«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«L’unico fra i grandi filosofi che si sia posto il problema del senso psicologico, fatale e metafisico dell’erotismo e che vi abbia dato risposta muovendo dalle sue radici più profonde è Platone. Infatti Schopenhauer, il solo che potrebbe essere citato accanto a lui, non si è interrogato in realtà sull’essenza dell’amore, ma su quella della sessualità. Platone invece comprese che l’amore è una potenza assoluta della vita, e che perciò dev’esserci un cammino conoscitivo che conduca da esso alle ultime potenze ideali e metafisiche».
Georg Simmel, Filosofia dell’amore, a cura di M. Vozza, trad. di P. Capriolo, Donzelli Editore, Roma 2001, p. 183.
«Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo».
Michail Alexandrovič Bakunin, Considerazioni filosofiche sul fantasma divino, il mondo reale e l’uomo, traduzione di Edy Zarro, La Baronata, Lugano 2000.
La figura del finto artista (il fake) e la copertura ideologica necessaria alla sua ascesa sociale
In un tempo in cui tutto sembra dover rispondere alle logiche del mercato, ci troviamo a fare i conti con un fenomeno sempre più diffuso: l’affermarsi di finti artisti che, sfruttando la generale mancanza di capacità critica da parte del pubblico, producono finte opere d’arte, ottenendo la consacrazione sociale necessaria al conseguente successo commerciale. Per comprende meglio le origini di questo meccanismo sono utili le parole del filosofo britannico Roger Scruton, che così riassume quelle che sembrano ormai essere le modalità per veicolare le nuove tendenze artistiche: «Prendi un’idea, mettila su un piedistallo, chiamala arte e sbattila in faccia al mondo». Il Novecento ha introdotto nuovi parametri per definire il concetto d’opera d’arte: Marcel Duchamp dipinge i baffi alla Gioconda e, così facendo, dimostra che tecnica, studio e dedizione non saranno più elementi necessari all’artista del mondo nuovo, ormai certo che un’intuizione valga più di molte ore di duro lavoro. La potenza dell’idea, che immediatamente si è espressa nella forma della provocazione, e il suo posizionarsi centralmente nel processo creativo della produzione artistica del primo Novecento, sembra aver segnato l’inizio di un percorso che sta avendo proprio in questi ultimi anni i suoi più grotteschi sviluppi.
Non essendo mia intenzione non riconoscere il valore di molte esperienze di rottura e d’avanguardia, come appunto quelle che segnarono l’inizio del secolo scorso, mi limito a far notare come lo scollamento del valore di un’opera d’arte dalla sua dimensione estetica e immanente (in cui si misurano la tecnica, l’intuizione compositiva, la sostenutezza formale, ecc.), ha portato ben presto allo sviluppo di uno spazio fluido, in cui il valore dell’opera è determinato dal valore dell’idea che essa esprime. Se a un generale relativismo nella valutazione, essendo la dimensione delle idee meno oggettivamente valutabile di quella dell’estetica, uniamo il fatto che il mercato, con i suoi schemi e le sue richieste ideologiche, ha ormai totalmente inquinato la ricerca artistica, non stupisce come la ricevibilità dell’idea da parte di esso diventi una condizione fondamentale per stabilire il valore di mercato di un’opera. Ecco che si possono dunque ben capire i presupposti della sempre più diffusa figura del finto artista, il fake come lo definì Scruton, colui cioè che crede a tal punto nei suoi falsi ideali da immedesimarsi totalmente con essi fino ad annichilire ogni forma di sincerità e originalità. Un falsificatore di ideali, una figura che ha scelto di rifiutare il sacrificio e il duro lavoro necessari per essere originali (e di duro lavoro si parla anche quando si devono avere idee intelligenti), per cavalcare l’onda della facile commerciabilità. La figura del fake trova poi la necessaria legittimazione nella societas sceleris che unisce l’artista al critico, a colui cioè che è il solo in grado di garantire a quello la fondamentale copertura ideologica necessaria alla sua ascesa sociale. Le due figure, poi, si legano in un pericoloso circolo vizioso, in cui anche la sopravvivenza della stessa figura del critico dipende sempre più da quella dell’artista, con gli evidenti problemi che ne conseguono.
Tempo fa (ottobre 2018) un noto esponente della street art contemporanea, Banksy, si rese protagonista di una trovata ritenuta da molti addirittura geniale. In numerosi articoli di giornale si leggeva a proposito dell’autodistruzione improvvisa di una versione di un suo noto disegno, Ballon Girl, avvenuta durante una sessione d’asta nel preciso momento in cui stavano aggiudicando l’opera a un cliente. Un trita-documenti nascosto nella spessa cornice si era infatti azionato tagliando a strisce il foglio con il disegno. Qualche giorno dopo l’avvenimento apparve, sul profilo Instagram dell’artista, un filmato che riproduceva il momento in cui si era azionato il marchingegno, trasformando l’opera fra lo sbigottimento generale del pubblico e dello staff di Sotheby (la casa d’aste che lo aveva in carico). La didascalia sotto al video riportava una famosa frase di Michail Bakunin (che verrà poi ripresa da Pablo Picasso) secondo cui «the urge to destroy is also a creative urge». Osservando l’opera autodistrutta possiamo però notare come niente sia lasciato al caso: la metà inferiore del disegno pende dalla cornice, tagliata in tante piccole strisce simmetriche e ordinate. Non si ha certo l’impressione di qualcosa di distrutto; nell’insieme il tutto risulta molto preciso e ordinato, e si ha ancora piena contezza di essere davanti a un quadro. Ripensando alla frase di Bakunin, a cui lo stesso Banksy faceva riferimento, verrebbe dunque da chiedersi dove sia la distruzione e dove la creatività. Tra l’altro, poco tempo dopo l’avvenimento, circolava la prevedibile notizia riguardo all’aggiudicazione dell’opera per quasi 200.000 sterline in più rispetto alla cifra d’acquisto precedente all’autodistruzione.
