«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Non far caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizonti dove tu disegni confini».
«Se solo i nostri occhi vedessero le anime invece dei corpi, quanto sarebbe diversa la nostra idea di bellezza».
«Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai».
«Ti meriti un amore che ti voglia spettinata, con tutto e le ragioni che ti fanno alzare in fretta, con tutto e i demoni che non ti lasciano dormire. Ti meriti un amore che ti faccia sentire sicura, in grado di mangiarsi il mondo quando cammina accanto a te, che senta che i tuoi abbracci sono perfetti per la sua pelle. Ti meriti un amore che voglia ballare con te, che trovi il paradiso ogni volta che guarda nei tuoi occhi, che non si annoi mai di leggere le tue espressioni. Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti, che ti appoggi quando fai il ridicolo, che rispetti il tuo essere libero, che ti accompagni nel tuo volo, che non abbia paura di cadere. Ti meriti un amore che ti spazi via le bugie che ti porti l’illusione, il caffè e la poesia».
Frida Kahlo
Il diario di Frida Kahlo. Un autoritratto intimo, introduzione di Carlos Fuentes, a cura di Sarah M. Lowe, Leonardo, Milano 1995
Frida Kahlo, Lettere appassionate, a cura di Martha Zamora, Abscondita, Milano 2002
«La maschera per tutti è quella dell’allegro gaudente».
G. Turnaturi
«Le metamorfosi della vergogna, il suo essersi celata, corrisponde alla perdita di consapevolezza dell’interdipedenza, dell’intersoggettività, corrisponde all’affermazione patetica e illusoria di un Io solo, autonomo e senza limiti».
Gabriella Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Feltrinelli, Milano 2012.
«Tutte le emozioni sono sociali, la vergogna lo è più di tutte, perché si prova in relazione a un altro, che sia presente o assente non fa grossa differenza. Se infatti ci si vergogna rispetto a un’idea alta che si ha di sé, ci si vergogna non meno per il giudizio che ci immaginiamo che gli altri daranno di noi. La vergogna si forma sempre rispetto all’esistenza dell’altro. Partendo da qui, notiamo come uno degli elementi caratterizzanti della cultura contemporanea sia la cancellazione dell’altro. Come potrebbe essere altrimenti se l’altro è vissuto come un impedimento alla nostra realizzazione? Qui neoliberismo, individualismo, senso moderno della vergogna e cancellazione dell’altro si tengono assieme: conta l’affermazione narcisistica di sé, non c’è spazio per la vergogna. Poiché la vergogna fa da sentinella alla solidità del legame sociale, ci dice quanto forte esso sia, deduciamo che oggi esso è molto indebolito. Il che non significa che si debba tornare alla società della gogna e che non vadano respinti metodi come quello dello shaming, il marchiare visibilmente chi è reo di certi reati, affiggendo cartelli sull’auto o sulla casa».
«È la vergogna collettiva. Se attraverso un dibattito pubblico un popolo tematizza quella che è stata una vergogna nazionale, il risultato può essere non semplicemente la memoria di ciò che è stato, in luogo dell’oblio, ma anche la possibilità di immaginare insieme un futuro alternativo. Dove manca questa operazione di assunzione di responsabilità del passato, inclusa l’accettazione della vergogna, si fatica a dipingere un futuro comune e senza ombre. L’Italia, ad esempio, non ha mai tematizzato la vergogna delle leggi razziali, ha sempre cercato di minimizzare la portata dell’evento, con l’effetto di non creare una forma di tutela dalla possibile rinascita di altre forme di razzismo. Diffido dei riti collettivi di espiazione, mentre è necessaria una elaborazione culturale, sincera, nella quale ciascuno si assume le proprie responsabilità».
Risvolto di copertina
“Non c’è più vergogna”, così almeno si dice, e si tende a pensare che con la vergogna sia venuto meno anche ogni senso della dignità e dell’onore. Ma le emozioni non scompaiono, tutt’al più si trasformano. Muta il modo di esprimerle, muta la loro rilevanza individuale e sociale. Allora dove si è nascosta e quali forme assume oggi la vergogna? Mai come negli ultimi anni, soprattutto in Italia, si è fatto ricorso alla parola “vergogna”, ma questa ha perso ogni sua connotazione semantica. Non si sa più che cosa significhi e diviene l’ultimo insulto alla moda contro avversari politici, concorrenti in affari, nemici, comunque gli altri. Di fatto non esistono società senza vergogna, poiché è un’emozione fondamentale per i legami sociali, ma anche per l’esercizio del potere. In questo volume si analizza come, nella società contemporanea, la frammentazione dell’insieme sociale, la spettacolarizzazione, l’iperindividualismo misto al nuovo conformismo del “così fan tutti” hanno dato vita a una sorta di vergogna “fai-da-te”. Emozione che sembra nascere non dalle azioni che si compiono ma solo in rapporto alle prestazioni, al timore di risultare inadeguati nell’esibizione di sé. Gabriella Turnaturi, attraverso l’analisi di fatti di cronaca, testi letterari, film, interviste, svela i molti volti della vergogna contemporanea in relazione ai mutamenti delle sensibilità e dei valori condivisi, e ne indica un possibile uso positivo.
Bibliografia
Lorenzo Bruni, Vergogna. Un’emozione socialedialettica, Orthotes, Napoli-Salerno, 2016.
Anna Maria Pandolfi, La vergogna, Franco Angeli, 2002
Krishnananda, Amana,Vincere la vergogna,ed Apogeo,
Amato L. Fargoli, Non c’è più vergogna nella cultura, ed Alpes Italia, 2012
A. Battacchi,Vergogna e senso di colpa, ed. Cortina, 2002
A. Ernaux,La vergogna,ed L’Orma, 2018
G. Turnaturi,Vergogna. Metamorfosi di un’emozione,ed Feltrinelli, 2002
L. Anolli, La vergogna, Il Mulino, 2000
V. D’Urso, Imbarazzo, vergogna ed altri affanni, Raffaello Cortina, 1990
M. A. Fossum., M. J. Mason, Il sentimento della vergogna, Astrolabio, 1987
L’amore è una potenza e non un sentimento. Si impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L’amore è una potenza dell’universo, nella misura in cui l’universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l’amore «supera» la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l’amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.
L’amore brucia, colpisce l’infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall’assoluta assenza di mondo (= spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell’amore. Se l’amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L’eternità dell’amore può esistere soltanto nell’assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» – ma non perché allora io non «vivrò» più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli «abbandonati», non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.
In quanto potenza universale (dell’universo) della vita, l’amore non ha propriamente una origine umana. Nulla ci inserisce in modo sicuro e inesorabile nell’universo vivente più dell’amore, al quale nessuno può sfuggire. Appena però questa potenza si impadronisce dell’uomo e lo getta verso un altro e brucia l’infra del mondo e del suo spazio fra i due, proprio l’amore diventa «ciò che vi è di più umano» nell’uomo, ovvero un’umanità che persiste senza mondo, senza oggetto (l’amato non è mai oggetto), senza spazio. L’amore consuma, consuma il mondo, e dà un’idea di che cosa sarebbe un uomo senza mondo. (Perciò lo si pensa spesso in relazione a una vita in «un altro mondo», ovvero inuna vita senza mondo.)
L’amore è una vita senza mondo. In quanto tale, si manifesta come creatore di mondo; esso crea, genera un mondo nuovo. Ogni amore è l’inizio di un mondo nuovo; è questa la sua grandezza e la sua tragedia. Infatti, in questo mondo nuovo, nella misura in cui non è soltanto nuovo, ma anche appunto mondo, l’amore soccombe.
L’amore è dunque in primo luogo la potenza della vita; noi apparteniamo al vivente poiché sottostiamo a questa potenza. Chi non ha mai subito questa potenza non vive, non appartiene al vivente. In secondo luogo, esso è il principio che distrugge il mondo e indica così che l’uomo è ancora senza mondo, che egli è «più» del mondo, benché senza mondo non possa durare. Così, l’amore rivela proprio ciò che è specificamente umano nell’universo vivente. Il discorso degli amanti è così vicino alla poesia perché è il discorso puramente umano. E, in terzo luogo, l’amore è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte, o ne è il vero e proprio principio opposto. Soltanto perché crea esso stesso un mondo nuovo, l’amore rimane (oppure sono gli amanti che tornano indietro) nel mondo. L’amore senza figli o senza un mondo nuovo è sempre distruttivo (antipolitico!); ma proprio allora produce ciò che è propriamente umano in tutta la sua purezza.
