Alberto Cavallari (1927-1998) – Tre sono le letture che s’impongono come principali su Robinson Crusoe: quelle fatte da Rousseau, da Kant, da Marx.

Robinson Crusoe 01

 

«Il vero simbolo della conquista britannica, la profezia dell’impero, è Robinson Crusoe. […] È il vero prototipo del colonizzatore britannico». James Joyce, Conferenza di Trieste, 1913

 

 

Robinson Crusoe, Feltrinelli, 1993

Robinson Crusoe, Feltrinelli, 1993


«[…] Generalmente tre sono le letture che s’impongono come principali: quelle fatte da Rousseau, da Kant, da Marx. Certamente Rousseau ha contribuito a fare di Robinson il personaggio-chiave del rapporto tra individuo e società moderna: nell’Emile dichiara che Robinson è il primo libro su cui deve fondarsi la formazione dell’uomo nuovo del ‘700 perché significa “il più felice trattato di educazione naturale”. Per lui la parabola del naufrago che si salva senza l’aiuto dei suoi simili, col solo conforto della ragione e di una Fede puramente deista, è quasi una voce dell’Encyclopédie: mostra un uomo naturalmente buono, che inventa tecniche e arti di sopravvivenza, che si allea a un altro uomo naturalmente buono, il selvaggio Venerdì. Ma Kant va più in là: nelle sue Congetture sull’origine della storia del 1786 fa di Robinson un simbolo dell’etica progressista: perché significa l’uomo moderno nostalgico d’inesistenti età dell’oro, d’impossibili ritorni alla vita naturale, però cosciente d’aver messo in moto lui stesso un processo di civilizzazione che gl’impedisce di rientrare nell’antico stato d’innocenza; un uomo consapevole che l’innocenza non può bastargli, che lui stesso non la desidera veramente, e così rispecchia le vere caratteristiche della natura umana e del percorso umano “che va dal peggio al meglio, non dal bene al male”. Quanto a Marx, che ne scrive nell’Introduzione alla critica dell’economia politica e nel Capitale, Robinson, il “sobrio Robinson”, ha tutte le caratteristiche del borghese del ‘700. è un uomo che dice di credere (come gli economisti pre-marxisti) alla Provvidenza, alla “mano invisibile”, ai meccanismi naturali del processo produttivo, come se il mondo fosse uguale nelle società primitive e in quelle moderne. Ma in effetti poi mostra che nelle società moderne anche l’individuo isolato agisce all’interno di una società nella quale i rapporti sociali s’incrociano con la cosiddetta natura. Infatti  in Robinson isolamento e dipendenza  dalla società si sovrappongono.  Nell’isola deserta egli diventa imprenditore di se stesso: “salva dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, e comincia da buon inglese a tenere la contabilità della vita, persino della Provvidenza” […]».

Alberto Cavallari, nel suo saggio introduttivo «L’isola della modernità» alla edizione del Robinson Crusoe di Daniel Defoe da lui tradotta per Feltrinelli (Milano, 1993, pp. 13-14, 17-19).

 

Stampa originale del 1719 del libro Robinson Crusoe, di Daniel De Foe

Stampa originale del 1719 del libro Robinson Crusoe, di Daniel De Foe


Che ne pensava Karl Marx

Karl Marx commentò per la prima volta Robinson Crusoe in due scritti giovanili, La miseria della filosofia e i Grundrisse, pubblicati postumi. Nel primo, Marx critica Robinson sostenendo che si tratta di un eremita che produce solo per sé e che quindi non può rappresentare veramente il processo di produzione che interpreta come un fatto essenzialmente sociale. Ma nei Grundrisse, riprende la discussione in modo più completo, insistendo che «il cacciatore e il pescatore isolati da cui partono Smith e Ricardo» non appartengono al Robinson originale di Defoe ma «alle poco fantasiose riscritture delle storie di Robinson Crusoe [Robinsonaden]». Quindi per Marx le Robinsonate degli specialisti dell’economia sono fuorvianti; non così invece il romanzo originale di Defoe. Come scrive S. S. Prawer, La biblooteca di Marx, Garzanti: «Marx in verità attacca ‘il mito di Robinson Crusoe’ e non il libro in sé». Questo appare ancora più chiaramente nella discussione più esauriente e dettagliata che Marx fa di Robinson nel primo libro del Capitale: «Poiché l’economia politica predilige le robinsonate evochiamo per primo Robinson nella sua isola […] ha tuttavia bisogni di vario genere da soddisfare, e quindi deve compiere lavori utili di vario genere, deve fare strumenti, fabbricare mobili, addomesticare capre, pescare, cacciare ecc. Qui non parliamo delle preghiere e simili, poiché il nostro Robinson ci prende il suo gusto e considera tali attività come ricreazione. Nonostante la differenza fra le sue funzioni produttive egli sa che esse sono soltanto differenti forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti di lavoro umano […]. Il nostro Robinson che ha salvato dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, comincia da buon inglese a tenere la contabilità di se stesso. Il suo inventario contiene un elenco degli oggetti d’uso che possiede, delle diverse operazioni richieste per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di questi diversi prodotti. Tutte le relazioni fra Robinson e le cose che costituiscono la ricchezza che egli stesso s’è creata sono qui tanto semplici e trasparenti, che (è possibile) capirle senza particolare sforzo mentale. Eppure, vi sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore» (K. Marx, Il Capitale, 1970 pp. 108-109).

 



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György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.

Resistere alla manipolazione copia

Marx, il cinema e la critica del film

 

«Se vuoi godere dell'arte, devi essere una persona educata all'arte».


Karl Marx

 

«Di fronte al compito, per me certo lusinghiero, di scrivere un’introduzione per il Suo nuovo libro, non nasconderò il mio imbarazzo e le inibizioni che mi colgono. Esse nascono da ben fondata consapevolezza della mia incompetenza quando si tratti di formulare giudizi concreti in concrete discussioni sui problemi del cinema.

Vero che dei problemi del cinema io mi sono occupato già nella giovinezza. Se, anche oggi, non posso che considerare come unilaterale e d’occasione lo scritto che allora vi dedicai, pure esso resta testimonianza di un vitale interesse alla nascita di un nuovo genere d’arte, e in un’epoca in cui erano ancora pochi, anche tra i produttori e critici, a credere che un’arte nuova fosse nata. Da allora ho continuato a seguire l’evoluzione del cinema con grande interesse, benché la mancanza di tempo e il campo centrale della mia attività non mi abbiano permesso mai di addentrarmi concretamente in problemi particolari, cosa che mi sembra l’unico modo per acquisire una competenza autentica e non fittizia. Ultimamente, nella prima parte della mia estetica (Die Eigenart des Aesthetischen), ho tentato di prender posizione su quelli che mi paiono essere i problemi per principio più importanti di un’estetica del cinema. E anche in quell’occasione cercando di non farmi passare per un competente nelle questioni particolari, che sono quelle in definitiva che in sede artistica rivestono spesso importanza eccezionale, e senza la possibilità di esaminare partitamente l’evoluzione storica della nuova arte. Devo dire che allora credevo – e lo credo ancor oggi – che i più rilevanti problemi sociali ed estetici connessi con l’arte cinematografica potessero esser colti nel loro insieme anche da chi, non potendo diversamente, si ponesse a considerarli da un punto di vista astratto.

La nascita e anche l’ulteriore evoluzione del cinema furono e sono determinate molto più fortemente, molto più intensamente da invenzioni di natura meramente tecnica, di quanto non sia il caso di ogni altro genere d’arte più antico, ad eccezione forse dell’architettura. Ciò ha avuto per necessaria conseguenza che la letteratura sul cinema, da un certo tempo già assai vasta, si sia venuta informando all’analisi di queste innovazioni tecniche e, nel migliore dei casi, ai loro effetti psicologici. E, in confronto, soltanto rare sono state le ricerche sul significato sociale della nuova arte, e molto più rari ancora i tentativi di coglierne l’essenza estetica. Scaturiva questa tendenza non unicamente dall’accennata genesi tecnica dei nuovi mezzi espressivi del cinema, sì anche, e forse soprattutto, dalla tipica maniera di riguardare oggi l’arte, dall’assoluto predominio di singoli problemi tecnicistici rispetto alle questioni estetiche di fondo. E tuttavia, in ultima analisi, questa non è una questione immanente all’estetica, come non lo è la questione della Weltanschauung, radicandosi essa invece e molto più nella tendenza generale della nostra epoca, in quel generale dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte. Che questo dominio, nel caso del cinema, non possa che palesarsi con particolare pregnanza, non occorre dire. Se la produzione cinematografica è in mano a grandi potenze capitalistiche, e con un’immediatezza e completezza di gran lunga maggiore che nel caso di qualsiasi altra arte, il cinema, per sua natura e certo più di ogni altra arte, è destinato esclusivamente ad esercitare effetti immediati di massa.

Il problema della manipolazione non si limita tuttavia a questioni tecniche; la manipolazione ha anche come conseguenza spontanea – talvolta anche consapevole – di deviare l’esclusiva o almeno larga preminenza accordata alle questioni tecniche dal contenuto umano e sociale della manipolazione. Questo processo, l’intima connessione esistente tra primato della tecnica e persuasione che la manipolazione sia inarginabile, non va semplificato e trivializzato, benché sia agevole constatare che il kitsch più banale può esser rabberciato e travestito e inestinguibilmente smerciato in dosi massive e massificanti. È peraltro incontestabile che in entrambe le dimensioni si è realizzata una convergenza di queste tendenze. Si pensi soltanto all’effetto shock. Lo shock è oggi uno degli strumenti essenziali della manipolazione. A parte il suo effetto propagandistico in quanto irruzione dell’inatteso, sovvertimento, sensazione ecc., esso può esser provocato nel modo più facile e sicuro con un nuovo trucco tecnico, e va ancora da sé che la semantica tecnicistica del giudizio critico si fermi soddisfatta a questa coincidenza. Tanto più che è nell’essenza dello shock di provocare una scossa nervosa momentanea, che, sia nell’origine che nelle conseguenze, in nessun modo perviene toccare gli sfondi e i sottofondi pia riposti. E in tal modo – si voglia o no, si sappia o no – tale scossa corre in aiuto dell’ideologia della manipolazione: lo shock, il suo effetto esplosivo, il carattere inusitato del suo manifestarsi danno a chi lo subisce, e a maggior ragione a chi lo provoca, l’illusione di un atteggiamento non conformistico, senza che ne scaturisca una qualsiasi opposizione decisa, sul piano teoretico o su quello etico, all’essere manipolati, senza che si manifesti un non conformismo autentico.

Tutto questo può nascere sul piano tecnico-artistico in perfetta buona fede. Può persino dilatarsi a Weltanschauung, basta per questo che lo stato di manipolazione in cui l’uomo si viene a trovare venga concepito come “condition humaine”, vuoi esistenzialistica vuoi di psicologia del profondo. Una opposizione siffatta può innalzarsi anche a livello estetico sino alla negazione radicale di ciò che esiste, può realizzarsi come antiromanzo, antidramma ecc. senza per questo sottrarre un solo uomo alla manipolazione. Consegue però, da tale sottomissione, spesso in buona fede e volontaria, la forza inarrestabile della manipolazione, nonché il suo riflesso soggettivo, l’alienazione? A mio parere, no.

E ritengo di no sia per quanto riguarda il piano sociale obiettivo sia per quanto concerne il piano umano soggettivo. Certo, a questa duplice negazione va connessa la spiacevole conseguenza del delinearsi di un’opposizione reale. E qui le cose si fanno serie. Delle conseguenze materiali di un eventuale trovarsi esclusi dal numero di quelli che “contano”, qui non parleremo (sebbene si tratti di una faccenda socialmente non senza rilievo), se non che anche il ritrovarsi soli con se stessi, con le proprie convinzioni ideologiche e morali, è in definitiva una seria occasione di porre a cimento il carattere. È un rischio che si deve correre, qualora non si voglia accogliere completamente passivi questa schiacciante realtà della manipolazione.

L’irresistibilità della quale non è tuttavia che apparente. Non c’è giorno, non ora anzi che la vita non offra occasioni di resistere realmente; è però al tempo stesso nell’essenza della manipolazione dell’opinione pubblica che in tutte le pubblicazioni di stampa e letterarie, a non parlare del cinema, questa opposizione si esprima in modo senza paragone più debole. Un asserto questo che per i giorni nostri è difficile documentare in modo probante. Ma si pensi per esempio al fascismo, che ormai appartiene alle cose di ieri: quante opere d’arte (comprese quelle della pubblicistica) ci sono che possano reggere il confronto, quantitativamente e qualitativamente, con le ultlime lettere degli antifascisti condannati a morte, con il diario di Fucik, ecc.? (Il cinema italiano a tale riguardo è quello che vanta i risultati migliori). L’impressione complessiva però è, ad essere sinceri, tale da spaventare. E con ogni probabilità, lo stesso giudizio sul nostro presente dovrà dare un futuro non troppo lontano.

Se si deve arginare la manipolazione, voluta o no, volontaria o imposta che sia, della cultura e quindi del cinema, compito della teoria e della critica almeno, cioè delle sfere che per natura loro più difficilmente della produzione in quanto tale si prestano ad essere industrializzate e commercializzate, è di assolvere il loro dovere di resistere. Resistere in prima fila non è però lotta direttamente politica o propagandistica; la maggior parte tuttavia dei complici della manipolazione culturale sono artisti che nell’arte credono, gente in buona fede, tutti sinceramente presi dalla loro filosofia e dalla loro estetica, non di rado assai dotati, a volte anche pensatori in proprio e critici. Contro la loro falsa Weltanschauung, e la loro falsa estetica, contro la loro stravolta intenzione d’arte, è necessario porre una teoria autentica, convinta e capace di convincere.

Il superamento del tecnicismo nella teoria e nella prassi del cinema, la dimostrazione che dietro ad ogni questione in apparenza meramente formale stanno gravi e ingenti problemi della vita umana, che influiscono attraverso il mezzo della configurazione artistica sul trovarsi o sul perdersi dell’uomo: questo il compito centrale del critico cinematografico che oggi voglia meritare questo nome. Le cognizioni specifiche, la fine sensibilità estetica sono, s’intende, premesse necessarie, ma non più che premesse, non la cosa stessa. Ciò che ne scaturisce – additando il giusto cammino o invece da esso sviando – ha il suo fondamento in tale rapporto con la vita dell’uomo. “Essere radicali”, dice Marx, “significa andare alla radice delle cose. Per l’uomo, però, la radice è l’uomo stesso”. Chaplin non è mai stato un marxista. Ha tuttavia mostrato nelle più diverse forme quanto si possano mettere a frutto le nuove possibilità tecniche del cinema nel fissare, come egli indimenticabilmente ha fissato, l’immagine dell’uomo in pericolo, della sua lotta per conservarsi a se stesso, dello smascheramento di quanto quell’umanità contrasta ed insidia. Al cinema e alla critica cinematografica che si muovono sul piano esteriorizzante del tecnicismo, va contrapposta una critica capace di interiorizzazione e di approfondimento estetico, e che se in spirito di verità e di esattezza saprà andare sino in fondo, non potrà che pervenire all’uomo, all’uomo reale, che soffre e lotta socialmente tra uomini e contro altri uomini.

Per quanto poco mi consideri competente in fatto di cinema, quanto poco sia a conoscenza della Sua produzione complessiva – anche per quello che mi è noto non sono in grado di verificare i Suoi giudizi, spesso per ignoranza dei modelli a cui Lei si richiama – ho tratto nondimeno dai Suoi scritti la salda convinzione che Lei è un critico cinematografico teso a percorrere la giusta via. Per questo ho reputato un dovere e un onore la possibilità di scrivere queste righe di introduzione al Suo libro. Auguro a quest’opera di suscitare controversie accese ed aspre e di riuscire a effetti chiarificatori sui problemi del cinema, tali che, se autentici, nel chiarire questi problemi sappiano andar oltre, sappiano cioè invitare al chiarimento dei problemi dell’umanità».

