«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Dione Crisostomo, nell’Orazione XIII dedicata all’esilio, dice che è questa la condizione che gli ha insegnato il disprezzo per i beni materiali e lo ha posto nello stato d’animo adatto alla contemplazione e al filosofare. Ecco come veniva additato: vagabondo, mendicante o filosofo.
Cfr. anche, Dione di Prusa, Boristenico (Or. XXXVI), introduzione, traduzione e commento di Michele Di Febo, con un saggio introduttivo di Giulio A. Lucchetta, Carabba, Lanciano, 2018.
«Come possa accadere che un animo ricco della conoscenza di tante cose non ne divenga più vivo e sveglio, e che uno spirito grossolano e volgare possa albergare in sé, senza migliorarsi, i ragionamenti e i giudizi degli spiriti più eletti che il mondo abbia prodotto, ancora non so».
«Bisognerebbe chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più. Lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l’intelletto e la coscienza. Proprio come gli uccelli vanno talvolta in cerca del granello e lo portano nel becco senza assaggiarlo per imbeccare i loro piccoli, cosi i nostri pedantes vanno spigolando la scienza nei libri e la tengono appena a fiore di labbra tanto per ributtarla fuori e gettarla al vento».
Michel E. de Montaigne, Saggi, I, 25, a cura di F. Garavini e A Tournon, Bompiani, Milano 2012, p. 239 e pp. 243-245.
«Seguire il canto popolare non vuol dire sentire solo il canto in se stesso, ma una traccia, una linea melodica. Non è nemmeno una ricerca, ma un fatto spontaneo. In pratica è una musica che nasce viaggiando: quando vado in giro per lavoro cerco i suoni del luogo piuttosto che un museo o il cibo tipico. I canti popolari che imparo sono quelli che a loro volta sono imparati dagli abitanti di quel luogo: non c’è un autore ma ce ne sono milioni. E’ un linguaggio che si sviluppa nel tempo ma che mantiene un’identità forte. Da siciliano inoltre ho viaggiato tantissimo pur rimanendo della mia isola, perché attingevo tutte le culture. Tutto questo per dire che la natura ha a vedere con i luoghi e l’attività umana».
Giovanni Sollima è un vero virtuoso del violoncello. Suonare per lui non è un fine, ma un mezzo per comunicare con il mondo. È un compositore fuori dal comune, che grazie all’empatia che instaura con lo strumento e con le sue emozioni e sensazioni, comunica attraverso una musica unica nel suo genere, dai ritmi mediterranei, con una vena melodica tipicamente italiana, ma che nel contempo riesce a raccogliere tutte le epoche, dal barocco al “metal”. Scrive soprattutto per il violoncello e contribuisce in modo determinante alla creazione continua di nuovo repertorio per il suo strumento. Il suo è un pubblico variegato e trasversale: dagli estimatori di musica colta ai giovani “metallari” e appassionati di rock, Giovanni Sollima conquista tutti. Nasce a Palermo da una famiglia di musicisti. Studia violoncello con Giovanni Perriera e Antonio Janigro e composizione con il padre Eliodoro Sollima e Milko Kelemen. Fin da giovanissimo collabora con musicisti quali Claudio Abbado, Giuseppe Sinopoli, Jörg Demus, Martha Argerich, Riccardo Muti, Yuri Bashmet, Katia e Marielle Labèque, Ruggero Raimondi, Bruno Canino, DJ Scanner, Victoria Mullova, Patti Smith, Philip Glass e Yo-Yo Ma. La sua attività, in veste di solista con orchestra e con diversi ensemble (tra i quali la Giovanni Sollima Band, da lui fondata a New York nel 1997), si dispiega fra sedi ufficiali ed ambiti alternativi: Brooklyn Academy of Music, Alice Tully Hall, Knitting Factory e Carnegie Hall (New York), Wigmore Hall e Queen Elizabeth Hall (Londra), Salle Gaveau (Parigi), Accademia di Santa Cecilia a Roma , Teatro San Carlo (Napoli), Kunstfest (Weimar), Teatro Massimo di Palermo, Teatro alla Scala (Milano), International Music Festival di Istanbul, Cello Biennale (Amsterdam), Summer Festival di Tokyo, Biennale di Venezia, Ravenna Festival, “I Suoni delle Dolomiti”, Ravello Festival, Expo 2010 (Shanghai), Concertgebouw ad Amsterdam.
