Glenn Gould (1932–1982) – Credo che se un artista vuole utilizzare il cervello per un lavoro creativo, ciò che si chiama autodisciplina – che non è altro che un modo per sottrarsi alla società – sia assolutamente indispensabile.

Glenn Gould 02
«Non è che io sia asociale, ma credo che se un artista vuole utilizzare il cervello per un lavoro creativo, ciò che si chiama autodisciplina – che non è altro che un modo per sottrarsi alla società – sia assolutamente indispensabile».
 
Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, interviste e montaggio a cura di Bruno Monsaigeon, prefazione di Enzo Restagno, traduzione di Carlo Boschi, EDT edizioni di Torino, 1989.
 
****
 
«Occorre consentire all’artista di operare in segreto, per così dire, senza che egli debba preoccuparsi, o meglio ancora rendersi conto, delle presunte esigenze del mercato, le quali esigenze, se accolte con sufficiente indifferenza da un numero sufficiente di artisti, finirebbero semplicemente con lo scomparire».
 
Glenn Gould, citato in Kevin Bazzana, Mirabilmente singolare (racconto della vita di Glenn Gould), traduzione dall’inglese di Silvia Nono, edizioni e/o, 2004.
Glen Gould (1932-82) – L’arte non diventerà un’ancella del processo scientifico, e sarà capace di esprimere come l’impulso estetico sia privo di età, cioè libero dalle obbedienze che i tempi gli dettano.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Fortini (1917-1994) – «Reversibilità». Anassagora giunse ad Atene che aveva da poco passato i trent’anni. Era amico d’Euripide e Pericle. Parlava di meteore e arcobaleni. Ne resta memoria nei libri. uomini che furono e che in noi sono fin d’ora?

Franco Fortini 02

Reversibilità

Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passato i trent’anni.
Era amico d’Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.

Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi  nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
– si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci
dei popoli che mutano e si inseguono
,
degli uomini che furono e che in noi
sono fin d’ora? E così vive ancora,

parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.

 

Franco Fortini

Franco Fortini, Poesie inedite, Einaudi, Torino 1997

Romano Luperini interpreta questa poesia come segno del rovesciamento della situazione privata in pubblica: «L’educazione insegna la reversibilità delle distanze e delle differenze nel tempo e nello spazio, e dunque un nuovo senso di cittadinanza ed etica planetaria, la possibilità di un nuovo patto fra generazioni e fra popoli». Il messaggio della poesia per Luperini: «[…] L’attività intellettuale che cerca un senso non solo individuale ma pubblico è l’unica risposta laica possibile al nulla della morte e alla ripetitività dei cicli biologici». Per Guido Mazzoni: «Reversibilità ha come tema l’esperienza dei livelli di realtà che trascendono la vita privata». Cfr. Ospite ingrato – Rivista on line Centro Studi Franco Fortini “Per una rilettura delle sette canzonette del Golfo” di F. F.- di Roberto Talamo.

Franco Fortini (1917-1994) – «I confini della poesia», Castelvecchi, 2015: «Misura, ossia senso del limite opportuno ma anche dell’illimitato che sta al di là»
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.

Theodor Ludwig Adorno 04
Theodor Ludwig Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Diabasis, 2010.

«La convenzionalizzazione della psicanalisi determina la sua propria castrazione […]. L’ultimo grande teorema dell’autocritica borghese è diventato un mezzo per assolutizzare, nella sua ultima fase, l’alienazione borghese, e per vanificare anche il sospetto dell’antichissima ferita, in cui si cela la speranza di qualcosa di meglio nel futuro».

T.L.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, 1954.


È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.


