto e studiato anche nel nostro paese. E veniva infine nuovamente tradotto permettendoci di scoprire le molte facce della sua attività e, tra l’altro, la durezza della sua critica al generico pacifismo e alle superflue marce domenicali dei nonviolenti, da lui definite happening. Il suo sarcasmo ci colpì e ci convinse, con la proposta che ne stava al fondo, dell’indispensabilità di un’azione ben più dura nei confronti di un nemico senza volto che ossessivamente trasformava il mondo – e che oggi il movimento degli Occupy ha finalmente individuato, senza nessuna possibilità di errore, in Wall Street e in genere nella grande finanza. Di fronte all’enormità dell’aggressione, occorrevano – occorrono – risposte adeguate che, se in Anders non rifuggivano più dall’appello alla violenza, in altri avrebbero ben potuto essere quelle, mai praticate o fiacchissimamente dai movimenti pacifisti e nonviolenti, della disobbedienza civile. E questo non è un altro discorso!
Ma esiste un terzo Anders, a fianco dell’Anders filosofo e dell’Anders della guerra e della pace, ed è l’Anders letterato e scrittore, critico e interprete non soltanto nei modi tradizionali dell’esercizio della filosofia e della critica, ma aperto alle commistioni, poiché sempre di una stessa cosa egli deve – e si deve infine parlare –, anche per essere ascoltati oltre l’ignobile chiacchiericcio dei media e dei pensatori autorizzati.
In questo prezioso ed esaltante volume curato da Devis Colombo scopriamo infatti un altro aspetto dell’opera di Anders: un eccezionale talento del racconto icastico e sintetico, che egli definisce favola ma che è qualcosa di più e di diverso dalla favola. Intanto, perché si tratta di favole adulte per adulti – vicine all’aforisma e per più versi, non sappiamo dire quanto ci se ne debba sorprendere, vicine a una tradizione ugualmente adulta che è quella esercitata talvolta dal suo contemporaneo Bertolt Brecht (maestro comune Karl Kraus?).
Vicine formalmente, ma diverse nelle intenzioni e nella morale, poiché l’elemento dell’immediata comunicatività e della «lezione», sembra contare meno per Anders a tutto vantaggio della profondità, della complessità, della provocazione al lettore perché ci metta del suo, ci lavori sopra, perché si lasci interrogare dal racconto e lo interroghi, perché si interroghi. […]

 

Goffredo Fofi

Günther Anders, Lo sguardo dalla torre. Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, a cura di Devis Colombo. Prefazione di Goffredo Fofi, Mimesis, Milano 2011.


Quarta di copertina

Lo sguardo dalla torre raccoglie le favole che Günther Anders scrisse tra il 1931 e il ’68. In un tempo in cui l’umanità fatica a mantenere il passo con lo sviluppo della tecnica, occorre rivedere radicalmente il nostro modo di pensare, abbandonando le tradizionali categorie del discorso. Così questa scelta narrativa del filosofo tedesco non è dovuta a una semplice ragione di stile, ma a un’esigenza concreta di resistenza all’impoverimento del linguaggio che l’incontrastata proliferazione degli apparati tecnici porta con sé. Per far fronte al senso d’inferiorità originato dalla sempre più autonoma funzionalità dei prodotti da lui stesso creati – ciò che Anders definisce “vergogna prometeica” – l’uomo tende ad assorbire le modalità univoche e immediate dei segnali delle macchine, perdendo quella capacità dialogica e riflessiva di comunicare che costituisce il fondamento dell’essere umano, e dalla quale dipende la possibilità di immaginare e di provare sentimenti. Le favole diventano allora uno strumento, tanto critico quanto salvifico, di riflessione, a partire da uno sguardo rinvigorito, fantasioso quanto provocatorio che soltanto la forma favolistica è in grado di offrire. Prefazione di Goffredo Fofi.


Opere di A. Paul Weber

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.
Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.
Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Copertine e schede editoriali (001-010) – Maura Del Serra, Gianfranco La Grassa, Sergio Quinzio, Luca Grecchi, Costanzo Preve, Norberto Bobbio, Giancarlo Paciello, Henry Laurens, Francis Jennings, Zeev Sternhell, Norman Finkelstein, Gherson Shafir, Ain Zara Magno, Luisa Giaconi, Ilaria Rabatti.

001-010

001
Maura Del Serra, Congiunzioni. Ventiquattro poesie inedite.
ISBN 88-7588-096-4, 2004, pp. 32, formato 115×167 mm, Euro 5.
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Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese. Con testi di Henry Laurens, Francis Jennings, Zeev Sternhell, Norman Finkelstein, Gherson Shafir.
ISBN 88-87172-19-X, 2004, pp. 304, formato 170×240 mm, Euro 20 – Collana “Divergenze” [38]. In copertina: Una rifugiata palestinese separata – con il filo spinato – dalla sua casa dalla “Linea Verde”, la linea armistiziale definita dopo la guerra arabo-israeliana del 1948. Oggi si costruisce IL MURO.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Costanzo Preve (1943-2013) – Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente. II Edizione.

