Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.

Marx e il regno della libertà

Abolizione del lavoro alienato

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità… La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».

Karl Marx, Il Capitale, III, Editori riuniti, 1972, pp. 231-232.

 


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Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo

giovane Marx

«L’uomo non si perde nel suo oggetto solo se questo gli diventa oggetto umano o uomo oggettivo. Ciò è possibile solo quando questo oggetto gli diventi un oggetto sociale, ed egli stesso diventi per sé un ente sociale come la società viene ad essere per lui in· questo oggetto.
Da un lato, perciò, quando ovunque, nella società, la realtà oggettiva diventa per l’uomo realtà delle forze essenziali dell’uomo, realtà umana, e perciò realtà delle sue proprie forze essenziali, tutti gli oggetti gli diventano la oggettivazione di lui stesso, oggetti che affermano e realizzano la sua individualità, oggetti suoi, e cioè egli stesso diventa oggetto. Come essi diventino suoi, ciò dipende dalla natura dell’oggetto e dalla natura della corrispondente forza essenziale, ché precisamente la determinatezza di questo rapporto costituisce il particolare, reale, modo dell’affermazione. L’oggetto dell’occhio si diversifica da quello dell’orecchio, e l’oggetto dell’occhio è altro da quello dell’orecchio. La peculiarità di ogni forza essenziale è precisamente la sua peculiare essenza, dunque anche la peculiare guisa della sua oggettivazione del suo oggettivo, reale, vivente essere. Non solo col pensiero, ma bensl con tutti i sensi, l’uomo si afferma quindi nel mondo oggettivo.
D’altro lato, sotto l’aspetto soggettivo, come la musica stimola soltanto il senso musicale dell’uomo, e per l’orecchio non musicale la più bella musica non ha alcun senso, [non] è un oggetto, in quanto il mio oggetto può esser soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com’è la mia forza essenziale per sé, quale facoltà soggettiva, andando il significato di un oggetto per me (oggetto avente significato soltanto per un senso corrispondente) tanto lontano quanto va il mio senso; così i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell’essenza umana che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali, e sono in parte sviluppati e in parte prodotti. Giacché non solo i cinque sensi, ma anche i sensi detti spirituali, la sensibilità pratica (la volontà, l’amore ecc.), in una parola la umana sensibilità, l’umanità dei sensi, si formano soltanto per l’esistenza del loro oggetto, per la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo. Il senso costretto dal rozzo bisogno pratico ha anche soltanto una sensibilità limitata. Per l’uomo affamato non esiste il carattere umano del cibo, bensÌ soltanto la sua astratta esistenza di cibo: questo potrebbe indifferentemente
presentarsi a lui nella forma la più rozza; e non si può dire in che questa attività nutritiva si distinguerebbe da quella bestiale. L’uomo assorbito da cure, bisognoso, non ha sensi per lo spettacolo più bello. Il mercante di minerali vede solo il loro valore mercantile, non la bellezza e la peculiare natura del minerale; non ha alcun senso mineralogico. Dunque. si richiede l’oggettivazione dell’ente umano, e sotto l’aspetto teorico e sotto quello pratico, tanto per rendere umani i sensi dell’uomo che per creare la sensibilità umana corrispondente all’intera ricchezza dell’essenza dell’uomo e della natura».

K. MARX, Oekonomisch-philosophische manuskripte aus dem Jahre 1844 [Manoscritti economio-filosofici de 1844], in MARX-ENGELS, Kleine õkonomische Schriften, Bücherei des Marxismus-Leninismus, Bd. 42, Berlin, Dietz Verlag, 1955, pp. 133-1344.

 

***

«Il comunismo in quanto effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo, consapevole, compiuto conservando tutta la ricchezza dello sviluppo precedente, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo; la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione.

L’uomo si appropria della sua essenza universale in maniera universale, dunque in quanto uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l’intuire, il sentire, il volere, l’agire, l’amare, in breve tutti gli organi della sua individualità, come organi che, nella loro forma, sono immediatamente organi sociali, sono, nel loro comportamento oggettivo, ossia nel loro rapporto all’oggetto, l’appropriazione di questo, l’appropriazione della realtà umana; il loro rapporto all’oggetto è la manifestazione della realtà umana; è l’attività umana e la sofferenza umana, perché considerata in senso umano, la sofferenza è un’autofruizione che l’uomo ha di sé.
La proprietà privata ci ha resi talmente ottusi e limitati che un oggetto è nostro solo quando l’abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzi di vita, la vita, cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata, il lavoro e la capitalizzazione.
Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere. A questa assoluta povertà doveva ridursì l’ente umano, per produrre alla luce la sua intima ricchezza (Sulla categoria dell’avere vedi Hess nei Ventuno fogli)*.
La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e quaIità sono divenuti umani, sia soggettivamente che oggettivamente».