Qual è stato dunque l’obbiettivo di Banksy? Voleva forse comunicare al mondo che la sua arte non è fatta per rispettare le logiche del mercato? Il suo gesto era forse un attacco alle grandi case d’asta, o è semplicemente l’ennesima forma di finto anticonformismo perfettamente tollerato e anzi incentivato da quello che sempre più sembra assumere i contorni di un vero e proprio sistema dell’arte contemporanea? Nel mare dei punti interrogativi una cosa è certa: tutto si poteva dire di quell’opera tranne che si era autodistrutta, e il suo aumento di valore era prevedibile e scontato. Il “ribelle” e “anticonformista” Banksy ha di fatto creato un’opera d’arte di finta protesta che, mentre sembrava scagliarsi contro le leggi del mercato si inginocchiava a queste nel modo più abietto. Nonostante l’evidenza dei fatti, gran parte della critica ha sentito il bisogno di osannare l’artista, calcando la portata “rivoluzionaria” e “provocatoria” della sua azione. Significativo anche come, a poca distanza dall’asta, è apparso un video in cui Banksy stesso (excusatio non petita…) ci mostrava come nelle sue intenzioni ci fosse quella di recare molti più danni al quadro, cosa che non era stata possibile ottenere a causa di un imprevisto, quanto provvidenziale (almeno per l’economia della casa d’asta), malfunzionamento dello strumento che avrebbe dovuto danneggiare la tela. Resta difficile credere a quest’ultima parte della storia che appare come un goffo tentativo di autodifesa da parte di Banksy, e sembra suggerire che forse, nell’oceano delle critiche positive mosse nei suoi confronti, qualcuno abbia avuto la lucidità di storcere il naso. Pensando con una certa nostalgia, ad esempio, alle geniali manifestazioni dadaiste del secolo scorso, veri e propri assalti al buon costume, dove casualità e provocazione giocavano un ruolo fondamentale, viene da pensare che probabilmente nello sviluppo artistico degl’ultimi anni qualcosa sia andato storto. Sembra in effetti che sia sempre più difficile creare arte di protesta e sempre più facile fare un’arte da salotto assolutamente tollerata e tollerabile. Curioso poi come, poco tempo dopo l’episodio di Sotheby, una mostra tenuta al Mudec di Milano titolava The Art of Banksy. A visual protest. Se, almeno in quest’ultimo caso, non possiamo affermare con certezza che Banksy non abbia fatto dell’arte, sicuramente possiamo dire che non ha fatto protesta, nonostante gli venga attribuito proprio questo merito. In un certo senso si potrebbe considerare la trovata dello street artist come un’opera d’arte solo nella misura in cui non sia tale ma abbia fatto credere al mondo di esserlo. Vorrei dire che se questa versione di Ballon with Girl merita la promozione al livello d’opera d’arte, lo fa solo nel modo in cui si rende rappresentante dello Zeitgeist contemporaneo. Come quando, per fare uno dei numerosi esempi che possono essere citati, la Pop Art di Andy Wharol mostrava al mondo i simboli di un immaginario nuovo che stava pervadendo la nostra vita (incidenti d’auto, sedie elettriche, scatole di prodotti preconfezionati, ecc.), così Banksy, certamente in modo involontario, e quindi dimostrando ancora una volta la componente profetica dell’arte, sembra svelarci i meccanismi alla base della nostra società: ipocrisia, truffa e autoinganno collettivo.
Forse è stata proprio l’onestà la grande assente di questa vicenda, quella onestà che ci dobbiamo aspettare dalle opere di ogni grande artista. Piuttosto che rifilarci la patetica storiella del guasto tecnico, Banksy, o chi per lui, avrebbe senz’altro fatto meglio a cogliere l’occasione per spiegarci come nel XXI secolo si possa dare vita ad un’opera nuova durante una sessione d’asta, tra lo stupore e il divertimento degli astanti; e forse ci avrebbe fatto un’utile e divertente lezione di marketing, dimostrando come un danneggiamento programmatico e ben pubblicizzato possa far lievitare il prezzo di un’opera. Ma l’arte autentica e l’autentica protesta sono altro.
Le parole di Etty Hillesum invocano la responsabilità di ciascuno. Nessuna crisi può essere trascesa senza la testimonianza libera e responsabile di ogni essere umano. Occorre disseppellire dal cuore degli uomini la sostanza comune che rende tutti fratelli.