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indicepresentazioneautoresintesi

Il titolo di questo saggio – ad un tempo storico, politico e filosofico – contiene quattro ossimori, espressamente concepiti per provocare intenzionalmente nel lettore quello “spaesamento” necessario per mettere in moto il suo autonomo processo di riflessione critica. I primi tre sono il Bombardamento Etico, l’Interventismo Umanitario e l’Embargo Terapeutico. Il quarto ossimoro rappresenta una sorta di denominatore unificante, il più corrotto e malvagio che esista, quello della Menzogna Evidente. Questo spaesamento è necessario per affrontare con animo libero gli enigmi dell’ideologia di legittimazione di questa inedita società capitalistica fondata sulla globalizzazione geografica coattivamente prescritta e sull’incessante innovazione culturale capillarmente imposta. Nel primo capitolo vengono richiamati i casi delle due scandalose guerre prevalentemente aeree e super-tecnologizzate contro l’Irak nel 1991 e contro la Jugoslavia nel 1999. In entrambi i casi i pretesti addotti dalle potenze imperiali, pretesti amplificati dal sistema giornalistico e culturale dominante, erano privi sia della legittimazione giuridica sia della plausibilità storica. In entrambi i casi però, come avviene nella favola del lupo e dell’agnello, la forza ha sostituito la ragione rispettiva. Nel secondo capitolo, che è a tutti gli effetti centrale, si ricerca il fondamento metafisico segreto di questo comportamento, che è il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima ed il conseguente pentimento diseguale e manipolato che ne è seguito. In questo caso, la metafisica laica del Giudeocentrismo è servita per imporre una nuova lettura storico-religiosa del Novecento, non per contribuire ad una corretta comprensione delle cause che hanno portato al genocidio ebraico, una comprensione che dovrebbe impedire nel futuro il ripetersi di simili catastrofici eventi. Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, si individua in una cultura di resistenza il presupposto necessario per una futura costituzione di forze politiche e sociali, per il momento non ancora esistenti, in grado di sostenere il confronto che certamente verrà, e non soltanto di ripetere in modo esasperante le mosse politiche, sociali e culturali di confronti ormai esauriti e tramontati con il venir meno del Novecento.


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
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Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare
Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.
Costanzo Preve (1943-2013) – Telling the truth about capitalism and about communism. The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption. Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica dell’ illimitatezza, dialettica della corruzione.
Costanzo Preve (1943-2013) – Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo
Costanzo Preve (1943-2013) – Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Kant della fondazione individualistica della morale ed il rifiuto dell’etica comunitaria come eteronomia.
Costanzo Preve (1943-2013) – Cultura non significa solo “alta cultura”, ma significa paideia, cioè educazione globale, accrescimento (e autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita.
Per non dimenticare Costanzo Preve (1943-2013) – Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo. Non indossate l’abito del «Politically correct». Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Anne Carson – Il dono intreccia trame comunitarie in un tessuto vivente di valore, è personale e reciproco, e dipende da una relazione che dura nel tempo. Il denaro è invece un’astrazione che viaggia in una sola direzione e in modo impersonale tra individui la cui relazione si esaurisce con il suo trasferimento.

Carson Anne 01
Lo scambio di doni tra Glauco e Diomede. Pelike attico a figure rosse, ca. 420 a.C., proveniente da Gela (Museo Archeologico Regionale)

Prima che esistesse il denaro, molte società complesse fondavano in misura significativa la loro vita economica sui doni e sullo scambio di doni.[1] Gli storici hanno dimostrato come un’ideologia basata sullo scambio aristocratico di doni, che permea i poemi omerici e traspare dai resti archeologici del mondo omerico, abbia contraddistinto la società greca, sia arcaica che classica, dall’ottavo al quarto secolo a.C., coesistendo tenacemente con la diffusione del denaro e dello scambio di merci.[2] Lo scambio di doni fa parte di quella che è chiamata un’«economia incorporata», ossia un sistema socioculturale in cui gli elementi della vita economica sono radicati in istituzioni non economiche, come la parentela, il matrimonio, l’ospitalità, il mecenatismo artistico e l’amicizia rituale. Queste istituzioni si sviluppano in un labirinto di interazioni sociali, religiose e simboliche al cui centro si trova lo scambio di doni.[3]
Marcel Mauss diede inizio a un’analisi dei doni e dell’economia del dono nel suo celebre studio Essai sur le don. Nel saggio Mauss descrive società in cui il donare è un meccanismo di scambio che è nel contempo materiale e morale, e che intreccia trame comunitarie in un tessuto vivente di valore. Mauss cita un proverbio della Nuova Caledonia: «Le nostre feste sono il movimento di un ago che cuce insieme le varie parti dei nostri tetti di canne, facendone un unico tetto, una sola parola».[4]
Mauss rileva come questo «unico tetto» sia completamente intessuto di tre obbligazioni interdipendenti: dare, ricevere, ripagare. Prendendo in considerazione questi tre requisiti, si può comprendere in quali forme la vita morale modellata da tali transazioni differisca da quella di un’economia monetaria.
Un dono ha natura sia economica che spirituale, è personale e reciproco, oltre a dipendere da una relazione che dura nel tempo.
Il denaro è invece un’astrazione che viaggia in una sola direzione e in modo impersonale tra individui la cui relazione si esaurisce con il trasferimento di contanti.
Per usare le parole di Marx, una merce è un oggetto alienabile scambiato tra due soggetti economici che godono di uno stato di reciproca indipendenza, mentre un dono è un oggetto inalienabile che due soggetti reciprocamente dipendenti si scambiano.[5]

Doni e merci rappresentano due diverse concezioni di valore, incarnate in due distinte categorie di relazioni sociali.