*MOSES HESS, Philosophie der Tat (Filosofia dell'azione), Sozialismus und Kommunismus (Socialismo e comunismo), saggi pubblicati negli Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz (Ventuno fogli dalla Svizzera) di Georg Herwegh, Zurigo-Winterthur 1843, parte la, pp. 74 e sgg. e pp. 309 e sgg. [nota di Marx]

K. MARX, Oekonomitch-philosophische Manuskripte …, cit., pp. 127, 131-132.

 


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Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo

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Migliaia di studenti sono stati costretti ad abbandonare le lezioni universitarie per andare a lavorare alla Foxconn, l'azienda taiwanese licenziataria di Apple e produttrice di iPhone. Accade nella Cina orientale, a Huai'an, dove le autorità locali adottato questa misura per rispettare i tempi di consegna del nuovo melafonino
Nel capitale viene posta la perennità del valore […]
Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto
succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro.
K. Marx, Grundrisse

«Un certo rattrappimento intellettuale e fisico è inseparabile perfino dalla divisione del lavoro nell’insieme della società in generale. Ma il periodo della manifattura, portando molto più avanti questa separazione sociale delle branche di lavoro, e d’altra parte intaccando la radice stessa della vita dell’individuo già in virtù della sua peculiare divisione del lavoro, fornisce anche per primo il materiale e l’impulso alla patologia industriale.
“Suddividere un uomo, è eseguire la sua condanna a morte, se merita la condanna; è assassinarlo se non la merita. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo” [D. URQUHART, Familiar Words, Londra 1855, p. 119; Marx annota: “Hegel aveva opinioni molto eretiche sulla divisione del lavoro. Nella Filosofia del diritto dice: ‘Per uomini colti si possono intendere anzitutto quelli che son capaci di fare tutto quelloche fanno gli altri’ “; Il passo di Hegel si può trovare nei Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1954, p. 354. Aggiunta al § 187]».

K. MARX, Das Kapital. Kritik der Politischen Oekonomie, Erster Band MEW, Bd. 23, 1962, pp. 384-5 [tr. it. di D. Cantimori, KARL MARX, Il capitale, libro primo, Ed. Riuniti, Roma 1964, pp. 406-7].

 

 


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Siegbert Salomon Prawer (1925-2012) – Pochissimi hanno letto tanto e, devo aggiungere, così intelligentemente come Karl Marx. Per lui i libri erano strumenti di lavoro, non oggetti di lusso

Prawer

La biblioteca di Marx

Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, Garzanti, 1978.

«Pochissimi hanno letto tanto e, devo aggiungere, così intelligentemente come Karl Marx,» ha scritto Michail Bakunin. Come documenta puntualmente questo studio di S.S. Prawer, la presenza costante della grande letteratura mondiale nell’opera di Marx filosofo, economista, uomo politico e polemista, sta a testimoniare non soltanto la sua devozione per i grandi scrittori e personaggi letterari, ma anche e soprattutto la sua concezione non statica e accademica, ma viva e «vissuta» della conoscenza e della cultura. Una concezione che si esprime, in particolare, nella trasposizione ripetuta, martellante, ma non fastidiosa, di figure e protagonisti della grande letteratura negli avvenimenti del tempo, nella sua visione della storia e del mondo, attraverso un fitto e divertito gioco di allusioni, paragoni, parafrasi, allegorie, che non è mai uggiosa esibizione fine a se stessa, ma strumento per lui indispensabile di comunicazione del pensiero. «Per lui,» ricordava il genero Paul Lafargue, «i libri erano strumenti di lavoro, non oggetti di lusso».


Cervantes e don Chisciotte, Omero e Tersite, Eschilo e Prometeo, Shakespeare e Shylock, Rabelais e Gargantua, Goethe e Mefistofele, Dante e il conte Ugolino, l’Arioso e Rodomonte, Swift e Gulliver, Dickens e Pecksniff, Balzac e Mercadet, Defoe e Robinson Crusoe, insieme con la Bibbia, le Mille e una notte, e il folclore popolare, si trasformano così, nell’opera di Marx, in presenze vive e reali che, spogliate del loro carattere «paludato», diventano alleate preziose che suggeriscono spunti alle sue polemiche e si rivelano componente vitale e imprescindibile nella storia e nell’evoluzione dell’umanità.


I figli del dottor Caligari

Da quando abbiamo cominciato a spaventarci al cinema, l'ingrediente dell'adrenalina sembra indispensabile per il successo di un film. Ma com'è cominciata questa luna di miele tra grande schermo e paura? I figli del dottar Calligari racconta le origini di un rapporto virtuoso di cui non possiamo più fare a meno. La prima ispiratrice dell'horror è la letteratura, messa in scena mirabilmente, ad esempio nel film di Robert Wiene Il gabinetto del dottor Caligari. Tutti i trucchi tecnici e narrativi che fanno della magia del cinema, l'incubo delle notti più nere sono messi allo scoperto in questo libro che sa intrattenerci con uno stile avvincente e con un grande apparato di ricerca. Da Nosferatu a Dracula principe delle tenebre l'autore traccia l'evoluzione del film del genere nel cinema, prendendo in esame sequenze filmiche precise in cui il terrore gioca un ruolo dominante; suggerisce i legami tra il racconto del terrore letterario e quello cinematografico e mostra come il primo si trasformi nel secondo.

 


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Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.

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«Innanzitutto appare evidente che l’operaio, per tutta la durata della sua esistenza, non è che forza lavorativa e quindi che tutto il tempo di cui dispone è, per natura e per diritto tempo di lavoro, e di conseguenza appartiene all’autovalorizzazione del capitale.

Tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente, persino il tempo festivo della domenica ed anche nel paese dei santificatori delle feste sono mere sciocchezze!

Ma nella smodata e cieca passione, nella sua avidità da lupo mannaro di pluslavoro, il capitale oltrepassa non solo gli estremi limiti morali della giornata lavorativa, ma anche quelli semplicemente fisici.

Esso usurpa il tempo indispensabile al corpo per la crescita, per lo sviluppo e per la sua sana conservazione.

Ruba ciò di cui non si può fare a meno per respirare l’aria libera e per la luce del sole.

