«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Chi siamo? Da dove veniamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta? Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una condizione d’angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni. […] L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario, perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. […] L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli. Non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di quest’affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando a cui essi stessi appartengono».
Ernst Bloch, Il principio speranza. Immagini di un mondo migliore, 3 vol., Garzanti, 1994, vol. I.
Eucrate, l’apprendista stregone è un personaggio dei racconti della letteratura antica egizia. Si tratta di una delle più antiche versioni della storia nota presso tante civiltà, dell’apprendista che riesce ad impossessarsi di un rito magico che però non è in grado di controllare.
Cfr. Favole e racconti dell’Egitto faraonico, a cura di Aldo Troisi, ed. Fabbri Editori, Milano, 2001 pa. 35-38.
L’«apprendista stregone» di Luciano di Samostata (120 -192)
Φιλοψευδής (Philopseudḗs , ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata
Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Firenze, Felice Le Monnier, vol. 3, pagg. 74-75.
«Quando giungevamo in un albergo ei prendeva la sbarra della porta, o una granata, o un pestello, lo ravvolgeva in un mantello, vi diceva certe parole, e lo faceva camminare sì che a tutti pareva un uomo: e quello andava ad attingere l’acqua, ci preparava il cotto, ci rassettava le masserizie, ci faceva tutti i fatti di casa, come un ottimo servitore. Quando non c’era più bisogno di servigi, tosto egli con altre parole tornava granata la granata, e pestello il pestello. Io avevo una grande curiosità, e non sapeva come fare per imparar questo segreto, il solo che egli mi celasse, essendo facilissimo in tutt’altro. Un dì appiattatomi in un luogo scuro, udii l’incantesimo che era una parola di tre sillabe. Egli commesse al pestello ciò che si doveva fare, e uscì in piazza. Il dimani mentre egli per sue faccende stava fuori, io prendo il pestello, lo rivesto, gli dico le tre sillabe, e gli comando di portare acqua. Poiché ne portò e ne riempì le anfore: ‘Basta, dissi, non portarne più, e torna subito pestello’. Ma niente, non mi voleva più ubbidire, e portava acqua, e ne versava, e allagava la casa. Io non sapendo che farmi e temendo che se tornasse Pancrate non si sdegnerebbe meco per questo fatto, prendo un’accetta, e spacco il pestello in due pezzi: ma ciascun pezzo prende un’anfora e porta acqua: onde invece d’uno diventarono due servitori. In questa giunge Pancrate, che capita la faccenda, li tornò legni, come erano prima dell’incantesimo: e poi senza ch’io me ne avvedessi di botto mi piantò».
Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Felice Le Monnier, vol. 3, Firenze 1861, pp. 74-75.
Ed ecco il commento (tratto da Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Volume Primo, Firenze, 1861, Introduzione):
«Il titolo del Filopseude è la prima piacevolezza di questo dialogo piacevolissimo, nel quale Luciano deride coloro che facendo professione di sapienti, non erano vaghi della sapienza, ma della bugia, non filosofi, ma filopseudi; e andavano perduti dietro la medicina empirica, gl’incantesimi, la ciarlataneria, ed ogni specie di superstizioni religiose. Essendo venuta meno quella forza d’intelletto che cercò la verità nel mondo della ragione e vi fece sì grandi conquiste, si cercava la verità nel mondo della natura e nel mondo dell’immaginazione. Onde questo dialogo, quantunque sia una satira dei filosofi del tempo, pure tratta di argomento religioso, e per dire più corretto, della superstizione religiosa. La quale non è dipinta in persone del volgo, ma in uomini di una certa intelligenza e conoscenza, cosicchè più spiccato è il contrasto che produce il ridicolo.Ecco adunque in casa di un filosofo, uomo assai riputato e dabbene, che giace