György Lukács

Badapest, aprile 1965

Lukács

G.Lukács

 


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Guido Aristarco

«Se lo statuto per cosi dire generale dell’arte è quello della sovrastruttura, la fondazione marxiana di una teoria della critica non può che stabilirsi attraverso un puntuale raccordo di nuclei strutturali con quelli sovrastrutturali. Perché solo nell’articolazione di questi due piani, la critica può porsi come “mediazione” tra un prodotto e un destinatario e, al tempo stesso, rinvenire i dati della sua specificità scientifica che consentono appunto una successiva e più gelosa “mediazione”: quella tra un testo (o scrittura) e la cultura. In questo senso, rovesciando una posizione tradizionale, può non solo dirsi che una metodologia è sempre immanente a una teoria, ma addirittura che l’una e l’altra finiscono con l’identificarsi. In una tale prospettiva dialettica, assunto metodologico e dettato teorico si articolano in un discorso in cui l’enunciato filosofico cerca costantemente la sua verifica pratica nell’esame di opere, autori, correnti, per rifluire poi in un ambito speculativo che eleva a sistema l’oggetto particolare dello studio: in questo caso, il cinema. La critica cinematografica assunta come sistema, dunque. L’unica occasione scientifica, d’altra parte, che si offre al critico affinché non alieni al fenomeno che studia i suoi caratteri appena lo inserisce nella totalità più vasta dell’ordine estetico. Perché la teoria della critica non esclude ma presuppone un ordine estetico, né a questo vuole o può sostituirsi. Perciò mi pare opportuno operare un altro rovesciamento: l’esegesi critica non conduce alla totalità ma parte da questa; e così, nel delineare le coordinate del sistema teorico, si moltiplicano i piani di indagine, si dispiegano in una successione di livelli dialettici, ciascuno dei quali mantiene caratteri di perfetta autonomia ma non di indipendenza, appunto perché la totalità se è un punto di partenza è anche un punto di arrivo. Ne deriva una concezione complessa, articolata, problematica; una concezione in cui il marxismo mostra tutta la sua capacità epistemologica e si fa insieme soggetto e oggetto di verifica».

 

Guido Aristarco, Marx, il cinema e la critica del film, Feltrinelli, 1979, pp. 11-15 (Introduzione di G. Lukács) e p. 149.


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Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica

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Costanzo Preve, Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica. Torino, 19 febbraio 2009 – Liceo Classico D’Azeglio di Torino – Convegno: Origini e Percorsi dell’idealismo tedesco, 2009, pp. 35.

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L’idealismo tedesco è generalmente considerato nei manuali di storia della filosofia come la scuola filosofica di tre personaggi, Fichte, Schelling e Hegel. Chi lo inquadra all’interno di una successione storica tende a mettere “a monte” il criticismo di Kant, ed “a valle” il materialismo di Marx, oppure la via filosofica pessimistica e individualistica di Schopenhauer e la critica proto-esistenzialistica a Hegel di Kierkegaard. La sostanziale dissoluzione del sistema hegeliano è vista con favore da alcuni interpreti (cfr. Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche) ed è invece vista in modo negativo da altri, maggiormente filo hegeliani (cfr. Herbert Marcuse, Ragione e Rivoluzione, oppure Georg Lukàcs, La distruzione della Ragione).
Personalmente, preferisco una dizione differente, quella di “filosofia classica tedesca”. Se accettiamo questa dizione, che comporta immediatamente un vero e proprio “riorientamento gestaltico” ed una diversa periodizzazione, la filosofia classica tedesca inizia con Lessing e Herder, include Kant ed il dibattito sul kantismo che ha dato origine al vero e proprio idealismo filosofico posteriore, comprende ovviamente Fichte, Schelling e Hegel, e termina storicamente con le due figure di Feuerbach e di Marx, che ne fanno parte integrante.
Si tratta di un vero e proprio “riorientamento gestaltico”, [Leggi tutto, pp. 35]

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Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.

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1. Al principio di tutto, c’è l’indignazione. In generale l’indignazione è preceduta da una vaga irritazione, ma quando l’irritazione si cristallizza in indignazione allora si ha la genesi delle rivelazioni religiose e delle coerentizzazioni filosofiche. L’indignazione è stata all’origine della filosofia greca detta erroneamente presocratica (erroneamente, perché in un certo senso lo stesso Socrate è stato l’ultimo dei cosiddetti presocratici, e cioè di coloro che filosofavano al servizio diretto ideale della polis democratica), nella forma della indignazione razionalizzata di fronte all’irruzione sconvolgente della schiavitù per debiti, a sua volta dovuta alla monetarizzazione selvaggia dei rapporti sociali. In sintesi, la stessa filosofia greca ha trovato la sua genesi storica e sociale nello scontro fra l’elemento comunitario e l’elemento privato, più specificamente nella lotta fra le classi subalterne che aspiravano a salvaguardare la coesione economica e solidale della comunità e le classi superiori che miravano invece a dissolvere i legami comunitari, liberandosi così dalle pendenze e dagli obblighi economici verso la comunità, spalancando così le porte all’accumulazione crematistica.
Ho usato il termine accumulazione crematistica (termine preso da Aristotele) e non capitalistica, perché a quei tempi non sarebbe stato in alcun modo corretto parlare di accumulazione capitalistica. La piena confluenza dell’economia crematistica (già presente ovviamente, sia pure dominata, in un contesto di modo di produzione asiatico, schiavistico e feudale) in vera e propria economia capitalistica presuppone la sparizione di ogni distinzione fra crematistica ed economia propriamente detta, distinzione che sta invece alla base della concezione aristotelica della società (e si veda in proposito, oltre allo stesso Marx, Karl Polanyi, eccetera)… [continua a leggere]

Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale

 


Vedi anche:

Costanzo Preve, Religione Politica Dualista Destra-Sinistra
Costanzo Preve, Elementi di Politicamente Corretto
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

 


 

 

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Luigi Tedeschi intervista Alessandro Monchietto su «Sorel, determinismo e marxismo»

Copertina Da Capo senza fine

Intervista già pubblicata su:

Italicum_2015_0910 1Periodico di cultura, attualità e informazione del Centro Culturale ITALICUM
Anno XXX, Settembre – Ottobre 2015, pp. 28-34

1) Il pensiero critico di Sorel nei confronti del marxismo ortodosso si rivela illuminante riguardo alle cause della sconfitta epocale subita dall’ideologia marxista alla fine del ‘900. La prospettiva soreliana della “scissione” della classe proletaria dalla società capitalistica infatti fa venir meno la dialettica classista borghesia / proletariato che ha condotto alla economicizzazione del conflitto, rendendo le istanze riformiste della classe operaia omogenee e funzionali allo sviluppo del capitalismo. Tuttavia mi chiedo se tale “scissione” non finisca per condurre ad una ulteriore emarginazione sociale del proletariato con conseguente isolamento di una classe proletaria legittimata solo da quei dogmatismi ideologici tanto aspramente criticati dallo stesso Sorel.

A differenza di quanto affermato dal marxismo classico, Sorel intuisce che la sede sociale originaria della richiesta di giustizia, matrice della critica sociale al capitalismo, non sia stata la classe operaia, ma la classe contadina. La classe operaia ha manifestato fisiologicamente una natura ribellistica soltanto nel primo periodo della sua uscita dalla precedente cultura comunitaria di tipo contadino, bracciantile ed artigiana, mentre mano a mano che si è “integrata” nella società industriale capitalistica si è adattata massicciamente sia all’economicizzazione del conflitto, che all’incorporazione nazionalistica.
Come venne brillantemente evidenziato dallo storico E.P. Thompson, i comportamenti collettivi di tipo ribellistico, eversivo e quindi anche “rivoluzionario” della classe proletaria sono tipici del primo periodo dell’accumulazione capitalistica, quando questa classe è ancora dotata di una cultura solidaristica, tradizionalistica e comunitaria, laddove in un secondo momento non esiste gruppo sociale più propenso all’integrazione consumistica.
Storicamente i comportamenti “rivoluzionari” della classe operaia – lungi dal generalizzarsi nel processo del suo allargamento quantitativo – si riducono mano a mano che procede l’integrazione statalistica (servizio militare, scuola dell’obbligo, suffragio universale) e consumistica (accesso ai consumi come simbolo di status sociale differenziato), e del resto questo non può stupire. È infatti il “ricordo comunitario”, molto più che l’inesistente “anticipazione comunista”, a fare da motore alle iniziali insorgenze ribellistiche operaie.
Una volta integratasi nell’orizzonte capitalista, la coscienza immediata della classe operaia non va oltre l’orizzonte del conflitto retributivo (quello che Buman chiama l’«economicizzazione del conflitto», ovvero l’integrazione di fatto delle classi salariate nella dinamica dei consumi e quindi delle lotte per la ripartizione del prodotto); ma l’economicizzazione del conflitto, peraltro obbligata e sacrosanta, ha come oggetto la distribuzione più equa dei beni e dei servizi prodotti capitalisticamente, e per sua natura non può essere rivoluzionaria in senso marxiano, ossia intermodale.
La realtà smentisce così l’illusione per cui la classe operaia e proletaria, man mano che cresce numericamente e “culturalmente”, diventa più rivoluzionaria. In realtà è il contrario. Man mano che cresce, diventa sempre più “riformista”, e dunque sempre più interna alla produzione capitalistica.
Questo pericolo venne precocemente intuito da Georges Sorel, che prospetta come soluzione l’alimentare presso i produttori un potente «spirito di scissione», senza il quale – a suo dire – sarebbe impossibile al socialismo compiere la sua funzione storica.
La scissione è da lui intesa come il presupposto indispensabile affinché il proletariato non smarrisca se stesso e i connotati della propria classe, caratterizzata da una potenziale carica rinnovatrice, in un processo di imborghesimento che, accrescendo il benessere economico dei proletari, precluderebbe tuttavia il compimento della loro missione, snaturandoli e soffocandone ogni impulso ideale.
L’opposizione all’omologazione culturale operata dal capitalismo e alla rivoluzione conformistica che surrettiziamente penetra nella società determinando una trasformazione antropologica, l’insistenza riguardo al fatto che il progresso – per dirsi tale – implica la preservazione delle tradizioni passate (cfr. G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo, Milano 2005) sono temi che riaffiorarono carsicamente in un altro grande intellettuale marxista del Novecento: Pierpaolo Pasolini.

2) Le trasformazioni sociali avvengono, secondo il marxismo ortodosso, attraverso la dialettica classista quale emerge dalla concezione materialista della storia. Quindi, sulla base dei presupposti del materialismo storico, si potrebbero prevedere gli sviluppi del divenire storico dell’avvenire. Sorel smentisce tali prospettive storico – deterministe, conferendo all’azione e alla volontà umana il ruolo di artefice della propria storia e del proprio destino. La smentita della visione progressiva della storia conduce alla concezione della libera autonomia della causa rivoluzionaria. Tale concezione aporetica della storia comporta anche la possibilità di trasformazioni regressive della società, quale quella in atto nel nostro presente storico, con il dominio di un capitalismo assoluto teorizzato nel ‘700.

Quando Marx contrappone il suo socialismo (in quanto scientifico) al socialismo utopistico di Owen, di Saint-Simon e di Fourier, intende sostenere che il suo approccio, a differenza dei precedenti, è in grado non solo di dire come stanno le cose, ma anche di indicare che dovranno andare necessariamente in un determinato modo. In Marx il futuro non vuol essere l’utopia da realizzare, ma il «movimento che diviene».
Egli intende conferire una veste scientifica alla lotta proletaria, altrimenti destinata a rimanere utopica: solo una «dottrina concreta», fondata su solide basi (ossia sulla comprensione del movimento della storia e della reale struttura su cui si regge la società presente) può condurre al successo le lotte dei dominati. In questo risiede, com’è noto, la “rivoluzione copernicana” compiuta dal materialismo storico.
Quando si afferma che Engels e Kautsky hanno deformato in modo “positivistico” l’approccio filosofico originale di Marx, si commette un errore concettuale, perché Marx aveva già tacitamente e implicitamente approvato questa impostazione. Il paradosso – perché veramente di un paradosso si tratta – è che in Marx l’implicita approvazione della tesi positivistica del “superamento” della filosofia nella scienza avviene conservando un fuorviante linguaggio hegeliano, da cui trae origine una intera “letteratura dell’equivoco”.
Per Marx «una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza»[1]. Giungerà il momento in cui, compiutamente sviluppato, il capitalismo diverrà un limite alla produttività umana che fino ad allora aveva promosso, e sarà allora che il proletariato si ergerà come classe emancipatrice dell’intera umanità, chiudendo il ciclo storico delle società divise in classi e aprendo le porte alla futura società comunista.
Come viene intravisto da Sorel sin da fine Ottocento quella marxiana è una pura illusione, che introducendo un deus ex machina esterno evita la questione etico-morale. Un incremento di civiltà umana richiede uno sforzo politico, di responsabilità e di morale, e un universo di valori di riferimento. La fede nel «determinismo» (nell’idea secondo cui è possibile determinare a priori il corso dello sviluppo storico e formulare la previsione della sua direzione) risponde secondo Sorel all’inconfessato desiderio di de-responsabilizzarsi, e tale categoria convertendosi in motivo e fondamento di «inazione» non serve per pensare ed attuare l’emancipazione universalistica umana.
La concezione della storia teleologico-finalistica è un orizzonte da cui dobbiamo inevitabilmente prender congedo. Il capitalismo non porta automaticamente al socialismo, ma semmai – come evidenziavi – regredisce a conformazioni pre-democratiche. Siamo dunque in una situazione in cui vale un modello del “se-allora”, una storia al condizionale: se ci sono certe premesse, avremo determinate conseguenze, ma queste premesse non sono qualcosa di spontaneo, ma appunto qualcosa di costruito.
È in tal frangente che ho ritenuto utile riconsiderare l’attualità della riflessione sviluppata da Georges Sorel, il quale fu uno dei pochissimi pensatori marxisti che cercarono di separare il principio (ideologico) del progresso da quello (filosofico) dell’emancipazione, e proprio a tal fine elaborò una dottrina – quella del «mito», da lui definita anche «filosofia di dilucidazione» – la cui validità si basava sul grado di funzionalità rispetto al problema di «muovere gli uomini» ad agire nella storia.
Senza una “credenza” che dia “senso” a una compagine di individui non è – per Sorel – possibile la costituzione di alcun tipo di associazione e dunque alcuna diffusione di una «nuova morale», poiché a suo dire solo gli orientamenti effettivamente tradotti in rappresentazioni collettive possono costituire una base solida per l’esercizio di una prassi intersoggettiva. Sorel sembra qui anticipare l’intuizione (sviluppata in seguito da Alasdair MacIntyre) secondo cui è necessario descrivere l’attività dell’agente morale come un «percorso narrativo»[2]. Seguendo il filo di questo pensiero possiamo affermare che l’identità del soggetto morale non può essere formata indipendentemente e separatamente dalle narrazioni di «storie» di cui questo fa parte; senza il «contesto narrativo», infatti, la storia del soggetto individuale rimane inintelligibile.

3) La logica determinista del materialismo storico criticata da Sorel, che ha dominato la cultura marxista fino ai nostri giorni, si è dimostrata fallimentare nei suoi presupposti filosofico – ideologici, in quanto incapace di interpretare gli sviluppi del divenire storico contemporaneo. Tale determinismo non ha una origine mutuata dalla cultura positivista / liberale che prospettava la trasposizione delle procedure scientifiche alla analisi della storia ed alla sociologia? Non è una forma di estraneazione ideologica del marxismo dalla filosofia marxiana?