[…]

Si prenda in considerazione, per esempio, la modalità di scambio di doni che gli antichi greci chiamavano ξενία, xenia. Associata solitamente alla nozione di ospitalità, alla relazione amichevole tra ospitato e ospitante, e a quella di amicizia ritualizzata, l’istituzione della xenia pervade le interazioni socio-economiche del periodo omerico, arcaico e classico. Gabriel Herman definisce la xenia «un legame di solidarietà che scaturisce durante uno scambio di beni e servizi tra individui provenienti da differenti nuclei sociali».[6] Gli aspetti caratteristici della xenia, vale a dire il suo fondarsi sulla reciprocità e la sua ipotesi di durevolezza, sembrano aver intessuto una trama di alleanze personali che teneva unito il mondo antico.

Nello spirito, la xenia è palesemente non mercantile: i beni non sono quantificati, il profitto non è lo scopo […]. Una profonda sfiducia nei confronti del denaro, dello scambio, del profitto, del commercio e dei commercianti pervade le attitudini socio-economiche dei greci dal tempo di Omero fino ad Aristotele.

 

Anne Carson, Economia dell’imperduto, tr. di P. Ceccagnoli, con uno scritto di A. Anedda, Utopia Editore, Milano, 2020, pp. 26-29.

[1] In relazione all’area greca: M.I. Finley, Emporos, Naukleros and Kapelos, in Classical Philology, 30, 1935, pp. 320-326; C.A. Gregory, Gifts and commodities, Academic Press, Londra 1982; K. Polanyi, Primitive, arcaic and modern economies: essays of Karl Polanyi, Anchor Books, New York 1968; C.G. Starr, The economic and social growth of early Greece, 800-500 b.C., Oxford University Press, New York 1977.

[2] C.A. Gregory, Gifts and commodities, op. cit., pp. 48-50; L. Kurke, The traffic in praise: Pindar and the poetics of social economy, Cornell University Presse, Ithaca 1991, pp. 93-97; L. Kurke, Herodotus and the language of metals, in Helios, 22, 1995, pp. 36-63; C.G. Starr, Athenian coinage, Clarendon Press, Oxford 1970, pp. 58-60; V. Tumer, Dramas, fields, and metaphors: symbolic action in human society, Cornell University Press, Ithaca 1974, p. 14.

[3] M.M. Austin e P. Vidal-Naquet, Economic and social history of ancient Greece: an introduction, University of California Press, Berkeley 1977, p. 12 e pp. 177-178; P. Bourdieu, Outline of a theory of practice, tr. di R. Nice, Cambridge University press, Cambridge 1977, p. l77; L. Kurke, The traffic in praise: Pindar and the poetics of social economy, op. cit., pp. 85-107; K. Polanyi, Primitive, arcaic and modern economies: essays of Karl Polanyi, op. cit., pp. 81-82.

[4] M. Mauss, The gift: forms and functions of exchange in archaic societies, Norton, New York 1967, p. 9.

[5] K. Marx, Das Kapital, 3 v., Verlag von Otto Meisner, Amburgo 1867, v. 1, p. 178.

[6] G. Herman, Ritualized friendship and the Greek city, Cambridge Unuversity Press, Cambridge 1987, p. 10.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Panagiotis Kondylis (1943-1998) – L’antichità classica ha un suo caratteristico segno distintivo: la mancanza di escatologia e di concezioni lineari del divenire storico.

Kondylis Panagiotis 01

«Nella misura in cui comprendevo sempre di più i meccanismi di riproduzione del pensiero ideologico e del pensiero utopico, l’antichità classica mi ha fatto avvicinare ad un suo caratteristico segno distintivo: la mancanza di escatologia e di concezioni lineari del divenire storico, le quali come è noto hanno una provenienza ebraico-cristiana, e sono poi state secolarizzate sia dal marxismo socialista sia dal liberalismo capitalistico».

Panagiotis Kondylis, Marx und die griechische Antike . Heidelberg: Manutius-Verlag 1987, [Edizione greca: in Ο Μάρξ και η αρχαία Ελλάδα . Atene, Στιγμή, 1984]

Konservativismus . Geschichtlicher Gehalt und Untergang [Conservatorismo. Contenuto storico e declino]. Stoccarda. Klett-Cotta, 1986.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – La «buona utopia» oggi è necessaria per l’indispensabile pianificazione comunitaria e per realizzare una umanità felice. Finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata. La «buona utopia» si oppone e guarda «oltre» il sistema privatistico e la sua ideologia, e pertanto agisce come forza dialettica all’interno del processo storico.