in letto ammalato, una conversazione di filosofi di varie sètte, i quali ragionano di malattie risanate con rimedi strani e ridicoli, con parole ed incantesimi. In mezzo a questo mazzo di sapienti capita un uomo di buon senso che ride di tali sciocchezze, e quelli, come suole questa gente, dicono che egli non crede negli Dei. Or uno, or un altro raccontano di maghi ed incantatori che camminavano per l’aria e sull’acqua e sul fuoco, e risuscitavano morti, e facevano uscir dell’inferno le ombre, e scendere la luna dal cielo, e liberavano indemoniati: poi della virtù d’un anello; e dei prodigi che fa una statua che ogni notte scende del piedistallo, e va per la casa, e risana ogni specie di malattie. Non sono impostori che vogliono ingannare, ma uomini ignoranti e fanatici, che credono pienamente alle loro fantasie, ed affermano di aver veduto con gli occhi loro quei prodigi che narrano, e che sono stati veduti da altri che essi allegano a testimoni. Specialmente il filosofo padron di casa racconta come in una selva ei vide la terribile figura di Ecate, e chiama in testimone un servo; e narra innanzi a due figliuoli giovanetti, come la madre loro e sua moglie già morta gli apparve una volta, e gli ragionò. Il medico presente a questo racconto dice, che anch’egli ha una statuetta d’Ippocrate, che la notte gli va camminando per la casa; e che egli conosce un uomo il quale morì e dopo venti giorni resuscitò. Il più leggiadro di questi racconti è quello dell’Egiziano, che sapeva fare d’un palo o d’un pestello un servitore che andava in piazza, spendeva, portava acqua, faceva il cotto, e tutte le faccende di casa: favola che il Goethe in una delle sue poesie ha saputo anche più illeggiadrire, e mettervi dentro un sentimento più vero. Insomma costoro che insegnavano sapienza ai giovani, ed erano fiori di senno e di dottrina, raccontano le più matte fole di fantasmi, di anime, di miracoli, con la maggior fede e serietà. Quell’uomo di senno che sta ad ascoltare, li rimbecca e li punge con frizzi e motti; ma infine non potendo più, e parendogli scortesia contraddire più oltre, e motteggiare, vassene, lasciandoli liberamente scialare delle loro corbellerie.Il dialogo è fatto con arte assai fina; i racconti sono schietti ed efficaci per modo che ti pare di essere in mezzo a quei vecchi, e udirli parlare, e vedere le cose che raccontano. Quanto è vero il guizzare del giovanetto, quando il padre, parlando della mamma già morta, gli mette una mano su la spalla! Io crederei quasi che Luciano fosse stato presente a simili discorsi in casa di qualcuno: tanto al naturale ei ritrae le persone ed i discorsi, e con quella sobrietà e snellezza che è tutta greca, e tutta sua.
Lettera Aperta a un Apprendista Stregone (Bompiani, Milano 1998) è un libro scritto nel 1998 da Aldo Carotenuto.
«La moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate».
K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista.
Günther Anders (1902-1992)
G. Anders, La metamorfosi dell’Apprendista stregone [testo del 1966 ],
in Id., L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale,
Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 369-382.
Si possono leggere e stampare le pagine del testo cliccando qui sotto:
«Si è detto che l’arte è figlia del suo tempo. Un’arte simile può solo riprodurre ciò che è già nettamente nell’aria. L’arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. Ha vita breve e muore moralmente nell’attimo in cui cambia l’atmosfera che l’ha prodotta. Anche l’altra arte, suscettibile di nuovi sviluppi, è radicata nella propria epoca, ma non si limita ad esserne un’eco e un riflesso; possiede invece una stimolante forza profetica , capace di esercitare un’influenza ampia e profonda. La vita spirituale, di cui l’arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza. Può assumere varie forme, ma conserva sempre lo stesso significato interiore, lo stesso fine. […] Allora però arriva un uomo, che ci assomiglia, ma ha in sé una misteriosa forza “visionaria”. Egli vede e fa vedere» (pp. 20-21).