Nell’ultima parte della sua vita, il nostro comune amico Costanzo Preve era solito sostenere che studiare Marx significasse affrontare un pensiero situabile in una vera e propria faglia sismica tra concezioni positivistiche, retaggi idealistici e visioni romantiche, la qual cosa avrebbe reso impossibile a chiunque ogni tentativo di coerentizzazione e rigorizzazione[3].
Marx sarebbe sospeso ambiguamente tra positivismo e idealismo, per cui per un verso egli vorrebbe descrivere il processo storico con la stessa esattezza con cui si può descrivere la natura (estendendo il modello scientifico delle scienze della natura anche all’ambito storico-sociale), mentre dall’altra avrebbe metabolizzato l’idea, tipicamente hegeliana, della scienza dell’intero: la filosofia che diventa una scienza filosofica (philosophische Wissenschaft), che conosce la totalità e la spiega a partire da un principio unitario. Il pensiero marxiano pertanto non sarebbe sistematizzabile, e se ne potrebbe soltanto dare una interpretazione soggettivamente originale (nel caso di Preve e di Fusaro, Marx come pensatore idealista e tradizionale).
La mia posizione si pone su un piano differente. A mio modo di vedere a Marx non è accaduto casualmente di situarsi su una “faglia sismica” in una sorta di gettatezza storica (Geworfenheit), ma il suo progetto era precisamente quello di edificare su tale faglia.
Cerco di spiegarmi: quella del Marx maturo intende essere una teoria a-morale, mentre l’idealismo (a partire da Fichte) struttura la Wissenschaftlehre come una dottrina teoretica e etica allo stesso tempo (i cui poli si tengono assieme indissolubilmente e sono separabili solo per astrazione); quella che Marx voleva produrre è invece una teoria scevra di morale, da lui considerata un elemento deleterio.
Ciò che Marx aveva in mente quando decise di abbandonare il terreno della filosofia (den Boden der Philosophie verlassen) – attuando il passaggio «dall’utopia alla scienza» – era un’analisi che vuol muoversi in un territorio situato al di là della “ragion morale”: un discorso di tipo morale sarebbe stato per lui romantico, non scientifico, “utopistico”; ed egli era tormentato dalla preoccupazione che nel suo lavoro potesse avvenire una sopraffazione “fatale e illusionistica” dell’aspetto moralizzante ai danni di quello analitico. Bisogna tuttavia comprendere che una scienza a-morale della totalità è una contraddizione in termini, e infatti Marx ricadde inevitabilmente e continuamente proprio in ciò che voleva superare: egli provò a congedarsi da Hegel senza mai riuscirci del tutto, rimanendo hegeliano anche al di là delle proprie intenzioni e dei propri convincimenti.
Il progetto marxiano di edificare sulla “faglia”, ambiziosissimo e stimabile, è stato dunque precisamente il voler cercare di saldare due piani incongiungibili: la scienza filosofica e la scienza “positivistico-galileiana”. L’incompatibilità di queste due posizione è a mio avviso il motivo per cui Marx non ha mai sistematizzato il proprio pensiero, mentre chi ne ricerca l’origine nel fatto che fosse «un pensatore critico e non dogmatico» (il quale continua perciò a sottoporre i suoi stessi lavori a critica permanente) conduce il lettore fuori bersaglio. A mio parere il tentativo marxiano si è dimostrato fallimentare, e a noi posteri non resta che scegliere su che sponda della faglia collocarci: o optiamo per la distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, o per la scienza filosofica. Per dirla ancor più sinteticamente: o asettica certezza, o verità onto-assiologica.
La prima cosa che si impara studiando Marx e il marxismo è tuttavia che non ha senso retrodatare la consapevolezza di un fenomeno, positivo o negativo che sia, ad un momento storico precedente in cui non ne erano ancora apparse le condizioni di visibilità. Marx, cresciuto in quella «soglia epocale» (Sattelzeit) compresa tra il 1750 e il 1850, in cui la storia si presenta come una storia “singolarizzata” (secondo quella «riduzione del numero» che unifica le storie al plurale nell’unica storia «singolare-collettiva»), “futurizzante”, “linearizzata” e “progressiva” (cfr. D. Fusaro, L’orizzonte in movimento. Modernità e futuro in Reinhart Koselleck, Il Mulino, Bologna 2012), è figlio del suo tempo.
Il filosofo di Treviri – in un grandioso tentativo di lavorare con le ambivalenze della modernità capitalistica – viene risucchiato dentro una dialettica storica delle forze oggettive, in cui la teoria è orientata a delineare le condizioni del superamento del modo di produzione capitalistico prendendo a modello ciò che è storiograficamente disponibile: il superamento dei precedenti modi di produzione, ai quali viene fatto riferimento per delineare una dialettica tra sviluppo e limite delle forze produttive all’interno del modo di produzione capitalistico. Lo schema serve a Marx per delineare la dinamica del superamento attraverso i suoi limiti immanenti, esattamente come avvenne in passato con il feudalesimo e le corporazioni.
Caduto vittima dell’«l’irresistibile incantesimo della analogia storica come fattore di previsione storica scientifica»[4], aveva creduto che la transizione capitalismo-comunismo potesse essere pensata attraverso la ripetizione del modello di transizione feudalesimo-capitalismo. La presunta incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive venne ricavata da Marx dall’analogia con la reale incapacità dei ceti feudali e signorili di sviluppare le forze produttive. Tale analogia si è tuttavia palesata come qualcosa di assolutamente illusorio ed errato.
Dal punto di vista della previsione scientifica dell’evoluzione strutturale del modo di produzione capitalistico, due sono infatti state le smentite fondamentali. In primo luogo, è stata smentita l’ipotesi per cui il modo di produzione capitalistico, in analogia coi due precedenti modi di produzione, schiavistico e feudale, non sarebbe stato in grado di sviluppare adeguatamente le cosiddette “forze produttive”, sarebbe entrato in una fase di stagnazione produttiva ed avrebbe dovuto “passare il testimone” ad un sistema sociale più produttivo (il comunismo, appunto). Il capitalismo si sta rivelando invece il sistema più produttivo dell’intera storia dell’umanità, sia pure in un quadro di crisi ecologica ed antropologica diffusa.
In secondo luogo, la classe salariata, operaia e proletaria, connotata dal marxismo classico come il soggetto rivoluzionario intermodale principale, si è rivelata sulla media distanza come uno dei soggetti complessivamente meno rivoluzionari della storia (su questi temi si veda C. Preve, Storia critica del marxismo: dalla nascita di Karl Marx alla dissoluzione, Città del sole, Napoli 2007).
L’errore di Marx può tuttavia essere considerato un tipico errore “scientifico” in senso fisiologico e non patologico. Le scienze procedono non nonostante gli errori, ma grazie agli errori, che ponendo il problema della loro correzione pongono contestualmente la possibilità di sintesi teoriche più avanzate e comprensive di elementi inediti.
Di fronte al fallimento di molte previsioni marxiane, quello che – a mio parere – sopravvive oggi di Marx è la sua critica del presente e la tensione in avanti che spinge a trascendere la realtà data. Ciò non significa che l’analisi scientifica sia da rigettare, al contrario, essa dev’essere accolta nella misura in cui descrive le contraddizioni della realtà presente, ma semplicemente, non ci si può arrestare ad essa. Anche se cade il muro della cosiddetta “previsione” marxista sulla incapacità della borghesia di sviluppare le forze produttive e sulla capacità della classe operaia e proletaria di attuare una vera e propria “transizione” (e non solo una “resistenza”, che è cosa in via di principio ben diversa), resta pur sempre in piedi l’altro muro, e cioè la crisi, la putrefazione, il regresso barbarico del rapporto sociale di produzione capitalistico.
La previsione marxiana secondo cui all’interno del capitalismo vi sarebbe una dinamica intrinseca che lo avrebbe portato necessariamente all’autodistruzione si sta dimostrando assolutamente valida. Il problema è che ciò che si è rivelato errato è l’altro polo di questa previsione, ossia la prospettiva secondo cui il capitalismo starebbe «covando nel suo stesso seno il proprio becchino».
Un concetto di storia corrispondente a questa realtà è quello che la costituisce a partire da scansioni e non da continuità, una storia che corra sul filo degli “stati di emergenza” quale quella delineata nella nostra precedente intervista. «Marx – scrive a tal riguardo Walter Benjamin negli appunti preparatori alle sue Tesi di filosofia della storia – aveva detto che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia mondiale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno». Compito del nostro tempo è spingere i freni prima che il treno si schianti a fine corsa.

 

 

4) Sorel considera il determinismo marxista come uno sviluppo postumo dell’idealismo hegeliano. L’idealismo viene criticato quale filosofia storicista che conduce ad una visione deterministico – fatalista della storia. All’idealismo viene accomunato il positivismo con l’assolutizzazione del progresso scientifico illimitato che avrebbe dominato il divenire storico dell’uomo. Idealismo e positivismo vengono considerati come filosofie coerenti, tra loro in successione storica. Tale assimilazione è in realtà confutabile, data la fondamentale diversità / contrapposizione dei fondamenti dell’idealismo rispetto al positivismo.

Il problema della categoria di necessità nell’idealismo hegeliano (e conseguentemente marxiano) è una questione su cui mi arrovello da diverso tempo[5], e su cui ho difficoltà a prendere una posizione definitiva. Cercherò di sintetizzare e rendere nel modo più fruibile possibile al lettore quanto fino ad ora ho dedotto.
Qual è il momento migliore per saltare su di una giostra che gira? È semplice, il momento migliore è quello in cui la giostra gira più lentamente. Come amava ripetere Costanzo, l’inizio più consigliabile per iniziare l’esposizione del sistema circolare di Hegel non è certamente il contatto immediato con il Sistema della logica, ma è piuttosto la sua filosofia della storia. Dal momento che per Hegel uno dei modi migliori di definire l’oggetto della filosofia è “il proprio tempo appreso nel pensiero”, non c’è modo migliore per salire sulla veloce giostra hegeliana.
Nelle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel sostiene che la considerazione filosofica della storia «non ha altro intento se non quello di eliminare l’accidentalità», il caso. Dove c’è il caso deve per Hegel trionfare la necessità. La filosofia della storia – per sua stessa ammissione – altro non è che una «teodicea» che, assumendo la Provvidenza come interna alla struttura stessa del reale, si propone di interpretare il corso storico eliminando l’accidentale e garantendo che, alla fine del processo, il male non avrà la meglio.
Aggirandosi tra le «rovine della storia», intesa in maniera decisamente realistica come un «banco da macellaio» (Schlachtbank) su cui vengono immolate la felicità dei popoli, la saggezza degli stati e la virtù degli individui, il filosofo comprende che la storia è un cammino – tortuoso e non esente da regressi – verso il completo sviluppo della libertà, fine che, per Hegel, sembrerebbe essersi realizzato nell’epoca moderna. Essa viene significativamente connotata come «il periodo dello spirito che si sa libero», facendo sorgere nel lettore il dubbio che il presente rappresenti, oltre che il fine, anche la fine del corso storico.
La filosofia della storia di Hegel è dunque il modello di massima intensità e di massima ambizione di un’ermeneutica del male: dove gli occhi degli uomini registrano il dominio imprevedibile del caso, gli occhi della ragione sanno invece scorgere uno Spirito del mondo che in qualche modo realizza se stesso progressivamente nella storia. Se attribuire ad Hegel l’annuncio della così detta “fine della storia” corrisponde indubbiamente ad una interpretazione “manicomiale” dell’idealismo hegeliano, è tuttavia possibile sostenere che Hegel si fosse persuaso non tanto della “fine degli eventi”, quanto del fatto che a livello di “fantasia politico-sociale” non si sarebbe più inventato materiale normativamente migliore di quello di cui la sua epoca disponeva (famiglia, libertà cristiano-germanica, Stato ecc.). Banalizzando, è come se Hegel sostenesse: “vi sono tutti gli elementi del puzzle sul tavolo, ma non è ancora detto che il puzzle sia stato composto; quello che è certo è che non arriveranno più tessere nuove”.
Per tornare a quanto dicevamo inizialmente, non sono sicuro che il cardine del pensiero hegeliano sia il concetto antideterministico di potenzialità ontologica (dynamei on), come teorizzava Preve; il suo pensiero mi appare al contrario dipendere molto più dal concetto di possibilità reale[6] (Möglichkeit).
Hegel sostiene sin dalla Fenomenologia dello spirito che il concetto della necessità non è altro che il «concetto del concetto». Quando si parla di concetto si parla di qualcosa che ha in sé la propria necessità evolutiva (ad esempio il bocciolo rappresenta un concetto, nella misura in cui dal suo stesso interno il bocciolo diventa fiore e poi frutto); il concetto è il vero elemento dell’esposizione filosofica, e ciò significa che il concetto deve mostrare come dall’immediato si passa alla mediazione e poi si passa all’in sé e per sé. Il concetto significa quindi mostrare il divenire di un certo sapere, e in Hegel la filosofia si espone nella forma del concetto. L’aspetto fondamentale dell’esposizione concettuale è dunque che essa mostra il sapere nella sua necessità e nella sua necessaria mediazione.
Marx a mio parere eredita questa visione della “possibilità reale” (intesa come l’altra faccia della necessità) e la sua filosofia della storia è connotata dalla volontà di decrittare i geroglifici del corso storico per vedere come esso stesso porterà al comunismo. Il comunismo per Marx è infatti il portato del movimento stesso, del ritmo della storia.
Egli è convinto che il movimento stesso con cui la borghesia conquista il mondo, con cui si sviluppa, con cui genera il progresso (producendo allo stesso tempo anche lo sfruttamento dei popoli), ebbene quel movimento sarà fatale alla borghesia, perché è lo stesso movimento con cui la società borghese segna il proprio trapasso nel comunismo. Vi è una insondabile astuzia della ragione che fa sì che gli individui borghesi (sviluppando a dismisura l’industria, la scienza, la tecnica ecc.) di fatto non facciano altro che preparare con le loro stesse mani il superamento del modo di produzione capitalistico.
Marx – criticando il capitalismo – sta per così dire mettendosi dalla parte della storia: essa stessa è se vogliamo critica del capitalismo, nel senso che nell’ottica di Marx è la storia stessa che porta al toglimento del capitalismo per via delle contraddizioni che questo ha in sé. Egli quando pensa al comunismo non pensa mai a una società che bisogna creare ex novo, non implica mai una programmabilità della politica. Esso non è mai progettabile, è solo prevedibile (storicamente).
In sede politico-ideologica, e qui l’analisi soreliana del mito è assolutamente pertinente e corretta, quello che a me appare come il più grande errore filosofico di Marx è stato assolutamente provvidenziale, in quanto senza questa dimensione positivistico-religiosa (positivistica nella sua pretesa di previsione deterministica necessaria, e religiosa nella sua funzione di mobilitazione del popolo credente) il marxismo non avrebbe mai e poi mai potuto “mordere” nella coscienza collettiva delle grandi masse contadine ed operaie, colmando così il vuoto prodotto dal declino della coscienza religiosa di massa a partire dal Settecento.

 

 

5) Al determinismo ideologico Sorel contrappone il “mito rivoluzionario”, attraverso l’interpretazione del pensiero di Marx, visto come l’artefice di una prospettiva di ispirazione alla azione rivoluzionaria. La critica delle condizioni del presente storico genera passioni ideali, eroismi, rappresentazioni mitiche di trasformazione della società. Sorel si dissocia comunque dal pensiero utopico, quale prodotto intellettuale di concezioni futuribili astratte ed estranee al presente. All’utopia contrappone il mito, quale forma ideale concreta, atta a mobilitare l’azione collettiva di trasformazione della realtà del presente. Sorel non considera essenziale il contenuto veritativo o meno del mito (ad esempio, la trascendenza messianica del cristianesimo), quanto la sua forza propulsiva atta ad incidere sulla realtà. Tuttavia, si può obiettare che un mito rivoluzionario concepito solo come strumento di mobilitazione ed azione, finisce per occultare e disconoscere le finalità e le prospettive ultime di trasformazione sociale, degenerando in un pragmatismo legato a circostanze storiche determinate e destinato ad esaurirsi con esse.