 

La trasformazione dell’ambiente, di cui abbiamo estrapolato alcuni esempi che tenevano già conto delle rispettive implicazioni psicologiche, rimandano a un nuovo tipo umano in corso di formazione. La si è denominata con espressione felice radio-generation, generazione radiofonica.
È il tipo dell’uomo la cui essenza è definita dall’incapacità di compiere esperienze personali, un uomo che si lascia imbandire le esperienze dall’apparato sociale, fattosi strapotente e impenetrabile, e che proprio per questo non riesce a spingersi fino allo stadio della formazione dell’io, fino alla «persona».
Secondo le teorie della psicanalisi ortodossa un tipo umano che fallisce a tal punto nella formazione dell’io sarebbe da classificare come nevrotico. Il concetto di nevrosi, però, implica determinati conflitti con la realtà. Dal momento che però la generazione radiofonica si priva della possibilità di formarsi un io proprio, adeguandosi passivamente alla realtà, e dal momento che proprio in virtù della mancanza di un «io» essa sembra integrarsi senza alcun conflitto nella realtà, il concetto di nevrosi non può essere applicato senza alcune riserve.
Se tutti costoro sono malati – e ci sono ottimi motivi per crederlo – essi non sono in ogni caso più malati della società in cui vivono. Al tempo stesso è dalla loro conformazione che dobbiamo partire per tentare di cambiare le cose.
Abbiamo ragione di credere che l’atrofizzazione si accompagni alla liberazione di alcune facoltà che mettono queste persone in grado di operate trasformazioni che i vecchi «individui» non avrebbero mai saputo realizzare.
L’apertura di una breccia nella parete monadologica che nell’era liberale imprigionava ogni individuo in se stesso è motivo di grandi speranze. La generazione radiofonica è stata definita «bidimensionale». La mancanza di continuità nell’esperienza rende loro quasi impossibile provare felicità e dolore.

Nessuna felicità, perché essa si dà soltanto dove c’è il sogno, ed essi non sanno più sognare.
Sono pressoché incapaci di concepire scopi che vadano al di là del loro ambito d’azione abituale, e tali da trascendere l’adattamento alle sue condizioni.
Felicità significa per loro adeguarsi, poter fare quello che fanno tutti, fare ancora una volta quello che fanno tutti. […]
Vedono il mondo così com’è, ma a costo di non poterlo più vedere come potrebbe essere. Per questo sono carenti anche dal punto di vista del dolore. Sono «induriti» in senso fisico e psicologico.
La freddezza è uno dei loro tratti più spiccati: sono freddi nei confronti del dolore altrui, ma anche nei confronti di se stessi.
[…] A questa freddezza risponde una complicità segreta con le cose, alle quali si cerca di assimilarsi. […] Il mondo delle cose diventa il sostituto delle immagini. Professano la religione dell’automobile. Il rapporto con i prodotti della tecnologia mette capo a una quanto mai curiosa mescolanza tra capacità di improvvisazione e obbedienza, tra «iniziativa» autonoma (mentalità da truppe di assalto) e rinuncia a un pensiero autonomo, una miscela che racchiude in sé la possibilità di entrambi gli estremi.
[…] Pensare di più, cioè spingersi per mezzo del pensiero al di là delle esigenze immediate poste dall’ambiente circostante, equivale oggi per la maggior parte degli individui a turbare quel processo di adattamento che requisisce la totalità delle loro energie psichiche.
Pensare di più significa ormai di per sé mettere a rischio le proprie chance di carriera, se non addirittura la propria immediata sicurezza.
Al tempo stesso, però, la perdita di ogni illusione intorno alla realtà, la quantificazione dei processi lavorativi che in teoria può consentire a ciascuno di svolgere qualunque mansione, e la relativa immediatezza con la quale le forze della società si affermano fanno sì che proprio il mondo oggettivo delle cose venga incontro a quella conoscenza che esso contemporaneamente reprime.
Quegli stessi uomini che si vietano il pensiero (e comportamenti affini come leggere libri, discutere di problemi teorici, ecc.) si sono fatti «scaltriti» e non si lasciano più abbindolare da nessuno.
Questa contraddizione ci sembra delimitare il problema veramente centrale di un’educazione riflessiva nell’attuale fase storica.

 

Theodor Ludwig Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Diabasis, 2010.

Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato. La didattica smart non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

Tutti promossi
Salvatore Bravo

Tutti promossi.

Con la promozione generalizzata causa covid 19 si conclude un processo di distruzione dei contenuti. Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato.
La didattica smart non insegna a pensare,
ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.