Hannah Arendt, Quaderni e diari 1950-1973, Quaderno XVI, Maggio 1953-giugno 1953, Neri Pozza, 2007.
Quarta di copertina
Dal giugno del 1950 al luglio del 1971 (per il 1972-1973 non ci restano che itinerari di viaggio) Hannah Arendt annota pensieri e appunti in 29 quaderni ai quali si riferirà col termine inglese notebooks (o, secondo una comunicazione orale di Lotte Köhler, col termine tedesco Denktagebuch, diario di pensiero). Non di diari in senso tecnico si tratta, ma di quaderni di lavoro, in cui i temi fondamentali del suo pensiero si confrontano di volta in volta con gli autori che più ne hanno segnato la formazione e lo svolgimento, da Platone a Kant, da Aristotele a Marx, da Hegel a Kafka. Decisiva è, nei quaderni, la presenza degli amici e maestri, di Jaspers, Mary McCarthy, del marito Heinrich Blücher, ma soprattutto di Martin Heidegger (è un caso che il diario cominci due mesi dopo il ritorno dal viaggio in Europa, che segna il primo significativo incontro col maestro ed amante dopo l’esilio di Arendt dalla Germania nel 1933 e si chiuda nel luglio 1971, pochi mesi dopo l’incontro con Heidegger a Friburgo, quando il filosofo traccia sul quaderno la parola Ent-sagen, rinuncia?). Ciò che fa di questi quaderni un documento assolutamente incomparabile è non soltanto che essi ci permettono di penetrare nell’officina di pensiero di Arendt e di seguirne come su un giornale di bordo insistenze e deviazioni, arresti e accensioni, «presagi e ripensamenti»; ma soprattutto che, al di là dello spazio pubblico a cui siamo abituati ad associare il pensiero di Arendt, essi ci introducono in una dimensione né pubblica né privata, che un’annotazione folgorante del novembre 1969 ci presenta come il luogo stesso del pensiero: «Il luogo del pensiero: non è nello spazio pubblico, in cui abbiamo a che fare con il mondo e con ciò che abbiamo in comune, né in quello privato, in cui abbiamo a che fare con ciò che ci appartiene e con ciò che vogliamo nascondere al mondo, e non è nemmeno nell’ambito sociale. Allora: dove? Nel deserto?»
Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.
Il trionfo della malinconia. La parola – nella sua essenza umana – è festa della vita. Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo, luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere.
Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico, muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico.
La festa è prassi, attività, agere politico poiché muove nella direzione comunitaria.
L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi, per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità.
La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.
Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione, poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro.
La “festa” è il luogo del ricordo vivo, mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo, l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza.
Il capitalismo assoluto è il trionfo della malinconia. Dietro la facciata orgiastica dei consumi, non vi è che il regno delle passioni tristi che depotenziano la creatività umana e la prassi storica. Il capitalismo neoliberista procede per annientamento, trasforma ogni esperienza umana in plusvalore con l’effetto di astrarre l’elemento essenziale dell’esperienza, “la relazione comunitaria”, per sostituirla con il calcolo, col saccheggio predatorio: affinché ciò possa avvenire, agisce sulle parole rendendole organiche al capitale.
La manipolazione delle parole svela la verità del capitalismo assoluto, esse sono il mezzo con cui stringere i lacci dell’oppressione. “Il fenomenismo delle parole” fa apparire la libertà e la democrazia come esperienze individualistiche e crematistiche:[1] riduce le attività umane a soli fini privati negando la pubblica partecipazione vera sostanza della democrazia. Le parole usate, svuotandone il “loro senso”, dimostrano che il capitalismo è esperienza di consumo, ma non di festa. Quest’ultima vive nell’esperienza disinteressata, è la forma emozionale e razionale dell’emancipazione dall’utile, dalla fatica della coercizione inclusiva. La parola – nella festa – è incontro, è pensiero che argomenta per elaborare concetti, con i quali il mondo “emerge” dalla caverna dell’ignoranza e della negazione. Non è un caso che il capitalismo ami gli “acronimi”, deve celare l’evidenza con “formule linguistiche” senza trasparenza. La lingua germinatrice di vita e pensiero è stata sostituita dalla “lingua tracciabile” dei replicanti, non più pensiero, ma semplice opinione ripetuta senza argomentazione. Il surrogato della parola è la chiacchiera (Gerede) senza pensiero. Le parole dominanti sono i significati frecciati delle classi dominanti: il potere ha le sue parole con cui cannibalizza la semantica delle culture. Il lessico del potere si insedia nelle menti dei dominati per diventarne la gabbia d’acciaio entro cui il prigioniero lessicale deve muoversi. Le parole allora divengono vincoli che irretiscono e delineano i filtri sociali ed individuai: costruiscono percezioni, azioni, orizzonti orientati all’utile privato. Il mondo è osservato da una feritoia, si è sempre pronti all’attacco ed alla difesa.
La parola – nella sua essenza umana – è, invece, festa della vita, poiché permette di approssimarsi ai problemi per condividerli e decodificarli: dove c’è lingua, ci sono ricerca e comunità:[2]
«SOCRATE: Phronesis (‘senno’); è infatti ‘intendimento di movimento e di corrente’, phoras kai rou noesis. Ma sarebbe possibile intenderlo anche come utilità di movimento, onesis phoras. Dunque riguarda sempre il pheresthai (‘essere portato’, ‘muoversi’). E se vuoi, la gnome (‘discernimento’) significa sostanzialmente gones skepis (‘indagine’, ‘studio di generazione): infatti noman (‘studiare’) e skopein (‘investigare’, ‘ricercare’) significano la stessa cosa. Del resto, se vuoi, lo stesso vocabolo noesis è neou esis (‘tendenza al nuovo’), e il fatto che le cose esistenti siano nuove significa che sono generate in continuità. Chi dunque assegnò il nome di noesis, ha voluto significare che l’anima tende sempre al nuovo; infatti anticamente non veniva chiamata noesis, ma invece dell’eta bisognava pronunciare due epsilon: noeesis. Sophrosune (‘saggezza’), poi, è salvezza di quello che abbiamo esaminato or ora, cioè della phronesis (‘senno’). E episteme (‘scienza’, ‘conoscenza’) significa che l’anima, quella degna di considerazione, tiene dietro, hepetai, alle cose che sono in movimento e non le lascia indietro e nemmeno corre loro innanzi. Noi perciò introducendo una e bisogna che la chiamiamo epeisteme. Synesis (‘intelligenza ‘,’comprensione’) a sua volta parrebbe, grosso modo, equivalere a sylloghismos (‘ragionamento’, ‘conclusione’); e dunque quando si dice synienai accade di dire proprio lo stesso che epistasthai (‘comprendere’). Synienai infatti vuol dire che l’anima avanza insieme con le cose. Sophia (‘saggezza’), poi, [Platone, Cratilo, 16] significa ephaptesthai phoras (‘toccare il movimento’), ma è un termine alquanto oscuro e strano. Ma occorre pure ricordarsi che i poeti, assai spesso, quando si imbattono in qualcuna di quelle cose che cominciano ad avanzare rapidamente, dicono esythe (‘balzò su’). Uno spartano, tra i più illustri, aveva nome Sous, vocabolo questo che gli Spartani chiamano il movimento rapido».
Festa Vi è “festa[3]” dove vi è comunità senza monismo. La festa è relazione donante tra soggetti che si riconoscono in un’esperienza comune. Non vi è festa nella società dello spettacolo, ma solo divisione, affermazione narcisistica dell’io astratto, scisso dal tutto, che corre sul palcoscenico per l’ultimo cono di luce. Tutto si oscura intorno a lui, le ombre abitano l’esibizione. Non è un caso, se l’asticella della spettacolarizzazione dell’io, del narcisismo, per poter attrarre e vendere deve alzare di volta in volta l’asticella della trasgressione, fino a trasformarsi in tragedia etica ed umana. Lo spettacolo trasforma ogni festa in occasione di affermazione, competizione, plusvalore. Ogni evento mascherato da festa non lascia ai partecipanti che una sottile malinconia, poiché si maschera per “focolare comune”, una sua volgare copia: anche il dolore è festa, se vi è condivisione. Senza l’accoglienza dell’altro, senza lo sguardo che si fa altro non si conosce se stessi: la festa è disvelamento di sé. Essa è l’essenza del comunismo comunitario: la parola comunismo deriva dal latino commūnis («comune», «pubblico» e «che appartiene a tutti»): la festa è l’esodo dall’alienazione e pertanto è emancipazione, è il luogo nel quale lo scorrere del tempo ha un nuovo inizio. La festa assume, così, la dimensione della gioia dalla quale non si esce eguali. Non vi è festa è senza teoria,[4] senza pratica del concetto che dispone al riorientamento gestaltico. Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo, in cui i partecipanti sono mezzi per un unico fine: il plusvalore. Lo spettacolo[5] è il luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere. Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico, muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico negando, in tal modo, la prassi: in esso ogni esperienza è all’interno delle maglie dell’economicismo che come una cappa di piombo scende per lasciare, dietro gli splendori e gli abbagli dell’immediato, un senso di tristezza. Il totalitarismo dell’individuo,[6] la sua tirannide, non conosce la festa, ma solo l’illimitatezza e la solitudine nella moltitudine: non vi è scambio simbolico, ma solo il chiasso che silenzia la partecipazione/festa.