Come ho evidenziato nel mio breve studio, ciò che conduce Sorel ad avvicinarsi al marxismo nei primi anni ’90 dell’Ottocento è un interesse scientifico piuttosto che politico. In questo periodo egli cerca di elaborare una «scienza non deterministica dei fatti sociali», che sappia farsi carico delle innovazioni del materialismo storico di fronte al cedimento dell’impianto positivistico.
In questa fase iniziale Sorel difende caparbiamente il carattere «scientifico» del marxismo, pur intraprendendo una battaglia contro le interpretazioni meccanicistiche della dottrina marxiana; ritiene infatti importante attribuire un rilievo autonomo ai fattori sovrastrutturali (come a esempio gli ideali giuridici) al fine di preservare la “funzione creatrice” dell’uomo. Egli cerca così di stabilire una connessione tra struttura e sovrastruttura che lasci all’azione dell’uomo la massima autonomia.
La trasformazione sociale non è a suo dire determinata dal mondo della produzione, ma è orientata dai pensieri, dai desideri, dagli sforzi degli uomini. La lotta di classe non trova le proprie ragioni soltanto nei dati materiali offerti dallo sviluppo della società, ma nasce anche da un processo che ha luogo nella coscienza, ove si viene maturando l’idea della scissione della società in due campi.
Sorel, che subisce l’influenza e il fascino delle tesi bersteiniane, riconosce che un’analisi empirica del panorama a lui contemporaneo escluderebbe una «divisione dicotomica» della società, ma non per questo ritiene che di separazione non si possa più parlare. Proprio perché empiricamente non sussiste una demarcazione precisa fra le classi, Sorel sostiene che tale differenziazione possa scaturire soltanto dalla formazione di una «regola di vita», dall’instaurazione di un costume morale autonomo nel proletariato, poiché il «mero fatto economico» non basta a operare una sufficiente distinzione. A tale convincimento non è estranea la suggestione che ebbe nella speculazione soreliana la vicenda del cristianesimo primitivo, ed in particolare il rigido isolamento in cui i primi cristiani formarono e custodirono la loro tradizione morale.
La teoria soreliana rovescia il modello marxiano, in quanto propone una dialettica di pura contraddizione. In Hegel, ma anche in Marx, la dialettica intreccia strettamente contraddizione e mediazione; in Sorel, al contrario, la mediazione scompare e la contraddizione stessa diventa artificiale. Il conflitto viene da Sorel introdotto artificialmente, mediante il ricorso ai miti, alle illusioni e alla “volontà di credere”.
Hegel aveva paragonato la guerra al vento, che impedisce ai popoli di imputridire al pari dell’acqua negli stagni. Riteneva però che il conflitto e le contraddizioni fossero inscritti nel movimento della “cosa stessa”, nella storia, nella realtà effettuale. Con Sorel tale fiducia viene a mancare. Abbandonando l’idea secondo cui la prassi umana possa soltanto assecondare processi oggettivi, che comunque si farebbero strada autonomamente, si giunge all’ipotesi che unicamente i miti della volontà possano dare senso a una realtà che in se stessa ne è priva.
Per Sorel dunque solo la morale del produttore e il mito (come ad esempio quello dello sciopero generale) possono condizionare, nella direzione del modello logico e astratto di Marx, quell’ordine storico che nella realtà ha imboccato una via totalmente diversa.
A tal riguardo, la grande difficoltà che spesso i marxisti si trovano ad affrontare è che, inevitabilmente, il modello logico non può venire meno senza trascinare con sé la fiducia nel carattere rivoluzionario della trasformazione. La contraddizione si può superare, sostiene Sorel, facendo «rivivere» l’ordine logico nel «mito». Le teorie catastrofiche, contestate da Sorel sul piano della loro correttezza e corrispondenza empirica, tornano a mostrare la loro necessità nell’ambito del mito; in tal modo l’«ordine logico» ricompare come mito-prospettiva. Sorel non ritiene che il “mondo nuovo”, come immaginato dai socialisti, si potrà mai realizzare; tuttavia reputa necessario mantenere tale speranza affinché gli attori sociali si possano organizzare.
Privati della loro validità scientifica, i precetti centrali del marxismo diventano fonti di motivazione umana, il cui valore primario consiste non nella loro veridicità empirica, ma nella loro capacità di «ispirare gli uomini all’azione». Egli ritiene dunque possibile trattare come «miti» le teorie che i socialisti ortodossi considerano «dogmi» e che i revisionisti non vogliono più ammettere.
Centrale è l’analisi delle vicende che segnarono la storia del primo cristianesimo. L’avvenimento fondamentale del cristianesimo primitivo è per Sorel la fede nella resurrezione. Come tale credenza si sia formata è tuttavia a suo dire inutile domandarselo; alla «storia scientifica» non interessa infatti sapere se certi episodi dei Vangeli fossero veri o documentabili, se si ebbero o meno miracoli, poiché le basta «indagare il concetto che se ne fecero gli uomini» e che fattualmente operò nella storia. Sul piano teologico il «miracolo» non è un mito religioso, ma lo diventa sul piano dell’analisi storica fatta con «spassionato spirito scientifico»; esso testimonia non solo «l’azione del divino sul mondo», ma – ed è questo l’aspetto che sta a cuore al nostro autore – spinge le masse ad agire piegando il corso della storia nel senso delle “immagini” che esse si creano.

Il problema per Sorel non è dunque investigare se «Lazzaro risorse veramente» o se «Gesù fu Dio», quanto sapere come tali illusioni abbiano agito sul corso storico, e il valore che, nella coscienza umana, ebbero tali narrazioni.

Sorel fu sempre interessato e attratto dalle «azioni» che l’esperienza religiosa è capace di far scaturire, ma nutrì una ingenua indifferenza per il contesto veritativo che si cela dietro a quelle forze che egli tanto ammira. Un mito non ha infatti più alcun valore, neppure “pragmatico”, allorché si rivela alla coscienza come tale; per un cattolico la «verginità di Maria» non potrà mai essere un mito, e nel momento in cui egli decidesse di definirla in tal modo, cesserebbe immediatamente di credervi.

I dogmi proposti dalla Chiesa non sono certo creduti perché generatori di forza, ma perché verità. L’aporia in cui Sorel sembra dunque cadere è che egli voleva confiscare, ai fini di rigenerazione sociale, la forza che la verità, o la creduta verità, ispirava; ma svelando il meccanismo che soggiaceva a questa relazione, e mostrando chiaramente di inseguire il solo «risultato», involontariamente indeboliva e sconsacrava tale verità.
Lo sforzo di Sorel manifesta dunque tutta la propria illusorietà nel momento in cui ritiene sufficiente, per mobilitare i produttori, una verità “qualsiasi”, un’idea-forza intesa come una sorta di “surrogato di verità”, laddove l’effetto che egli aveva constatato nelle civiltà antiche (il prodursi della forza) era legato all’esclusività – e alla certezza – di ciò che costoro ritenevano “la Verità”.
Sorel avrebbe pertanto reso un pessimo servizio all’idea di sciopero generale, qualora fosse riuscito a far entrare nella mente degli operai la convinzione che esso è «un mito soltanto». Come rileverà a proposito Giuseppe Prezzolini, per quanto Sorel «indori la pillola con tutta la più autentica filosofia bergsoniana […], la coscienza popolare si rivolterà e chiederà realtà non illusorie»[7].

Note

[1] K. Marx, Per la critica dell’economia politica , Editori Riuniti, Roma 1957, pp. 5-6.

[2] «Riesco a rispondere alla domanda “Che cosa devo fare?” soltanto se riesco a trovare la risposta a una domanda antecedente: “Di quale storia o quali storie mi trovo a far parte?”» [A. MacIntyre, Dopo la virtù, Armando editore, Roma 2007, p. 262].

[3] «In Marx esiste una specifica schizofrenia, che si tratta di individuare con precisione. Da un lato una filosofia della storia di origine idealistica (a metà fichtiana ed a metà hegeliana), fondata su di un uso originale del concetto di alienazione. Dall’altro una teoria della storia di tipo positivistico, fondata su di una concezione predittiva (o, più esattamente, pseudo – predittiva) delle leggi storiche, pensate come omologhe alle leggi delle scienze della natura (donde materialismo dialettico e teoria gnoseologica del rispecchiamento). Questa schizofrenia non permette in alcun modo una coerentizzazione del pensiero complessivo di Marx, che infatti non è coerentizzabile. Il successivo marxismo Engels-Kautsky (1875 – 1895) non lo coerentizzò, ma edificò una variante di sinistra del positivismo su base gnoseologica neokantiana. Ebbene, meglio tardi che mai. Sebbene in ritardo, sono ormai estraneo sia all’illusione di avere scoperto il “vero” Marx, sia alla dichiarazione identitaria di appartenenza alla “scuola marxista”. In quanto al fatto se Marx sia prevalentemente idealista o materialista, si tratta di un problema di storiografia filosofica che mi è ormai del tutto indifferente. Propendo tuttavia per l’interpretazione idealistica per un insieme di ragioni non storiografiche e non filologiche» [C. Preve, Intervista ad A. Monchietto, rivista Socialismo XXI, estate 2010. Consultabile all’indirizzo http://blog.petiteplaisance.it/alessandro-monchietto-intervista-a-costanzo-preve-estate-2010-socialismo-xxi].

[4] C. Preve, Del buon uso dell’universalismo, Settimo Sigillo, Roma 2005, p. 74.

[5] Cfr. A. Monchietto, Per una filosofia della potenzialità ontologica, Petite plaisance, Pistoia 2011.

[6] «Quello che è necessario, non può essere altrimenti; bensì può essere altrimenti quello che è, in generale, possibile; poiché la possibilità è l’essere in sé che è soltanto esser posto e quindi essenzialmente esser altro. La possibilità formale è questa identità come un passare in un assolutamente altro; la possibilità reale invece, avendo in lei l’altro momento, cioè la realtà, è essa stessa già la necessità. Quindi quello che è realmente possibile non può più essere altrimenti; poste queste condizioni e circostanze, non ne può seguir altro. La possibilità reale e la necessità differiscono dunque solo apparentemente. Quest’ultima è un’identità la quale, non che divenire, è già presupposta e sta a fondamento» [G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Roma–Bari 1924, vol. II, p. 619]. La “possibilità formale” non deve dunque essere confusa con la “possibilità reale”: quest’ultima è intesa come necessità perché, avendo già in sé il momento della realtà, si configura essa stessa come necessità, non potendo essere ciò che realmente è possibile diversamente da come è: «la necessità assoluta è dunque la verità in cui rientrano la realtà e la possibilità in generale» [ivi, p. 623].

[7] G. Prezzolini, La teoria sindacalista, Perrella, Napoli 1909, p. 264.

Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken. Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro. L’ontologia del non ancora è la comunità.

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende, le cose cercano il loro poeta […]. Ciò che è accaduto, è sempre accaduto solo a metà, e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare».

E. Bloch

Salvatore Bravo

Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

Nello Spirito dell’utopia di Ernst Bloch il concetto di Eingedenken, rammemorare il futuro, ha una portata teoretica che svela la sua pregnanza concettuale nel tempo presente segnata dalla “dimenticanza” del passato e del futuro. Il concetto di Eingendenk deriva dalla preposizione “in” e dal verbo “gedenken” (‘ricordare’), legato a sua volta a denken (‘pensare’): non a caso le forme più arcaiche presentano la forma ingedenk.

Lo sconfittismo del nostro tempo si connota per la neutralizzazione della memoria storica. La storia nelle sue vicende e vicissitudini, invece, con il concetto di Eingedenken non è consegnata all’oblio ma fonda la metafisica umanistica, la quale ha come centro l’essere umano nella sua concretezza comunitaria. Si intrecciano in un sinolo inestricabile la biografia personale e la storia collettiva che non è persa nel tempo, ma ha la possibilità di essere rivissuta, rammemorata e pensata nelle sue possibilità inespresse. L’ontologia del non ancora è la comunità che pensa il tempo trascorso, non si limita a conteggiare gli eventi sulla linea della storia, ma ne scorge con gli errori le potenzialità progettuali da attuare nel futuro.

In Ernst Bloch la metafisica umanistica vive dell’irraggiamento del passato verso il futuro. Senza la mediazione della coscienza nulla è possibile: le potenzialità sono disperse nel tempo o sono schiacciate dalla gravità dell’economicismo e del fatalismo.

Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. Pertanto solo l’umanità capace di leggere plasticamente il passato può scorgere nelle sue pieghe il futuro. Non si tratta di correggere ciò che fu, o di ripetere in modo ingenuo ciò che è stato, ma di pensare la distanza temporale al fine di poterla comprendere nella sua profondità per estrarne esperienze non completamente compiute o inespresse. Ciò che fu – in tale cornice intenzionale – è vivo nel pensiero che rammemora il passato per poter progettare il futuro a partire dal presente. La storia è il mondo degli uomini e delle donne nella quale la vita prende forma con le sue imperfezioni, deviazioni improvvise e scambi di binari che attendono di essere pensati in modo che possano vivere di nuova luce nel futuro. La prassi è orientata verso il futuro, ma la condizione ontologica del suo operare trasformativo non può che affondare creativamente il suo rizoma nel passato:

«Perciò qui brilla il presentimento di un sapere non ancora cosciente, […] emerge qui un volere modificante, un pensiero motorio del nuovo, in quanto grande e ancora inesplorata consapevolezza o classe di coscienza di un immemorare, capace di conferire al Wiedererinnerung mondo il suo scopo togliendo di mezzo ogni mera rammemorazione […] o ogni mero alfa del platonismo o dello hegelianismo; perciò si mostra qui l’atteggiamento di un filosofare pragmatistico, rivolto tanto al poter volere a ritroso [das zurück Wollenkönnen des Willens] diretto a ciò che fu, quanto al nuovo, a inserzioni metafisico-morali – atteggiamento illuminato da un mondo che non c’è ancora, immediatamente collocato sul ponte verso il futuro, sul problema, dominato dalla propria volontà, della teleologia».1

Metafisica umanistica

Le parole di Ernst Bloch delineano il fulcro sostanziale della metafisica umanistica. L’essere umano non è un automa che appare passivamente nella storia fino a scomparire. Michel Foucault utilizza un’immagine – in Le parole e le cose – per indicare l’apparire fugace dell’idea di essere umano nella storia: sulla sabbia si può scorgere il volto dell’essere umano portato via velocemente dall’onda.

La metafisica umanistica non è una forma di storicismo, non si limita ad enumerare la storia delle idee con le sue visuali antropologiche che diverranno presto archeologia. Essa ha il suo fondamento veritativo nella natura dell’essere umano curvato nella materialità della storia. L’essere umano media con il pensiero l’esperienza storica, e in tal modo pensa il proprio tempo in modo esteso: il passato si riannoda col presente per orientarsi verso il futuro. La prassi è il catalizzatore del tempo pensato che diviene la luce nelle tenebre del nichilismo e nell’oscurantismo del pessimismo senza speranza ed etica:

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende [alles wartet auf uns], le cose cercano il loro poeta e vogliono essere riferite a noi. Ciò che è accaduto [geschehen], è sempre accaduto solo a metà [halb geschehen], e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare»2

Rammemorare ciò che fu

I morti ritornano nel presente, le idee e le lotte trascorse con il loro tributo di sangue e sacrificio sono nel presente. Rammemorare i “morti” significa farli vivere nel presente: ritornano a noi con il pensiero, per progettare il futuro. Non è un eterno ritorno, ma un ritornare per aprire al futuro, per rompere la «gabbia d’acciaio» che vorrebbe restringere la prospettiva al solo presente sclerotizzato nel ciclo consumo-produzione.

Non è un’operazione archeologica, non si tratta di far affiorare il passato per renderlo “oggetto da esporre”, ma di viverlo nell’attività del pensiero, la quale non si limita alla contemplazione di ciò che fu, ma lo riorienta verso il futuro:

«I morti ritornano in nuove connessioni di senso come pure nel nuovo agire, e la storia così concepita, sottoposta a concetti rivoluzionari che continuano a operare, spinta verso la leggenda e interamente illuminata, diventa la non mai perduta funzione nella sua pienezza di testimonianza della rivoluzione e dell’Apocalisse».3

La metafisica umanistica non è una semplice forma di coscienzialismo, in quanto conserva il materialismo storico liberato dai ceppi del determinismo e dai semplicismi delle proiezioni-previsioni degli economisti presi dalle maglie stringenti e vacue della crematistica. Il nostro presente vorrebbe negare la grandezza dell’essere umano riducendolo a semplice archeologia senza futuro.

L’essere umano non è un osso come afferma Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, per cui dinanzi ai riduzionismi che avanzano è necessario opporre e riproporre la metafisica umanistica che riporti la centralità della cura dell’essere umano.

Senza la prassi e la teoretica l’umanità non può che cadere in forme di manipolazione tecnocratica, il cui scopo è impedire l’ascolto profetico delle voci del passato che giungono fino a noi. La metafisica umanistica si traduce in un modello economico che ha come centro l’essere umano. L’economia con fondamento umanistico consente la fioritura dell’umanità, accoglie la pluralità nella concretezza dell’universale. Stabilisce fini alla misura della natura umana, la quale è fondata sul limite, allo scopo di dare forma e identità al singolo nella comunità con la partecipazione consapevole alla produzione. L’ostilità verso ogni forma di umanesimo rivela il dominio capitalistico nella sua verità nichilistica e distruttiva.