Lesina sul tempo dei pasti e, dove può, lo incorpora nel suo stesso sistema produttivo, in maniera che all’operaio viene dato il cibo come ad un semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego ed olio alle macchine».

Karl Marx, Il Capitale, Newton Compton Editori, p. 203.

 

 


 

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Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

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Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
Se mi chiedessero di consigliare ad un principiante che non ne sa assolutamente niente un’opera di Marx con cui cominciare non consiglierei mai i Manoscritti, la cui comprensione presuppone una specifica competenza linguistica a proposito del linguaggio filosofico di Hegel, ma consiglierei invece decisamente Il Manifesto del Partito Comunista del 1848, la cui “facilità” è peraltro anch’essa più apparente che reale, in quanto presuppone anch’essa la conoscenza delle varie correnti socialiste e comuniste degli anni quaranta dell’ottocento. Ma qui si tratta di introdurre alla lettura dei Manoscritti, ed allora la cosa più utile è dividere questa introduzione in due parti. In primo luogo, cercherò di riassumere criticamente – con qualche inevitabile notazione personale – il contenuto dei Manoscritti. In secondo luogo, cercherò di segnalare le interpretazioni principali che sono state date ai Manoscritti negli ultimi novant’anni, limitandomi all’essenziale e trascurando i pur significativi particolari.
In estrema sintesi, il contenuto dei Manoscritti può essere riassunto in tre punti principali: una critica globale dell’intera concettualizzazione dell’economia politica borghese del tempo, che culmina in alcune pagine di straordinaria efficacia dedicate al concetto di “lavoro alienato”; una prima tematizzazione esplicita del comunismo come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno; una critica radicale a Hegel, in particolare per quanto riguarda la dialettica “idealistica” della coscienza su cui è costruita logicamente ed ontologicamente la Fenomenologia dello Spirito. Tutti e tre questi punti meritano, a fianco della necessaria segnalazione, un breve commento.
Marx è il primo pensatore in assoluto che applica sistematicamente al mondo reale della produzione capitalistica il concetto di alienazione. Nell’Ottocento resterà praticamente il solo, mentre nel Novecento sarà seguito da alcuni altri grandi pensatori critici (Lukács e Adorno in primo luogo). È vero che già Hegel aveva criticato il punto di vista unilaterale ed astratto dell’economia politica, definendolo un sapere dell’intelletto (e quindi non della ragione), ma lo aveva fatto senza utilizzare il concetto di “alienazione”, che nel suo lessico significa soltanto oggettivazione, nel senso di fisiologica uscita da sé, e quindi estraniazione dialettica (Entäusserung) intesa come momento dello spirito.
Ma Marx, a differenza di Hegel, sostiene che nella produzione capitalistica l’oggettivazione avviene nella forma dell’alienazione (Entfremdung), in quanto in essa, anziché realizzarsi nel lavoro, l’uomo perde il proprio essere specifico (e cioè la sua naturale genericità, Gattungswesen), cadendo sotto il dominio del capitale che gli si contrappone come un mondo reificato (Verdinglichung). Marx mette in evidenza quattro aspetti principali di questo processo di alienazione, che il lettore potrà analizzare adeguatamente nella lettura diretta dei Manoscritti, e che si riconducono però tutti e quattro ad un solo fondamento unitario, il fatto che l’uomo, essere sociale per sua propria essenza, non può realmente “riconoscersi” nel rapporto sociale di capitale.
Sta qui il momento unitario fra Hegel e Marx. È vero infatti che i concetti di alienazione-estraneazione-oggettivazione-reificazione (ho qui volutamente riassunto la loro quadruplice natura) sono diversi in Rousseau, Hegel, Feuerbach e Marx, e questa diversità è stata messa correttamente in luce dai saggi storico-monografici dedicati al concetto di alienazione. Ma è ancora più vero che esiste un minimo denominatore filosofico robustamente comune a Hegel e Marx, il fatto cioè che l’umanità, pensata idealisticamente come un unico concetto trascendentale riflessivo che procede dialetticamente verso la propria autocoscienza razionale, deve infine riconoscersi in se stessa, e senza questo riconoscimento restano tutte le patologie della cosiddetta “coscienza infelice”. E mentre nel medioevo la coscienza infelice si manifestava nei conflitti fra Dio e Uomo, mondo divino e mondo terrestre, Gerusalemme e Babilonia, millennio e secolo, eccetera, nel mondo moderno la coscienza infelice sorge nella consapevolezza dell’impossibile universalizzazione dell’etica del mondo borghese. E questa coscienza infelice produce appunto il concetto di comunismo.
In un ottica filosofica hegeliana, il concetto (Begriff) non è in alcun modo un lockiano (e kantiano) contenuto della coscienza, ma è una realtà ancora potenziale che deve realizzarsi concretamente nel mondo reale (Wirklichkeit), per cui possiamo dire che nel giovane Marx il concetto di comunismo deriva direttamente dalla diagnosi precedente dell’alienazione del lavoro nel mondo borghese-capitalistico.
Marx è ovviamente ancora lontano dalla sua posteriore concretizzazione storico-economica del concetto di comunismo (esito della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione, formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, cioè con le stesse potenze produttive sprigionate dalla produzione capitalistica, eccetera), ma da un punto di vista filosofico-concettuale egli vi era già pienamente arrivato a ventisei anni.
E veniamo ora alla sua giovanile critica radicale a Hegel. È chiaro che senza la presa d’atto di una radicale discontinuità con Hegel il materialismo storico marxiano non sarebbe mai potuto nascere, il che fa diventare questa rottura con Hegel inevitabile ed indispensabile, per un insieme di ragioni che qui compendierò in due soltanto. In primo luogo, la teoria della successione dei modi di produzione sociali non può certamente derivare dalla filosofia della storia di Hegel, ma implica una rottura specifica con essa, che Marx un po’ impropriamente definì con il termine di dualismo Struttura/Sovrastruttura con dominanza della struttura. In secondo luogo, la critica radicale all’alienazione del lavoro nel capitalismo riprendeva certamente il tema hegeliano della lotta per il riconoscimento fra Servo e Signore, ma era incompatibile con la sostanziale accettazione del mondo borghese compiuta da Hegel nella sua Filosofia del Diritto (Spirito Oggettivo, Famiglia, Società Civile, Stato, eccetera).