La festa secondo Aldo Capitini Aldo Capitini, il primo in Italia ad aver utilizzato la bandiera arcobaleno della pace, il 24 Settembre 1962 nel corso della marcia Perugia-Assisi. Nelle sue opere tratta della festa. Essa è un momento maieutico e partecipativo. Non vi è giustapposizione, ma incontro, in cui tutti scoprono di essere importanti con la loro semplice presenza. Ogni storia umana col suo mistero può donare il suo contributo alla comunità, in quanto ogni prospettiva coglie ed accoglie un frammento dell’infinita verità. La festa per Aldo Capitini è l’omnicrazia, il potere di tutti, in cui le parole circolano per essere ascoltate; il potere è nella festa, nella collettiva tensione per capire e proporre; è il luogo della compresenza, ovvero della partecipazione empatica e razionale di ciascuno alla vita della comunità:[7]
«La piena realizzazione della compresenza e dell’omnicrazia è la festa, la festa per tutti. L’apertura ad esse ne è la visione. La festa è la celebrazione e il godimento per la rimozione di tutto ciò che impedisce la compresenza e l’omicrazia».
La festa è prassi, attività, agere politico poiché ci si muove nella direzione comunitaria, e ciò può avvenire solo se i partecipanti rimuovono le sovrastrutture che impediscono la partecipazione e l’espressione del sé profondo.
L’homo faber L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi, per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità, ma fa del suo lavoro un mezzo di divisione, uno strumento attraverso il quale rimarcare la sua affermazione sugli altri esseri umani: è interno alla legge della giungla. L’homo faber fa del lavoro un’esperienza muscolare, si astrae dal mondo della vita. I successi divengono sottili esperienze della lontananza non solo dall’umanità, ma anche da se stesso: disperso nei ritmi lavorativi, come un orcio bucato non è mai gratificato, in quanto gradualmente diventa parte meccanica di un sistema che non controlla. Non ha potere alcuno sulla sua vita, sul sistema di cui è solo il famulo triste ed arrabbiato:[8]
«Noi siamo ancora sotto l’influenza dell’isolamento che è stato fatto negli ultimi secoli, e con grande sviluppo teorico e pratico, del fatto del lavoro, o homo faber: tutto il resto è passato in secondo piano, e si è visto nel lavoro l’espressione più concreta della personalità umana e il modo più serio per costituirla e per contrapporla alla personalità di “chi non fa”».
La terza rivoluzione Per Aldo Capitini ci sono le condizioni culturali e tecniche, affinché si possa andare oltre gli schemi ideologici del novecento. Nessuna alienazione sarà superata se gli esseri umani non si riapproprieranno della dimensione della festa, della compresenza e della omnicrazia: il trittico semantico prospetta un quotidiano in cui la prassi modifica le strutture istituzionali e lavorative. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto. Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione, poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro, l’io incontra il tu senza monismo o universalismi che discendono, estranei e minacciosi, dall’alto. La festa è la luce terrena che irrora le vite, le lega secondo geometrie sempre nuove. La festa di Aldo Capitini è impegno, assunzione di responsabilità e cura dell’altro. L’io si magnifica, si infinitizza per ritrovarsi. Se la formazione e l’educazione non prevedono un percorso di tal genere, il lavoro come il potere continueranno ad essere esperienza della separazione, della competizione che scava solchi per indurre gli esseri umani a vivere da estranei, ed a rafforzare le logiche di dominio:[9]
«La festa così diventa il sostegno più profondo del lavoro e del tempo libero, e come impostata con essi, un elemento, come una luce, che li accompagna e li irrora. Prendere il lavoro come non ci fosse tutto questo, ha portato ad assolutizzazioni che si son viste insufficienti. Non che mi sfugga quel molto della civiltà che è connesso con esse, ma bisogna aver anche il coraggio di cogliere le svolte della civiltà. In nome dell’uomo come “cittadino” e dell’uomo come “lavoratore”, sono state fatte due rivoluzioni: ma noi oggi possiamo cogliere che l’uomo, in quanto connesso con la compresenza e con l’onnicrazia, è anche altro e questo altro diventa un protomovimento, a suo modo, dell’esser cittadino e dell’esser lavoratore; perché, sulla base di questo altro di questo elemento celebrato nella festa, il cittadino diventa appassionatamente aperto al potere di tutti e il lavoro viene aperto al contributo che da ogni essere viene alla produzione dei valori, che è la forma più alta del lavoro».
Trascendere la tecnocrazia Aldo Capitini intende la omnicrazia non solo come esperienza di partecipazione attiva dal basso, ma anche come educazione che consenta a tutti di partecipare e controllare le operazioni tecniche imprescindibili per il benessere delle comunità. “Festa” è non subire il potere tecnico, ma comprenderlo e saperlo vivere, e specialmente non “pensare” in modo unicamente computazionale. A tal fine Aldo Capitini propone una formazione tecnica che possa facilitare l’accesso a chiunque, per brevi periodi, a ruoli dirigenziali e tecnici per evitare la formazione di oligarchie tecnocratiche. Ciò è possibile, in quanto le tecnologie stanno sviluppando sistemi che in quanto automatizzati sono più semplici nell’uso con l’effetto di permettere ad un numero sempre più ampio di persone l’accesso a funzioni sociali di rilievo:[10]
«Se il dominio di un processo meccanico è possibile con poca fatica e con poche conoscenze, sarà possibile estendere a moltissimi tali compiti, almeno per brevi periodi a turno. Tutti potremmo alternarci in certi servizi pubblici, se estremamente esemplificati nel congegno direttivo. […] D’altra parte nella scuola dovremmo apprendere, tutti, una certa cultura politecnica che ci renda atti, domani, ad esercitare temporaneamente certe funzioni tecniche o a dirigerle, se avremo imparato le strutture dei vari campi dell’amministrazione della vita».
Educazione permanente L’educazione permanente, la crescita formativa di ciascuno è attività interna al potere. Le assemblee sono la libera discussione, dove si realizza lo scambio di informazioni, e ognuno è di ausilio all’altro nei processi di concettualizzazione e liberazione dai pregiudizi. La festa entra nel potere e nel processo formativo, non nella forma della esemplificazione, del divertimento[11] perenne, quale fuga dai contenuti e dalle difficoltà, ma nella parola che diviene dialogo per comunicare e motivare a trascendere resistenze ideologiche e stereotipi:[12]
«Inoltre l’apertura all’omnicrazia, che è l’esercizio continuamente costruttivo delle assemblee, spinge pressantemente all’educazione permanente, perché le assemblee affrontano problemi, e i problemi bisogna conoscerli, approfondirli, vederne i precedenti, i riferimenti, le soluzioni proposte. Valori e problemi vengono così a costituire la sostanza sempre viva di un’educazione permanente coltivata è sperabile dal più largo numero di esseri viventi».
La “festa” è il luogo del ricordo vivo, mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo, l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza:[13]
«La realtà sorge nello spettacolo, e lospettacolo è reale».
La festa e l’omnicrazia conseguenti sono un disporsi su più direttrici temporali: il senso necessita della compresenza, ma anche di un ponte teso tra passato e futuro, solo in questo modo il soggetto assume concretezza, in quanto è parte di una storia che si orienta verso il possibile. La società dello spettacolo, invece, è il regno della tirannia dell’individuo astratto che annichilisce la libertà e la comunità. L’individuo senza comunità trasforma la libertà giuridica in esperienza di violenza dalle mille forme: dalla seduzione a tutti i costi, al desiderio acquisitivo senza limiti. Il regno della tirannia dell’individuo, si connota per la sua generale regressione infantile di massa, si attende che il mondo soddisfi e si pieghi ai desideri di ciascuno. Non vi è festa, non vi è comunità, ma solo l’inquietudine del desiderio senza misura, la tristezza della lotta e della perenne frustrazione.