La pubblica istruzione sta vivendo e consumando, sotto lo sguardo di ciascuno di noi, il suo stato di eccezione. La bozza del decreto sul corrente anno scolastico conferma quanto la ridda delle voci ministeriali e non aveva anticipato: tutti promossi. Ad uno sguardo superficiale tale provvedimento sembra inevitabile; in realtà lo è, se ci si colloca, come sta avvenendo, nell’ottica del pensiero unico. Non vi sono discussioni, dialoghi in cui le posizioni alternative si confrontano con la forza e con la debolezza logica di ciascuna proposta, ma vi è solo il chiasso del pensiero unico. Deleuze, in Che cos’è la filosofia, afferma che i dialoghi platonici sono una rappresentazione spaziale delle posizioni che si possono assumere su un dato problema. La realtà non è un dato di fatto, ma si costruisce mediante la capacità di ciascuna prospettiva di far emergere, come direbbe Hegel, un lato del problema. Nulla di questo accade nello stato di eccezione in cui siamo, dove si susseguono interviste e dichiarazioni, ma stranamente tutti concordano sulle posizioni ministeriali: la democrazia non è questione di “quantità vocali”, ma di “qualità verbale”. La pletora di voci è una abile manovra per la rappresentazione scenica della democrazia! In realtà le voci che si susseguono non sono che cloni della matrice unica ministeriale. Tutti devono essere promossi, nessuna bocciatura: nessuno si scandalizza, poiché lo stato di eccezione porta a compimento “il progetto pedagogico” che ha delegittimato in questi decenni la scuola pubblica. Essa ha perso la sua finalità formativa per essere un diplomificio finalizzato all’inclusione illusoria. I titoli elargiti con generosità hanno il fine di includere le nuove generazioni in logiche competitive e mercantilistiche e pertanto la scuola promuove ed accoglie per poter inserire nel mercato lavorativo generazioni di semianalfabeti facilmente manipolabili e, specialmente a “scuola”, si impara il pensiero unico della competizione senza qualità. Non a caso le competenze, il saper fare e vendere le proprie competenze è l’obiettivo primario, per cui: che ciascuno impari il minimo richiesto dal mercato! Questo è l’obiettivo facilmente raggiungibile che ci si propone. I contenuti su cui la scuola pubblica svolgeva la selezione sono stati ridotti ad elementi secondari, devono essere minimi; i contenuti sono giudicati dai pedagogisti di regime un doloroso fardello da schiacciare su minimi livelli, ma in realtà sono il nutrimento per ogni emancipazione. Si temono i contenuti, perché con essi si impara l’arte della concettualizzazione che sospende la produzione, ma rende la vita una vita umana. La scuola, attraverso i contenuti pensati e concettualizzati, dovrebbe insegnare a pensare il mondo diversamente; così la scuola diviene non il motore di conferma del potere, ma l’istituzione che pensa il potere e l’economia per riformarle. Con la promozione generalizzata causa covid 19 si conclude un processo di distruzione dei contenuti e delle differenze per dichiarare pubblicamente che la bocciatura è inutile, poiché i contenuti minimi possono essere recuperati con la didattica veloce, la didattica smart che non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

La scuola deve formare alla competizione ed all’individualismo: non a caso vi è il PCTO, l’educazione all’imprenditorialità ed al coding esaltati e pubblicizzati dall’azienda scuola, la quale deve stare sul mercato dell’offerta formativa. Non dimentichiamoci del numero notevole di certificazioni linguistiche ed informatiche, organiche a tali obiettivi, che interrompono il processo di formazione. I contenuti sono delegittimati, e lo è ancor più l’attività di studio degli studenti, che resistono con i loro professori e presidi all’eliminazione del sapere-concetto per essere sostituito dalle logiche del fare per vendere. Il pensare è pericoloso per qualsiasi sistema; oggi l’immissione massiccia delle tecnologie ed il mercato globale favoriscono la sostituzione del pensare con il semplice saper fare: vendersi e godere illimitatamente. Pensare deriva da un verbo latino (pendo/penso) che significa “soppesare”, perché chi pensa coglie il valore delle parole, guarda e sperimenta processi dialettici, soppesa il valore qualitativo delle posizioni politiche e delle ideologie, le corrobora, come direbbe Popper. Nulla di questo deve più avvenire: tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato.