Disseppellire Dio Esther Hillesum, detta Etty ha testimoniato la necessità dell’universale. Non si supera la crisi di un’epoca, l’esperienza di Auschwitz nel suo caso, senza un nuovo umanesimo. Bisogna «disseppellire Dio»! Le parole di Etty invocano la responsabilità di ciascuno dinanzi alla disumanità che avanza. Nessuna crisi può essere trascesa senza la testimonianza libera e responsabile di ogni essere umano. Si può dimenticare Dio, dimenticare cioè il bisogno di riconoscere la sostanza comune che rende tutti fratelli, ma nella dimenticanza, nella rimozione dell’universale non vi è che la disumanità che distrugge ogni tessuto sociale e umano. Solo il «disseppellire Dio» – nelle parole di Etty – può riumanizzare la vita di ciascuno, abbattere le barriere di fango che dividono e che causano solitudine materiale ed emotiva. Senza universale ci si ripiega su se stessi, l’altro è solo il “nemico”: nell’ordito sociologico del darwinismo sociale della «lotta per la sopravvivenza» (struggle for life and death) c’è solo la sconfitta è per tutti, non vi sono vincitori, ma solo diverse forme di solitudini:
«Poiché le persone scompaiono, non mi resta altro che il desiderio di parlare con Te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te. E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio. Ma ora avrò bisogno di molta pazienza e riflessione e sarà molto difficile».[1
La ricerca dell’universale può riemergere nelle circostanze più diverse e dimostra che è nella natura umana la necessità di ritrovarsi nella comune famiglia umana. Le modalità e le soluzioni possono essere plurali, ma in tutte vi è la dialettica che muove il soggetto verso l’universale. I percorsi possono essere molteplici, ma giungono alla comunità umana, mediante un processo graduale che muove dalla concretezza della contingenza, in cui si è situati, per ridisporsi verso l’umanesimo trascendentale. Nella storia la violenza è sempre stata presente, ma la salvezza non consiste nel semplice passaggio da un sistema di potere ad un altro, la salvezza è nel non lasciare che il male proliferi infettando e consumando anche coloro che propugnano la libera individualità sociale. Il “male” alligna anche nelle vittime – la violenza è il virus che prolifera –, se ad esso non si oppongono adeguate energie spirituali e concettuali. Il “male” si propaga, in modo meccanico, se non è avvertito, pensato e giudicato come tale. La speranza è quella di salvare, in primis, la propria vita interiore nelle determinate temperie della storia. Un nuovo inizio è possibile, se ci si congeda dalle violenze vissute, se si riconosce la “violenza” in noi stessi la violenza:
«Una volta è un Hitler; un’altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un secolo è l’Inquisizione e in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».[2]
Ricettacoli di cose Viviamo in un mondo di cose. Ai disastri della storia “si reagisce” mettendo in salvo le cose: in questo modo si perde se stessi, si diviene irrilevanti come le cose. Il “male” ci travolge, ci sorprende fino ad assimilarci, se di fronte ad esso ci si adopera solo per salvare un mondo fatto di cose. La salvezza diviene, così, l’inizio di un nuovo “male”, perché la sofferenza non è stata compresa, perché la rabbia non è stata pensata, perché il carnefice non è stato guardato nella sua miseria, la quale ci appartiene. Nessun essere umano è esente dal pericolo di essere veicolo di violenza. Pertanto l’attenzione diretta verso le cose rende le vittime tragicamente limitrofe ai carnefici:
«Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare Te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo».[3]
Se l’attenzione si sposta, anche, sui fondamenti della vita umana. Se si vive in pienezza l’universale, non si è più fragili, ma più lucidi davanti all’avanzare del “male”, perché si ha la chiarezza che l’invisibile, il fondamento ultimo, non può essere sottratto a nessuno. La lotta diviene dialettica, la distanza tra il carnefice e la vittima abissale, la differenza etica vissuta è l’inizio della speranza:
«Una cosa è certa: dobbiamo accettare tutto dentro di noi, dobbiamo essere pronti a tutto e sapere che le “cose ultime” non possono esserci sottratte; allora, con quella pace interiore, sapremo ben compiere i passi necessari».[4]
Appartenenza e comunità L’universale non è astratto, ma è fatto di sangue e carne come il Dio che Etty ha «disseppellito». Il fondamento ultimo è partecipazione alla vita della propria comunità, fino all’ultimo, come nel caso di Etty. La comunità ci ha preceduti e ci accoglie, ne condividiamo la lingua come la storia, l’universale si svela e rivela nello scoprirsi come parte di un tutto. Il bene consiste nell’essere parte attiva di una totalità a cui non ci si nega, che non può essere dimenticata per inseguire un destino astrattamente individuale:
«Non è che io voglia partire a ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare».[5]
L’appartenenza fa trascendere i limiti cronologici delle vite, ci si oppone al male testimoniando il bene e per donare alle future generazioni un lascito etico che possa servire per indicare il cammino verso cui ci si deve orientare per congedarsi dalla violenza della storia:
«Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi. In qualche modo mi sento leggera, senz’alcuna amarezza e con tanta forza e amore. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno?».[6]
Il marciume che debilita Per uscire dalla logica dell’inazione e dal pessimismo paralizzante, bisogna imparare a discernere: anche nell’ora più buia, in cui tutto appare senza uscita, continuano ad esserci spazi di speranza dai quali riprendere il cammino. Il pessimismo, ogni querulo comportamento, rafforza il “male”, favorisce il suo consolidarsi, per cui ai perpetuo lamentii è necessario opporre la capacità di giudicare il contesto storico che stiamo vivendo senza comodi semplicismi:
«Spesso mi viene da dire: c’è un gran marciume in quel posto. Ma oggi, d’un tratto, ho pensato: se dico sempre quella parola, marciume, esso finisce per propagarsi nell’atmosfera e non la rende certo migliore».[7]
Nella Storia, e nella nostra storia, possiamo renderci persone. Dobbiamo però abbandonare gli stereotipi di idealistica astratta uguaglianza, per imparare a diventare persone concrete. La concretezza esige, per dirla con Aristotele, il sinolo di particolare ed universale, la sostanza individuale, cioè l’oggetto concreto composto di materia e di forma. Solo in tal maniera la speranza ha il volto di una nuova storia, di un nuovo umanesimo che abbia il suo fondamento nell’anima umana. Ogni emancipazione non può che rivelare a ciascuno la propria condizione umana:
«Forse la vera, la sostanziale emancipazione femminile deve ancora cominciare. Non siamo ancora diventate vere persone, siamo donnicciole. Siamo legate e costrette da tradizioni secolari. Dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo grande compito davanti a sé».[8]
L’esperienza di Etty continua a parlarci, ha attraversato il «secolo breve» ed è giunta a noi. Diventare persone significa, anche, ascoltare le testimonianze della storia, continuare a dialogare con il presente come con il passato.
La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima.
Si può chiamare felice soltanto quell’anima che sia educata, e soltanto l’uomo educato, non colui che è ornato di splendidi beni esterni, ma che personalmente non vale nulla.
Bisogna considerare uomini meschini coloro per i quali l’acquisizione di qualche ricchezza è più importante del loro carattere.
La saggezza filosofica è il risultato del proprio più serio impegno e della ricerca di quelle cose che la filosofia ci pone in grado di cercare; perciò dobbiamo dedicarci alla ricerca filosofica.