Petite Plaisance -Utopia buona copia

La modernità (da intendersi qui come contemporaneità) è l’epoca della scienza e della tecnica, non della filosofia, che pure, occupandosi dell’intero, ne costituisce la base. La scienza e la tecnica, le quali si occupano delle parti, senza una consapevolezza filosofica sono però cieche rispetto al fine di cui sono strumenti. Tale fine, da almeno un paio di secoli, è purtroppo dettato dal modo di produzione capitalistico, e consiste dunque nella massima valorizzazione del capitale, il quale non ha nessuna cura per l’uomo e nessun rispetto per la natura.
In merito alla effettuale priorità moderna della scienza e della tecnica sulla filosofia, concordano sia la maggioritaria componente liberale della modernità, sia la minoritaria componente marxista. Per ambedue queste componenti, il pensiero filosofico-politico classico è infatti secondario in quanto “non scientifico”. Ciò, per il pensiero liberale, lo rende “pericoloso”, in quanto esso – non richiesto – effettua analisi ed emette giudizi sulla totalità sociale; ciò, per il pensiero marxista, lo rende invece “inefficace”, in quanto il pensiero filosofico-politico classico si illude soltanto di effettuare analisi ed emettere giudizi sulla totalità sociale. In sostanza, ciò che il pensiero moderno critica più duramente del pensiero filosofico-politico classico è la sua pretesa di fondazione onto-assiologica, ritenuta arbitraria, e la sua conseguente – e pertanto ancor più arbitraria – “utopia progettuale”.
Del concetto di “utopia” si sono date almeno due interpretazioni. La prima, liberale, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero totalitario e violento (un sostenitore di questa tesi fu ad esempio Karl Popper). La seconda, marxista, sostiene che ogni “utopia” è espressione di un pensiero astratto ed illusorio (sostenitori di questa tesi furono anche, almeno in parte, Karl Marx e Friedrich Engels).
L’etimologia greca del termine «utopia», coniato da Tommaso Moro, in qualunque modo venga ricavata, se in alcun caso può autorizzare la interpretazione liberale, può invece autorizzare la interpretazione marxista, che considera in sostanza l’utopia come la descrizione non di un «cattivo luogo», bensì come la descrizione di un «non luogo», ovvero di qualcosa di irrealizzabile nella storia. Tuttavia, come lo stesso Moro fa ben comprendere nel suo celebre testo, l’etimologia greca più verosimile del termine, ma soprattutto la più auspicabile, è quella per cui l’utopia descrive un «buon luogo» ideale in cui vivere, un modo di produzione sociale ideale conforme alla natura umana. È questa del resto la migliore definizione possibile di “comunismo”: quella di un modo di produzione sociale in cui gli uomini possano vivere in modo armonico realizzando la propria natura razionale e morale, dunque realizzando se stessi in modo compiuto.
Contro ogni interpretazione “utopica” del comunismo (ossia contro ogni “progettazione di un buon luogo ideale in cui vivere”) si è, come accennato, schierato pressoché tutto il pensiero marxista, a cominciare da quello originario di Marx ed Engels. Questo erroneo e fuorviante approccio – la cui genesi è da ricavare nel clima scientistico-positivistico in cui si formò il pensiero marxiano e marxista – deve essere radicalmente rivisto, in quanto costituisce un regresso anche rispetto alla antica tradizione platonica. Soffermermandosi, sebbene sinteticamente, sul pensiero utopico di poco antecedente la nascita della modernità, strettamente derivato dal pensiero antico, si può dire quanto segue.
I nomi dei due principali utopisti premoderni di epoca rinascimentale sono noti a tutti: Tommaso Moro e Tommaso Campanella. Il primo si ispirò fortemente a Platone, il secondo si ispirò fortemente al primo (oltre che al pensiero cristiano), a riprova di come il pensiero filosofico-politico classico sia stato il principale ispiratore del comunismo premoderno, ossia premarxiano. Nonostante tale rapporto diretto – o forse anche a causa dello stesso – Marx ed il marxismo ritennero in linea generale il tentativo utopico-progettuale del pensiero filosofico classico, così come quelli di Moro, Campanella e degli altri socialisti di epoche successive, “utopici” nel senso di “astratti, illusori, irrealizzabili”. Marx ed il marxismo ritennero tali questi tentativi in quanto non basati, a loro avviso, sulla analisi delle condizioni storico-sociali presenti, ma solo sul concetto classico – per loro assai discutibile – di “natura umana”.
L’utopia progettuale pre-moderna fu insomma, per Marx ed il marxismo, nonostante alcuni meriti della medesima, quasi inservibile sia sul piano pratico (in quanto si basava sulla politica anziché sulla storia), sia sul piano teorico (in quanto si basava sulla filosofia anziché sulla scienza).
Questa tesi è da ritenere errata. Pur nella consapevolezzza – basti consultare le molteplici pubblicazioni edite in proposito da Petite Plaisance negli ultimi 25 anni – del valore filosofico e scientifico del materialismo storico, e dunque della importanza della analisi storico-sociale, si sottolinea però che, senza mai giungere ad una consapevole comprensione filosofica, l’analisi storico-sociale, per quanto “scientifica”, non conduca a nulla. Molte premesse marx-engelsiane che si volevano “scientifiche” si sono peraltro rivelate errate in quanto, verosimilmente, inserite all’interno di un quadro di riferimento di tipo “scientistico-fideistico” – che ne richiedeva la “certezza” ma che come tale non era in grado di garantirla –, e non all’interno di un quadro filosofico classico, in cui invece avrebbero potuto essere valutate entro un più corretto orizzonte di “potenzialità” onto-assiologica.