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro:

«Ma per sollevarsi oltre l’annientamento del mondo, la vita dell’anima deve diventare “pronta” [fertig] nel senso più profondo, andando a fissare felicemente la gomena alla banchina dell’al di là, onde il suo plasma germinale non sia trascinato nell’abisso della morte eterna, e non si perda la meta verso cui è organizzata la vita terrena: la vita eterna, l’immortalità anche transcosmologica, la realtà unica del regno delle anime, la restitutio in integrum fuori dal labirinto del mondo – a causa della pietà di Satana».4

1 E. Bloch, “Über die Gedankenatmosphäre dieser Zeit”, in Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 255; il passo si trova in tradotto in alcune parti a cura di S. Marchesoni in E. Bloch, W. Benjamin, Ricordare il futuro. Scritti sull’Eingedenken, Mimesis, Milano 2016, qui, p. 43

2 Ibidem, pag. 34.

3 E. Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, trad. it. di S. Krasnovsky e S. Zecchi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 33.

4 E. Bloch, Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 442.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Una vita consumata: a proposito di «La Peau de chagrin» di Balzac: un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società che riconosce e venera solo la ricchezza

Fernanda Mazzoli

Una vita consumata:
a proposito di
La Peau de chagrin

Un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società
che riconosce e venera solo la ricchezza e il potere d’acquisto che ne deriva

***

Il 25 febbraio del 1867,  poco prima di consegnare alle stampe il Primo Libro del Capitale, Karl Marx scrisse al suo amico Friedrich Engels suggerendogli di leggere due racconti di Balzac, «pieni di deliziosa ironia».

***

«Balzac, che io ritengo maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comèdie humaine  un’eccellente storia realista della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa».

F. Engels

 


Parigi 1831: si celebra con fasto sfrontato il matrimonio d’interesse fra la monarchia di luglio, esito moderato delle Trois glorieuses1 dell’anno precedente, e la borghesia degli affari e delle professioni. Invitata d’onore la stampa, chiamata a svolgere un ruolo di primo piano a garanzia del fruttuoso sodalizio che lega indissolubilmente potere politico e potere economico. Fuori dagli hôtels particuliers,2 teatro di feste sfarzose dove si concentrano, ostentano e sperperano fortune di dubbia provenienza, gli esclusi, per scelta o per necessità: repubblicani irriducibili, uomini di studio e di pensiero votati esclusivamente alla propria arte e poveri di ogni sorta.

Fra questi, Raphaël de Saint-Valentin, il protagonista di un folgorante romanzo di Honoré de Balzac, La Peau de chagrin,3 collocato nell’edizione del 1834 della Comédie humaine nella sezione Etudes philosophiques. La storia è presto detta: un giovane aristocratico rovinato, di grande intelligenza e cultura, di animo ardente e sensibile, ma condotto alla disperazione da una povertà che il suo talento non arriva a scalfire entra in possesso di un singolare talismano, la pelle di un onagro, un asino selvatico che vive in Asia. Il bizzarro mercante di antichità nel cui magazzino essa è custodita lo mette in guardia dal potere straordinario che risiede in questo lembo di pelle su cui è incisa una misteriosa iscrizione che promette a chi la possiede di possedere tutto, di vedere esaudite tutte le proprie brame. La contropartita a questo illimitato potere è, però, inquietante: ad ogni volere soddisfatto, la pelle si assottiglierà esattamente come i giorni di chi ha espresso il desiderio. Noncurante delle ammonizioni del vecchio mercante, Raphaël accetta lo sciagurato patto; in breve diventa incredibilmente ricco, ma con orrore deve constatare che l’iscrizione dice il vero: la pelle si è ridotta e lui comprende appieno in quale abisso si è lanciato. Rinchiuso nel meraviglioso palazzo che può ora permettersi, arredato con il gusto che la sua sensibilità d’artista gli suggerisce, conduce una vita triste e solitaria, oppresso dall’angoscia per la fine che sente ineluttabile e vicina. Per evitare di desiderare, cioè di accorciare la propria vita, smette di vivere, rinuncia alle ragioni stesse che rendono l’esistenza desiderabile, innanzitutto l’amore e l’amicizia. Ma la vita è più forte e finisce per valicare le spesse mura difese da un domestico devoto incaricato di frapporsi tra il giovane e il mondo. L’amore sa trovarlo e smuovere la sua voluta indifferenza, la pelle continua a ridursi, Raphaël, nel fiore degli anni, si ammala e a nulla valgono gli esperimenti che tenta con insigni scienziati per distendere il maledetto frammento. La minacciosa promessa contenuta nell’iscrizione si compie, trascinando l’avventato e sventurato ragazzo nelle braccia della morte.

Il racconto, concentrato in tre capitoli che scandiscono l’inesorabile marcia del protagonista dall’accettazione del patto all’agonia, è molto di più di una riflessione filosofica e/o di un apologo morale sul potere corruttivo e venefico della ricchezza e la sua inadeguatezza a garantire la felicità.

Con la forza visionaria che lo caratterizza, con la sua ambizione di cogliere e restituire la totalità sociale e attraverso essa i destini individuali, Balzac individua e isola con sorprendente precisione un carattere fondante della condizione umana nella società dove il capitale ha ormai imposto la sua legge: l’illimitata disponibilità di beni che esso promette e gli altrettanto illimitati desideri che esso accende finiscono per assorbire la vita fino alla sua negazione, nel momento stesso in cui sembrano consentirle di manifestarsi in tutte le sue possibilità, di coronare il suo sogno di pienezza.

L’orgia che riunisce giornalisti, artisti e cortigiane nella sontuosa dimora di un parvenu di dubbia fama e che spalanca all’aristocratico in miseria le porte di un mondo dove tutto è permesso, a condizione di disporre di faccia tosta e denaro, fornisce lo sfondo brillante e cangiante sul quale si muove un’umanità frenetica, piena di sé eppure insoddisfatta e rancorosa, pronta a giocare con tutte le opinioni, perché in fondo non crede in nulla, se non nel proprio diritto ad occupare un posto adeguato nel gran festino.

Ebbene, voglio vivere nell’eccesso, ribatte, afferrando convulso la pelle magica, il protagonista alle argomentazioni dell’antiquario che non gli nasconde i rischi del talismano che riunisce in sé volere e potere, a un’intensità tale da condurre agli eccessi più temibili e distruttivi. E così, il romantico mal di vivere, nobile ed inesausta aspirazione dello spirito insofferente dei limiti della propria umana natura verso l’Infinito e l’Ignoto, si trasforma, nel nuovo contesto sociale e politico contrassegnato dal trionfo della borghesia, in mal di consumo, in cui a finire per essere letteralmente consumata è la vita stessa.

Intuizione poetica e lucidità dello sguardo si intrecciano sotto le sapienti mani del romanziere a creare una potente metafora della reificazione della vita, ridotta ad oggetto che si usura al ritmo dei desideri che realizza, fino all’annientamento.

Doppiamente peau de chagrin: la pelle di asino, un oggetto fra i tanti in un polveroso magazzino di antichità, si rivela in realtà pelle di dolore,4 quanto mai provvisorio ed infelice di un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società che riconosce e venera solo la ricchezza e il potere d’acquisto che ne deriva.

Anche se Raphaël mancasse di perspicacia, la brutale materialità della pelle che sotto le sue dita gli segna il tempo lo riporterebbe immediatamente all’enormità della sua scelta, gli farebbe comprendere la tragica portata del passo che, distogliendolo momentaneamente dal suicidio con cui aveva deciso di risolvere una situazione di intollerabile esclusione, lo ha portato comunque alla morte, ma attraverso una desolazione, un rimpianto e un’angoscia anche più grandi, scontati ogni giorno. Il giovane, per proteggersi dai propri desideri – da se stesso in definitiva – che gli accorciano la vita, deve abdicare alla vita per continuare a vivere. Insomma, lui che aveva sognato amori splendidi, forti emozioni, squisite sollecitazioni dei sensi si ritrova a salvaguardare la propria salute con l’attenzione paranoica di un vegliardo minacciato dalla stessa aria che respira e naturalmente la perde. La vita, infatti, si prende gioco della nuda vita, della vita biologica che le arranca dietro senza poterla raggiungere, nemmeno sfiorare.

Come tutti i libri che vale la pena leggere, anche questo interroga direttamente il lettore su una questione fondamentale, ineludibile: che cosa è vivere, che cosa è una buona vita? Raphaël, cercando di dare un senso a questa domanda, si è cacciato in una tragica impasse, ha sconfessato tutte le promesse che erano dischiuse per lui alla nascita, ha ceduto alle lusinghe dell’affermazione sociale, ha sacrificato alle divinità del suo tempo (sostanzialmente le stesse del nostro), si è perso nel cattivo infinito dei desideri che dalla società rimbalzavano fino al suo cuore.

Sfortunato eroe di una fiaba moderna senza lieto fine, l’incontro con l’oggetto magico che consentiva al giovane smarritosi nel bosco di rovesciare una situazione svantaggiata, se non disperata, segna la sua perdita: nel racconto di Balzac, infatti, tale oggetto è al centro di una scelta, non si tratta di un dono non cercato e accettato con noncuranza. È una scelta etica in cui si traduce una certa idea della vita, è una prova senza appello che il protagonista non supera. Né l’oggetto è di alcuna utilità nei confronti di mostre e streghe appostati sulla sua strada: prendendone possesso, è proprio alla loro corte che liberamente e baldanzosamente corre, credendo di potersi sedere da pari alla loro tavola imbandita. Confidando nella forza e nel potere, è la debolezza estrema che stringe, è il nulla. Ha tradito se stesso, ha calpestato le buone qualità che natura ed educazione gli avevano generosamente elargito per un riflesso di bonheur inviatogli da uno specchio menzognero. Lo specchio si è infranto, la verità gli si è rivelata, spalancandogli innanzi il pozzo di una sofferenza senza fondo, ma ormai il gioco non è più nelle sue mani. Se lo è lasciato scappare da quando le ha tese bramoso di afferrare la pelle di zigrino, questa pelle che ci ammicca da tutte le vetrine, da tutti i palcoscenici, da tutti i banchetti già apparecchiati e dove resta un posto scoperto, un posto da occupare, e forse è proprio il nostro.

1 Vengono così denominate le tre giornate di insurrezione del luglio 1830 (27, 28 e 29) che portarono alla caduta della monarchia assoluta e all’ascesa al trono di Louis-Philippe d’Orléans, roi des Français e non più de France, vale a dire sovrano costituzionale.

2 Lussuose dimore spesso occupate da una sola famiglia.

3 H. de Balzac, La peau de chagrin, Gallimard, Paris, 2003; ha conosciuto in italiano numerose traduzioni, sotto il titolo La pelle di zigrino, pubblicate da diverse case editrici.

4 Chagrin è termine appartenente al campo semantico della sofferenza: dolore, dispiacere, pena …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Costanzo Preve (1943-2013) – Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

Costanzo Preve

Contro il capitalismo, oltre il comunismo

Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

ISBN 978-88-7588-311-9, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [80].

In copertina: Vincent Van Gogh, Il seminatore, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam.

indicepresentazioneautoresintesi


In questo breve saggio sosterrò una tesi estremamente chiara, e nello stesso tempo estremamente discutibile ed a prima vista assurda e contraddittoria. In breve, sosterrò che il presupposto per una credibile prospettiva anticapitalistica futura è, fra le altre cose, il congedo irreversibile dal comunismo, da considerare come un grande fenomeno storico, legittimo ma anche compiuto, cioè concluso.

Questa tesi va indubbiamente contro un senso comune consolidato. Coloro che infatti aderiscono (in vari gradi di coscienza e consapevolezza) ai valori morali, economici e politici caratteristici del legame sociale capitalistico non hanno alcun interesse ad impegnarsi in una ennesima discussione sul comunismo, da loro ritenuto un’illusione criminale per fortuna tramontata e distrutta dalle proprie contraddizioni, e possono al massimo avere per il comunismo un interesse superficiale di tipo storico o filosofico. Coloro che invece in vario modo rifiutano il legame sociale capitalistico e vorrebbero sostituirlo, pensano invece che il mantenimento di una prospettiva storica di tipo “comunista”, anche dando per scontato che il termine resta vago ed incerto, rimane un presupposto insostituibile per dare un senso storico non puramente congiunturale al proprio rifiuto globale del capitalismo e del legame sociale complessivo che lo costituisce e lo riproduce.

Il paradosso di questo breve saggio sta nel fatto che esso si indirizza esplicitamente al secondo gruppo di persone, la cui identità ed il cui senso di appartenenza sarebbero messi però in pericolo da una semplice presa in considerazione di questa scandalosa tesi, per cui è probabile che non la prendano neppure in considerazione. Ed è un peccato, perché le considerazioni che seguiranno non sono state ispirate da un narcisistico impulso all’originalità pubblicistica, ma sono state mosse da un’urgenza etica, politica e filosofica. Il comico americano Woody Allen disse a suo tempo una battuta di grande profondità: «Comincio a preoccuparmi perché sempre più spesso scopro di avere idee che non condivido». L’idea che il comunismo, inteso come fenomeno globale ad un tempo storico e teorico, possa non essere stato e soprattutto non essere più in futuro un’adeguata forma di opposizione al capitalismo, non può che essere venuta spesso alla mente di comunisti onesti e pensosi sulla propria prospettiva storica e politica. Ma quest’idea, pure affacciatasi alla mente, viene subito respinta come dubbio iperbolico e come tentazione diabolica di integrazione ideologica nella società capitalistica. Questo rifiuto, su cui Freud avrebbe molto più da dire dello stesso Marx, non deve per nulla stupire, in quanto ne va dell’identità, dell’appartenenza, e spesso del senso complessivo della propria intera vita.

Chi scrive ha invece finito con il condividere coscientemente l’idea che gli era progressivamente venuta alla mente. Mettiamo pertanto questo scritto sotto il segno della formula di Woody Allen. Una simile opinione, già fortemente radicata, è stata rafforzata dalla mia partecipazione attiva ad un grande convegno internazionale di marxisti, tenutosi a Parigi nel maggio del 1998, in occasione del centocinquantenario della pubblicazione, nel 1848, del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. In questo interessantissimo convegno internazionale mi è sembrato di poter verificare due ipotesi da tempo maturate, ed apparse con solare evidenza. In primo luogo, la rete politico-organizzativa che ha reso possibile il convegno, legata al Partito Comunista Francese (un tempo noto per il suo dogmatismo e la sua intolleranza), non solo si è servita di intellettuali di osservanza “eretica”, in particolare trotzkista, ma ha anche concesso a tutti gli intellettuali intervenuti la massima libertà espressiva possibile, per cui nel convegno si sono sentite tutte le tesi possibili, tutto ed il contrario di tutto. Questo è ovviamente positivo, e sarebbe bello interpretarlo come il segno di una profonda autocritica per la propria precedente intolleranza e per la propria precedente pretesa di controllo ideologico sulla produzione scientifica e filosofica (di cui furono vittime i migliori intellettuali marxisti del Novecento, da Lukàcs ad Althusser). Ma purtroppo le cose non sono così semplici. In realtà a me sembra che la rinuncia a proporre una propria sintesi teorica sul capitalismo contemporaneo e la dichiarazione eclettica, alla Feyerabend, che da oggi in poi nel marxismo everything goes, tutto va bene e si può dire ormai tutto, sia il segnale di una sostanziale irrilevanza della teoria, e della separazione ormai consolidata fra produzione teorica “di prospettiva” e tattica politica congiunturale, ispirata al “senso comune”, mai messo in discussione, per cui la socialdemocrazia è comunque meglio del cosiddetto neoliberalismo, e dunque Prodi, Jospin, Blair e Clinton sono comunque meglio dei loro equivalenti definiti sommariamente “conservatori”.