Dobbiamo diventare filosofi se vogliamo attendere rettamente agli affari dello stato e ordinare utilmente la nostra vita privata.
Il filosofo soltanto vive mirando costantemente alla natura ed al divino. Come il buon capitano di una nave, egli ormeggia la sua vita a ciò che è eterno e costante, là getta l’ancora e vive padrone di sé.
Coloro che si dedicano alla filosofia non ne hanno dagli uomini una ricompensa che li possa spronare a tali sforzi.
La saggezza filosofica è una parte dell’eccellenza dell’anima e della vita felice.
La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.
La gioia che deriva dal pensiero costituisce la più eminente delle gioie della vita.
Per gli uomini non c’è nulla di divino e di beato all’infuori di quell’unica cosa che sola merita i nostri sforzi, cioè quanto esiste in noi di intelligenza e capacità della mente.
lI tuo desiderio di sapere e i tuoi sforzi, mio caro Temisone, per conseguire l’eccellenza e una vita felice, mi sono noti per sentito dire, ed io sono convinto [B1] che nessuno è in condizioni più propizie delle tue per accostarsi alla filosofia, dal momento che tu sei ricco, sicché puoi prodigare del denaro a questo scopo, e la tua posizione è eminente. Ora la maggioranza delle persone pensa che una vita felice si fondi sul possesso dei beni esterni, e non del tutto senza ragione, perché vediamo che ad alcuni tutto procede per il meglio, e il successo arride, sebbene siano stolti. Ma certamente tu hai anche sperimentato dei casi in cui accade il contrario. Sia, quindi, dalla tua conoscenza del passato, che per la tua personale esperienza ti verranno in mente molti casi in cui l’orgogliosa grandezza è caduta in rovina; tu hai conosciuto degli uomini che riponevano troppa fiducia nella ricchezza, nella felicità e nel potere, e che quindi dovettero provare una repentina caduta nell’infelicità. Quanto maggiore fu il loro successo, tanto più grave sentono l’insuccesso e l’infelicità, e si vergognano perché la loro attuale posizion [B2] impedisce loro di prendere l’iniziativa di compiere ciò che considerano il loro dovere. E poiché vediamo le disgrazie di queste persone, dovremmo evitare una sorte simile, e tenere presente che la felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. Anche per quanto riguarda il corpo, nessuno dirà che è favorito perché è avvolto in abiti magnifici, ma piuttosto si dice così di quello che è dotato di buona salute e si trova in buona condizione, dovessero pure mancargli tutti quegli ornamenti esterni. Allo stesso modo, si può chiamare felice soltanto quell’anima che sia educata, e soltanto l’uomo educato, non colui che è ornato di splendidi beni esterni, ma che personalmente non vale nulla. Così è anche per un cavallo; può portare un morso d’oro e finimenti preziosi, ma se per il resto non vale nulla, non lo apprezziamo affatto, e diamo invece la preferenza a quello che possiede delle buone qualità. [B3] Inoltre accade che, quando gente dappoco giunge in possesso di grandi sostanze, spesso apprezzi queste proprietà perfino più dei beni dell’anima, che è la cosa fra tutte più vergognosa. Se un signore apparisse da meno del suo servo, sarebbe oggetto di derisione; allo stesso modo, bisogna considerare uomini meschini coloro per i quali l’acquisizione di qualche ricchezza è più importante del loro carattere.
[B4] Così è in realtà; poiché, come dice il proverbio, sazietà genera insolenza; e quando la mancanza di educazione si accompagna al potere, ne nasce la megalomania. A coloro la cui anima è mal disposta, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono utili, ma invece quanto più abbondantemente essi posseggono queste cose, tanto più profondamente e per modi più numerosi questo possesso li danneggia, se non è accompagnato da saggezza. Il detto “al bambino non dare un coltello” significa “non dare potere alle persone da poco”. [B5] La saggezza filosofica per contro – su questo punto tutti concorderanno – è il risultato del proprio più serio impegno e della ricerca di quelle cose che la filosofia ci pone in grado di cercare; perciò dobbiamo dedicarci alla ricerca filosofica senza cercar scampo in pretesti. [B6] L’espressione “filosofare” significa da un lato chiedersi se bisogna dedicarsi alla filosofia, e dall’altro dedicarsi alla filosofia. [B7] Poiché ci rivolgiamo a uomini, e non a quegli esseri la cui vita è divina, allora dobbiamo aggiungere a quelle anche altre esortazioni che siano di utilità pratica nella vita sociale. Si dirà dunque così. [B8] Ciò che abbiamo a disposizione per vivere, cioè il corpo, e ciò che serve al corpo, costituisce per noi come una sorta di strumento. L’uso di questi strumenti è esposto a pericolo: per le persone che non li sanno usare nel modo retto, essi producono per lo più l’effetto opposto. Noi dobbiamo dunque aspirare a quella forma di sapere che ci possa aiutare ad adoperare nel modo migliore tutti questi strumenti, dobbiamo conseguirla ed usarla in modo appropriato. Dobbiamo diventare filosofi, se vogliamo attendere rettamente agli affari dello stato e ordinare utilmente la nostra vita privata.