Che fare? L’intellettuale in un periodo storico di passività e senza attesa ha il dovere di ricordare che la storia è un processo di prassi ed ideologie, che l’improbabile può prendere forma, se i popoli, le comunità, le classi sociali si mettono in cammino. La “festa” non è terminata come la non lo è la storia. La festa e la storia respinte e rimosse possono tornare, se anche le parole degli intellettuali ritornano a far circolare con la critica sociale anche una visione del mondo che apra a nuovi scenari. Perché questo possa avvenire non è necessario che gli intellettuali assumano il ruolo dei depositari della verità, ma a loro spetta il compito di fessurare la cappa del velo dell’ignoranza generato dall’ipertrofia della disinformazione mediatica per mostrare la verità storica del presente. Senza la memoria, dunque, non vi lotta, pertanto il dovere primo è guardare alla storia da cui trarre motivazione e speranza per il futuro.
L’intellettuale che ha trasformato il proprio ruolo ad una banale professione, ha rinunciato alla propria vocazione all’impegno e alla verità. L’intellettuale clericale è parte del problema e sintomo del conformismo operante. La memoria storica può ritrovare la sua forza plastica solo nell’intellettuale che non fa della propria attività un semplice mezzo per fini soggettivi. Alla festa ci si avvicina solo nella rinuncia alla servitù dell’utile personale e collettivo:[14]
«Diversa è la minaccia che oggi incombe sugli intellettuali in ogni parte del mondo: non l’accademia né il voler vivere periferici né l’esecrabile spirito commerciale del giornalismo e dell’editoria, bensì un atteggiamento che definirei professionale. Di chi, cioè, pensa di svolgere il proprio compito come un’attività lavorativa qualsiasi, tra le nove del mattino e le cinque di sera, tenendo d’occhio l’orologio ma con qualche ammiccamento al corretto stile del presunto vero professionista: non creare incidenti, non scostarsi dai modelli e dai limiti convenzionati, mostrarsi disponibili al mercato e, soprattutto, mantenere il doveroso contegno: non prestando mai il fianco, non scendendo sul terreno della politica, mantenendosi ”oggettivi”».
La festa e la comunità sono un binomio possibile solo nella rinuncia a ciò che Costanzo Preve definiva “centrismo furbesco” in Il popolo al potere. L’intellettuale ed il cittadino sempre disponibili al compromesso non producono che estraneità e sfiducia, e specialmente rafforzano l’oligarchia al potere, in tal modo, “moralmente legittimata”. Si consolida la malinconia del “politicamente corretto” senza speranza. La democrazia è un “campo di battaglia” (Kampfplatz), alla “festa” si arriva, solo se si attraversa la fatica del concetto ed il rischio dell’esodo. “La capacità di secessione” è il punto di inizio dialettico senza il quale non si realizza la democrazia. Gli intellettuali potrebbero essere parte essenziale di questo processo, loro compito è favorire la partecipazione, oggi neutralizzata dalla disinformazione organizzata. Devono riportare al centro della discussione politica la formazione senza la quale la democrazia e la comunità non sono che presenze formali e non sostanziali.
Salvatore Bravo
[1]Crematistica, dal greco τὰ χρήματα (ta chrèmata) “ricchezze”.
[2] Platone, Cratilo, Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi, pp. 14-15.
[3]Festa da Festum o dies festus = giorno di festa, o dal greco festiao o estiao, indica, in entrambi i casi, l’atto di accogliere presso il focolare domestico.
[4]Teoria da da thea spettacolo, da cui anche “teatro”, e horan osservare: nei due sensi, corteo appariscente e angolo di osservazione.
[5]Spettacolo da latino spectacŭlum, der. di spectare «guardare».
[6]Individuo dal latino individuus, parola composta dal prefisso in – privativo e dividuus, «diviso».
[7] Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. pag. 108.
SOCIÉTÉS DE PRODUCTION: Columbia Pictures, American Zoetrope, Tohokushinsha Film Corporation.
DATE DE SORTIE: 24 mai 2006.
METTEUSE EN SCÈNE: Sofia Coppola. Sofia Coppola est née le 14 mai 1971 à New York et elle est la fille du réalisateur Francis Ford Coppola. Elle a étudié au Mills College et puis au California Institute of the Arts. Elle a organisé des séances de photos et elle a créé sa propre ligne de vêtements. Sofia Coppola se fait connaître comme réalisatrice avec ses trois premiers films étant Lick the Star (1996), Virgin Suicides (1999) et Lost in Translation (2003), qui rencontrent les faveurs de la critique et du public. Le film Lost in Translation remporte l’Oscar du meilleur scénario original et trois Golden Globes. En 2006 elle réalise le film biographique Marie-Antoinette basé sur la vie de Marie-Antoinette d’Autriche et obtient beaucoup de succès. Sofia Coppola est considérée comme une icône de la culture populaire par le milieu du rock et du cinéma indépendants.
EPOQUE: XVIIIe siècle,1770-1789.
LIEUX: Château de Versailles, jardins des Versailles, Petit Trianon, chapelle du château de Versailles, Autriche, forêt.
PERSONNAGES: La protagoniste du film est Marie-Antoinette. Les personnages principaux sont Louis XV, Louis XVI, Marie-Thérèse de Habsbourg. Les personnages secondaires sont: la comtesse du Barry (favorite du Roi), l’empereur Joseph de Lorraine (frère de Marie-Antoinette), le compte Fersen (compte suédois et amant de la Reine), la princesse de Lamballe et la duchesse de Polignac, (favorites de la Reine), Marie-Thérèse de France (fille de Louis XVI et Marie Antoinette), l’ambassadeur Mercy, le duc de Choiseul (chef de gouvernement chez Louis XV), le compte Vergennes (secrétaire des affaires étrangères de Louis XVI), la comtesse de Provence.
INTRIGUE: Fille de François Ier de Lorraine, empereur du Saint-Empire romain germanique, et de Marie-Thérèse de Habsbourg, archiduchesse d’Autriche, Marie-Antoinette apprend, à l’âge de quatorze ans, qu’elle doit se marier à Louis Auguste de Bourbon, le futur Louis XVI, et donc elle quitte la France pour l’Autriche. Marie-Thérèse de Habsbourg utilise le mariage de sa fille pour sa politique diplomatique et donc pour réconcilier les Maisons d’Autriche et de France après des siècles de guerre. À son arrivée à la frontière elle est obligée à se séparer de tout ce qui appartient à l’Autriche, comme sa robe et son petit chien. Puis elle connait le dauphin, son futur mari, et elle est accueillie à la cour de Versailles. La jeune dauphine épouse dans la Chapelle Royale du Château de Versailles Louis Auguste de Bourbon et elle devient la première femme de la cour, mais elle montre des difficultés à se rapporter avec l’aristocratie et à s’adapter aux usages français et de Versailles, comme par exemple le cérémonial du lever. Elle ignore Madame du Barry, la favorite du Roi, et elle n’est pas heureuse au sein de la cour de France, car est considérée comme une étrangère et se sent délaissée par son époux, qui lui préfère aller chasser. Elle reçoit beaucoup de pression pour la consommation du mariage, même par sa mère, qui lui écrit régulièrement et lui rappelle que sa place ne sera assurée qu’après la conception d’un héritier. Louis XV cherche de régler la situation en appelant le docteur pour visiter le jeune couple, mais les nuits se succèdent et il n’arrive rien. Marie-Antoinette est frustrée à cause des rumeurs qui circulent à la cour, donc elle se réfugie dans l’insouciance et les frivolités en compagnie de la princesse de Lamballe et de la duchesse de Polignac. Profitant d’une vie luxueuse, elle s’orne des bijoux et des riches vêtements, elle boit, joue de hasard et participe aux fêtes. Lorsqu’elle se rend à Paris pour un bal masqué, elle fait la connaissance du Compte Fersen, de l’armée suédoise. À leur retour de Paris le dauphin et la dauphine découvrent que le Roi a attrapé la petite vérole. À la mort de Louis XV, son fils Louis Auguste devient Roi de France, et donc Marie-Antoinette Reine. Toutefois le mariage n’a toujours pas été consommé et l’absence d’héritier fragilise la pérennité de la dynastie. Marie-Antoinette continue à dépenser et à faire la fête jusqu’au petit matin, tandis que Louis décide d’aider les américains pour leur révolution sans se rendre compte quel les impôts étouffent son peuple. L’empereur Joseph arrive à Versailles pour rendre visite à sa sœur, envoyé par Marie-Thérèse de Habsbourg craignant pour la survie de l’alliance franco-autrichienne et que sa fille puisse être répudiée. Un an plus tard le couple donne naissance à son première fille Marie-Thérèse Charlotte de France. Ensuite la Reine commence à passer du temps dans le nouveau hameau de la Reine dans le Petit Trianon avec ses amies et ses prétendants, en effet au bal pour les soldats qui ont combattu aux Amériques elle rencontre le Compte Fersen et plus tard ils deviennent amants. Les caisses sont vides et le peuple souffre de la famine; par conséquent on voit s’accumuler des pamphlets contre la Reine, laquelle se dédie à une vie de plaisirs et de somptuosité. Plus tard elle donne naissance au dauphin de France. Les crises successives du régime et la banqueroute du Royaume précipitent les événements révolutionnaires et intensifient la campagne de désacralisation de la Reine. La sécurité du couple royal n’est plus assurée, mais le Roi refuse de s’enfuir de Versailles et la Reine reste à ses côtés. Peu après la foule irrépressible les force à quitter à jamais le château de Versailles.