Per la danza collabora, tra gli altri, con Karole Armitage e Carolyn Carlson, per il teatro con Bob Wilson, Alessandro Baricco e Peter Stein e per il cinema con Marco Tullio Giordana, Peter Greenaway, John Turturro e Lasse Gjertsen (DayDream, 2007). Insieme al compositore-violoncellista Enrico Melozzi, ha dato vita al progetto dei 100 violoncelli, nato nel 2012 all’interno del Teatro Valle Occupato. Tra i CD di Giovanni per SONY i CD “Works”, “We Were Trees”, per la Glossa “Neapolitain Concertos” in collaborazione con I Turchini di Antonio Florio, disco che raccoglie 3 concerti barocchi inediti del ‘700 napoletano e un nuovo brano di Giovanni “Fecit Neap” e “Caravaggio” per l’Egea. Giovanni Sollima insegna presso l’Accademia di Santa Cecilia a Roma dove è anche accademico effettivo e alla Fondazione Romanini di Brescia. Suona un violoncello Francesco Ruggeri fatto a Cremona nel 1679.
«Quando una lettura assai meditata te ne fornirà l’occasione, poni accanto alle sentenze utili […] alcune note precise che, quasi fossero uncini, ti valgano a trattenerle, se volessero sfuggirti dalla memoria. Con questo aiuto potrai resistere saldamente tanto alle passioni quanto all’accidia, che soffoca, come un’ombra funestissima, il seme delle virtù e il frutto dell’intelletto».
Francesco Petrarca, Secretum, Introduzione, traduzione e note di U. Dotti, Archivio Guido Izzi, Roma 1993, pp. 110-111.
«Ne ho visti molti che filosofavano molto più dottamente di me; ma la loro filosofia era per così dire estranea a loro stessi. Studiavano l’universo come arebbero studiato qualche macchina che avessero vista. Studiavano la natura umana per poterne parlare con dottrina, ma non per conoscere se stessi […]. Molti di loro volevano soltanto fare un libro, uno qualsiasi, purché fosse ben accolto».
Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del sognatore solitario, Feltrinelli, Milano 2016.
«Credimi, è possibile saper qualcosa anche senza schiamazzi e litigi; non è il clamore ma la riflessione che rende l’uomo più colto. E dunque, se noi preferiamo essere piuttosto che apparire, allora non tanto ci importerà dello sciocco plauso della folla, quanto della verità nel silenzio, e potremo tenerci paghi dell’aver talvolta fatto rivivere in noi stessi, dolcemente, le parole dei più autentici scrittori».
Francesco Petrarca, Le familiari, testo critico di V. Rossi e U. Bosco, traduzione e cura di U. Dotti, Aragno, Torino 2004-2009, tomo I, pp. 120-121.
«Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo; di colui che apprese e che fu saggio in tutte le cose».
Proemio dell’Epopea di Gilgameš
Ecco il prologo della leggenda di Gilgamesh. gigante solare, “dio per due terzi, per un terzo uomo”.
Proclamerò al mondo le imprese di Gilgamesh, l’uomo a cui erano note tutte le cose, il re che conobbe i paesi del mondo. Era saggio; vide misteri e conobbe cose segrete; un racconto egli ci recò dei giorni prima del Diluvio. Fece un lungo viaggio, esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò si riposò e su una pietra l’intera storia incise.
Quando gli dèi crearono Gilgamesh gli diedero un corpo perfetto. Il sole glorioso Samas lo dotò di bellezza, Adad, dio della tempesta, lo dotò di coraggio, i grandi dèi resero perfetta la sua bellezza, al di sopra di ogni altro, terribile come gran toro selvaggio. Per due terzi lo fecero dio e per un terzo uomo.
A Uruk costruì mura, un gran bastione, e il tempio del sacro Eanna per Anu dio del firmamento e per Istar dea dell’amore. Guardalo ancor oggi: il muro esterno lungo il quale corre il cornicione brilla dello splendore del rame, e il muro interno non ha eguali. Tocca la soglia: è antica. Avvicinati alla dimora di Istar, nostra signora dell’amore e della guerra, che nessun uomo vivente può eguagliare. Sali sulla muraglia di Uruk e percorrila, ti dico; osserva il terrapieno delle fondamenta, esamina l’armatura: non è forse di mattone cotto e di buona fattura?