[B9] Esistono, ora diversi tipi di conoscenza; quella conoscenza che produce i beni della vita, e quella che se ne serve. Un’altra partizione è questa: ci sono tipi di conoscenza subordinati, ed altri che impongono l’ordine. Questi ultimi occupano il posto più elevato, e presso di loro si trova il bene in senso autentico. Se ora soltanto quella sorta di sapere che è capace di esprimere un giudizio esatto, che usa la ragione ed ha di mira il bene nella sua totalità, vale a dire la filosofia, sa servirsi di tutti gli altri tipi di conoscenza e dirigerli in accordo ai princìpi della natura, questo è un ulteriore argomento che indica che dobbiamo dedicarci alla filosofia. Infatti soltanto la filosofia include in sè l’esattezza di giudizio e l’infallibile saggezza, la quale ha la capacità di determinare con i suoi ordini che cosa bisogna fare e che cosa no. […]
[B40] Tutti gli uomini decidono a favore di ciò che ha maggiore consonanza con il loro carattere, così per esempio il giusto sceglie la vita giusta, il valoroso la vita valorosa, l’uomo temperato la vita secondo la temperanza. Similmente è chiaro che l’uomo dotato di capacità intellettuali si deciderà per la filosofia, perchè il filosofare è compito di quella capacità. Da questo giudizio, espresso con la maggiore sicurezza possibile, risulta chiaramente che la capacità dell’intelletto è il più alto di tutti i beni. [B41] Con ancora maggiore chiarezza la verità di questa tesi risulta dai seguenti argomenti. La riflessione e la conoscenza sono desiderabili dagli uomini di per sè, in quanto senza di esse non è possibile vivere una vita degna di un uomo. Ma esse sono anche utili per la vita pratica, perché nulla ci appare buono, se non è portato a compimento con la riflessione e mediante un’attività avveduta. Ora, la vita felice, può consistere nella gioia e nel benessere, o nel possesso dell’eccellenza morale, o nell’esercizio della capacità intellettuale: in ognuno di questi casi, comunque, bisogna dedicarsi alla filosofia, perché un giudizio chiaro su queste cose si può conseguire soltanto mediante la filosofia.
[B42] Chi cerca da ogni forma di scienza un risultato diverso da essa ed esige che ogni scienza debba essere utile, ignora completamente quale fondamentale differenza ci sia tra ciò che è buono e ciò che è necessario; è, infatti, una differenza straordinariamente grande. Perché quelle cose che noi desideriamo in vista di qualcos’altro, e senza le quali non è possibile vivere, le chiamiamo necessarie e concause; ciò , invece, che desideriamo per se stesso, anche se non ci procura null’altro, lo chiamiamo bene in senso proprio. Infatti una cosa non è desiderabile sempre in vista dell’altra, e così avanti all’infinito: da qualche parte ci deve essere un punto fermo. E’, di fatto, completamente ridicolo cercare ovunque un’utilità che sia diversa dalla cosa stessa, e chiedersi: “quale vantaggio ne abbiamo?”, e “a cosa può servire?“. Chi parla così, in nessun modo, come s’è detto, risulta simile a colui che conosce il bello ed il bene e sa distinguere tra causa e concausa. […]
[B44] Non dobbiamo perciò preoccuparci se la filosofia non si dimostra utile o vantaggiosa perché non affermiamo innanzi tutto che sia vantaggiosa, ma piuttosto che è buona, e che la si debba scegliere non per qualcos’altro, ma per se stessa. […] [B45] Così ora abbiamo preso le mosse dal finalismo della natura per un’esortazione alla filosofia, convinti che il dedicarsi alla filosofia costituisca un bene ed è nobile cosa già per sé, anche se non ne dovesse derivare alcuna utilità per la vita pratica.
[B46] Che però la speculazione filosofica sia realmente utile anche per la vita pratica di ogni giorno si comprenderà facilmente se lo si esemplifica con le arti e le professioni. […] Allo stesso modo anche il politico deve avere certi termini di riferimento, che desume dalla natura stessa e dalla verità, con l’aiuto dei quali potrà giudicare che cosa è giusto, che cosa è bello e che cosa è conveniente. Infatti, come gli strumenti del tipo di cui abbiamo parlato sono i migliori nelle attività professionali, così anche il miglior termine di riferimento è quello che in massimo grado si conformi alla natura. […] [B50] Infatti il filosofo soltanto vive mirando costantemente alla natura ed al divino. Come il buon capitano di una nave, egli ormeggia la sua vita a ciò che è eterno e costante, là getta l’ancora e vive padrone di sé. [B51] Ora questa conoscenza è di per sè teoretica, però ci offre la possibilità di regolare su di essa ogni nostra azione. Come cioè, la vista non crea né produce nulla, perché la sua funzione è soltanto quella di distinguere a rendere evidenti ognuna delle cose visibili, però ci pone in grado di fare certe cose ricorrendo ad essa, e ci offre l’aiuto più importante per l’azione (infatti saremmo pressoché completamente incapaci di muoverci, se non la possedessimo), così anche risulta chiaro che mediante questo sapere noi compiamo innumerevoli azioni, sebbene esso sia teoretico; con il suo aiuto decidiamo se una certa cosa deve essere ricercata, un’altra evitata; ma soprattutto, mediante questa conoscenza, conseguiamo tutto ciò che è buono.