THÈMES: Tout d’abord le film illustre la pratique diplomatique du mariage forcé utilisé comme alliance politique et très diffusé à l’époque de l’absolutisme. En effet les souverains épousaient leurs enfants avec ceux d’une autre puissance politique pour sceller des alliances ou se réconcilier.
Le film se déroule à Versailles et donc il a comme toile de fond la vie à la cour. À la cour de Versailles était imposée l’étiquette, c’est-à-dire l’ensemble des règles et des comportements à suivre, organisant la vie de la famille royale, des courtisans et des favoris. En France l’étiquette s’est développée à partir du règne de François I, mais elle a connu son apogée et sa forme plus codifiée à l’époque de Louis XIV. La vie du roi était une cérémonie constante; à l’intérieur du palais presque toutes les chambres étaient ouvertes au public, incluse la chambre à coucher du roi. Au matin il y avait deux cérémonies pour réveiller le roi, le «Petit Lever» et puis le «Grand Lever», où des nobles avaient le privilège d’habiller le roi. À la cérémonie du «Grand Couvert» le roi avait sur la table vingt plats à choisir et il était entouré des courtisans, qui assistaient à la scène. Au moment de se coucher il y avait le même cérémonial qu’au lever. À cette époque, la cour d’Autriche possède une étiquette beaucoup moins stricte que celle de Versailles: les danses y sont moins complexes, le luxe y est moindre et la foule moins nombreuse. Par conséquent Marie-Antoinette montre aussitôt beaucoup de difficultés à s’adapter aux usages français car elle déteste ce code rigide qui envahit son intimité et elle trouve toutes ces cérémonies ridicules. Elle se moque de sa dame d’honneur la comtesse de Noailles, qui se charge de manière stricte aux parfaits accomplissements de l’étiquette.
Les courtisans ont des privilèges et des avantages financiers, mais aussi des devoirs car leur vie quotidienne est réglée par l’étiquette, qui précise la possibilité d’assister à certaines cérémonies, l’ordre et l’horaire d’arrivée dans les pièces, les habits qu’on peut porter… En échange de leur fidélité et docilité, les courtisans reçoivent une pension royale et ils ont beaucoup de divertissements car ils peuvent participer à des fêtes somptueuses, à la chasse, au jeu de hasard, aux concerts, aux représentations de danse et de théâtre, qui ont lieu plusieurs soirs par semaine, mais aussi des manifestations officielles à l’occasion de naissances, mariages ou anniversaires (comme on peut voir dans le film lors du mariage du dauphin et de la dauphine, de l’anniversaire de Marie-Antoinette ou de la naissance de Marie-Thérèse de France). Pour être à l’abri à la cour il fallait toujours se garder fidèles au Roi et cette situation renforçait l’autorité royale qui pouvait ainsi contrôler la noblesse du royaume, aspirant à accroître son pouvoir, et combattre des éventuels complots et conspirations contre elle. Un autre rôle important est celui joué par les favoris et les favorites à la cour, qui étaient des personnes de confiance, des amis intimes, des maîtresses ou amants dans les bonnes grâces du Roi ou de la Reine. Le Roi (aussi bien la Reine) pouvait offrir le statut de favorite à sa maîtresse préférée et cette courtisane bénéficiait d’avantages et de la faveur du souverain, mais elle avait aussi une influence sur les domaines des arts et de la politique (comme on peut voir du personnage de Madame du Barry, favorite de Louis XV, dans le film). Les favorites étaient aussi des amies et confidentes de la souveraine, comme par exemple la princesse de Lamballe et la duchesse de Polignac pour Marie-Antoinette.
Le contexte du film décrit l’absolutisme, le système politique considéré comme le plus parfait à l’époque, où le Roi tient son pouvoir de Dieu, et souligne l’importance des héritiers du trône. Comme les femmes étaient exclues de la succession, la présence d’un héritier direct assurait la continuation de la dynastie royale sans problème. La Reine donc était chargée de donner au Roi et à la France une descendance masculine, un dauphin. Un héritier pouvait être aussi un moyen pour assurer une position et un mariage d’alliance, comme dans le cas de Marie-Antoinette pressée par sa famille autrichienne et par la cour française à la consommation du mariage. Le Roi gère les affaires de l’état entouré et aidé par ses ministres, nommés par lui-même, et parfois exerçants une forte influence sur lui, comme on peut voir de la personnalité timide de Louis XVI dans le film, qui est complètement dirigée par eux. Le Roi subit aussi l’influence de son épouse, laquelle se dédie à un vie de folles dépenses, sans s’occuper de mauvaises conditions du peuple. Le film montre comme la Reine en dépensant sans compter en vêtements, chaussures, perruques, tissus, bijoux, décorations de ses appartements, gâteaux et pâtisseries, devient vite impopulaire et détestée par le peuple, comme le témoignent les rumeurs, les surnoms dévalorisants et les pamphlets contre elle. Tout ce faste et luxe renvoie à l’esthétique baroque du XVIIIe siècle, car il veut souligner la puissance de la royauté, mais il marque l’écart avec le peuple.
Par ailleurs on peut remarquer la forte différence entre classes sociales au XVIIIe en France. La famille royale et les courtisans vivent dans le faste et le luxe de la cour et la noblesse, c’est-à-dire le 2% de la population, et le clergé, l’1% de la population, détiennent tous les privilèges parce qu’ils ne paient pas les impôts et ils prélèvent pour leur compte de lourdes taxes chez les paysans. Par contre le Tiers État, c’est-à-dire tout le reste de la nation, est étouffé par des impôts très élevés et vit dans la misère, la famine, le dénuement. Lorsqu’il y avait des problèmes économiques et le besoin de remplir les caisses de l’état, affaiblies par les guerres, la solution pour le Roi était l’augmentation des impôts et des taxes, en aggravant la tolérance du peuple qui, plus tard, commence à réagir avec des révoltes jusqu’au bouleversement de la monarchie dans la Révolution Française.
À cette époque (1775-1783) la France soutient la guerre d’indépendance américaine, où les treize colonies de l’Amérique du Nord s’opposent au Royaume de Grande-Bretagne. La France s’engage par la fourniture d’aides navales et terrestres aux américains pour s’opposer et s’imposer sur l’Angleterre. Cette guerre coûte très cher et les caisses de l’état se vident.
COMMENTAIRE: Le film est très intéressant et surtout original à raconter la vie d’un personnage historique et emblématique qui a marqué l’époque du siècle d’or et la fin de l’absolutisme français. La cinéaste a su donner une image différente et originelle de Marie-Antoinette, montrée comme une femme anticonformiste et peu conventionnelle, qui n’aime pas les contraintes de la cour. Le film présente un excellent décor, constitué par le mobilier, les jardins, les parcs et les immenses salles de Versailles, de magnifiques costumes et de remarquables interprétations des acteurs. Le film est caractérisé par des anachronismes très évidentes surtout dans la bande originale du film, qui mêle la musique classique (notamment Vivaldi) et la musique rock et pop. Ce choix de Sofia Coppola est probablement lié au but d’actualiser le film, mais aussi de communiquer la personnalité un peu rebelle de Marie-Antoinette, laquelle ne s’adapte jamais complètement aux usages de la cour française et reste toujours un peu éloignée de ce milieu, car elle est considérée comme une étrangère même par la famille royale.