E tuttavia non bisogna prendere dogmaticamente per scontato tutto ciò che Marx afferma di Hegel come se Marx fosse una divinità che ha sempre ragione qualunque cosa dica (cfr. Roberto Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006). La critica di Marx alla dialettica della coscienza di Hegel è indubitabile, e senza di essa sarebbe stato impossibile riportare alla lotta contro il lavoro concretamente alienato il tema della necessaria soggettività rivoluzionaria (consigli, classe, partito, eccetera), che ha poi nutrito per più di un secolo l’intera storia del marxismo. Un marxismo depurato dall’imbarazzante lotta di classe, e depurato dall’ancora più imbarazzante comunismo, è oggi propugnato da quello che resta del marxismo universitario, ma si tratta di una congiuntura storica segnata dalla recente restaurazione (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006), che prima o poi inevitabilmente finirà. Resta il fatto che Marx pensa filosoficamente il comunismo in modo decisamente hegeliano, in quanto prodotto da una antitesi contraddittoria (forze produttive e rapporti di produzione, borghesia e proletariato, eccetera) e concepito come sintesi ideale ( nel linguaggio hegeliano ideale=reale) delle contraddizioni capitalistiche. Non a caso la stessa accusa di sostenere così la fine della storia è stata sollevata (con qualche ragione) sia verso Hegel che verso Marx, e più o meno con gli stessi termini e lo stesso apparato argomentativo.
Ho esposto sinteticamente alcune ragioni che portano a giudicare del tutto attuali (ed attuali perché sostanzialmente ancora irrisolti) i tre nuclei di problemi sollevati da Marx nei Manoscritti. La loro analisi richiederebbe centinaia di pagine analitiche, del tutto incompatibili con una breve introduzione al testo. Vale invece la pena di segnalare alcune cose a proposito della ricezione storica dei Manoscritti da parte della comunità dei pensatori marxisti novecenteschi. Secondo la corretta formulazione di Kant, la filosofia è un campo di battaglia (Kampfplatz), in cui ogni oggettivazione teorica coerente cerca la sovranità assoluta nel proprio regno “ideale”, ed in cui ci possono essere al massimo degli armistizi, ma non certo delle “paci perpetue”. Una guerra di questo tipo c’è per esempio fra il profilo filosofico kantiano ed il profilo filosofico hegeliano, perché non ci può essere pace possibile fra una concezione che pensa la soggettività umana con un’operazione di formalizzazione aprioristica di tipo gnoseologico–trascendentale (Kant) ed una concezione che la pensa al contrario come l’esito sempre provvisorio di un conflitto dialettico fra soggettività opposte (Hegel).
Non possiamo dunque stupirci che da quasi un secolo i Manoscritti siano diventati il pretesto filologico per lo scontro fra due partiti filosofici entrambi riferentesi a Marx, il partito filosofico filo-hegeliano ed il partito filosofico anti-hegeliano. Si tratta spesso di uno scontro di tipo teologico–ideologico, simile per molti aspetti allo scontro fra teologi platonici e teologi aristotelici nel medioevo cristiano e bizantino. In quanto scontro teologico, il pensiero di Marx viene ridotto a Scriptura sacra, ad Auctoritas suprema cui appellarsi per la risoluzione di ogni possibile controversia, e comincia allora lo scontro interminabile per trovare la citazione giusta, quasi sempre decontestualizzata, che dovrebbe risolvere una volta per sempre il contrasto, e non può ovviamente farlo mai, perché le citazioni staccate dal contesto espressivo sono sorde e mute. In quanto scontro ideologico, si può dire di esse ciò che argutamente Terry Eagleton ha scritto dell’ideologia, e cioè che “l’ideologia, come l’alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri” (cfr. T. Eagleton, Ideologia, Fazi, Roma 2007). I Manoscritti non potevano quindi sfuggire a questa sorte.
Chi scrive è un ammiratore esplicito dei Manoscritti, e li considera parte integrante del corpus marxiano. Ma è bene segnalare anche le posizioni contrarie del partito anti-hegeliano, che per comodità espositiva dividerò in due parti, e cioè gli anti-hegeliani che con la scusa di liberarsi di Hegel mirano in realtà (e quasi sempre lo dicono anche esplicitamente) a liberarsi anche di Marx, e gli anti-hegeliani che invece ritengono che per poter salvare il “vero” Marx, quello scientifico e non contaminato dall’idealismo, bisogna invece liberarsi di Hegel. Anche se gli argomenti dei due “partiti”sono spesso sorprendentemente simili, è bene ammettere che le loro intenzioni politiche restano opposte. Non potendo entrare nel merito di queste posizioni per ragioni di spazio, il lettore sappia che per quanto riguarda il primo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Jürgen Habermas (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari-Roma 1987), e per il secondo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Louis Althusser (cfr. Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006). In entrambi i casi, ovviamente, la valutazione filosofica dei Manoscritti resta il cuore teorico del contendere.
Il partito anti-hegeliano “borghese” riprende contro Hegel-Marx (visti come i due corni dello stesso partito filosofico tardoromantico e tardometafisico dell’alienazione) i vecchi argomenti della corrente neokantiana (Bernstein, Adler, eccetera) che “stroncano” le loro posizioni dialettiche con lo stesso apparato concettuale con cui a suo tempo Kant aveva “stroncato” le pretese conoscitive e normative della metafisica classica. È interessante che Habermas, che pure si definisce un moderno in lotta contro i cosiddetti “postmoderni” (Lyotard, eccetera), usi poi di fatto gli stessi argomenti “antimetafisici” contro Hegel e Marx impiegati dai postmoderni stessi (critica di Lyotard alle “grandi narrazioni”, in cui c’è ovviamente sia la grande narrazione hegeliana sia la grande narrazione marxiana).
Il concetto di alienazione dei Manoscritti è ovviamente nel mirino della critica razionalistico-neokantiana di Habermas, in quanto “indeterminato”, ed in quanto indeterminato non “operativo”. Habermas si rende perfettamente conto che un’accettazione filosofica del concetto marxiano di alienazione comporterebbe automaticamente una critica politica radicale al capitalismo, esattamente quella che non intende fare in alcun modo, soprattutto dopo la sua rottura con i maestri francofortesi Horkheimer e Adorno, di cui ha comunque prudentemente atteso la morte per evitare che potessero prendere decisamente le distanze dalla sua evoluzione (o per meglio dire, dalla sua penosa involuzione).