[B52] Chi si propone di verificare ciò che abbiamo detto, deve avere ben chiaro che tutto ciò che per l’uomo è buono e utile alla vita sta nell’esercizio e nell’azione, e non nella sola conoscenza del bene. […] ciò che importa più di tutto, non viviamo una vita più bella e più nobile perché conosciamo qualcosa dell’essere, ma piuttosto perché il nostro agire è buono; questa infatti è veramente la vita felice. Ne consegue che anche la filosofia, se è davvero utile come noi asseriamo, o è un esercizio di azioni rette, oppure è giovevole per tali azioni. [B53] Quindi non bisogna fuggire la filosofia, se davvero la filosofia è, come io credo, acquisizione e applicazione della sapienza, e si annovera la sapienza tra i beni più alti. Se per amore del denaro si viaggia fino alle colonne d’Eracle e ci si espone a molti rischi, perché non si dovrebbe affrontare qualche fatica e qualche spesa per la filosofia? E’ tipico dell’uomo comune, in realtà, di desiderare la vita e non la vita buona, di seguire le opinioni del volgo invece di aspettarsi che sia esso a dare ascolto alla sua opinione, di essere avido di denaro, ma di non occuparsi per nulla delle cose nobili. (B54) L’utilità e l’importanza dell’oggetto mi sembrano ormai sufficientemente provate. Ci si dovrebbe poi convincere che è molto più facile conseguire la conoscenza filosofica che qualsiasi altro bene in base a quanto segue. [B55] Coloro che si dedicano alla filosofia non ne hanno dagli uomini una ricompensa che li possa spronare a tali sforzi. Essi possono aver dedicato molta fatica per conseguire altre capacità, e tuttavia in tempo minore compiono rapidi progressi verso la scienza esatta; questo mi sembra indicare con quale facilità si può conseguire la conoscenza filosofica. [B56] Un ulteriore argomento è che tutti gli uomini si sentono a loro agio nella filosofia, e volentieri si dedicano ad essa, mentre lasciano ogni altro interesse. Anche questo costituisce una prova non piccola che è un piacere occuparsi di essa, giacché, se fosse semplicemente una fatica, nessuno si tormenterebbe a lungo con essa. Inoltre l’attività filosofica ha un altro grande vantaggio rispetto a tutte le altre; non si ha cioè bisogno di un particolare strumento, né di una sede particolare per esercitarla, ma in qualunque punto della terra uno si ponga all’opera con il pensiero, dovunque gli sarà allo stesso modo possibile afferrare la verità, come se essa fosse presente. [B57] Così dunque è provato che è possibile dedicarsi alla filosofia, che essa è il maggiore di tutti i beni, e che è facile conseguirla. Per tutti questi motivi, vale la pena di coltivarla con passione.
[B58] Affrontiamo ora il problema del compito specifico della conoscenza filosofica, e per quale motivo a essa tutti aspiriamo. Vorrei giungere a una risposta procedendo da un diverso punto di partenza. […] [B68] Sicché nessuna delle virtù particolari, di cui si parla comunemente, costituisce l’opera della saggezza filosofica; infatti essa è superiore a tutte queste. Il fine conseguito è sempre superiore alla conoscenza mediante la quale lo si consegue. Per altro non ogni eccellenza dell’anima è un risultato della saggezza filosofica, e neppure la vita felice. Se infatti la saggezza filosofica fosse produttiva, allora produrrebbe qualcosa di diverso da se stessa, così come l’architettura fabbrica le case, pur senza essere una parte della casa; la saggezza filosofica, invece, è una parte dell’eccellenza dell’anima e della vita felice. Infatti io affermo che la vita felice, o ne deriva, oppure è essa stessa.
[B69] In base a questo argomento, la saggezza filosofica quindi non può essere una scienza produttiva; il fine deve stare al di sopra della via che conduce ad esso; ma non esiste nulla di più alto della vita filosofica, se non forse una delle cose che abbiamo menzionato prima, cioè eccellenza e vita felice: ma la loro opera non è niente altro che la vita filosofica. Bisogna quindi tener per fermo che la conoscenza di cui parliamo è teoretica, dal momento che il suo fine non può essere una produzione. [B70] La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono dunque il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi, paragonabile, io credo alla vista, che certamente si apprezzerebbe anche nel caso in cui grazie ad essa non si ottenesse altro risultato se non appunto e soltanto il vedere. […] [B89] Parimenti chiamiamo vita felice quella vita felice la cui presenza dà felicità alle persone che la vivono; non parliamo di vita felice nel caso di persone che nel vivere hanno gioia da qualche cosa, ma nel caso di coloro per i quali la vita stessa costituisce una gioia, e che appunto provano gioia nel vivere. (B90) In base a queste considerazioni, diciamo che chi è desto vive in maggior grado di chi dorme, chi è intelligente in maggior grado di chi manca di intelligenza, e riteniamo che la gioia nella vita dipenda dall’uso che si fa dell’anima; l’attività dell’anima costituisce realmente la vita. (B91) Si può essere attivi con l’anima in diversi modi, però l’attività più importante di tutte è comunque quella di pensare quanto più intensamente si può. E’ un punto acquisito, quindi, che la gioia che deriva dal pensiero costituisca l’unica, o la più eminente delle gioie della vita. Vivere felicemente e provare la vera gioia è dunque una prerogativa esclusiva o preminente del filosofo. Infatti l’esercizio dei nostri pensieri più veri, che traggono alimento dai più alti princìpi dell’essere e custodiscono continuamente e con saldezza la compiutezza che a essi è accordata, è proprio quella che procura in massimo grado la gioia della vita fra tutte le altre attività. [B92] Proprio per gustare le gioie vere e buone gli uomini intelligenti devono dunque dedicarsi alla filosofia.
[B102] Anche la paura della morte che è propria dell’uomo comune attesta il desiderio di conoscenza dell’anima. Essa infatti fugge ciò che le è ignoto, l’oscurità ed il mistero, e per sua natura cerca ciò che è visibile e conoscibile. […]
[B104] Si potrebbe capire questa stessa cosa anche in base a ciò che diremo ora, se soltanto si considerasse la vita umana spassionatamente. Allora si scoprirebbe che tutte quelle cose che appaiono importanti agli uomini, altro non sono che un gioco delle vane ombre. Perciò a ragione si dice anche a ragione che l’uomo è un nulla, e che nulla delle cose umane ha stabilità. Infatti la forza, la grandezza e la bellezza sono cose risibili, e prive di ogni valore; esse ci appaiono tali soltanto perché non siamo in grado di vedere nulla rettamente.
[B105] […] Onore e reputazione, le cose a cui solitamente l’uomo aspira più che ad ogni altra, sono piene di indescrivibile stoltezza; infatti chi ha visto qualcuna delle realtà eterne giudica assurdo faticare per tali scopi. Che cosa c’è tra le cose umane che viva a lungo o abbia una durata consistente? Soltanto per la nostra debolezza e per la brevità della nostra vita, a mio giudizio, anche queste ci appaiono grandi. […] [B108] Per gli uomini non c’è dunque nulla di divino e di beato, all’infuori di quell’unica cosa che sola merita i nostri sforzi, cioè quanto esiste in noi di intelligenza e capacità della mente. Di tutto ciò che è nostro, questo solo sembra incorruttibile.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, a cura di Enrico Berti, UTET, Torino 2008.