In secondo luogo, è emerso con una certa chiarezza il minimo comun denominatore su cui nei prossimi anni presumibilmente si assesterà a livello mondiale una nuova comunità accademico-universitaria di “marxisti della cattedra”, desiderosa di demarcarsi da altre comunità accademico-universitarie contigue o rivali (neoutilitaristi, neocontrattualisti, comunitaristi, individualisti, tradizionalisti-religiosi, eccetera). Si tratta dell’idea per cui Karl Marx è tuttora il massimo profeta ed il massimo sociologo della globalizzazione capitalistica mondiale oggi in atto, da lui prevista e delineata con ammirevole approssimazione. Il fatto che Marx avesse anche previsto la capacità storica operaia e proletaria di rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, e che questa cruciale e centrale previsione storica non si è verificata, viene virtuosamente censurato e messo sotto silenzio, perché sarebbe appunto incompatibile con il consolidamento di una comunità accademico-universitaria di marxisti della cattedra, unificati oggi da Internet e dalla lingua inglese così come cento anni fa erano unificati dalla corrispondenza postale e dalla lingua tedesca.

Premetto di non essere assolutamente ostile a queste due novità sopra segnalate, e di non essere assolutamente nostalgico della situazione precedente, che era intollerabile. Da un lato, la libertà di opinione è panglossianamente meglio della persecuzione burocratica attuata in nome di una censura ideologica sulla produzione teorica critica, scientifica o filosofica. Dall’altro, voglio ribadire che il marxismo della cattedra, accademico-universitario, è comunque mille volte meglio del marxismo ideologico catacombale dei gruppetti militanti fondamentalisti che vogliono ricostituire il loro sistema teorico chiuso e paranoico (di tipo volta a volta operaista, staliniano, bordighista, maoista, trotzkista, eccetera). Non intendo dunque oppormi a queste due novità segnalate. Mi limito a segnalare che esse sono il sintomo, da non trascurare per colpevole superficialità trionfalistica, di una sostanziale irrilevanza politica di quello che un tempo era il dibattito marxista, legato con mille fili al comunismo politico. È bene allora interrogarsi apertamente sul comunismo, teorico e politico, nell’ottica del suo rapporto con un possibile anticapitalismo non nostalgico e residuale, ma pienamente all’altezza delle sfide storiche di oggi. È indubbio che con questa interrogazione scopriremo orizzonti assolutamente inediti ed inaspettati.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Hélène Tordjman – «La “crescita verde” è contro la natura. Critica dell’ecologia di mercato», nella recensione di Jean-Marie Harribey

La “crescita verde” è contro la natura, un saggio di Hélène Tordjman

di Jean-Marie Harribey

Riprendiamo e traduciamo dai siti di Alternatives économiques e Alencontre un’interessantissima recensione critica di J-M. Harribey ad un’opera di H. Tordjman contro la mercificazione della natura, da poco uscita in Francia. (Avremo modo di tornare a ragionare sulle intuizioni e le contraddizioni di autori quali Illich o Ellul, ai quali Tordjman si ispira.)

La nostra collega e amica Hélène Tordjman ha appena pubblicato La croissance verde contre la nature. Critique de l’écologie marchand (Crescita verde contro la natura. Critica dell’ecologia di mercato), La Découverte, 2021. Questo libro sarà un punto di riferimento perché raccoglie una documentazione molto aggiornata sulla concettualizzazione e lo smantellamento della natura da parte di un capitalismo sull’orlo dell’asfissia planetaria, per la natura ma anche per l’uomo. Ora che la crisi ecologica è chiara, che non si discute più del riscaldamento globale e che aumentano gli allarmi sulla perdita di biodiversità, si potrebbe pensare che sia stato detto tutto. Forse, ma riunire in un volume una sintesi così dettagliata, precisa e piena di riferimenti sia sui molteplici attacchi alla natura sia sulle false soluzioni che vengono presentate, è un grande successo.

Una critica della mercificazione della natura

La questione generale di fondo che il libro mette in luce è che intraprendere la strada di una risposta di mercato alla crisi ecologica non può avere altro effetto che approfondirla. Il libro è strutturato in sei capitoli, più una densa conclusione che è, di fatto, un settimo capitolo. Su questo tornerò.

Fin dal primo capitolo, l’autrice mette alla prova il progetto di realizzare nanotecnologie, biotecnologie, scienze dell’informazione e della conoscenza (in sigla, NBIC) delle “tecnologie capaci di aumentare le prestazioni umane” (p. 21).

In altre parole, c’è un progetto transumanista, un’utopia nel senso cattivo del termine. Perché “sviluppare tali strumenti di trasformazione presuppone di coinvolgere nello stesso processo la materia, gli esseri viventi, il processo della conoscenza, gli ecosistemi, la biosfera e le galassie” (p. 27). Ma, “poiché, per definizione, è quasi impossibile prevedere le traiettorie dei sistemi complessi, l’ambizione di strumentalizzare attraverso la scienza e la tecnica i processi biologici, le dinamiche climatiche e geologiche o le istituzioni sociali con l’intenzione di controllare i risultati aggregati, dovrebbe apparire vana” (pag. 28). Purtroppo, negli Stati Uniti come in Europa, o al Forum di Davos, tutte le migliori menti fanno a gara con la loro immaginazione per “liberare il valore economico della natura” in nome di “tutto questo è bio, perché bio significa vivente” (p. 47). Se “una tale frenesia scientista e prometeica” viene considerata come “la soluzione al degrado dello stato ecologico del pianeta” (p. 49), è perché si ragiona “come se potessimo separare gli effetti positivi da quelli negativi, tenendo fermi i primi e regolando i secondi separatamente. Tuttavia, come dimostrò Jacques Ellul già nel 1954, una delle caratteristiche della tecnologia moderna è la sua ‘inaffidabilità’: essa dà vita ad un sistema, ad un tutto, e i suoi effetti non dipendono dall’uso che se ne fa, sono intrinseci in esso” (p. 49-50).

Con l’esempio degli agrocombustibili, il secondo capitolo illustra l’impasse tecnica svelata in precedenza. “Vediamo all’opera l’autoaccrescimento e l’autonomia della tecnica che producono dinamiche egocentriche o autoreferenziali, rispondendo solo alle domande che la tecnica stessa si pone” (p. 55). Ne consegue che “la crescita verde… non rompe con l’estrattivismo e l’ideologia industriale” (p. 55). E, dai biocarburanti di prima generazione fino a quelli “avanzati”, non è cambiato davvero nulla. Né lo è “la combinazione di bioenergia, di cui gli agrocombustibili fanno parte, con la cattura e lo stoccaggio del carbonio” (p. 93). Ritroviamo questo problema con l’agricoltura industriale perché “si tratti di mangiare o di guidare, bisogna scegliere” (p. 70).

Riferendosi a Marx e a Polanyi, Hélène Tordjman mostra nel terzo capitolo del suo libro che la fabbricazione di semi “aumentati” produce “nuove enclosures” capaci di espropriare i contadini di ogni potere e conoscenza. La privazione degli alimenti vegetali e l’istituzione di diritti sulle sementi “aumentate” consentono di standardizzare tecnicamente i semi: è in atto la brevettabilità degli organismi viventi. “Un gene che viene semplicemente scoperto non è brevettabile, ma se è isolato e modificato dall’ingegno tecnico e scientifico dell’Homo industrialis, lo diventa” (pp. 113-114). “Prima che la genetica diventasse dominante, la descrizione delle varietà protette era fatta a livello fenotipico, quello delle loro caratteristiche fisiche. Sempre più spesso si fanno descrizioni a livello genotipico: ciò che conta è l’informazione genetica che codifica le sue caratteristiche fisiche. Questo cambio di prospettiva genera una forma di smaterializzazione delle varietà vegetali, che vengono percepite come informazioni e non più come piante. È quindi più facile reificarle e la loro industrializzazione sembra meno problematica” (pag. 149).

Nel quarto e quinto capitolo del suo libro, Hélène Tordjman critica la trasformazione della natura in “capitale naturale” – “l’ultima tappa di un processo di reificazione della natura iniziato all’inizio dei tempi moderni” (p. 160) – e la sua riduzione a una serie di “servizi ecosistemici”. Richiama l’idea sottesa all’economia ambientale neoclassica secondo la quale basta fissare i prezzi per scongiurare gli effetti esterni negativi, perché “secondo tale visione andrebbe protetto solo ciò che ha un valore monetario; per converso, sarebbe possibile distruggere ciò che non ce l’ha, dal momento che non costa nulla: si tratta del calcolo utilitaristico nella sua versione strettamente economica. In altre parole, fino ad allora avremmo distrutto la natura perché non ci rendevamo conto del suo valore” (pagg. 157-158). Una tale impalcatura concettuale richiede, per diventare operativa, una “proliferazione” di istituzioni capaci di instaurare una “governance internazionale” imponendo una “soft law” proveniente da attori “non eletti” (p. 176-177) come TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity), paladino dei “valori economici della biodiversità” (p. 182).

Nell’era del capitalismo finanziarizzato si sta creando “una nuova classe di merci fittizie” composta da “sequenze genetiche, varietà vegetali e razze animali, processi naturali, raccolte di campioni biologici, banche dati di informazioni digitali sequenziali, servizi resi dagli ecosistemi” (pag. 190). Quando si riesce a “dividere la biosfera in entità discrete”, allora si può procedere alla “definizione”, quindi alla “valutazione monetaria” e alla “valorizzazione” (p. 191) della natura e dei suoi servizi. L’autrice ricorda l’avvio di questi processi avvenuto con la celebre ricerca di Robert Costanza nel 1997, che assegnava un valore a tutti i servizi ecosistemici del mondo, nonostante gli innumerevoli problemi metodologici di misurazione.

Nel sesto capitolo Hélène Tordjman si chiede se possiamo “fidarci della finanza” (p. 245). La sua risposta è, ovviamente, negativa. E spiega nel dettaglio i meccanismi sempre più sofisticati messi a punto dai finanzieri, verosimilmente, secondo questi ultimi, per indirizzare gli investimenti verso attività “verdi” (p. 249). La loro immaginazione è straripante: indici di borsa sostenibili, obbligazioni verdi, obbligazioni catastrofe (o cat bond, perfino pandemic bonds, obbligazioni pandemiche), prodotti derivati garantiti dalla natura, cartolarizzazione, benchmark per stabilire standard ed etichette di valutazione, ecc. L’autrice fornisce numerosi esempi di grandi aziende che anticipano il verificarsi di rischi sociali o ambientali, non per limitare questi rischi, ma per trarne vantaggio sul piano finanziario: “I rischi sociali e ambientali sono rischi solo nella misura in cui hanno un impatto sulla reputazione delle aziende e possono ridurre il loro valore per gli azionisti” (p. 277). Il problema della finanza è che “questi diversi strumenti non eliminano i rischi, li trasferiscono semplicemente da una classe di agenti a un’altra; ci deve sempre essere qualcuno alla fine della catena che se ne fa carico” (p. 282).

Per concludere il suo libro, Hélène Tordjman traccia una densa conclusione, che può essere considerata – come dicevo sopra – alla stregua di un settimo ed ultimo capitolo. Sceglie, infatti, di presentare un percorso che possa servire come esempio da sviluppare contro il business della mercificazione della natura. Si tratta della trasformazione del modello di produzione agricola dominante in direzione di un’agrobiologia. Riferendosi ai concetti sviluppati sia da Oliver de Schutter, già relatore sul diritto all’alimentazione per le Nazioni Unite, sia da agronomi come Marc Dufumier, scrive che “la conoscenza delle relazioni funzionali che consentono a un agrosistema di riprodursi senza il contributo della sintesi chimica sta facendo ogni giorno dei passi in avanti, e questa conoscenza può essere utilizzata dagli agricoltori, in particolare attraverso programmi di ricerca partecipata” (p. 302). La messa in pratica dell’agrobiologia include diversificazione e rotazione delle colture, agroforestazione, agricoltura e allevamento integrati, gestione e conservazione del suolo e dell’acqua, controllo biologico e meccanico contro parassiti e malattie e sementi contadine (p. 305). Economicamente, questo comporta una sostituzione del lavoro contadino con la meccanizzazione spinta all’estremo. Hélène Tordjaman non ha problemi a dimostrare che l’autorizzazione concessa all’industria della barbabietola di derogare al divieto dei neonicotinoidi in nome dell’occupazione, “è destinata a sostenere un sistema che mira a distruggere posti di lavoro” (p. 326). Siamo agli antipodi di un’evoluzione verso pratiche di autogestione, che l’autrice si augura e descrive sempre così: “non ha molto senso distinguere tra effetti ambientali ed effetti sociali dell’agricoltura produttivista. Essi fanno parte di un unico processo di trasformazione” (p. 61). Questo argomento, su cui tornerò, è molto marxista.

Un libro che invita alla riflessione e alla discussione

Il valore di un libro si misura anche sulla discussione che permette di aprire. Ecco alcune delle domande che mi vengono in mente leggendo quest’opera, che, ribadisco, è affascinante.

Hélène Tordjman riprende il punto di vista di vecchi autori che sono stati tra i pionieri del pensiero ecologico, in particolare Ivan Illich e Jacques Ellul. Ad essi fa spesso riferimento per criticare il carattere tecnicista della civiltà industriale, attraverso il concetto illichiano di controproduttività o quello elluiano di autonomia della tecnica. Tuttavia, è ben consapevole che la concezione molto deterministica della tecnica di Ellul è stata e continua ad essere messa in discussione. Il paradosso di questo autore non è da poco, poiché egli intende aggiornare il pensiero di Marx, arrivando tuttavia a una visione ancora più deterministica di quella da tempo diffusa nel marxismo tradizionale a proposito dello sviluppo delle forze produttive da cui tutto doveva scaturire, incluse le trasformazioni sovrastrutturali. Un punto di vista che impoveriva certamente il pensiero di Marx stesso. Questa vecchia questione potrebbe essere collegata alla problematica sviluppata in questo libro.

Tanto più che Hélène Tordjman approfondisce la questione sul piano epistemologico scrivendo: “Marcel Mauss, Joseph Schumpeter, Karl Polanyi o Louis Dumont avevano già ai loro tempi insistito sull’intreccio di istituzioni, rappresentazioni collettive e ideologie, in tutte le società, siano esse tradizionali o moderne. Per dirla in altro modo, la classica opposizione nelle scienze sociali tra materialismo e idealismo non ha più senso di esistere: strutture economiche, istituzioni e ideologie sono in interazione permanente, o, meglio, sono le diverse sfaccettature di uno stesso processo” (pag. 159). Perché da questa lista di autori viene espunto proprio Marx, il teorico della dialettica? E che dire delle lotte di classe in questo “processo”? E come giustificare la presunta scomparsa dell’opposizione filosofica tra materialismo e idealismo, che è uno degli capisaldi dell’idealismo?

Segue una seconda questione. La denuncia della mercificazione della natura mette in discussione l’ordine mercantile o l’ordine capitalista? Sappiamo, da Marx, che i due ordini non sono identici. Nella storia il primo precede il secondo, e quest’ultimo è contraddistinto dall’instaurazione di rapporti sociali basati sul salario di una forza lavoro proletaria che possiede solo la sua forza lavoro.1 Ciò potrebbe contraddire quanto scritto da Hélène Tordjman: “Nel modo di produzione capitalistico, i detentori di capitale vogliono accrescere il loro valore, vale a dire cercare di aumentare il loro valore, attraverso lo scambio commerciale” (p. 12, corsivo mio). Lo scambio commerciale di cosa? Nel capitalismo, si tratta dello scambio commerciale della forza lavoro e non solo dello scambio delle merci.

In quale ordine concettuale si colloca la critica di Hélène Tordjman? Il primo termine è la mercificazione, presente nel sottotitolo e che spesso ricorre nella sua opera. Ma lei prende atto anche del fatto che “Questo modello procede dalla stessa visione e dalle stesse strutture socio-economiche avviate alla fine del XVIII secolo, quelle di un capitalismo industriale dominato da una frenetica ricerca di risorse e di profitto, in cui il progresso tecnico è un mezzo utile a questo fine. Questo modo di produzione ci ha portato dove siamo ora” (p. 98). Ciò significa che la responsabilità degli “economisti” è ben al di qua di quella che andrebbe criticata: “L’idea [dei mercati del carbonio nel protocollo di Kyoto] nasce da una visione del mondo degli economisti, che vedono il mercato come uno strumento neutrale capace di servire scopi molto diversi, inclusa la lotta contro l’inquinamento e il riscaldamento globale” (p. 224). A me sembra, però, che bisogna identificare la visione “economicista” del mondo (p. 239) come propria della classe capitalista, al di là della giustificazione pseudoscientifica data dagli economisti neoclassici che dominano la disciplina. Apprezziamo invece l’autrice quando afferma: “La finanza verde è in linea con il fenomeno analizzato in questo libro: utilizza le forze del capitalismo per una ‘crescita verde e inclusiva’, cioè per ‘riparare’ i danni prodotti dallo stesso capitalismo” (p. 290).