 

DAD

Se tutti devono essere promossi, qual è la funzione dei docenti che con improvvisate piattaforme cercano di trasmettere contenuti e di rendere viva la scuola? Forse dinanzi all’opinione pubblica educata solo alla quantità, si vuole giustificare lo stipendio dei docenti e nel contempo si usano i docenti come intrattenitori di una generazione stimolata dal mercato al perenne consumo ed ora costretta a stare a casa. Dovremmo chiederci quale messaggio arriva a quegli alunni che si sono impegnati fino a marzo, con due terzi della scuola effettuata, e che adesso si trovano ad essere eguagliati a coloro che in sei mesi nulla hanno fatto. Si pensi al senso di impotenza e di derisione che interiorizzano i discenti che si sono impegnati lungamente, malgrado le innumerevoli interruzioni dell’attività didattica causa “offerta formativa”. Il re è nudo … si comunica la verità, ovvero che lo studio, la ricerca, il merito sono valori in caduta verticale nella nostra nazione (non a caso le carriere accademiche si costruiscono con concorsi opinabili al punto che i nostri ricercatori sono migranti del sapere alla ricerca della loro Itaca); li si lascia andar via, perché il sistema non vuole cambiare, non vuole mettere in pratica processi dialettici di trasformazione profonda. Il merito è solo propaganda, non a caso tutti promossi… e, se ci si è impegnati, ci si deve accontentare e sperare di un voticino in più con cui giustificare il merito. La promozione oggi totale, da decenni generalizzata, rivela un’altra verità: che il lavoro non è distribuito secondo logiche meritocratiche, ma di censo. E’ il denaro a decidere la conferma o la promozione sociale, non la scuola con i suoi titoli e certificazioni. Essa è un diplomificio di illusioni, se non si ha denaro da spendere in corsi qualificanti. In tutto questo si dovrebbe effettuare un’epochè dei pregiudizi sui docenti, e ci si dovrebbe immedesimare in loro: Essi svolgono lo stesso lavoro di Sisifo, con la DAD si sforzano di dare dignità ai contenuti per non giungere a nulla e specialmente arriva il messaggio che i loro sforzi per inseguire gli alunni sono nulli … tanto saranno tutti promossi. Immaginatevi un ragazzino un po’ immaturo: in questo modo si rafforzano in lui il senso di onnipotenza, il disprezzo per l’impegno, la cultura e per i suoi colleghi studiosi. Ancora una volta prevale la logica del condono, per cui i cittadini con senso civico sono messi tacitamente alla berlina. Ma si immagini anche il disincanto degli alunni che hanno sempre svolto il loro dovere con motivazione.

 

Non vi è altra soluzione?

Il buon governo dev’essere capace di essere impopolare, invece si inseguono la calma sociale e l’elettorato con provvedimenti demagogici. Si potrebbero valutare gli alunni sui voti ottenuti fino a marzo, in modo da salvaguardare il merito. Si potrebbe rispondere in questo modo allo stato di eccezione di questi giorni, si può ipotizzare che tale provvedimento potrebbe essere attaccabile, poiché l’anno scolastico non è terminato e non ci sono stati i tempi per il recupere, ma affermare la validità dell’anno, qualora non si rientri, non è egualmente attaccabile a livello giuridico? Si dovrebbe comunicare, per una volta, che i recuperi veloci fatti a fine anno per evitare bocciature e ricorsi sono una vergogna nazionale, ed è ora di cambiare rotta. Tutti i giorni del tempo scuola sono importanti, non solo gli ultimi che consentono recuperi fragili, perché le strutture concettuali si formano con la sedimentazione qualitativa nel tempo. La maturità digitale, qualora si concretizzi l’ipotesi peggiore, con un unico orale – c’è da chiedersi – garantisce l’imparzialità della valutazione, dato che l’alunno dovrebbe collegarsi probabilmente da casa sua? I crediti potrebbero essere utilizzati, in alternativa, come elemento oggettivo, oltre alle valutazioni registrate fino a marzo, per garantire reali differenze tra gli alunni ed i meriti?