Da L‘epopea di Gilgamesh, a cura N. K. Sandars, Adelphi, Milano 1986.
Duemila e cinquecento anni prima di Cristo, nella bassa Mesopotamia, il mare si ritira, liberando terre nuove. Giunti da luoghi sconosciuti, arrivano i sumeri, che si stabiliscono nella valle tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate. Sono pastori e agricoltori […]. Mille anni più tardi costruiscono templi e palazzi, Kish, Ur, Uruk, le loro città-Stato, disegnando sull’orizzonte dorato l’ombra rosa delle loro colossali mura di mattoni. Per organizzare l’economia, codificare la religione, registrare le leggi e fissare una tradizione orale già ricca di miti, di racconti epici, di poemi, inventano la scrittura ideografica. Il più antico scritto del mondo è stato ritrovato tra le rovine di Uruk e risale alla seconda metà del IV millennio.
I primi miti di Uruk si perdono nella notte dei tempi. Raccontano la nascita degli dèi e degli uomini, la vita e la morte, il bene e il male, e il diluvio, il cui tema sarà ripreso dalla Bibbia mille anni più tardi. È a partire dal diluvio che i sumeri fanno iniziare la loro storia e datano le loro dinastie.
La prima fu quella di Kish, la seconda quella di Uruk. Il quinto re di questa seconda dinastia, dicono le tavolette, fu Gilgamesh, che costruì le mura di Uruk e regnò centoventi sei anni.
Abed Azrié
«L’umanità per i babilonesi è definita dalla società. Essere umani è un affare squisitamente sociale […] diventare umano è un processo graduale. Nel suo secondo invito a Uruk, Shamhat dice: “Ti vedo, Enkidu, sei come un dio, dunque perché stai con gli animali selvaggi?”. Gli dei sono rappresentati come l’opposto degli animali, onnipotenti e immortali, mentre gli animali sono ignari e destinati a morire. Essere umani significa essere da qualche parte nel mezzo: non onnipotenti, ma capaci di un lavoro qualificato; non immortali, ma consapevoli della propria mortalità. Insomma, il nuovo frammento rivela una visione dell’umanità come processo di maturazione che si sviluppa tra l’animale e il divino. Non si nasce semplicemente umani: essere umani, per gli antichi Babilonesi, significava trovare un posto per se stessi all’interno di uno spazio più ampio definito dalla società, dagli dei e dal mondo animale».
Sophus Helle, dottore in letteratura babilonese presso l’Università di Aarhus, Danimarca.
«Ricerco inoltre libri di diverso genere, che siano insieme, per gli autori da cui sono stati scritti e per gli argomenti che trattano, compagni graditi e assidui, e pronti a uscire in pubblico o a ritornare nel cassetto al tuo comando, e sempre disposti a tacere e a parlare, a rimanere in casa e ad accompagnarti nei boschi, a viaggiare, a starsene in campagna, a chiacchierare, a scherzare, a incoraggiarti, a confortarti, a consigliarti, a rimproverarti e a prendersi cura di re, a insegnarti i segreti delle cose, e le memorie delle imprese, e norme di vita, e il disprezzo della morte, la moderazione nella buona fortuna, la forza nell’avversa, l’imperturbabilità e la costanza nel tuo comportamento: compagni dotti, lieti, utili e facondi, che non ti sono causa di noia, né di spesa, né di lamenti, né di mormorii o d’invidia, né d’inganni. E mentre ci danno tanti vantaggi, si contentano di una piccola parte della casa e di una veste modesta, senza aver bisogno di cibo né di bevanda alcuna, mentre sono proprio essi che ai loro ospiti procurano inestimabili ricchezze spirituali, vaste abitazioni, splendide vesti e piacevoli conviti e cibi dolcissimi».
Francesco Petrarca, De vita solitaria, a cura di G. Martellotti, trad. di A. Bufano, in Id., Prose, a cura di G. Martellotti, P. G. Ricci, E. Carrara e E. Bianchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1955, pp. 556-57.
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