Selon moi, le film transmet aussi un message important: la richesse ne fait pas nécessairement le bonheur. En effet Marie-Antoinette possède de tout, vit dans le château des rêves et mène une vie luxueuse, mais malgré cela elle n’est pas heureuse et elle regrette son pays (l’Autriche).
J’ai remarqué le choix de la cinéaste d’illustrer dans le film le règne de Marie-Antoinette et Louis XVI en se concentrant seulement sur le palais de Versailles et la vie luxueuse et somptueuse à la cour, mais j’aurais aimé qu’il avait montré aussi de l’autre côté les conditions terribles du peuple français à cause des dépenses royales, pour marquer davantage l’écart entre classes sociales et le faire mieux comprendre au public.
Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.
La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.
Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]
Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]
La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.
Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.
Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]
Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.
Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.
“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.
È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).
A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.
“In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.
Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.
Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.
Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.
Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.
Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.
Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]
L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.
Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]
L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]
Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.
Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].
Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.
Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]
Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.
Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.
Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.
Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.
Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.
Enrico Berti
[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.
[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.
[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.
[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.
[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.
[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.
[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.
[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).
Sembrava che la scienza moderna avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi. Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania. La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso. Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger. Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen. Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale. La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford. Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento. E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-BodyProblem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».
Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.
Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.
Aristotele non era un teologo
Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo». Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005). Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio. Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.
Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.
Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.
B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.
Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.
«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).
«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).
«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).
«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).
«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale. Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica? Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale. Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale? Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).
«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia». Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).
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Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.
Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.
Indice
Introduzione
Il nichilismo dell’Occidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino
L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica» Gadamer, o della «phronesis» Ritter, ovvero dell’«ethos» Hannah Arendt, o della «praxis»
Heideggers Auseinandersetzung mit dem
Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis Aristoteles Platon Abschluß
Heidegger and the Platonic Concept of Truth
Le passioni tra Heidegger e Aristotele Appendice
Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele Prologo Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923) Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia» Conclusione
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici relativi ai saggi raccolti nel presente volume.
I In tema di dialettica
Come argomentano gli ermeneutici? “Filosofia ‘91”, a cura di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32. La complessità della ragione “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40. Logo e dialogo “Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42. La dialettica antica come modello di ragionevolezza “Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28. Il principio di non contraddizione: storia e significato P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.
II In tema di metafisica
Per una metafisica problematica e dialettica “Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15). La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina in S. Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71. La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici “Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62. Quale metafisica per il terzo millennio? in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44. Una metafisica (espistemologicamente) “debole” “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41. Metafisica debole? in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52. Dialogo su Aristotele in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura), Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.
III In tema di filosofia pratica Sostanza e individuazione in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione (“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160. Dal personalismo all’identità personale in A. Bottani e N. Vassallo (a cura), Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78). Persona, scienza e tecnica in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura), Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183. L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra” in E. Berti e S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62. Prudenza in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24. Attualità dei diritti umani “Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91. Pratiche filosofiche e filosofia pratica “Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.
IV Appendice Autoritratto “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12. Pensare con la propria testa? “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88. Aristotele nel Novecento “Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27
Luca Grecchi
Il pensiero filosofico di Enrico Berti
Petite Plaisance, 2013
ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].
In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi. La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.
Indice
Presentazione di Carmelo Vigna
Introduzione
I. Biografia II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele III. La storia della filosofia IV. L’etica e la filosofia pratica V. La politica VI. L’approccio classico alla educazione VII. Religione VIII. La metafisica IX. La critica
Postfazione Enrico Berti A proposito della critica
Principali pubblicazioni di Enrico Berti Volumi Curatele Principali articoli
La filosofia del primo Aristotele (Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.
La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.
Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.
L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.
Studi aristotelici, Japadre, 1975.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977
Profilo di Aristotele, Studium, 1979.
I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.
Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.
Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.
Le vie della ragione, il Mulino, 1987.
Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.
Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.
Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.
Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993
Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.
Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.
Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.
Aristotele, Laterza, 1997.
Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.
Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.
La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.
As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.
Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.
La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.
La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.
Novos estudos aristotélicosI – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.
Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.
La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione” (con altri), Armando editore, 2000.
Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.
Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.
Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Filosofia pratica, Guida, 2004.
L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.
Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.
Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.
Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.
Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.
Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.
Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.
Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti. A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra. I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.
Aristotele e l’ontologia(con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.
Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.
Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.
Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi. Con materiali per il docente. Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.
Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.
Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.
La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.
Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.
This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.
Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.
In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.
La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.
Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)
Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.
Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.
La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.
En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua, traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.
Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.
A partire dai filosofi antichi(con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.
I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.
Nuovi studi aristotelici. Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.
l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.
Profilo di Aristotele, Studium, 2010.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.
Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.
Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.
Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?
Profilo di Aristotele, Studium, 2012.
La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.
Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.
Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.
Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.
Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Aristotele e la democrazia, in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.
Aristotele, La Scuola, 2013.
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.
The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy, in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.
La phronêsis nella filosofia antica, in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.), Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.
Mente e anima: due entità?, in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.
La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.
Una metafisica (epistemologicamente) «debole», n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.
Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.
Aristotele, in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.
Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.
Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.
Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.
Il luogo dei corpi secondo Aristotele, in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale, a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014
La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.
La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.
Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.
El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica.
Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos
Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.
What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?, in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.
Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought. In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.
List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index
Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.
“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.
È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.
Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.
Aristotelismo, il Mulino, 2017.
A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.
Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.
Introduzione alla metafisica, seconda edizione, UTET, 2017.
La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.
Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.
«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.
Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.
Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.
Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.
Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.
Che la felicità sia detta essere il sommo bene costituisce chiaramente una cosa su cui tutti sono d’accordo, ma d’altro canto occorre dire in modo ancora più chiaro in che cosa essa consista. Questo potrà avvenire, probabilmente, se si riuscirà ad individuare la funzione specifica dell’essere umano. Infatti, come per un flautista, per uno scultore, per chiunque eserciti una tecnica e, in generale, per chiunque eserciti una qualche funzione e attività, nell’esercizio della funzione sembrano risiedere il bene e la riuscita nell’azione, sembrerebbe che sia così anche per l’essere umano, se è vero che esiste una sua funzione specifica. Oppure, è forse possibile che, da un lato, vi sia una funzione specifica di un falegname e di un calzolaio, mentre, dall’altro, che dell’essere umano non ve ne sia nessuna, e che egli sia per natura inattivo? O piuttosto, come è evidente che c’è una funzione specifica dell’occhio, della mano, del piede e, più in generale, di ciascuna delle parti del corpo, così anche per l’essere umano si deve porre, oltre tutte quelle particolari, una qualche funzione specifica? E quale mai potrebbe essere, allora?
Infatti è evidente che il fatto di vivere è comune anche alle piante mentre, al contrario, ciò di cui andiamo in cerca è qualcosa di specifico. Quindi bisognerà anche escludere la vita consistente nel nutrimento e nella crescita [τήν τε θρεπτικὴν καὶ τὴν αὐξητικὴν ζωήν]. A questa segue anche un certo tipo di vita basata sulle sensazioni [αἰσθητική τις], ma è evidente che anch’essa è comune sia al cavallo sia al bue sia a ogni altro animale. Non rimane, allora, che un certo tipo di attività propria della parte razionale [πρακτική τις τοῦ λόγον ἔχοντος]. Di questa, poi, una parte è razionale in quanto obbedisce alla ragione, mentre un’altra è razionale in quanto la possiede e ragiona. Ma poiché anche questa si dice in due modi, bisogna considerare quella in atto [διττῶς δὲ καὶ ταύτης λεγομένης τὴν κατ’ ἐνέργειαν θετέον]; questa, infatti, sembra essere razionale in senso più proprio.
Se, poi, la funzione specifica dell’essere umano è l’attività dell’anima secondo ragione o non senza ragione, e se diciamo che, quanto al genere, sono identiche la funzione specifica di una certa cosa e la funzione specifica di una certa cosa realizzata alla perfezione, come ad esempio avviene nel caso di un citarista e di un citarista che suona alla perfezione, e ciò vale in generale per tutti i casi, una volta che si aggiunge all’esercizio della funzione quel di più dato dalla virtù (infatti la caratteristica del citarista è quella di suonare la cetra, mentre quella del bravo citarista è quella di suonarla bene), se è così, il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù, e, se le virtù sono molte, secondo la più eccellente e la più perfetta. E, inoltre, in una vita compiuta: infatti, come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno, così un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno».