Tempi e Luoghi, occasioni e forme della letteratura greca
L’impianto si regge sui due binomi – tempi e luoghi, occasioni e forme – sottolineati nel titolo e funzionali sia come rubriche di catalogazione e descrizione sia come categorie di analisi critica. La prima idea-guida è quella di ripresentare quanto ci resta della letteratura greca antica non solo secondo la sequenza cronologica, ma anche secondo la distribuzione geografica. Alla base c’è l’intento di contrastare periodizzazioni secche (il tempo non passa con la stessa velocità nei vari luoghi) e il consolidarsi di false prospettive, di mostrare come le forme si modifichino o si conservino non solo nel tempo o in funzione delle occasioni a cui rispondono, ma anche in relazione ai luoghi, profondamente e durevolmente segnati da cerimonie e rituali specifici, da consuetudini culturali precise: non hanno molto in comune i corali complessi, a uso liturgico, di Alcmane, nella Sparta della seconda metà del VII secolo, con le composizioni, affini nella strutturazione metrica e strofica, ma di tenore prevalentemente narrativo, di Stesicoro, nella Sicilia e nella Magna Grecia tra la fine del VII e i primi del VI secolo; Pindaro, nativo della Beozia, legato per nascita e frequentazioni alla nobiltà panellenica, viene ricondotto da molti studenti, interrogati d’acchito o anche richiamati sui tratti salienti del suo linguaggio poetico, all’età arcaica, mentre il suo contemporaneo Eschilo, eleusino di nascita e ateniese per attività, è collocato con certezza nel periodo classico; il teatro attico, tragico e comico, dei festival dionisiaci e dei concorsi pubblici, è contemporaneo, ma avvertito come posteriore a forme spettacolari meno istituzionalizzate e praticate nella cultura dorica, greca e italica, come la farsa megarese cui allude Aristofane negli Acarnesi e la farsa fliacica o il mimo di ambiente siceliota e italico apprezzato da Platone; per contro, la polis ateniese mantiene nel tempo le forme più specifiche della sua cultura, pur investendole di nuove tematiche e di nuovi intenti, attraverso discontinuità collegate agli sconvolgimenti politici e bellici, chiaramente percepibili, tra Erodoto e Tucidide come tra Eschilo ed Euripide, nella lunga durata della tragedia e del racconto storico.
Un secondo principio conduttore, collegato al binomio occasioni-forme, è quello di superare la categoria di “genere letterario”. La nozione di genere e di sistema letterario resta per molte ragioni imprescindibile e del tutto appropriata per la produzione stabilizzata prima dalla scrittura e dai concorsi drammatici, poi dalle scuole di retorica e filosofia, quindi rivisitata e profondamente ricodificata dai poeti-filologi delle biblioteche ellenistiche. Ma si rivela tuttavia troppo vincolante, meno adatta a cogliere e comprendere l’estrema variabilità di componimenti d’autore fuori scala, che sembrano sfuggire completamente al sistema, calibrati principalmente e primariamente per occasioni pubbliche d’eccezione, mirati a una fruizione orale e collettiva, anche quando la ricercatezza poetica supera ampiamente i clichés della composizione orale e l’estemporaneità della prima e singola esecuzione. Mentre la categoria di “genere letterario”, anche nell’accezione più dinamica e relazionale, induce a descrivere/analizzare le scritture in termini di adeguamento e scarto fisiologico rispetto alle regole codificate, il nesso occasioni-forme sembra più efficace a registrare i condizionamenti pragmatici, l’aspetto performativo specifico dei testi più antichi, arcaici e classici, senza sminuire le singolari impronte autoriali. Da una parte, non implica la sopravvalutazione delle basi ritmico-dialettali, più culturali che “letterarie”, in cui si genera la splendida poesia arcaica. Dall’altra, orienta a valorizzare meglio una produzione in cui, anche per effetto di una tradizione molto selettiva, i “maggiori” prevalgono sui “minori”, e le paroles degli autori, veri e propri capolavori dell’umanità, si pongono spesso non in tensione, ma in alternativa alla langue presupposta, ai codici e alle regole da essa previsti.
Incrociare tempi e luoghi, occasioni e forme; lasciar prevalere di volta in volta, a seconda dei testi e dei contesti di riferimento, l’attenzione per l’espressione o per il contenuto, il piano significante o quello referenziale; modificare continuamente punto di vista e metodo d’analisi e di descrizione: sono i punti chiave di una proposta che viene dal tentativo di scrivere una storia della letteratura greca, come se si scrivesse da sola. Mi sono lasciata guidare la mano dai testi che ancora ci sono e che si possono leggere, accettando che testi e autori si disponessero autonomamente per rimandi espliciti e affinità meno evidenti, affollandosi, talvolta, in aree sincroniche e/o geografiche molto coese di scritture che si implicano e si parlano nelle stesse condizioni storiche – è il caso dell’Atene classica –, disegnando, talaltra, linee di fuga, di rinvii diacronici nella lunga durata, come nel caso della catena storiografica che avrebbe dovuto proseguire ininterrotta da Erodoto oltre Polibio.
Ho affidato a quattro più giovani studiosi – Marzia Bambozzi, Andrea Rodighiero, Massimo Stella e Martina Treu – il profilo di alcuni grandi autori, sicura che il taglio nuovo delle loro ricerche sarebbe stato un arricchimento, che avrebbe aggiunto informazioni, offerto suggestioni e suggerito approcci non previsti nei miei pur liberi percorsi.
Anna Beltrametti, Le letteratura greca. Tempi e luoghi, occasioni e forme, Carocci editore, Roma 20155, pp. 9-10.