Nel contesto del nostro discorso introduttivo, apparirà chiaro che la presa di distanza da Marx (attuata dopo un tentativo di “ricostruzione del marxismo” di tipo neokantiano, il che equivale a ricostruire una cattedrale con cartone pressato) gira intorno (e non potrebbe essere diversamente) alla delegittimazione teorica del concetto filosofico di alienazione. In soldini, bisogna che il succo del discorso consista in ciò, che non è vero che il lavoro erogato in condizioni capitalistiche sia alienato, così come non è neppure vero che sia realmente sfruttato (e per negare lo sfruttamento viene ideologicamente mobilitata la famosa trasformazione dei valori in prezzi di produzione, le cui innegabili inesattezze vengono utilizzate in analogia con le inesattezze teoriche delle vecchie prove ontologiche e cosmologiche sull’esistenza di Dio). C’è chi pensa che Dio, da un lato, ed il Comunismo, dall’altro, possano essere fatti “sparire” attraverso un’abile sofistica di tipo gnoseologico, senza rimuovere le ragioni storiche e sociali che in qualche modo legittimano entrambi. Ma chi pensa questo deve essere lasciato stare nel suo delirio gnoseologico, senza dimenticare un cortese inchino di congedo.
Un discorso diverso deve essere fatto per il secondo partito, il partito anti-hegeliano “comunista”. Trascurando qui il partito anti-hegeliano italiano (sviluppatosi con Galvano Della Volpe e poi “suicidato” con un harakiri neokantiano e popperiano da Lucio Colletti), che non se la prese mai particolarmente con i Manoscritti e con il concetto di alienazione, salvo poi scoprire che si trattava di una tarda secolarizzazione hegelo–marxiana di un concetto neoplatonico (Bedeschi, Albanese, collettiani vari), il vero fuoco d’artiglieria contro i Manoscritti ed il concetto di alienazione fu aperto a metà degli anni sessanta dalla scuola francese di Louis Althusser. Vi sono certamente ragioni di tipo “congiunturale” che lo spiegano. Nel dodicennio 1956-1968 (in breve, dal XX congresso del PCUS con relativa destalinizzazione all’entrata a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, due date indubbiamente periodizzanti nella storia del movimento comunista internazionale) il successo del concetto di alienazione (Adam Schaff, Roger Garaudy, eccetera), successo che si fondava con tutta evidenza su di un “rilancio” del giovane Marx e della lettura dei Manoscritti, copriva ideologicamente una critica di “destra” al movimento comunista dell’epoca, il quale metteva al primo posto il concetto di alienazione come generico disagio interclassista generalizzato e finiva con il subordinare il concetto di lotta di classe fra capitalisti e proletari. Il contemporaneo sviluppo dell’”eresia” cinese, della diffusione in Europa del pensiero di Mao Tse Tung e della formazione di gruppi politici filocinesi, denominatisi marxisti-leninisti, finì con il fare da amplificatore al pensiero di Althusser.
La critica althusseriana al marxismo filosofico, che si fondava indiscutibilmente sul concetto di alienazione, non deve certo essere buttata via come si butta via il bambino con l’acqua sporca, in quanto a fianco dell’(ingiustificata)eliminazione del concetto di alienazione e della collocazione dei Manoscritti fuori del corpus “scientifico” marxiano (operazione – lo ripeto solennemente – inaccettabile), vi erano anche elementi molto positivi, come l’enfatizzazione della centralità del concetto di modo di produzione, la critica allo storicismo ed all’economicismo, ed infine la critica alle metafisiche grandi-narrative dell’Origine e della Fine della storia.
Non è certo questa la sede per entrare nei dettagli di questa storia, anche perché la scuola althusseriana fra poco compirà cinquant’anni di vita. È invece utile concludere questa breve introduzione con qualche consiglio al giovane lettore dei Manoscritti, che almeno in una cosa è “postumo”, in quanto viene dopo le tempeste ideologiche che hanno investito i Manoscritti di Marx in quanto “incunabolo dell’alienazione”. È bene allora essere informati del dibattito teorico-ideologico dei due partiti filosofici filo-hegeliano ed anti-hegeliano, ma è anche bene accingersi a leggere i Manoscritti con occhi nuovi. In proposito, mi limiterò ad alcune osservazioni largamente problematiche e del tutto prive di “raccomandazioni imperative” (l’espressione fu usata da Althusser a proposito di come aiutare gli operai a leggere il Capitale di Marx senza farsi “scoraggiare” dal suo lessico hegeliano).
In primo luogo, bisogna dire che una lettura (o per i più anziani una rilettura) dei Manoscritti non può che riportarci all’attualità del concetto marxiano di alienazione. Al di là della “dotta archiviazione” di questo concetto presente nelle dossografie filosofiche, appare chiaro che invece Marx ha saputo trattarlo con grande maestria dialettica nei suoi vari aspetti, e per così dire nelle sue “interfacce”. L’alienazione è prima di tutto espropriazione del lavoro umano da parte dei capitalisti, che se ne appropriano, lo sfruttano e rovesciano la sua potenza sociale cristallizzata contro il produttore stesso. L’alienazione è poi distacco del singolo dalla comunità produttiva solidale di cui fa parte, frantumata e scomposta dalla organizzazione capitalistica del lavoro (che più tardi nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx ridefinirà in termini di sottomissione reale del lavoro al capitale). L’alienazione è inoltre separazione traumatica dell’uomo dalla sua stessa essenza umana, che è generica per definizione (Gattungswesen), e non può tollerare a lungo senza una degradazione antropologica devastante un suo inserimento unidimensionale nella pura logica riproduttiva del capitale. L’alienazione è infine sfiguramento dello stesso lavoro umano (Arbeit) come forma e modello della prassi trasformativi del mondo operata dall’attività umana (Tätigkeit).
Ma al di là della ricca sfaccettatura del termine di alienazione resta – come ho già rilevato in precedenza – il carattere profondamente unitario, e cioè logico-antropologico, del concetto stesso. L’alienazione concerne l’insieme della produzione capitalistica, ed in questo senso ritengo abbia perfettamente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni, morto nel 1988 ed oggi purtroppo quasi dimenticato, per il quale nel capitalismo solo alcuni sono sfruttati (nel senso che solo gli sfruttati all’interno del modo di produzione capitalistico sono oggetto di estorsione di plusvalore assoluto e relativo, estorsione che avviene nella forma feticizzata dell’apparente scambio di equivalenti), mentre tutti sono alienati, in quanto anche la classe dei capitalisti (meglio definibile come la classe funzionale dei funzionari attivi della riproduzione capitalistica) è pur sempre inserita in un meccanismo anonimo ed impersonale di cui non sono in alcun modo i “padroni”.