«I periodi in cui […] manca il pane metaforico, sono periodi di decadenza spirituale. Le anime continuano a cadere dalle sezioni superiori a quelle inferiori […]. In queste epoche silenziose e cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali, e salutano come una grande impresa il progresso tecnico, che giova e può giovare solo al corpo. Le energie spirituali vengono sottovalutate, se non ignorate. I pochi che hanno ideali e senso critico sono scherniti o considerati anormali. Le rare anime che non sanno restare avvolte nel sonno e sentono un oscuro desiderio di spiritualità, di conoscenza e di progresso, infondono una nota di tristezza e di rimpianto nel grossolano coro materiale. La notte diventa sempre più fitta. Il grigiore si addensa intorno a queste anime tormentate e sfibrate dai dubbi e dalle paure, che spesso preferiscono un salto improvviso e violento nel buio piuttosto che una lenta oscurità. L’arte, che in tempi come quelli ha vita misera, serve solo a scopi materiali. E poiché non conosce materia delicata cerca un contenuto nella materia dura. Deve sempre riprodurre gli stessi oggetti. Il “che cosa” viene eo ipso meno; rimane solo il problema di “come” l’oggetto materiale debba essere riprodotto dall’artista. Questo problema diventa un dogma. L’arte non ha più anima. Su questa via del “come”, l’arte procede. Si specializza e diventa comprensibile solo agli artisti, che cominciano a lamentarsi dell’indifferenza del pubblico. Poiché in tempi simili l’artista medio non ha bisogno di dire molto e gli basta un minimo di “diversità” per farsi notare e osannare da certi gruppetti di mecenati e conoscitori (il che può comportare grandi vantaggi materiali), una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull’arte, che sembra cosi facile. In ogni “entro artistico” vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d’arte col cuore freddo e l’anima addormentata. La “concorrenza” cresce. La caccia spietata al successo rende la ricerca sempre più superficiale. I piccoli gruppi, che casualmente si sono sottratti a questo caos di artisti e di immagini si trincerano nelle posizioni conquistate. Il pubblico, che è rimasto arretrato, guarda senza capire, non ha interesse per un’arte simile e le volta tranquillamente le spalle» (pp. 24-25).
«In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. li colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. È chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore» p. 46).
Vasilij Vasil’evič Kandinskij,La vita spirituale nell’arte, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1989.
Prima di essere celebre, Rodin era solo. E la celebrità, una volta sopraggiunta, lo ha reso forse ancora più solo. […] L’opera di cui mi accingo a parlare è andata crescendo attraverso gli anni e cresce ogni giorno. come una foresta, incessantemente. Ci si aggira tra i suoi mille oggetti sopraffatti dalla ricchezza dei reperti e delle invenzioni che la compongono, e istintivamente si cercano le mani che hanno dato forma a questo mondo. Ci si rammènta quanto piccole siano le mani dell’uomo, come si stanchino presto e quanto sia breve il tempo loro concesso per agire. E nasce il desiderio di vedere le due mani che hanno vissuto come cento, come un popolo di mani destatosi prima dell’alba per incamminarsi sulla lunga via che conduce a quest’opera. Ci si chiede chi sia il dominatore di quelle mani. Che uomo è mai? La sua vita è una vita che non si lascia narrare. Ha avuto un inizio e procede, procede addentrandosi sempre più profondamente in una grande vecchiaia, e per noi è come se fosse trascorsa da molte centinaia di anni. Non ne sappiamo nulla. Avrà avuto un’infanzia, comune, un’infanzia povera, oscura, indagatrice e incerta. E forse ha ancora quest’infanzia, perché -come dice sant’ Agostino -dove mai potrebbe essersi persa? Forse ha ancora tutte le ore trascorse, le ore del dubbio e le lunghe ore dell’indigenza, è una