«Stiamo attenti che non sia questo il giusto scambio nei riguardi della virtù, cioè lo scambiare fra loro piaceri con piaceri, dolori con dolori, paure con paure, cose più grandi con cose più piccole, così come se fossero monete. Ma non dimentichiamo che l’unica moneta autentica, quella con la quale bisogna scambiare tutte le cose, non sia piuttosto la saggezza, e che solo ciò che si compera e si vende a questo prezzo sia veramente fortezza, temperanza, giustizia».
«Il capitalismo è la sola macchina sociale che si è costruita come tale su dei movimenti decodificati, sostistuendo a codici intrinseci un insieme di elementi assiomatici in forma di denaro».
Gilles Deleuze – Felix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 278.
Al critico della cultura non va a genio quella cultura alla quale sola egli deve il disagio che prova di fronte ad essa.
Theodor W. Adorno
In Euripide non si fa tanto questione di giusta ricchezza, di mezzi modesti ma necessari per non cadere nell’accattonaggio e nella miseria sregolata; la preoccupazione principale appare un’altra: delineare la figura del nuovo saggio, del sophron che non pretende di fondare i valori del proprio comportamento morale su improbabili rapporti con la divinità, sulla disciplina della polis, ma piuttosto si scopre alla ricerca di un nuovo equilibrio. È questa figura che infrange gli schemi tradizionali dell’eroe del mito.
«Euripide porta sulla scena lo spettatore; l’uomo della vita di ogni giorno, e non soltanto vestendolo dei panni solenni degli eroi epici, ma addirittura con le sue proprie vesti. Euripide porta sulla scena gente comune, anonima, e non soltanto in ruoli tradizionalmente consentiti e riconosciuti: il pedagogo, la guardia, la nutrice. Il contadino dell’Elettra e l’altro contadino, questo soltanto evocato, in un logos angelikos ma non per questo di minore importanza, dell’Oreste, non sono personaggi al seguito degli eroi, né semplici elementi di comodo nello svolgersi della vicenda drammatica. La loro introduzione nelle tragedie è un fatto nuovo, reso possibile dal nuovo carattere che la tragedia è venuta assumendo. […] Negli ultimi quarant’anni del V secolo a.C. si trasforma profondamente lo stesso valore semantico di termini come sophron, sophrosyne, sophronein. Come per altri termini, quali philos, eusebes, eleutheros, si attua per sophron un processo di interiorizzazione: una definizione sociale si trasforma in definizione psicologica, sì che la mente e l’anima dell’uomo possono essere esplorate con gli stessi strumenti che servono a descrivere la comunità sociale. Il platonico “l’uomo è simile alla città” non è che l’approdo teoricamente consapevole di una lunga pratica analogica, che ha trovato il suo costante presupposto non solo dei trattati di retorica, ma anche della invenzione e dell’elaborazione dei personaggi tragici. Il personaggio della tragedia acquista in profondità e in complessità a misura che si rende esplicita la sua analogia di microcosmo col macrocosmo della città: le parti dell’anima tendono a riprodurre le parti della città e a riprodurne l’interna dinamica. Un siffatto processo sposta oggettivamente l’attenzione dello spettatore dai conflitti tra le persone ai conflitti interni all’anima del singolo personaggio, e avvia una dialettica che ha sempre meno riferimento con la realtà sociale della città. Giunta a consapevolezza l’analogia tra città e uomo sortisce un doppio effetto: da una parte la corrispondenza di microcosmo psichico e di macrocosmo politico assicura immediatamente un ampio e fecondo sviluppo all’indagine psicologica e ne garantisce la validità, dall’altra parte rafforza il presupposto ideologico della concezione politica su cui riposa: che la polis sia un tutto organico e non un agglomerato di individui o di gruppi sociali. Si enfatizza in questo modo l’aspetto unitario ed organico della città offrendone una certezza intuitiva e trasparente. Le parti dell’anima sono la proiezione su un piano parallelo delle parti della città, ma la loro indiscutibile unità organica si riproietta a sua volta sul piano della città, e ne garantisce definitivamente la coesione. Così l’ideologia della città come di un tutto organico e indisgiungibile è oggettivamente rafforzata proprio nello spettacolo teatrale, e grazie all’invenzione del personaggio tragico, anche in assenza di una tematica direttamente politica. Tuttavia il trasferimento della legge dell’equilibrio e della concordia sociale nell’individuo finiscono col comporre un modello di uomo autosufficiente che nel proprio intimo realizza i valori della città, ma con la quale paradossalmente non può non riconoscersi in conflitto, dalla quale finisce con l’apparire anche spazialmente separato. Il contadino che abita lontano dal centro della città, che frequenta poco il mercato e l’assemblea è chiamato a incarnare questa nuova figura ideologica, in lui si vuole riconoscere il più geloso custode dei valori patrii, l’unica parte sana di una città corrotta. Ciò è diverso dalla collocazione dei contadini come forza intermedia tra ricchi e poveri, come invece talvolta si è stati tentati di interpretare sotto l’evidente suggestione di Aristotele. In Euripide non si fa tanto questione di giusta ricchezza, di mezzi modesti ma necessari per non cadere nell’accattonaggio e nella miseria sregolata; la preoccupazione principale appare un’altra: delineare la figura del nuovo saggio, del sophron che non pretende di fondare i valori del proprio comportamento morale su improbabili rapporti con la divinità, sulla disciplina della polis, ma piuttosto si scopre alla ricerca di un nuovo equilibrio. È questa figura che infrange gli schemi tradizionali dell’eroe del mito. Dapprima essa si presenta ancora sulla scena sotto panni eroici, poi osa comparire con gli abiti della vita quotidiana, quelli appunto del contadino. È l’uomo della vita di ogni giorno, il contadino non il borghese, lo spettatore che si affaccia sulla scena. […]».
Diego Lanza, Lo spettatore sulla scena, in AA.VV., L’ideologia della città, Liguori Editore, Napoli 1977, pp. 57, 71-72.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, , Euro 35 – Collana “Il giogo” [118].
Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.
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