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 7, 1097 a 22 – 1098 a 19. In Aristotele, Le tre etiche e il Trattato sulle virtù e sui vizi, Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Arianna Fermani; Presentazione di Maurizio Migliori, Bompiani, Il Pensiero occidentale, Bompiani, Milano 2018, pp. 453-455.
«Che cos’è la filosofia? (Τὶ γὰρ ἐστι φιλοσοφία;)».
«La filosofia, dice Aristone, si divide in sapere e disposizione d’animo (scientiam et habitum animi); infatti chi ha imparato e compreso che cosa si deve fare e che cosa si deve evitare non è ancora saggio (non dum sapiens est), se il suo animo non si è trasformato in base a quanto ha appreso».
Seneca, Epistola 94, 48, trad. it. di G. Reale, Lucio Anneo Seneca, Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, Rusconi, Milano 1994, pp. 1218-1219.
«Ogni oggetto donato, una volta lasciato dal donatore, passa al donatario […]; questo per quanto riguarda le cose mortali e umane; le cose divine, invece, sono tali che, una volta comunicate, una volta che sono passate da lì a qui, non risultano separate da lì; giunte qui, esse avvantaggiano il donatario senza danneggiare il donatore; quello trae anzi ulteriore vantaggio dalla reminiscenza di ciò che sapeva. Ora questa bella ricchezza è la bella scienza (ἐπιστήμη ἡ καλή), della quale beneficia colui che riceve, senza che essa abbandoni colui che dà; allo stesso modo si può vedere un lume possedere luce accesa da un altro lume: quello non l’ha sottratta a questo, ma la materia che è in esso si è accesa a contatto col fuoco dell’altro. Così è questa ricchezza, la scienza, che si dona e si riceve, che rimane in colui che dona ed è sempre la stessa in chi riceve. […] Ecco perché anche Platone [Filebo, 16 c 6-7] dice che la saggezza venne agli uomini da Prometeo insieme a un fuoco splendente».
Numenio di Apamea, in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 15-19.
Fiche du film “La Nuit de Varennes” de Ettore Scola
TITRE: “La Nuit de Varennes”
SOCIÉTÉS DE PRODUCTION: Gaumont (France), FR3 Cinéma (France), Opera Films Produzione (Italie).
DATE DE SORTIE: 12 mai 1982
METTEUR EN SCÈNE: Ettore Scola. Ettore Scola, né le 10 mai 1931 à Trevico, d’abord a étudié droit et puis a travaillé comme dessinateur de presse de 1947 à 1952. Il a débuté dans le cinéma en 1953 come scénariste et coécrivant et en tout il a rédigé une vingtaine de scénarios, notamment pour l’acteur Totò. En 1964 il a réalisé son premier long métrage Parlons femmes et il a commencé à être reconnu avec Drame de la jalousie, pour lequel Marcello Mastroianni a été récompensé au Festival de Cannes 1970. Il a reçu le Prix de la mise en scène au 29e Festival de Cannes avec le film Affreux, sales et méchants et il a obtenu beaucoup de succès en 1977 avec Une journée particulière, interprété par Sophia Loren et Marcello Mastroianni. Ettore Scola a réalisé près de quarante films en quarante ans. Le 19 janvier 2016, Scola est mort à l’âge de 84 ans à Rome.
GENRE: Film historique.
ÉPOQUE: XVIIIe siècle, 1791-1793.
LIEUX: Centre-ville de Paris, Palais des Tuileries, relais de poste des Messageries Royales de Paris, itinéraire entre Paris et Metz, Varennes.
PERSONNAGES: Les protagonistes du film sont l’écrivain français Nicolas Edme Restif de la Bretonne et l’intellectuel vénitien Jacques Casanova. Les personnages principaux sont: la comtesse Sophie de la Borde (amie et dame de compagnie de la Reine Marie-Antoinette), Thomas Paine (intellectuel et écrivain britannique de la Révolution Américaine), Monsieur De Wendel (propriétaire de forges en Basse-Alsace), Virginia Capacelli (cantatrice bolognaise), De Florange (juge hypocrite), Madame Adélaïde Gagnon (noble dame veuve). Les personnages secondaires sont : le Roi Louis XVI et la Reine Marie-Antoinette, Madame Faustine (vieille amie de Restif de la Bretonne et propriétaire d’un lupanar), Monsieur Jacob (coiffeur de la comtesse), Émile Delage (étudiant révolutionnaire), Marie-Madeleine (la servante de Sophie), Agnès (fille de Restif de la Bretonne), Monsieur Sauce (épicier et maire-adjoint de Varennes), Madame Sauce, Nanette Precy et Bayon (commandant de la garde nationale).
INTRIGUE : À Paris l’écrivain libertin Restif de la Bretonne, surnommé « hibou » parce que habitué à se fondre dans les nuits de la ville, rencontre une vielle connaissance, la propriétaire d’un lupanar Madame Faustine, qui l’invite à profiter et à faire la connaissance d’une de ses jeunes et belles filles. À Paris circulent les rumeurs d’un plan d’évasion du palais des Tuileries et d’une imminente fuite de la famille royale et le curieux Nicolas Edme Restif de la Bretonne en est très intéressé, surtout lorsqu’il entend la fille de Faustine, serveuse royale, raconter à sa mère que la Reine avait été vue laisser sa chambre à onze heures et demi. Lorsqu’il rentre à la maison, Rétif apprend de sa fille Agnès que pendant son absence des officiers ont séquestré sa propriété à cause de ses dettes et que l’écrivain britannique de la Révolution Américaine Thomas Paine (pour lequel il doit imprimer un manuscrit mais il n’a pas encore reçu une avance d’argent) va partir le lendemain pour Metz. Rétif donc décide d’aller chercher Paine pour lui demander de l’argent. Rétif, en se promenant autour des Tuileries, assiste au départ en carrosse d’une noble dame avec des mystérieux paquets et de son coiffeur et il commence à avoir le soupçon d’une possible fuite de la famille royale. Le jour suivant au départ des Messageries Royales de Paris il rencontre finalement Thomas Paine qui allait partir pour Metz et qui lui donne un peu d’argent pour les frais d’impression du manuscrit. Peu après Rétif reconnaît la dame de la vielle, avec les mystérieux paquets, monter sur une voiture et sa curiosité et son besoin de connaître la vérité le poussent à prendre part au voyage. L’aventure pour Rétif commence par la diligence ratée pendant qu’il cherchait d’acheter le billet avec l’argent juste reçu. Par conséquent il loue un cheval pour la rejoindre. Cette voiture emmène ses passagers jusqu’à Metz, en passant par la route empruntée quelques heures auparavant par la berline transportant le roi et sa famille. À l’intérieur de la diligence ont donc pris place, au départ de Paris, six passagers, trois femmes et trois hommes, qui confrontent leurs expériences et leurs différents points de vue sur la Révolution française. Il y a la comtesse Sophie de La Borde, amie d’enfance et dame de compagnie de Marie-Antoinette, aristocrate triste qui voyage accompagnée de son coiffeur Monsieur Jacob, partageant le siège du cocher, et de sa jeune servante Marie-Madeleine, assise sur l’impériale aux côtés d’Émile Delage. Puis il y a le juge de Florange, un homme hypocrite qui exprime du mépris à l’égard du peuple, surtout comme « le protagoniste d’œuvres littéraires », accompagnant sa maîtresse Virginia Capacelli, cantatrice qui va avoir un concert à l’Opéra de Metz. Le riche industriel lorrain, Monsieur De Wendel est actif et très ouvert à la discussion, en particulier avec son ami révolutionnaire Thomas Paine. Le sixième passager est une femme de la grande bourgeoisie, Adélaïde Gagnon, veuve triste d’un important producteur de Champagne.