vita che non ha perduto né dimenticato nulla, una vita che si è raccolta attorno al proprio fluire. Forse non ne sappiamo nulla. Ma solo da una simile vita, pensiamo, sono potute scaturire l’opulenza e la sovrabbondanza di questo operare, solo una simile vita, in cui tutto è vivo e presente nello stesso istante e nulla si è perduto, può conservarsi giovane e forte ed ergersi ripetutamente in opere somme. Forse verrà un tempo in cui per questa vita si inventerà una storia, con i suoi intrecci, con i suoi episodi, con i suoi dettagli. E saranno frutto di invenzione. Si racconterà di un bambino che spesso trascurava il cibo ritenendo più importante intagliare oggetti in un povero legno con un coltello spuntato, e nei giorni del giovane si vorrà inserire un qualche incontro implicante la promessa di una futura grandezza, una di quelle profezie a posteriori tanto popolari e commoventi. Potrebbero prestarsi adeguatamente le parole che, quasi cinquecento anni fa, si dice un monaco abbia rivolto al giovane Miche! Colombe: «Travaille, petit, regarde tout ton saoul et le clocher à jour de Saint-PoI, et les belles oeuvres des compaignons, regarde, aime le bon Dieu, et tu auras la grace des grandes choses». «E avrai la grazia delle grandi cose». Forse un sentimento interiore ha parlato così al giovane Rodin, ma con un tono infinitamente più sommesso delle parole del monaco, ad uno dei primi bivi della sua vita. Perché egli cercava proprio questo: la grazia delle grandi cose. […] Ecco dunque un compito, grande quanto il mondo. E colui che lo affrontò fissandolo con lo sguardo era uno sconosciuto dalle mani che cercavano pane, nell’oscurità. Era totalmente solo, e se fosse stato un vero sognatore avrebbe potuto sognare un sogno bello e profondo, un sogno che nessuno avrebbe compreso, uno di quei sogni interminabili sui quali una vita può scorrere con la rapidità di un giorno. Ma questo giovane uomo che si guadagnava da vivere nella manifattura di Sèvres era un sognatore il cui sogno saliva lungo le mani, e subito iniziò a dargli una forma. Sapeva da dove fosse necessario cominciare: una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Già qui si rivela il profondo accordo di Rodin con la natura, e su questo il poeta Georges Rodenbach, che lo definisce apertamente una forza naturale, ha saputo dire parole così belle. E in realtà c’è in Rodin una misteriosa pazienza che lo rende pressoché anonimo, una silenziosa, superiore longanimità, come un riflesso della grande pazienza e bontà della natura che si origina dal quasi invisibile per procedere, assorta e severa, nel suo lungo cammino verso la profusione. Anche Rodin non si misurò subito con l’albero. Iniziò dal seme, per così dire sottoterra. E questo seme crebbe verso il basso, affondò le radici sempre più nel profondo, si insediò prima di iniziare la lenta salita verso l’alto. Ci volle tempo, un lungo tempo. «Non bisogna avere fretta», diceva Rodin ai pochi amici a lui vicini, quando lo incitavano.
Rainer Maria Rilke, Rodin, trad. di C. Groff, SE, Milano 2004, pp. 13-19.
«Ogni singolo individuo che si innalza dal suo essere propriamente naturale all’esistenza spirituale trova nella lingua, nei costumi e nelle istituzioni del suo popolo una sostanza preesistente che, come accade nell’apprendimento della lingua, deve far propria. Perciò l’individuo singolo è già sempre sulla via della cultura, ha già sempre cominciato a superare la propria naturalità proprio in quanto il mondo in cui si sviluppa è un mondo formato nella lingua e nei costumi».
Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1997, pag 37.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
L’uomo che non ha musica in se stesso, che l’armonia dei suoni non commuove sa il tradimento, e la perfida frode. Le sue emozioni sono una notte cupa. I suoi pensieri un Erebo nero.
Alla musica credi, non a lui.
William Shakespeare, Il mercante di Venezia [1594-1598], Atto V.