Questo concetto di “capitalismo assoluto”, di cui i capitalisti sono funzionari subalterni assai più che veri e propri dominatori-decisori, è molto vicino al concetto di Heidegger di Imposizione-Impianto Anonimo (Gestell), frutto della risoluzione storica della lunga vicenda della metafisica occidentale in tecnica planetaria. Al di là del fatto che il concetto heideggeriano di Gestell tecnico possa sovrapporsi ad un concetto di capitalismo in Marx cui viene sottratta la contraddizione (mentre non gli vengono sottratte l’astrazione e la stessa alienazione), non c’è dubbio che la nozione di alienazione resta insostituibile. Al tempo di Marx non esisteva ancora l’attuale lavoro flessibile e precario, la valorizzazione capitalistica non si era ancora estesa mediante la manipolazione pubblicitaria dell’intero “mondo della vita” (Husserl), la famiglia e la sessualità non erano ancora state “liberalizzate”, eccetera, ma ciononostante il raggio sociale del concetto di alienazione da lui disegnato nei Manoscritti resta sempre attuale. In secondo luogo, resta il fatto incontrovertibile che nei Manoscritti c’è la “prova provata” che il ventiseienne Marx si considerava e si “autocertificava” (mi si scusi per questo linguaggio burocratico) come “comunista”. Si tratta di un dato filologico incontestabile, su cui concordano tutte indistintamente le scuole “marxiste”.
Possiamo dichiararci “comunisti” anche noi, in questo inizio del ventunesimo secolo ed addirittura epocalmente del terzo millennio? Ognuno ovviamente risponderà come vuole, e ci metterà tutte le riserve linguistico-politiche che riterrà necessarie. Per quanto mi riguarda risponderò – ad un tempo con cautela e decisione – di sì, aggiungendo che soggettivamente sostengo un’interpretazione comunitaristico-democratica del comunismo unita ad una interpretazione idealistico-filosofica del marxismo.
Ma ciò che conta ovviamente non è ciò che pensa empiricamente la modesta figura dello scrivente. Ciò che conta è che il concetto di comunismo in Marx non venga fatto “implodere” nel giudizio storico che ognuno ha diritto legittimamente di dare sulle vicende e sugli esiti del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917–1991). Alla luce dello stesso pensiero di Marx (non però del Marx dei Manoscritti, ma del Marx posteriore teorico della dinamica dialettica dei modi di produzione sociali) se ne possono dare giudizi diversi, che vanno da un giustificazionismo integrale ad una condanna senza appello. E tuttavia il concetto marxiano di comunismo ha una dimensione ad un tempo storica e metastorica, in quanto interpella non solo la logica dinamico-evolutiva del capitalismo, ma anche il significato della storia universale.
A differenza di Hegel, che limitava la sua filosofia ai concetti storicamente determinati e determinabili nel presente, Marx ritiene di poter parlare di una futura “società comunista”, anche se chiarisce immediatamente di non “voler scrivere ricette per i ristoranti del futuro”, e di non voler lasciarsi andare a previsioni dettagliate come era stato il caso per i cosiddetti “falansteri” di Fourier. Egli ricava il comunismo concettualmente per “differenza specifica” con il capitalismo, e questo lo porta di fatto ad utilizzare una sorta di teologia negativa alla Dionigi l’Areopagita, o se si vuole di dialettica negativa all’Adorno. Certo, Marx non può non parlare di “comunismo”, e lo definisce sia dinamicamente (il comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti) sia staticamente (il comunismo è quella società in cui ognuno darà secondo la sua capacità e riceverà secondo i suoi bisogni). Si tratta certamente di concetti non sufficientemente determinati, e sarebbe sciocco nasconderlo per ragioni di appartenenza ideologica o di carità di patria. E tuttavia, nonostante alcuni aspetti francamente utopistici (chi scrive – ad esempio – non crede alla teoria della cosiddetta “estinzione dello stato”), sappiamo dalla filologia marxiana che Marx aveva una concezione storica e non soltanto naturalistico–frugale del concetto di “bisogno”, e che intendeva il comunismo non certo come società autoritaria, organicistica e pacificata (da fine della storia, cioè), ma come un momento della progettualità umana sociale concreta (più tardi il vecchio Lukács parlò correttamente di agire “teleologico”, e non certo di esito necessitato di una dialettica della natura). In definitiva, il bilancio del comunismo storico novecentesco falsifica certo popperianamente un certo modo di costruire il socialismo, ma passa largamente a lato del concetto di comunismo che Marx per la prima volta cercò di concretizzare nei suoi Manoscritti giovanili.
In terzo luogo, per finire, i Manoscritti pongono inderogabilmente il problema del profilo filosofico originale di Marx. Qui il discorso si farebbe inevitabilmente lungo (problema della differenza fra la filosofia di Marx e la filosofia di Engels, problema dell’esistenza o meno di una “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed il Marx maturo, problema dell’uso ideologico di legittimazione partitico-statuale del pensiero di Marx, eccetera), ma non è ovviamente questa la sede per parlarne in modo adeguato. Al di là del modo consueto di parlarne (Hegel sì ed Hegel no, dialettica sì e dialettica no, eccetera) il punto cruciale sta in ciò, se il marxismo abbia realmente bisogno di una fondazione filosofica, e sia cioè una vera e propria scienza filosofica nel senso di Fichte e di Hegel oppure sia invece una scienza sociale predittiva in senso positivistico, che in quanto tale è valida anche e soprattutto in assenza di una fondazione filosofica, ritenuta superflua ed addirittura negativa e dannosa in quanto “metafisica”. Chi scrive queste note di introduzione ai Manoscritti è un evidente sostenitore della prima variante, e per di più in forma esplicitamente “estremistica”. Ma i Manoscritti possono e devono essere letti anche da chi non la pensa affatto in questo modo. Ogni generazione filosofica e politica ha diritto alla sua lettura, e che cosa ne possa venir fuori è scritto nello scrigno segreto del futuro.