Ma veniamo a una terza domanda. Se è vero, come sostiene l’autrice, che la finanziarizzazione della natura, attraverso la cosiddetta “finanza verde”, fa parte della finanziarizzazione generale dell’economia mondiale da quasi mezzo secolo, da dove arriva quest’ultima? In questo libro, nonostante l’esplorazione metodica degli elementi che rendono la natura una merce, nulla si dice sulla crisi del sistema produttivo capitalistico, del cui sistema si vedono oggi le due flagranti contraddizioni: dal punto di vista sociale, il calo della crescita della produttività del lavoro che pure sta all’origine del valore del capitale; dal punto di vista ecologico, la crescente difficoltà di restituire alla natura il maltolto.2 Una crisi di sistema che produce una redditività del capitale ritenuta insufficiente e la cui finanziarizzazione è solo un palliativo ingannevole ed effimero. Un’illusione se si tratta di “riparare i danni prodotti dal capitalismo”, cosa su cui concordo pienamente con l’autrice. Tuttavia, il fatto che non vengano presi in considerazione i legami tra gli aspetti socio-economici e gli aspetti ecologici della crisi che sono legati dal fine ultimo dell’accumulazione infinita del capitale, è un tema caro all’autrice che in precedenza aveva scritto in un articolo: “Ciò che colpisce dell’analisi che generalmente viene fatta della crisi del capitalismo contemporaneo è che tratta separatamente le questioni economiche e le questioni ecologiche”.3

Un problema centrale: il “valore della natura”

Mettere in discussione la logica profonda del capitalismo ci permette di esaminare un problema centrale nel libro di Hélène Tordjman: quello del “valore della natura”. Certo, ammetto in anticipo che ciò che sto per dire può a sua volta essere criticato. Ma credo che Hélène Tordjman non si occupi propriamente della teorizzazione di tale valore della natura nella letteratura sul tema dell’economia ambientale neoclassica, più comunemente nota come Ecological Economics, di cui ritroviamo le ambiguità, per non dire gli spropositi, negli scritti e nelle posizioni dell’ecologia politica. Condivido con Hélène Tordjman le critiche mosse all’internalizzazione degli effetti esterni dello sfruttamento della natura, ai metodi di valutazione contingente o delle disponibilità marginali a pagare, ai valori monetari di detti servizi ecosistemici, di compensazione, una critica già vecchia (come quella relativa alla tassa immaginata da Arthur Pigou4 nel 1920, o quella di David Pearce5 sugli effetti perversi della compensazione monetaria del danno ecologico) – e tuttavia per me è tempo perso, una ricerca inutile interrogarsi sul “vero valore” della natura, il “vero valore dell’impollinazione” (p. 213), il “vero valore di una barriera corallina” (p. 219), il “vero valore di una foresta tropicale” (p. 224). “Se è impossibile concepire che un sistema di prezzi possa riflettere i valori relativi di un servizio in relazione a un altro” (p. 241), a che serve il concetto di “vero valore della natura”? Credo sia un modo per accreditare l’idea che ci sarebbe un valore economico intrinseco della natura, che potrebbe aggiungersi ad altri elementi (e non mancano, se ci basiamo sull’ultimo rapporto Unesco sul “valore dell’acqua”).6 Questa idea è alla base della riduzione della natura a “capitale naturale”, molto ben analizzata, questa, da Hélène Tordjman. Ma se la logica del modo di produzione capitalistico è coinvolta nella distruzione della natura, allora dobbiamo collegare la critica di questa distruzione alla logica della produzione di valore per la incessante accumulazione di capitale. E penso che, per uscire dall’imbroglio teorico neoclassico a cui soccombono purtroppo troppi ecologisti e troppi economisti ecologicamente sensibili,7 dobbiamo raccogliere l’essenza della critica di Marx all’economia politica, la sola che permette di distinguere ricchezza e valore, utilizzare valore e valore di mercato, e, infine, considerare i diversi registri come incommensurabili a fortiori,8 quando alcuni si riferiscono all’etica o alla filosofia, altri all’economia.

La maggior parte dei rapporti internazionali e dei centri di ricerca sull’economia ambientale sono appesantiti da questa ricerca del “valore intrinseco” della natura. John Dewey aveva sviscerato questo concetto in un diverso contesto, ma la sua riflessione potrebbe applicarsi qui:

C’è un’ambiguità nell’uso degli aggettivi ‘inerente’, ‘intrinseco’ e ‘immediato’, che alimenta una conclusione errata. […] L’errore consiste nel pensare che ciò che si qualifica così è al di fuori di ogni relazione e può essere, quindi, ritenuto assoluto. […] L’idea che possa essere definito inerente solamente ciò che è privo di ogni relazione con tutto il resto non solo è assurda, ma è contraddetta dalla stessa teoria che lega il valore degli oggetti presi come fini al desiderio e all’interesse. Questa teoria infatti concepisce espressamente il valore dell’oggetto-fine come relazionale, per cui, se ciò che è inerente è ciò che è non relazionale, se seguiamo questo ragionamento, non esiste in realtà nessun valore intrinseco. […] A rigor di logica, l’espressione ‘valore intrinseco’ porta con sé una contraddizione in termini”. 9

In una prospettiva socio-ecologica, il rifiuto della nozione di valore economico intrinseco significa, da un lato, che non si può aggregare ciò che appartiene all’economia e ciò che appartiene alla filosofia, e, dall’altro, che il valore è una relazione sociale. Ciò vale sia per i beni di mercato che per i beni considerati beni comuni. Di conseguenza, il lavoro di André Orléan può essere utilizzato da Hélène Tordjman come riferimento per la rendicontazione delle valutazioni autoreferenziali nei mercati finanziari. E poiché la finanziarizzazione finisce in una catastrofe, comprendiamo che questa è riprodotta dalla “trasposizione diretta della teoria finanziaria standard a questi nuovi oggetti definiti dalla scienza” (p. 220), come quelli della natura. Ma la tesi keynesiana della valutazione autoreferenziale nel mondo della finanza non aiuta molto a comprendere la questione ecologica associata alla questione sociale.10 Inoltre, il lavoro degli economisti istituzionalisti e dei post-keynesiani è ancora relativamente poco sviluppato sulla tematica della sostenibilità sociale ed ecologica.11

Inoltre, mi sembra necessario distinguere meglio i tre livelli che sono la monetizzazione, la mercificazione e la finanziarizzazione della natura. Ad esempio, se la collettività, agendo in qualità di ente governativo, decide di far pagare l’erogazione e la sanificazione dell’acqua, ne fissa un prezzo, monetario per definizione, al livello che ritiene necessario per coprire tale costo, e lascia questo servizio ad una società privata, l’acqua non viene semplicemente monetizzata, viene mercificata con tutto ciò che include l’esigenza di redditività per gli azionisti. Se l’acqua diventa un supporto per dei titoli finanziari, stiamo entrando nella terza fase, quella della finanziarizzazione, giustamente criticata da Hélène Tordjman. Ma questo è a un livello radicalmente diverso dalla monetizzazione resa essenziale dalla copertura dei costi di produzione. Le condizioni del prezzo che dipendono, ad esempio, dalle condizioni sociali dell’uso dell’acqua possono essere soggette a deliberazione politica.

Per concludere, esaminiamo un ultimo tema sul quale Hélène Tordjman insiste più volte, quello della sostituzione del lavoro al capitale, che dovrebbe essere intrapresa per uscire dall’ingranaggio tecnicista e per, lo ripete più volte, ridurre le disuguaglianze (p. 63, 317, 334). “Solo l’attuazione di processi produttivi ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale può consentire di risolvere fondamentalmente, strutturalmente, il problema delle disuguaglianze sociali” (p. 334). È davvero convincente questa tesi? Primo, un secolo o due secoli fa, quando i processi produttivi erano ad intensità molto minore di capitale tecnico di quanto non lo siano oggi, le disuguaglianze sociali erano forse minori? In secondo luogo, mentre comprendiamo che la riduzione della produttività del lavoro individuale resa possibile dal miglioramento delle tecniche può essere parte di una prospettiva di condivisione del lavoro e alleviare la pressione sulle risorse, sorgono molti dubbi se si tratta anche di ridurre la produttività dell’ora di lavoro. Ciò richiederebbe una discussione sulla rilevanza della perdita di efficienza dei processi produttivi. Non dimentichiamoci di tenere sempre presenti le quattro variabili che sono: l’evoluzione della produzione, quella della produttività oraria del lavoro, quella del numero di posti di lavoro e quella dell’orario di lavoro medio individuale.12

La conclusione di Hélène Tordjman sotto forma di capitolo finale dedicato all’agricoltura, è illuminante al riguardo. Certo, il passaggio dall’agricoltura industriale, inquinante e devastante per suoli, acque, paesaggi e esseri umani, all’agrobiologia è un perfetto esempio di una strategia da costruire. Ma questo è senza dubbio l’esempio più semplice da capire e da attuare tecnicamente (gli ostacoli sociali dovuti in particolare alle lobby non sono certo esigui). È così semplice per la trasformazione del settore? Se vado in bicicletta, posso manutenerla e ripararla, ma non sono in grado di costruirla; è vero che si può immaginare che questa produzione possa essere organizzata in laboratori di dimensione artigianale piuttosto che da grandi e lontane industrie. Ma se prendo anche il treno, la produzione di locomotive e vagoni pone la domanda di quale tipo di industria avremo bisogno nella società post-capitalista e post-produttivistica, il che non è semplice come sopprimere i pesticidi in agricoltura. Questo è il motivo per cui per “resistere al rullo compressore della modernità agricola e [agire] per attuare pratiche alternative” (p. 339), la società deve allo stesso tempo pensare alla trasformazione sociale ed ecologica dell’intero apparato produttivo, in cui l’industria dovrà trovare posto. Se ci si pone in una prospettiva di vera transizione, la critica all’ideologia tecnicista non esaurisce l’analisi dell’industria.

Quando chiudi il libro di Hélène Tordjman, sei consapevole di avere fra le mani un grande lavoro, sia in termini di informazioni raccolte che di discussioni che ne seguono. Il lettore deve credermi, è un libro denso ma scritto perfettamente, e questo aumenta il piacere della lettura con note di umorismo qua e là, che rendono credibile “l’ottimismo della volontà”. Hélène Tordjman conclude il suo libro con questa celebre espressione.

Articolo pubblicato sul blog di Jean-Marie Harribey in Alternatives économique e su «Sinistrainrete» il 10-11-2021.

1 K. Marx, Le Capital, Livre I, 1867, par exemple, dans Œuvres, tome I, Paris, Gallimard, La Pléiade, 1965.

2 C’est ce que j’ai essayé de montrer dans J.-M. Harribey, Le trou noir du capitalisme, Pour ne pas y être aspiré, réhabiliter le travail, instituer les communs et socialiser la monnaie, Lormont, Le Bord de l’eau, 2020 ; et En finir avec le capitalovirus, L’alternative est possible, Paris, Dunod, 2021.

3 Hélène Tordjman, « La crise contemporaine, une crise de la modernité technique », Revue de la Régulation, n° 10, 2e semestre, automne 2011. Bien sûr, le débat n’est pas clos pour savoir s’il s’agit seulement d’une crise due à la technique.

4 A.C. Pigou, L’économie de bien-être, 1920, Paris, Dalloz, 1958.

5 D.W. Pearce, Environmental Economics, London, Longman, 1976.

6 J.-M. Harribey,« Le discours sur la valeur de l’eau ne vaut pas grand-chose », 7 avril 2021.

7 À preuve l’utilisation fréquente par les économistes écologistes de fonctions de production de type Cobb-Douglas pour tenter désespérément de mesurer l’apport productif de l’environnement à la production de valeur économique. Pour une critique, voir J.-M. Harribey, La richesse, la valeur et l’inestimable, Fondements d’une critique socio-écologique de l’économie capitaliste, Paris, Les Liens qui libèrent, 2013.

8 C’est le thème de mon livre La richesse, la valeur et l’inestimable, op. cit. Voir aussi A. Douai et G. Plumecocq, L’économie écologique, Paris, La Découverte, Repères, 2017. Recension dans J.-M. Harribey, « L’économie écologique tiraillée de tous côtés », Contretemps, 8 septembre 2017.

9 John Dewey [2011 (1981)], La formation des valeurs (Théorie de la valuation), Paris, Les Empêcheurs de penser en rond, La Découverte, p. 108 à 110.

10 La Revue de la Régulation a fait écho au débat que j’ai eu avec André Orléan sur ces sujets ; j’ai proposé une synthèse dans « Du travail à la monnaie, essai de perspective sociale de la valeur, Examen critique de la vision autoréférentielle de la valeur et de la monnaie », Économie et Institutions, n° 26, 2017.

11 É. Berr, V. Monvoisin, J.-F. Ponsot (dir.), L’économie post-keynésienne, Histoire, théories et politiques, Paris, Seuil, 2018. Recension dans J.-M. Harribey, « L’économie post-keynésienne en bonne voie », Contretemps, 21 février 2018.

12 ] Pour une discussion sur ce problème, voir dans le livre collectif de F. Jany-Catrice et D. Méda (dir.), L’économie au service de la société, Autour de Jean Gadrey, J.-M. Harribey, « De la productivité à la valeur : un problème de mesure ou de paradigme ? », Paris, Institut Veblen, Les Petits matins, 2019, p. 129-138.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Cesare Pianciola – Gobetti editore, a 120 anni dalla nascita.

Piero Gobetti editore copia

Cesare Pianciola

Gobetti editore, a 120 anni dalla nascita



Nelle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma, a cura di un comitato presieduto da Bartolo Gariglio, stanno uscendo dal 2011 – con nuove postfazioni e accurati apparati critici – le riedizioni anastatiche dei libri pubblicati dalle case editrici fondate da Piero Gobetti. È un’impresa perseguita con metodo e tenacia che si sta avviando alla conclusione (vedi immagini nella galleria in basso).
L’attività di editore fu centrale per il giovane intellettuale. Insieme a quello di giornalista, fu il suo mestiere.


Dopo i continui sequestri della «Rivoluzione Liberale» e dopo che il prefetto gli notificò il divieto di svolgere attività pubblicistica ed editoriale, Gobetti partì per Parigi il 3 febbraio 1926, come altri antifascisti prima di lui. Lasciò incompiuti i libri cui stava lavorando: Risorgimento senza eroi e Paradosso dello spirito russo. Dopo pochi giorni era già ammalato di una grave bronchite complicata da disturbi cardiaci, in un fisico duramente provato dall’aggressione fascista del settembre 1924. Morì nella notte del 15 febbraio 1926, non ancora venticinquenne (era nato il 19 giugno 1901), e fu sepolto al Père Lachaise non lontano dal Muro dei Federati.

Giuseppe Gangale ricordò su «Conscientia», vivace rivista degli evangelici italiani cui Gobetti collaborava, la sua figura:

«errò per l’Italia inquieto inquietando le coscienze nostre: […] veniva qui a Roma in terza classe, frettoloso, arruffato, con la grossa valigia carica dei suoi libri e dei suoi giornali che egli stesso distribuiva ai librai e collocava dai giornalai; […] a casa sua […] aveva impiantato una casa editrice in cui egli era tutto: autore, editore, contabile, spedizioniere, incollatore di fascette. E i giovani sentirono il fascino e il contagio di questa ascesi febbrile e operosa».

A Parigi Gobetti voleva continuare ad essere un editore: «Parto per Parigi – scriveva a Giustino Fortunato che citò la lettera nel numero del «Baretti» uscito nel marzo 1926 per commemorarlo – dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola […] Vorrei fare un’opera di cultura nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna». Già nell’articolo-programma del «Baretti» intitolato Illuminismo, nel dicembre 1924, aveva detto che si trattava di «salvare la dignità prima che la genialità» e di voler «lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo». Sul «Baretti» furono presentanti e discussi gli autori europei più nuovi, da Proust ai surrealisti, agli espressionisti tedeschi.