Le dichiarazioni continuano a susseguirsi, non vi sono state reazioni dei sindacati, dei partiti di opposizione, dei docenti. Tutto avviene fatalmente. Il silenzio apparente che segue alle innumerevoli indiscrezioni e dichiarazioni rafforza la posizione del ministero e la debolezza del settore pubblico soverchiato da logiche palesi che nessuno denuncia. Ancora una volta il sentimento che prevale è la pubblica mortificazione di coloro che credono e si impegnano. L’effetto lo sconteremo nei prossimi anni con un abbassamento ulteriore della qualità della nostra istruzione, come denunciano i risultati delle prove INVALSI. Si sta verificando una effettiva descolarizzazione della nostra nazione e tale descolarizzazione non è sostituita da nulla a livello comunitario, ma solo dalla legge del più forte che coincide con la legge del denaro. E’ il momento di sollevare dubbi e chiedersi che tipo di comunità umana stiamo costruendo, visto che le scelte di oggi producono effetti già nel presente e pertanto si protrarranno nel futuro. L’avvenire delle nostre scuole è intrecciato con il futuro di tutta la comunità umana. Non possiamo in un momento critico delegare il futuro a nessuno: se tale messaggio passa, ancora una volta abdichiamo alle nostre responsabilità in nome di un dirigismo che mai nella nostra storia è stato garante di democrazia, ma ha sostituito il diritto con il privilegio, il dialogo con le gerarchie.

 

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) – A mesure que la possession du vivre est plus courte, il me la fault rendre plus profonde et plus pleine.

Michel Eyquem de Montaigne 01

«A mesure que la possession du vivre est plus courte,

il me la fault rendre plus profonde et plus pleine».

Montaigne, Essais, III, 13: De l’experience.

Frontespizio dell’edizione originale 1588, Prima ed. it. 1634
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Franz Marc (1880-1916) – Noi viviamo nell’apparenza anziché vedere l’essenza delle cose. La maschera delle cose ci acceca a tal punto che non possiamo scoprire la verità.

Franz Marc

«Ogni cosa possiede il proprio involucro e il proprio nucleo, la propria apparenza e la propria essenza, la propria maschera e la propria verità. Il fatto che noi possiamo toccare l’involucro, senza raggiungere il nucleo, che noi viviamo nell’apparenza anziché vedere l’essenza delle cose, che la maschera delle cose ci accechi a tal punto che non possiamo scoprire la verità – che cosa prova tutto ciò contro l’interiore certezza delle cose? … la volontà fatale che solo vedono quelli che possiedono la seconda vista […] del vedere attraverso, del penetrare nel senso delle cose».

 

Franz Marc, I cento aforismi. La seconda vista, a cura di R. Trocon, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 41, 46, 54.

Autoritratto.
Cavalli rossi e blu
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Maura Del Serra – «Lettera agli amici». Apocalissi di una civiltà ingiusta, predatoria, pervasa dalla ybris materialista ed ipertecnologica. Sarà insieme doloroso e salutare, quanto mi auguro inevitabile e consapevole, un mutamento di rotta. Ascoltiamo le voci di chi ci invita ad «aprire la porta che non abbiamo visto».