Costanzo Preve

Questo scritto del filosofo Costanzo Prevecostituisce un’introduzione ai Manoscritti di Marx per una nuova edizione greca degli stessi. È stato pubblicato come Appendice nel libro di Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, Petite Plaisance, 2011.

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Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”

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«Tutto diventa vendibile o acquistabile. La circolazione diventa il grande alambicco sociale dove tutto affluisce per tornare ad uscirne come cristallo di denaro. A questa alchimia non resistono neppure le ossa dei santi e meno ancora altre meno rozze, res sacrosanctae, extra commercium hominun».

Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1977, vol. I, pag. 164.

 

«Il denaro non è soltanto un oggetto della brama di arricchimento, è invece il suo oggetto. Essa è essenzialmente auri sacra fames. La brama di arricchimento in quanto tale, come forma particolare di appetito […], è possibile soltanto quando la ricchezza generale, la ricchezza in quanto tale, è individualizzata in oggetti particolari […]. Il denaro non è dunque soltanto l’oggetto della brama di arricchimento, ma ne è in pari tempo anche la fonte. […] Di qui i lamenti degli antichi sul denaro come fonte di ogni male».

Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1977, vol. I, pag. 161.

La locuzione latina Quid non mortalia pectora cogis, / Auri sacra fames, è un verso di Virgilio (Eneide, 3. 56-57), ripreso da L. A. Seneca (Lettere a Lucilio) nella forma «Quod non mortalia pectora coges, auri sacra fames», che significa «A cosa non spingi i petti mortali, miserabile cupidigia dell’oro».
I “Padri Fondatori” degli Stati Uniti d’America non potevano certo iscrivere questo verso virgiliano nel Great Seal (Grande Sigillo) USA che tuttora campeggia sul retro della banconota da un dollaro. Ma vollero comunque mutuare (la “vocazione imperiale” cercava una preziosa ed antica nobiliare ascendenza) dal poeta mantovano – ideologo dell’Impero romano iniziato da Ottaviano Augusto –, due delle tre iscrizioni  in latino che su quel sigillo si possono leggere: Annuit coepitis è la versione affermativa («Dio è favorevole all’impresa») della preghiera troiana a Giove «Audacibus annue coepitis» (Eneide, IX, 625); e «Novus ordo s[a]ec[u]lorum» viene dalla Ecloga IV.