Tornnando in ogni caso, per un momento, a Platone, occorre rilevare che, ispirandosi al suo pensiero, anche Moro e buona parte degli utopisti partirono dalla analisi critica e dalla valutazione negativa del proprio contesto storico-sociale, per delineare un modo di produzione sociale ideale storicamente realizzabile. Può essere interessante, per comprendere – in continuità col precedente pensiero greco e cristiano, ed in anticipazione del successivo pensiero moderno di Spinoza, Fichte, Hegel e Marx – il contenuto umanistico ed anticrematistico del pensiero utopico rinascimentale, riportare alcuni brani tratti proprio dall’Utopia di Moro che, se si escludono alcuni pensatori stoici, fu colui che per primo recuperò la grande progettualità ideale platonica.
Moro, che scrisse Utopia nel 1516, analizzò in maniera lucida la realtà del proprio tempo, ed individuò sin da allora nella proprietà privata dei mezzi della produzione sociale, e nella conseguente centralità della merce e del denaro, la radice principale dei maggiori mali sociali. Contrariamente, infatti, a tutti coloro che considerano Moro e gli utopisti come pensatori astratti e fantasiosi, la lettura di qualche brano dell’Utopia potrà confermare che Moro aveva idee molto concrete e chiare. A suo avviso, in effetti, è letteralmente impossibile ben governare e far fiorire una buona comunità laddove tutto si misuri sulla ricchezza privata.
Moro fu d’accordo con Platone su questo punto, e dunque ritenne che il solo modo per perseguire il benessere della comunità consiste nell’applicare in ogni campo il principio di uguaglianza; ma tale principio, sia per Platone che per Moro, non può essere rispettato nel momento in cui si tollera la proprietà privata. Secondo Moro, finché la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale continuerà ad avere un ruolo centrale, la parte migliore della umanità rimarrà schiacciata dall’inevitabile fardello della povertà e della miseria.
Egli peraltro non si limitò alla ricerca delle cause della disarmonia sociale ma, coerentemente, propose anche delle soluzioni che, a suo avviso, avrebbero dovuto essere accettate dai governanti per ricostituire un minimo di giustizia e di armonia sociale. In maniera analoga a Marx ed Engels – ma anche, ancora una volta, a Solone e Platone – Moro propose infatti di porre un limite ai terreni che ognuno può possedere, e al denaro che ciascuno può accumulare. Egli fu però consapevole che, senza la realizzazione di un modo di produzione compiutamente comunitario, con simili riforme potevano solo essere mitigati i mali cui accennava, un po’ come assidue e continue cure possono solo lenire le sofferenze di un corpo prossimo alla morte. Di curarlo a fondo non se ne parla nemmeno, finché esiste la proprietà privata.
Non fosse che per queste parole, Moro risulta essere assai più radicale di molti “intellettuali di sinistra” che pure oggi vanno per la maggiore, i quali o si rifiutano di fare proposte, o fanno proposte “riformistiche” spacciandole per rivoluzionarie, o ipotizzano inverosimili “salti in avanti”. Moro invece, consapevole che «dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso, a servizio soltanto del lusso e del capriccio», riteneva che fossero completamente da rivoluzionare le finalità e le modalità della produzione, ma che ciò non potesse essere fatto senza un preliminare rivoluzionamento delle forme della proprietà. Se infatti la proprietà dei mezzi della produzione fosse comune, anche il lavoro potrebbe essere comune e pertanto l’attività da svolgere potrebbe essere distribuita nelle occupazioni necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari, occupando un tempo assai minore, ma sufficiente per produrre tutto ciò che serve per vivere felici. In effetti, per Moro, tutto il tempo che non è strettamente necessario per i bisogni primari dovrebbe essere meglio impiegato dai cittadini, dedicandosi alle attività dello spirito e della cultura. In rapporto alle scarne affermazioni di Marx su come dovrebbe essere il comunismo, Moro – che pure non utilizza mai questo termine – sembra avere le idee molto più chiare, sottolineando innanzitutto la necessità di una pianificazione della produzione e della distribuzione: i prodotti del lavoro devono essere portati in determinati edifici, per essere divisi a seconda del genere; da questi magazzini si deve prendere solo ciò di cui si  ha bisogno, senza dare in cambio denaro né prestazioni particolari. E, d’altronde, perché si dovrebbe prendere più di quanto risulti bastante, sapendo che non verrà mai a mancare nulla? In questo modo, scrive Moro, l’intero paese sarà come un’unica famiglia, in cui i comportamenti non comunitari saranno socialmente condannati.
Per Moro, gli abitanti dell’isola di Utopia, ossia i futuri uomini di una società comunista, saranno felici in quanto non subiranno più il dominio della economia, ma lasceranno primeggiare la politica o, meglio ancora, la filosofia. «La questione fondamentale che costoro si pongono è in che cosa consiste la felicità dell’uomo», ed essa consiste nel «vivere secondo natura». La natura, a sua volta, «invita a vivere gioiosamente sostenendosi a vicenda». Privarsi di qualcosa per darla ad un altro è segno di umanità e gentilezza, ed è soprattutto motivo di arricchimento spirituale. Questa la struttura comunitaria che fu propria, in seguito, di varie utopie. Tutte o quasi queste utopie, da Moro in avanti (almeno fino al XIX secolo), hanno in effetti non solo stigmatizzato la proprietà privata ed il mercato, ma anche lo sfruttamento, la alienazione ed i lunghi orari di lavoro.
Chiunque ritenga ogni fondato modello di totalità sociale come un qualcosa che si connoterebbe soltanto come statico ed astratto, non comprende il carattere insieme dinamico e concreto delle utopie. Tale carattere è stato in effetti messo in evidenza da pochi studiosi, fra cui sicuramente Luigi Firpo, secondo cui l’utopia si oppone sempre ad un determinato sistema ed alla sua ideologia, e pertanto agisce appunto come forza dialettica all’interno del processo storico. Un altro autore che si è espresso in tal senso – esperto, non a caso, di utopie antiche – è stato Lucio Bertelli, per il quale «il rapporto fra utopia e realtà è dialettico, nel senso che lo stesso insegnamento delle condizioni date e rifiutate si presenta come un’operazione di rettifica globale, che affonda le sue radici in una analisi radicale della realtà stessa».
Da un lato il liberalismo, e dall’altro il marxismo, hanno attaccato il concetto di utopia (pur diversamente inteso). Tuttavia, l’utopia intesa come «buon luogo» ideale, come «paradigma in cielo» (lo scriveva Platone nella Repubblica, 592 B), rimane un elemento insostituibile per il pensiero umano, poiché per favorire la realizzazione di una totalità sociale migliore non vi è modo più appropriato che pensarla prima nelle sue strutture essenziali, valutando teoreticamente appunto prima se essa possa reggere alla prova dei fatti ed essere desiderabile, così da porsi poi come modello realizzabile. Nonostante, infatti, le due discutibili concezioni dell’utopia prodotte dal liberalismo e dal marxismo, essa rimane sostanzialmente un progetto al contempo di critica radicale del proprio contesto storico-sociale, e di costruzione teorica di un modo di produzione sociale alternativo.
In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza nei confronti del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossia nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la «buona utopia» vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare non descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i princípi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso (e non una singola classe). L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili. Poiché le cause di sofferenza umana (su vari piani) determinate dalle modalità sociali capitalistiche sono evitabili, è necessario pensare ad una nuova progettualità comunista, semplicemente per coerenza verso ciò che l’umanità richiede per realizzare compiutamente se stessa. Facciamo però un passo alla volta.
Circa la tesi della possibilità di delineare in anticipo i tratti generali di un modo di produzione sociale alternativo, va detto che anche i critici del capitalismo più vicini alla filosofia tendono a diffidarne. Costoro ritengono in effetti che, così come si possono conoscere – data la limitatezza della condizione umana – solo poche facce di quel prisma poliedrico che è la storia dell’uomo, allo stesso modo si possono conoscere solo poche facce di quel prisma poliedrico che è l’uomo. L’uomo insomma, essendo – come molti filosofi nel corso del tempo hanno scritto – un ente troppo complesso per poter essere definito, sarebbe a loro avviso un ente che non possiede una natura stabile, bensì una natura mutevole nei diversi contesti storico-sociali. Per questo motivo non sarebbe pensabile alcuno stabile progetto di modo di produzione sociale ideale alternativo.
Non dobbiamo stupirci della forza di questa tesi, che anche Marx, come ricordato, ha sostenuto in ampi passaggi della sua opera. Non dobbiamo stupircene poiché sostenere che una natura umana esiste, che può essere definita e che la sua struttura è razionale e morale (ossia che essa, per realizzarsi e rendere l’umanità felice, deve operare per la verità e per il bene), vincola, impegna, impone di realizzare nella vita, in ogni momento, i comportamenti migliori, quelli umanamente più rispettosi e fraterni, che certamente sono inizialmente i più difficili da porre in essere nell’attuale contesto storico-sociale. Non si tratta, sostenendo la tesi della esistenza e della definibilità della natura umana, di essere vittime del mito della “trasparenza totale” dell’uomo, che ci farebbe ritenere capaci di conoscere ogni lato di quel famoso prisma cui si accennava in precedenza. Si tratta solo di comprendere che l’uomo, come ogni ente facente parte dell’essere, possiede necessariamente una essenza, una sostanza, un contenuto stabile al di là delle sue empiriche molteplici determinazioni (anche il prisma, del resto, pur avendo molteplici facce, rimane pur sempre sostanzialmente un prisma), e che tale contenuto può dall’Uomo essere compreso.
La «buona utopia» oggi è necessaria poiché, nella attuale devastazione materiale e spirituale della vita posta in essere dal modo di produzione capitalistico, per rapportarsi al futuro ci si deve affidare alla dimensione del “progetto”, ossia ad una visione d’insieme di ciò che gli uomini sono e di ciò che devono essere per realizzare una umanità felice.



Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.

Luca Grecchi - Leggere i Presocratici

Luca Grecchi


Leggere i Presocratici

Introduzione di Maurizio Migliori

Scholé – Morcelliana, Brescia 2020.

Quarta di copertina

Rispetto alle consuete rappresentazioni manualistiche, che descrivono i Presocratici quasi esclusivamente come studiosi della natura, molte ricerche evidenziano ormai un panorama molto più composito. Così come la realtà, pur con intrecci e sovrapposizioni, risulta sostanzialmente ripartita in tre grandi contenuti – la natura, il divino e l’umano –, è ora possibile ricostruire in modo più articolato l’esperienza filosofica dei Presocratici alla luce di tre aree ermeneutiche: naturalistico-scientifica, mistico-aurorale e umanistico-politica. Il volume propone questa nuova lettura, seguendo un approccio multifocale che considera quel grande prisma costituito dal pensiero di Solone, Talete, Anassimandro, Anassimene, Ecateo, Senofane, Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Anassagora e Democrito: solo osservandone tutte le facce nel loro complesso è possibile averne una idea più completa, o comunque meno unilaterale.

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Dalla Prefazione

di Maurizio Migliori

Ogni vero studioso manifesta un atteggiamento di attenzione complessiva al tema che affronta, in modo da fornire risposte multiple e cariche di interesse per chi “viene dopo”. Egli ama l’intero e quindi cerca di indagare l’oggetto del suo lavoro in tutti i suoi molteplici aspetti. Nello stesso tempo ogni vero studioso manifesta un carisma particolare, che consente ad un aspetto di sopravanzare, in qualche misura, gli altri e quindi costituisce, per così dire, la sua personale “firma”. C’è chi si immerge nei testi e ne scopre le articolazioni meno avvertibili, c’è chi “duella” con l’autore riuscendo così a far rivivere la riflessione teorica che questi voleva mettere in gioco, c’è chi dialoga con gli altri studiosi, offrendo quindi al lettore il quadro delle diverse possibilità interpretative, elemento estremamente utile per chi vuole “capire”.
Credo – affermazione temeraria che spero non troppo errata – che quest’ultimo sia il “proprio” di Luca Grecchi, il quale si pone costantemente in modo dialogico in rapporto agli altri studi, ma senza per questo rinunciare a prendere in modo chiaro posizione. Non a caso alla sua infaticabile attività di studioso si accompagna una continua pubblicazione di studi specifici, testi brevi e profondi, ricchi di informazioni e discussioni che propongono riflessioni intrecciate di grande utilità, che escono dal recinto ristretto degli studi puramente accademici.
Ciò vale in modo particolarmente evidente in questo volume che affronta uno degli snodi più complessi della Storia della filosofia antica.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Luca Grecchi …