Anche quando svolse un’attività più direttamente politica – dall’impegno durante gli anni universitari nei gruppi “unitari” ispirati a Salvemini, allo sforzo di organizzare in tutta Italia i gruppi della Rivoluzione liberale – si trattò sempre di un’attività culturale-politica tesa alla formazione di quadri in senso ampio, di una futura classe dirigente. In quest’opera di educazione politica gli aspetti più propriamente culturali hanno un grande rilievo e non sono mai piegati a fini politici contingenti e immediati.

Lo storico della letteratura italiana Natalino Sapegno, che collaborò alle sue riviste, ricorda «l’incredibile varietà e ricchezza delle sue curiosità estese in ogni direzione, dalla letteratura al teatro, dall’arte alla filosofia e alla storia, instancabili e insaziabili» (in Aa. Vv., Colloquio gobettiano, a cura di P. Bagnoli, La Pietra, Milano 1979, p. 32).
Fu critico letterario e teatrale e si occupò di teatro fino alla fine della vita (scrisse su invito di Antonio Gramsci numerosi articoli di letteratura e di teatro sul quotidiano «l’Ordine Nuovo» nel 1921-22, molti dei quali raccolti in La frusta teatrale, 1923, articoli polemici e complessi, che non concedono nulla alla divulgazione).
Fu un acuto critico d’arte (ricordiamo l’amicizia con Felice Casorati cui dedicò una monografia nel 1923). Casorati dipinse nel 1961, per la fondazione del Centro studi a Torino, il suo famoso ritratto: un Gobetti idealizzato, che espunge gli aspetti irrequieti e mobili del personaggio e lo fa rivivere in un’aura sacrale.

Felice Casorati, Ritratto di Piero Gobetti.

Fu anche studioso di filosofia di formazione idealistica; ammirò Croce e Gentile, più Croce che Gentile (contro il quale pubblicò all’inizio del 1923 I miei conti con l’idealismo attuale), e studiò a fondo la filosofia dell’azione francese di Blondel e Laberthonnière, insieme ad alcuni filosofi minori dell’Ottocento italiano cui attribuiva grande importanza (Luigi Ornato e Giovanni Maria Bertini).
Come storico del Risorgimento ricostruì soprattutto l’opera degli intellettuali radicali settecenteschi come Pietro Giannone e Alberto Radicati di Passerano trascurati o deformati dalla storiografia ufficiale. Come ha scritto Franco Venturi nella nota introduttiva agli studi gobettiani sul Risorgimento, «Gobetti prende quasi naturalmente ai nostri occhi il suo posto nella serie degli uomini del Piemonte che egli scoprì e studiò. I suoi eretici non vanno più da Radicati ad Alfieri, né a Cavour, ma da Radicati a Gobetti».
Ma Gobetti fu in primo luogo un «organizzatore di cultura di straordinario valore» (come lo definì Gramsci) attraverso le sue riviste e la sua casa editrice.
Documento dei suoi ampi interessi culturali sono i più di cento volumi che pubblicò come editore (114 se contiamo anche i non molti volumi, alcuni dei quali da lui programmati, usciti dopo la sua morte presso le Edizioni del Baretti).
Alla fine del ‘22, insieme a Felice Casorati e al tipografo Arnaldo Pittavino di Pinerolo, aveva fondato una casa editrice. Ci fu presto un tentativo di incendio doloso della tipografia di Pinerolo e Pittavino si ritirò dall’impresa pur continuando ad essere una delle tipografie di cui si serviva Gobetti.Nel marzo 1923 la casa editrice divenne la “Piero Gobetti editore”.
Pubblicò numerosi volumi di storia e politica (soprattutto saggi di antifascisti di vario orientamento: Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, Guido Dorso, Luigi Salvatorelli, autore nel 1923 dell’importante Nazionalfascismo).
Ma Gobetti pubblicò anche molti libri di letteratura e di poesia. Il più famoso è Ossi di seppia di Eugenio Montale, che uscì nel giugno del 1925. Quando, l’anno prima, il poeta aveva incontrato Piero a Torino, erano diventati amici, per cui Montale si impegnò anche a scrivere per «Il Baretti», la cui uscita era imminente. Nel 1925 comparvero sulla rivista tre articoli di Montale, che però si trasse poi in disparte temendo il troppo filosofismo e la troppa politica (su Gobetti e Montale ha scritto saggi illuminanti Ersilia Alessandrone Perona).
Dopo molti anni, in un articolo per il cinquantenario della nascita di Gobetti, uscito il 16 febbraio del 1951 sul «Corriere della Sera» il poeta scriveva che «Gobetti, pur senza additarci un sistema o tanto meno un partito, ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda che la dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale ci riempa di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo».

Qual è lo specchio, l’immagine della società italiana, alla quale alludeva Montale ?
È rimasta famosa, nelle interpretazioni del fascismo, la formula gobettiana del fascismo come rivelazione di mali secolari, come «autobiografia della nazione».
Il fascismo non è una parentesi nella marcia vittoriosa del liberalismo come sostenne Benedetto Croce e non è neppure riducibile alla «reazione capitalistica» dell’interpretazione marxista.
Nella formula del fascismo come autobiografia della nazione c’è la denuncia della tendenza all’unanimismo populista, alle vaste maggioranze trasformiste, al paternalismo addomesticatore, alla vuota retorica. Con il fascismo, «ci troviamo per una volta, davanti, il blocco completo dell’altra Italia, l’unione confusa di tutte le nostre antitesi, il simbolo di tutte le malattie […]» (Scritti politici, Einaudi, 1997, p. 435).

Gobetti non poté vedere né gli aspetti di modernizzazione autoritaria del fascismo degli anni trenta né le dimensioni internazionali del fenomeno fascista. Il fascismo gli sembrò soprattutto un fenomeno italiano di arretratezza economico-sociale e culturale. Inizialmente lo confuse anche con una forma di giolittismo peggiorato, salvo ricredersi più tardi. Tuttavia colse con grande acutezza i tratti del mussolinismo come l’ultima manifestazione di una tendenza permanente nel costume etico-politico italiano all’opportunismo, alla demagogia, alla retorica. Queste abitudini affondano secondo Gobetti nella tradizione controriformistica di un Paese che non ha conosciuto né la Riforma religiosa né una rivoluzione borghese radicale. Alla fine del saggio La Rivoluzione Liberale Gobetti scrisse: «Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza» (così nel saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, 1995, p. 176; d’ora in poi cito con RL). Insomma, Gobetti individuò con grande precisione e denunciò con intransigenza i tratti di un populismo che ha segnato e minaccia costantemente la nostra storia.

Di Mussolini dice: «la sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione e dell’enfasi riescono schiettamente popolari per gli italiani» (RL, 173).
A questi costumi contrappose la sua «religione della libertà».
Il motto in greco delle edizioni di Gobetti è Che ho a che fare io con gli schiavi?, disegnato elegantemente in un ovale da Felice Casorati. Fu suggerito nel 1923 da Augusto Monti, il grande professore del Liceo D’Azeglio di Torino, che l’aveva tratto da una lettera di Vittorio Alfieri del 1801. Fin dall’adolescenza Alfieri era l’eroe di Gobetti, il quale nella tesi di laurea La filosofia politica di Vittorio Alfieri diceva che in Alfieri c’è una «religione della libertà», che impegna tutto l’individuo, «esclude interessi e calcoli», vuole dedizione e intransigenza.
Moralismo di Gobetti? Sono molto chiare alcune righe che scrisse sul “moralismo” nell’ottobre 1924, nel pieno della crisi politica che si era aperta dopo l’assassinio di Matteotti: «Sempre bisogna che le nazioni trovino l’ora dell’esame di coscienza, che sappiano misurare la loro sensibilità morale a costo di aprire crisi dolorose e totali. Né ci si attribuisca preoccupazioni di astratti moralisti: in verità tutta la politica è possibile soltanto a patto che sappia trovare nei momenti solenni le sue origini di rigorismo e di rivoluzione morale» (Scritti politici, cit., p. 787). La politica non deve ridursi a meschini calcoli parlamentari e deve rifarsi a principi e a convinzioni ultime. Nel tener fede ai principi e alle convinzioni ultime Gobetti vide la migliore garanzia anche dell’efficacia dell’azione politica, almeno sul lungo periodo.
Quali sono le convinzioni ultime di Gobetti? A mio avviso, il filo rosso che lega insieme le sue posizioni e tutta la sua attività è l’autonomismo libertario.
Sul suo liberalismo Gobetti affermò: «la parola d’ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: “tutti liberali”. La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l’azione storica dei ceti che vi sono interessati» (RL, p. 51). Occorre «rinnovare la vita politica facendovi affluire continuamente nuove correnti libertarie» (RL, p. 43).
Tra queste correnti mise in rilievo soprattutto l’esperienza dei Consigli di fabbrica, che gli apparve «uno dei più nobili sforzi che si siano tentati» nella vita politica di quel periodo (RL, p. 103), mentre fu un critico impietoso della chiusura burocratica del PCd’I, come si vede nelle pagine del saggio La Rivoluzione Liberale dedicate ai comunisti.
Simpatizzò per le punte rivoluzionarie del movimento operaio da una visuale liberale e libertaria, per i valori autonomistici, di libertà, di iniziativa dal basso, di agonismo che erano capaci di suscitare, indipendentemente dai fini collettivistici del socialismo e del comunismo che Gobetti dichiarava di non condividere (anche quando nel 1924 scriveva che era giunta L’ora di Marx).
Il marxismo non gli apparve vivo nelle teorie economiche e nella prospettiva del comunismo, ma come «dottrina dell’iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici» (RL, p. 77).
Gobetti sperava che in Italia, rimasta sotto il peso dell’arretratezza economica e del conformismo religioso, si diffondesse, grazie allo sviluppo dell’industria e delle aristocrazie imprenditoriali e operaie, un’etica moderna, alimentata in Europa dalla Riforma protestante, della responsabilità personale e della dignità del lavoro.
A proposito di una visita agli stabilimenti della Fiat Lingotto appena inaugurati, Gobetti, dichiarava «l’orgoglio di essere stati i primi teorici di quella vita industriale», e scriveva che là, dentro la Fiat, «si prepara la morale del lavoro, la civiltà dei produttori» (Visita alla Fiat, «Il Lavoro», 15 dicembre 1923). In quanto costruttori di una «civiltà dei produttori», Gobetti ammirava sia le «aristocrazie operaie» rivoluzionarie sia i capitani d’industria come Henry Ford e Giovanni Agnelli. Questo oggi ci sembra far parte di un’ideologia novecentesca della modernizzazione molto lontana, se non altro per le trasformazioni intervenute nel lavoro e nell’industria.
Ma, insieme, c’è in lui l’idea più ampia, che trovò confermata in Cattaneo, dello Stato moderno come terreno della libera competizione degli individui e dei gruppi sociali. C’è la convinzione della positività permanente del conflitto sociale, c’è l’idea che la lotta politica è continuamente alimentata dai gruppi che si affacciano sulla scena rivendicando nuovi diritti e nuovi assetti democratici. Questa, scrisse, è «la religiosità dell’uomo moderno, la religiosità della democrazia come forza autonoma, liberamente operante dal basso senza limiti che la predeterminino fuori della volontaria disciplina che essa stessa si pone […]» (RL, p. 58).
Nelle pagine di Gobetti, che scrisse e fece l’editore immerso nelle lotte politiche e sociali degli anni drammatici che vedono la crisi dello Stato liberale e la vittoria del fascismo, vive una utopia libertaria che ci interroga ancora e che meglio di altre ideologie ha resistito nel tempo.

Basta questo oggi per rianimare una democrazia in grave affanno? Non credo, ma è una bussola preziosa di cui non possiamo ancora oggi fare a meno.


Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola – Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)
Cesare Pianciola – Il colloquio di Costanzo Preve con Norberto Bobbio

Un tuffo …

… tra alcune pubblicazioni di Cesare Pianciola …

Cesare Pianciola, Kosik e Sartre, «Quaderni piacentini», anno IV, n. 2, 1965dicembre-1965


Il pensiero di Karl Marx, Loescher, 1971


Filosofia e politica nel pensiero Francese del dopoguerra, Loescher, 1979


Piero Gobetti. Biografia per immagini, Gribaudo, 2001


Piero Gobetti. Opera critica, Edizioni di storia e letteratura, 2013


N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile.
Testi inediti a cura e con una introduzione di Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, Donzelli, 2014


Raniero Panzieri, Centro di Documentazione di Pistoia, 2014


Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Petite Plaisance, 2017 (con Giuseppe Cambiano)

Pietro Chiodi (1915-1970), filosofo esistenzialista che negli anni Sessanta insegnò Filosofia della storia all’Università di Torino, è ricordato soprattutto per la sua attività di studioso e traduttore di Heidegger che ha ricreato per i lettori italiani il vocabolario filosofico del pensatore tedesco. Non meno importanti i suoi saggi su Kant e le traduzioni della ‘Critica della ragion pura’ e degli ‘Scritti morali’. Questo libro, curato da due tra i suoi primi allievi, contiene contributi sull’opera filosofica e sui confronti teorici in cui si è impegnato (con Abbagnano e Paci, con Sartre, con i marxisti), ma anche saggi sulla drammatica vicenda resistenziale consegnata a ‘Banditi’ – il diario partigiano che Fortini considerò “quasi un capolavoro” -, sul rapporto di profonda amicizia e di influenze reciproche con B. Fenoglio, sul suo interesse poco noto per le arti figurative. In appendice un inedito su socialismo e libertà, a proposito di ‘Riforme e rivoluzione’ di A. Giolitti, e una testimonianza della sua compagna, Aida Ribero, sulla coerenza tra filosofia e vita. Chiude il volume una completa bibliografia degli scritti di e su Chiodi.


La guerra d’Algeria e il «manifesto dei 121», Edizioni dell’Asino, 2017

Nel 1960 un gruppo di intellettuali sottoscrive il “manifesto dei 121”, che denuncia la brutale repressione e l’uso sistematico della tortura praticata dall’esercito francese in Algeria, e solidarizza con l’insubordinazione alle gerarchie militari e con il sostegno alla causa della indipendenza algerina. È un episodio della storia politica e culturale del Novecento da rimeditare nella sua complessità. Chiude il libro la testimonianza di Louisette Ighilahriz, algerina militante all’epoca nel Fronte di liberazione nazionale.


Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni, 2018

Felice Casorati (1883-1963) ci ha lasciato di Piero Gobetti (1901- 1926) un ritratto penetrante e idealizzato dipinto per la fondazione del Centro studi a lui intitolato. La critica d’arte, nella multiforme attività di Gobetti, fu seria e impegnativa. Tra i pittori contemporanei che apprezzò (Carrà, De Chirico, Soffici…), la figura centrale è Casorati, su cui scrisse e pubblicò nelle sue edizioni una monografia nel 1923. Il pittore era legato al suo critico da una «amicizia tenace completa perfetta», come la definì alla morte del giovane antifascista. Gobetti fu anche il primo a mettere in rilievo l’importanza della scuola di Casorati ai suoi inizi, vedendovi «una cosa completamente nuova, lontana da ogni sistematicità di accademia». Piero e Ada erano intimi delle sorelle Marchesini: Maria, Dadi e Nella, che fu la prima allieva del maestro. I saggi qui raccolti esplorano diversi aspetti di una vicenda che parte da Gobetti e si dipana in un tessuto culturale da cui è possibile trarre nuovi echi.


Marxismo. Tradizioni di pensiero, il Mulino, 2019

A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati. Indice del volume: Premessa. – I. Dal marxismo a Marx. – II. Dall’opposizione al potere. – III. Marxismi occidentali. – IV. Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociologia. – V. Un’eredità politica contrastata. – VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente. – Bibliografia. – Indice dei nomi.


La collana, realizzata in collaborazione con il Centro Studi Piero Gobetti, nasce con un obiettivo ambizioso: ripubblicare l’intera produzione di Piero Gobetti editore, 114 titoli usciti dal 1922 al 1929. Le opere qui riproposte in edizione anastatica sono accompagnate da nuove postfazioni e da schede critiche e bibliografiche. Un patrimonio considerevole di autori, che comprende tra gli altri Luigi Einaudi, Wolfgang Goethe, Eugenio Montale (la prima edizione di Ossi di seppia), Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini, oltre allo stesso Gobetti.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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