«Il Sultano Shāhrīyār, convinto che tutte le donne fossero false ed infedeli, giurò di mettere a morte tutte le sue mogli dopo la prima notte di nozze. Ma sua moglie Shéhérazade si salvò, riuscendo ad intrattenere il suo signore con dei racconti affascinanti, raccontati in serie, per mille e una notte, cosicché il Sultano, preso dalla curiosità, procrastinava continuamente l’esecuzione della moglie, ed infine abbandonò del tutto il suo proposito. Di molte cose fantastiche gli raccontò Shahrazād, portando le parole di poeti e di canti, volando di fiaba in fiaba, e di racconto in racconto».
Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, Breve introduzione programmatica alla sua suite Shéhérazade, My Musical Life.
«Si possono cercare invano dei motivi conduttori. Al contrario, nella maggior parte dei casi, tutte queste somiglianze tra i vari motivi non sono altro che materiale puramente musicale utile per lo Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, My Musical Life.
«Componendo Shéhérazade non intendevo orientare l’ascoltatore dalla parte dove si era diretta la mia fantasia. Volevo semplicemente che avesse, se la mia musica sinfonica gli piaceva, la sensazione di un racconto orientale, non soltanto di quattro pezzi suonati l’uno dopo l’altro su temi comuni. Per tutti noi, infatti, il nome “Mille e una notte” evoca l’Oriente […] Questa composizione e altre conclusero un periodo in cui la mia orchestrazione aveva raggiunto un grado notevole di virtuosismo e di sonorità chiara, senza influenze wagneriane».
Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, My Musical Life.
«Ci sono movimenti che risvegliano il passato. Sbuccio lentamente una mela con un coltellino tascabile (un tempo si diceva coltellino da tasca), osservo come si arrotola la spirale della buccia, asciugo il succo di mela sulla lama. La mia mano ricorda la mano di mio padre, che ricorda quella di mio nonno. Non sono io, è la mano che ricorda. Non sono io, è mio nonno che sbuccia la mela. E tutti e tre la inghiottiamo contenti».
Georgi Gospodinov, Tutti i nostri corpi. Storie superbrevi, trad. di G. Dell’Agata, Voland, Roma 2020, p. 10.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Artisti come Bach e Beethoven eressero cattedrali e templi sulle vette. Io ho voluto, come dice Ibsen in un suo dramma, “costruire dimore per gli uomini, dimore in cui essi possano sentirsi felici ed a proprio agio”. In altre parole, ho trascritto la musica folcloristica della mia patria, ho cercato di ricavare un’arte nazionale da queste manifestazioni sinora non sfruttate dell’anima norvegese».
Edvard Grieg, citato in Giuseppe Passarello, Voci del tempo nostro, antologia di letture moderne e contemporanee, Società editrice internazionale, Torino, 1968, p. 746.
Edvard Grieg, Peer Gynt Suite No.1 Op. 46, H. von Karajan, Berlin Philharmonic
«Chi immagina e percepisce sé medesimo come un essere “isolato” dalla totalità degli esseri porta il concetto di individualità fino al limite della negazione, lo storce fino ad annullarne il contenuto. L’io biologico ha un certo grado di realtà: ma è sotto molti riguardi apparenza, vana petizione di principio. La vita di ognun di noi pensata come fatto per sé stante, estraniato da un decorso e da una correlazione di fatti, è concetto erroneo, è figurazione gratuita. In realtà, la vita di ognun di noi è “simbiosi con l’universo”. La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne. Ognuno di noi è limitato, su infinite direzioni, da una controparte dialettica: ognuno di noi è il no di infiniti sì, è il sÌ di infiniti no. Tra qualunque essere dello spazio meta fisico e l’io individuo (io-parvenza, io-scintilla di una tensione dialettica universale) intercede un rapporto pensabile: e dunque un rapporto di fatto».
Carlo Emilio Gadda, “L’egoista”, in I viaggi la morte, Garzanti, Milano 2001.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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