«Bisogna difendere nei limiti delle proprie forze
coloro che patiscono ingiustizia,
e non lasciar correre:
giacché un tale atteggiamento è giusto e coraggioso,
l’atteggiamento contrario è ingiusto e vile»
(Democrito, B261).

L’anima umana come fondamento della verità (2002) delinea, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati molti suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema costituisce la base per una analisi critica della totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze razionali e morali della natura umana. [ indicepresentazionesintesi]


Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dall’autore compiuti negli anni Novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale. [ indicepresentazionesintesi]


Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx (2003) costituisce una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi comparata, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, l’autore propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico (in senso hegeliano). Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007. [indicepresentazione]


La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004), con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana. [indicepresentazione]


Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005), con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano. [indicepresentazione]


Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche nella valutazione di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura razionale e morale dell’uomo. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista. [indicepresentazione]


Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore. [indicepresentazione]


Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimenti imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro “una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo” in esame. [indicepresentazione]


Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla attuale totalità sociale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità degli uomini. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa sia la felicità. Il testo è caratterizzato da una analisi delle strutture della personalità oggi più diffuse, per l’autore “prodotte” dai processi di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Scrive Vegetti, nella introduzione, che Grecchi è “pensatore a suo modo classico”, per il suo “andar diritto verso il cuore dei problemi”. [indicepresentazione]


Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale. [indicepresentazione ]


Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo “politico” della sua opera, la quale “risulta essere innanzitutto un documento significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa”.


Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, sul piano politico, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti, a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita dell’uomo


La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del più grande tragediografo greco (2007) costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica, dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “scorporare” Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988), ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.


Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico. [indicepresentazione ]


Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. [indicepresentazione sintesi ]





L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è il primo libro in cui Grecchi effettua la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi centrali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione razionale e morale. [indicepresentazione ]




L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone. Ponendo in essere una analisi delle principali interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la rilevanza della posizione anti-crematistica. [indicepresentazione ]






L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la rilevanza della posizione anti-crematistica. [indicepresentazione ]



Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia, dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due contenuti imprescindibili: a) l’essere ricerca, il più possibile fondata ed argomentata, della verità dell’intero; b) l’assumere come riferimento, insieme descrittivo e valutativo (la filosofia si occupa non solo della verità, ma anche del bene), l’Uomo. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su “chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato risulta per vari motivi essere Socrate.


Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di un discorso da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.


Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2008), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in c ui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore. [indicepresentazione ]


Occidente: radici, essenza, futuro (2009), con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche, ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.


L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che la cultura orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese. [indicepresentazione ]


L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che la cultura orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano. [indicepresentazione ]


L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che la filosofia orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico. [indicepresentazione ]


A partire dai filosofi antichi (2009), con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non soltanto dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica. Scrive Vigna, nella introduzione, che “questo testo è tra le cose più interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia italiana”.


L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore cerca di colmare la distanza storico-culturale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico e postellenistico. Il testo si divide in due parti. Nella prima, considerando che ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso “produce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello ellenistico, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica/postellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino. [indicepresentazione ]


La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita di pressoché tutte le discipline filosofiche, ad eccezione della filosofia della storia, tuttora ritenuta di genesi moderna. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa. [indicepresentazione ]



Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata. [indicepresentazione ]


Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di “una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa”. [indicepresentazione ]


Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali, mostra come, sin dall’epoca omerica, gli antichi Greci furono aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”. Esso possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”. [indicepresentazione]



Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare. [indicepresentazione ]


Confucio. Sulla buona vita, sul buon governo e su me stesso (2011) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di alcuni discorsi tenuti dall’antico pensatore cinese. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero di Confucio, già delineata ne L’umanesimo della antica filosofia cinese.




L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza la sua opera. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si caratterizza anche per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità. [indicepresentazione]



L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori esclusivamente come “naturalisti”, che li separano in maniera eccessiva sia dalla poesia epica precedente, sia dalla filosofia classica successiva. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure anticipatrici di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora. [indicepresentazione]



Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica e di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, elaborata oramai, in maniera teoreticamente originale, solo da un numero limitato di studiosi. [indicepresentazione]


Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi descrive il pensiero dell’autore quasi sempre concordando con lui, tranne che nella opposizione – su cui si sofferma anche Berti nella postfazione – fra metafisica classica e metafisica umanistica. [indicepresentazione]


Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti largamente insufficiente. Assumendo come base di riferimento il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori ancora definiscono – per mancanza di validi termini alternativi, ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”. [indicepresentazione]


Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico. [indicepresentazione]




La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. [indicepresentazione]




Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. [indicepresentazione]



Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”. [indicepresentazione]


Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul bene tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del bene.    [indicepresentazione]



Discorsi sulla morte (2016) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo. [indicepresentazione]




L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento della tradizione cristiana, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo solitamente poco considerati, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’Aristotelismo che ebbero il loro momento culminante nel 1277.