Karl Marx – La natura non produce denaro

Marx_giovane

«La natura non produce denaro allo stesso modo che non produce banchieri o un cirsi dei cambi […].
L’oro e l’argento non sono per natura denaro, ma il denaro è per natura oro e argento».

Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniniti, Roma, 1957, pp. 137 sgg.

Ilona Jerger – E Marx tacque nel giardino di Darwin

Ilona Jerger 01

Parla C. Darwin:
«[…] Effettivamente la prospettiva di essere stati creati direttamente dalla mano di Dio è più lusinghiera che pensare di aver percorso una lunga strada tortuosa e casuale, partendo dagli esseri unicellulari e passando per le rape […]. L’uomo trova offensivo sapere di essere soltanto il risultato di banali coincidenze […]. Cattolici, musulmani, anglicani, protestanti, ebrei, nessuno vuole che la meravigliosa favola della creazione sia smascherata come tale […]. Non dà alcuna soddisfazione sapere che il caso è la maggiore forza alla base dell’evoluzione. Sebbene non ne dubiti neppure per un istante, questa mancanza di scopo non piace neanche a me. La nostra vita assume così il retrogusto della consapevolezza che nessuno ci ha voluto […]. È un senso della vita che soltanto pochi sanno apprezzare. […] Sono un naturalista e nutro la ferma convinzione che la scienza vada coltivata al di fuori delle dispute sociali. Non deve lasciarsi comprare, né dalla chiesa, ma neppure dalla politica. L’indipendenza delle scienze è forse il traguardo più importante che abbiamo raggiunto dal Medioevo […]. Per me non ci sono dubbi che la competizione metta in risalto i migliori, i più forti, i più sani e i più furbi, e in tal modo favorisca il progresso […]. Per questo temo le società che fanno della cooperazione il loro principio fondante.»».

Parla K. Marx:
«…Darwin ha spazzato via con inaudita efficacia le chiacchiere sull’aldilà e ha assestato un bel colpo ai pretucoli […]. Ha creato il fondamento scientifico per il materialismo e quindi per il comunismo […]. Ha dimostrato l’evoluzione storica della natura e ha fatto piazza pulita del cristianesimo e dell’ebraismo insieme a tutte quelle baggianate sull’aldilà! […]. Darwin ha trasferito su piante e animali la lotta per la sopravvivenza che ha osservato nel sistema capitalistico. No, non è un caso che riconosca nella natura la sua società classista inglese […]. Qualsiasi politica comunista è priva di senso, se una legge naturale rende legittima la competizione mortale. Possibile che nessuno si accorga che la questione gira su se stessa?».

Parla C. Darwin:
«[…] Rilevo negli atei gli stessi metodi degli ecclesiastici: semplificano la discussione, lasciano da parte gli argomenti spiacevoli, affermano cose che nessuno può sapere e vogliono convertire gli altri con uno zelo missionario. Che ne direbbe invece di un po’ di umiltà?».

Ilona Jerger, E Marx tacque nel giardino di Darwin, Neri Pozza Editore, Vicenza 2018.


Quarta di copertina

Nel 1881 Charles Darwin è già da decenni una persona famosa. Il sacco di posta che gli viene quotidianamente recapitato attesta chiaramente che L’origine delle specie, la sua opera maggiore pubblicata nel 1859, è nota ormai in ogni angolo del mondo: tra i botanici delle isole dei Mari del Sud fino agli abitanti della Lapponia. Riceve naturalmente lettere anche da un cospicuo numero di pazzi che gli pongono sempre lo stesso interrogativo: qual è il posto del Creatore in un mondo governato dalle leggi dell’evoluzione? Lettere che hanno per lui il solo effetto di procurargli forti attacchi di quell’emicrania cronica per lenire la quale riceve da tempo le visite del dottor Beckett.
Medico incline al progresso scientifico, Beckett ha il coraggio di sperimentare nuovi metodi di cura e non ha soltanto Darwin tra i suoi pazienti di spicco. Si reca infatti spesso a casa di un esule tedesco affetto da una grave forma di bronchite: Karl Marx, filosofo ed economista, autore di un’opera anch’essa di vasta risonanza, Il capitale. L’orrenda aria londinese, ricca di nebbia e carbone, ha dato il colpo di grazia all’apparato respiratorio del pensatore tedesco, ma non ha minimamente arrestato la sua attività di studioso e di erudito.
Un giorno, dopo aver riposto lo stetoscopio nella borsa, lasciando vagare lo sguardo nella stanza di Marx, sul tavolino di legno accanto alla finestra Beckett scopre una copia consunta e corredata di numerosi foglietti dell’Origine delle specie. Quando di lì a poco, a casa di Darwin, si imbatte in una copia del Capitale, un’idea si affaccia, irresistibile, nella sua mente: far incontrare i due studiosi per scoprire magari quale costellazione di pensiero li unisca.
Mescolando finzione letteraria e verità storica, Ilona Jerger immagina l’incontro tra i due illustri pensatori del XIX secolo, dando vita a un romanzo brillante e pieno di humour, capace di trattare i grandi temi filosofici in maniera originale e ironica.

 

Ilona Jerger è cresciuta sul lago di Costanza, in Germania. Ha studiato letteratura e scienze politiche all’università di Friburgo. Fino al 2011 è stata caporedattore di un’importante rivista naturalistica. Oggi lavora come giornalista e scrive saggi, sempre in ambito scientifico naturalistico. E Marx tacque nel giardino di Darwin è il suo primo romanzo. Vive tra le Canarie e l’Austria.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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