Dans la tentative de rattraper la diligence, Restif est aidé par un aristocrate déchu qui se présente sur le pseudonyme de « Chevalier de Seingalt », mais en réalité il s’agit de Jacques Casanova, voyageant en incognito pour échapper aux sbires du compte Waldstein. Malgré les apparentes différences physiques et de pensée politique, les deux trouvent une forte alliance intellectuelle et une complicité, qui les emmènent à continuer le voyage ensemble sur la « désobligeante » de Casanova. Après avoir rattrapé la diligence, à l’arrêt du relais de poste de Meaux, Rétif découvre d’un homme qu’une grande berline y est passée à six heures du matin, donc ses soupçons augmentent et il se confronte sur le possible plan de fuite royale avec Monsieur Paine. Au moment du départ Rétif peut finalement joindre la diligence, tandis que Casanova repart en désobligeante. Dans la voiture les passagers discutent et parlent des aventures et de la vie du charmant Casanova, lequel peu après est obligé à arrêter son chemin à cause d’une roue cassée du cabriolet. La voiture des Messageries Royales rattrape l’homme et la comtesse de La Borde l’invite à continuer le voyage jusqu’à la prochaine étape dans la diligence. Casanova accepte l’invite, mais Monsieur Jacob est forcé par sa dame à rester surveiller les bagages de l’homme jusqu’à l’arrivée du carrossier. Ainsi la diligence s’anime grâce à Restif de la Bretonne et Casanova, qui mettent leur riche expérience de la vie et du plaisir au service des passagers, avides d’être instruits à l’amour et à la séduction par de tels maîtres. La voiture, trop lourde, doit s’arrêter au pied d’une montée située à l’entrée d’un bois. Les passagers sont invités à descendre et à marcher. Casanova entonne l’air du catalogue en duo avec Virginia, alors que De Florange et De Wendel échangent leurs inquiétudes faces aux révoltes des ouvriers. Ensuite la découverte d’objets abandonnés par la famille royale après un déjeuner sur l’herbe, (en particulier un mouchoir ramassé par Sophie), confirme son passage et sa fuite vers les frontières de l’Est. Puis ils continuent le voyage en carrosse. Plus tard ils descendent de la diligence pour se restaurer dans un relais de poste, et dans une auberge ils rencontrent l’envoyé de l’Assemblée législative Bayon, se reposant de la poursuite de la berline royale et ordonnant l’arrestation du Roi, sur ordre du général La Fayette. Après la nouvelle de la fuite royale et de l’arrestation, les passagers déjeunent dans l’auberge et se confrontent sur cet événement. Monsieur Jacob rejoint les autres aristocrates et donc Casanova peut repartir dans sa «désobligeante» réparée, après avoir refusé la déclaration d’amour de la veuve Gagnon. Au suivant arrêt de la diligence Adélaïde Gagnon termine son voyage, alors que Rétif retrouve son ami Jacques Casanova dans une auberge avec Nanette, la mère de son épouse défunte Zéphire, et ils passent la soirée tous ensemble. Les deux continuent le voyage ensemble jusqu’à l’étape suivante, où Casanova est rattrapé par les hommes de Waldstein et donc doit reprendre la route du château de Dux. Le Roi et la Reine ont été reconnus à Sainte-Menehould par le maître de poste Drouet et puis Monsieur Sauce, maire-adjoint de Varennes-en-Argonne, les a arrêtés et les retient “prisonniers” chez lui en attendant les ordres venus de Paris. Cette nouvelle se répand et le peuple français en colère marche vers Varennes. De plus en plus les paysans, les gardes nationaux et les officiers arrivent à Varenne, chez l’épicier Sauce. Après l’arrestation, le couple est reconduit à Paris suivi par une immense foule.
THÈMES : Le film raconte l’épisode de la fuite manquée de la famille royale du Palais des Tuileries vers le nord dans la nuit du 20 au 21 juin 1791. Le plan de la fuite, dont le projet remonte au 5 octobre 1789, consistait à rejoindre le bastion royaliste de Montmédy, au nord-est de la France, et les troupes guidées par le marquis de Bouillé pour lancer une contre-révolution. Le général La Fayette, chargé de la surveillance assidue de la famille royale, au courant du départ, ordonne l’arrestation du Roi, qui se passe plus tard à Varennes. Le contexte historique du film est celui de la Révolution française, où l’idée d’une république commence à faire son chemin.
Dans le film le thème du libertinage est très présente, en effet le XVIIIe siècle en France est marqué par le roman libertin, dont un des auteurs le plus importants est Restif de la Bretonne, et beaucoup de scènes soulignent l’érotisme et le scandale.
Un autre thème très important qui domine le film est celui de la fuite inéluctable du temps identifiable dans les personnages de Restif et Casanova. Au-delà des apparences, les deux personnages sont liés par une forte estime, par leur culture, par la complicité d’un passé mouvementé de grands séducteurs, mais surtout par la difficile acceptation du poids des ans qui leur fait regretter amèrement leur jeunesse. La représentation de Casanova désenchanté, nostalgique et caractérisé par le teint blanc et plâtreux, comme un homme victime du temps et qui a perdu son éclat, en est le majeur témoignage.
La comtesse de La Borde est une aristocrate triste et profondément convaincue de la légitimité de la monarchie absolue et très dévouée à la famille royale. Elle ne peut concevoir que le pouvoir royal et l’amour du peuple pour son souverain puissent être remis en question par la Révolution. Elle croit en son roi comme on croit en un « idéal », en une « religion » et donc elle incarne la dévotion absolue à la royauté: elle ramasse un mouchoir abandonné par les fugitifs royaux après un repas en forêt ; elle garde un précieux écrin à médaillons avec les portraits des membres de la famille royale ; elle transporte les habits de cérémonie du roi (dans les mystérieux paquets qui intriguaient Restif) et s’incline devant le mannequin sur lequel Jacob les dispose, après l’arrestation de Louis XVI. La comtesse soutient l’ordre divin du Roi, en revanche Thomas Paine pense qu’il s’agit d’un stratagème pour transmettre le pouvoir aux fils et continuer la dynastie. De l’autre côté le film propose la représentation du peuple français en colère voulant l’arrestation et, plus tard, l’exécution du couple royale et de la foule déchaînée qui n’accepte plus de subir et de vivre dans la misère.
J’ai remarqué aussi le thème de la précarité des ressources économiques des certains hommes de culture à l’époque, comme on peut voir de la condition de Jacques Casanova réduit au bibliothécaire au service du comte Waldstein, ou celle de Goldoni, cité par Casanova dans le film.
COMMENTAIRE : Le film est très intéressant et particulier, car il présente une reconstruction historique d’un des chapitres les plus représentatifs de la Révolution française comme la fuite de la famille royale et son arrestation à Varennes d’une perspective originale. En effet il ne se concentre pas sur les chefs d’état qui prenait les décisions, mais sur les idées des gens modestes qui les subissaient. Il a choisi donc de mettre à l’intérieur d’un carrosse des personnages distincts avec des points de vue différents qui se confrontent sur cet événement. Le Roi et la Reine apparaissent une seule fois à la fin du film, mais on ne voit que leurs jambes.
Le film a comme toile de fond le voyage en carrosse, et est caractérisé par de très bons costumes et de excellentes interprétations des acteurs, notamment celle de Marcello Mastroianni que montre un Casanova fragile, vieilli, victime de la fuite du temps, regrettant sa jeunesse, et représenté en blanc marmoréen comme préfiguration d’une morte prochaine.
Le choix d’Ettore Scola de l’écart sémantique qui sépare le titre français (La Nuit de Varennes), évoquant un épisode important de la Révolution, du titre italien (Il Mondo Nuovo), qui renvoie aux changements et à l’évolution qui entraîne la Révolution dans le contexte politique et social, est très remarquable. Dans le film Il Mondo Nuovo est aussi le nom d’une attraction sur un quai de la Seine, au pied de Notre-Dame, où des saltimbanques vénitiens invitent les passants à monter à bord pour regarder, à travers les lentilles d’un appareil optique, la reconstitution animée de la Révolution française, de la prise de la Bastille à l’exécution de Louis XVI. Cette scène figure une première fois juste au début du film et puis, de nouveau, dans la séquence finale comme pour mettre entre parenthèses le reste du film, avec un flashback qui les réunit, et avec une fonction narrative originale.
Je trouvé très intéressant l’anachronisme de la scène finale du film où on peut voir Rétif gravant, du quai de la Seine, les escaliers qui le ramènent dans le centre-ville parisien de l’époque actuelle, tout en citant un passage de son livre. Il se projette dans le futur pour communiquer et rappeler aux hommes qui critiquent les barbaries de la Révolution dans leur gouvernement politique apparentement solide et pacifique, que l’homme a la propension à répéter ses erreurs et à recommencer la guerre après une période de paix. Dans le film donc le metteur en scène cherche de donner une explication du présent, à travers une relecture du passé.
Par ailleurs dans le film sont mentionnés plusieurs hommes de lettres importants comme Dante, Voltaire et Goldoni.
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