L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che pone in essere una critica costruttiva della tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale in esso la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.



Compendio di metafisica umanistica (2017) è un libro che espone in sintesi la struttura onto-assiologica della verità dell’essere per come in vari luoghi delineata dall’autore col nome di “metafisica umanistica”. Il testo fornisce alcuni capisaldi del futuro Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere (cui l’autore sta lavorando dal 2003), distinguendo le nozioni di Cominciamento, Principio e Fondamento, nonché elaborando la tematica dell’essere e della sua sistematicità. Il volume si sofferma anche sulla tematica del trascendente, e sul nesso descrittivo-normativo necessario alla progettualità sociale. [indicepresentazione]



Natura (2018) è un libro che si colloca nella collana Questioni di filosofia antica della casa editrice Unicopli. Il testo analizza in maniera specialistica oltre dieci secoli di riflessioni del pensiero antico sulla natura, da Omero a Plotino. Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti sono di tipo sia filosofico, sia scientifico, sia letterario. Il tema riveste particolare importanza in quanto gli antichi, per primi, compresero che ogni mancanza di rispetto e di cura nei confronti della natura – attività che solo l’uomo, fra gli enti naturali, è in grado di porre in essere – costituisce una mancanza di rispetto e di cura nei confronti della vita tutta



Scritti brevi su politica, scuola e società (2019) costituisce una raccolta di articoli pubblicati dall’autore negli anni 2015 e 2016 su vari quotidiani, settimanali e riviste su tematiche di particolare attualità. Il filo conduttore di questi scritti è costituito da una critica progettuale al nostro tempo alla luce del pensiero greco classico, soprattutto di Aristotele. Per l’importanza delle tematiche trattate, e per l’approccio classico utilizzato, si tratta di riflessioni che forniscono un orientamento in grado di trascendere l’orizzonte del momento storico in cui sono state effettuate. [indicepresentazione]



Uomo (2019) è un libro che si colloca nella collana Questioni di filosofia antica della casa editrice Unicopli. Il testo analizza in maniera specialistica oltre dieci secoli di riflessioni del pensiero antico sull’uomo, da Omero a Plotino. Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti sono di tipo sia filosofico, sia scientifico, sia letterario. Il tema riveste particolare importanza in quanto gli antichi, per primi, compresero la centralità dell’uomo nella natura, ovvero il suo essere il solo ente in grado di fornire un senso ed un valore alla realtà, nonché di avere rispetto e cura della realtà stessa .


L’umanesimo greco classico di Spinoza (2019) costituisce una analisi della filosofia di Spinoza alla luce del pensiero greco classico. Nonostante il filosofo olandese citi pochissimo Platone ed Aristotele, Grecchi mostra come forti siano i legami coi due più grandi pensatori antichi. Le tematiche esaminate sono alcune fra le principali del pensiero filosofico, quali la verità, il bene, la conoscenza, la sistematicità, la religione, la libertà, la crematistica, la politica. Frequenti sono anche i riferimenti ed i paralleli con il nostro tempo.


Curatele


È veramente noiosa la storia della filosofia antica? (2008, con Diego Fusaro), con scritti di E. Berti, G. Casertano, D. Fusaro, G. Girgenti, L. Grecchi, C. Preve e M. Vegetti .



Sistema e sistematicità in Aristotele (2016), con scritti di C. Baracchi, E. Berti, B. Botter, M. Cosci, S. Fazzo, A. Fermani, G.R. Giardina, L. Grecchi, C. Vigna, M. Zanatta. [indicepresentazionesintesi].


Immanenza e trascendenza in Aristotele (2017), con scritti di G. Abbate, C. Baracchi, E. Berti, B. Botter, M. Cosci, A. D’Atri, A. Falcon, A. Fermani, L. Grecchi, A. Jori, D. Quarantotto, M. Ugaglia, C. Vigna, M. Zanatta. [indicepresentazionesintesi ]


Teoria e prassi in Aristotele (2018), con scritti di C. Baracchi, E. Berti, A. Fermani, S. Gastaldi, L. Grecchi, S. Gullino, A. Jori, G. Lucchetta, L. Palpacelli, L. Ruggiu, M. Vegetti, C. Vigna, M. Zanatta. [indicepresentazionesintesi ]



Libri in preparazione


Metafisica umanistica.

La struttura sistematica della verità dell’essere



Presocratici



Ricchezza e povertà nella filosofia antica


Altro ancora ….

Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD
Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.
Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.
Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.
Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.
Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele
Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità
Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno
Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.
Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
 
Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]
Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Costanzo Preve (1943-2013) – Cultura non significa solo “alta cultura”, ma significa paideia, cioè educazione globale, accrescimento (e autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita.

Costanzo Preve - cultura paideia

«Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società».

Costanzo Preve, La crisi culturale della terza età del capitalismo, Pubblicato su Koinè, Anno VI, N. 2 – Gennaio/Settembre 1999, liberamente scaricabile sul sito di Petite Plaisance, dove è pubblicato come ebook: el–1038, Pistoia 2010, p. 4.


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare
Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.
Costanzo Preve (1943-2013) – Telling the truth about capitalism and about communism. The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption. Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica dell’ illimitatezza, dialettica della corruzione.
Costanzo Preve (1943-2013) – Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo
Costanzo Preve (1943-2013) – Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Kant della fondazione individualistica della morale ed il rifiuto dell’etica comunitaria come eteronomia.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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