Maura Del Serra - Apocalisse pandemia
P. Klee, Angelus Novus

Maura Del Serra

LETTERA AGLI AMICI

  

ἀποκάλυψις, «rivelazione»:

 

La situazione per più versi estrema in cui ci troviamo, e che ho evocato nella mia ultima poesia, Limbo virale, è stata favorita da un’apocalissi – anche nel senso etimologico di “rivelazione” – di una civiltà ingiusta, predatoria, pervasa dalla ybris materialista ed ipertecnologica, e perciò intimamente infelice, assetata di significato ultimo ed ontologico.
La natura, sangue e veste di bellezza del nostro pianeta violentato, ha “rinviato” alla specie umana, come un boomerang (forse con la complicità di una scienza non illuminata) un inquinamento subdolo, in apparenza più invisibile del nostro nelle sue cause quanto quasi ugualmente devastante nei suoi effetti globali, che colpisce la radice stessa della vita umana (gli organi del respiro) così come noi abbiamo da secoli colpito, fin dalla rivoluzione industriale e poi in progressione geometrica, il respiro della Terra e i suoi doni cosmici e materni.
Sarà insieme doloroso e salutare, quanto mi auguro inevitabile e consapevole, un mutamento di rotta, una presa di coscienza, un “conosci te stesso” personale e collettivo che dia appunto un senso, una direzione catartica a questo tempo oscuro e malato che è, dantescamente, come un Limbo chiuso e sospeso (non popolato da “spiriti magni”, ma certo da generosi soccorritori e da “pianto” più che da “sospiri”); un tempo che dovrà apparirci, oltre l’emergenza, come un Purgatorio interreligioso e metareligioso, teso a rivedere e ad orientarci verso le “stelle” polari di una sacralità micro e macroscopica, la cui consapevolezza è oggi oscurata dalla nostra sete “specista” e da quello che Pasolini definiva “sviluppo senza progresso”: progresso interiore e quindi sociale, armoniosamente comunitario, equilibrato in giustizia.

In questo lungo momento, che ci ha trasformati in ossimorici “monaci di gregge” reclusi nelle nostre celle domestiche, spesso tragicamente bisognose e solitarie, dobbiamo, come diceva Walter Benjamin sulla scorta profetica di Kafka, “aprire la porta che non abbiamo visto”, affinché l’Angelo della Storia immortalato da Klee non ci condanni ed abbia il viso rivolto ad un futuro possibile perché illuminato da un passato autoconsapevole.

In questo cammino intimo e corale sono molte le figure creative che, con le loro opere, possono costituire un sostegno etico-spirituale ed intellettuale autentico ed orientante: dai Presocratici ad Eschilo e Sofocle a Platone, da Dante a Shakespeare ai poeti elisabettiani, da Lao Tse a Bruno, dal Sapienziale Hölderlin alla Dickinson, e tra i moderni Pasternak, l’Eliot della Weste land e dei Four Quartets, la Woolf di The Waves, a Proust, Katherine Masfield, Tagore e, last but not least, i films di Andrej Tarkowskij (specialmente l’ultimo, Sacrificio), gli alti scritti di Simone Weil ed i versi dell’ironica e sapiente Wislawa Szymborska. Li ho citati in questo ordine sparso, secondo la mia “mente del cuore”: la vostra, amici, saprà variare e completare queste voci in un’aurea catena ideale, ora più che mai concreta.

Maura Del Serra

31 marzo 2020      

 

Limbo virale

 
Non angelico o ascetico ma livido
di sospettoso tremore il silenzio
che ha inghiottito in paralisi città e continenti
intanando i viventi
nella bolla di un limbo assordato soltanto
dal tamburo mediatico che bussa incessante
alle anime serrate, alle confuse menti.
È marzo, in questo secolo, il mese più crudele
che mischia turbinando memoria e desiderio
in una primavera non più umana;
fragili uccelli ci rigano i giorni
con note inascoltate di diamante;
fragili fiori spandono
il trionfo di un non raccolto miele
di là dal mondo sapiens divenuto
per minaccia invisibile
un’intangibile voce virtuale
dove il cuore comune in petto danza
a un metro di distanza.

 

Maura Del Serra


 

Maura Del Serra

Atro Teatro

Introduzione di Marco Beck

ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, Euro 18, Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

In questo volume, complementare del precedente (Teatro, 2015) la dimensione del sacro, propria di Maura Del Serra […] ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore di una «pietas civile e culturale». Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini […] che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare, sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta […]. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni» […] per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.

Dalla Introduzione di Marco Beck


 

Indice

Introduzione di Marco Beck

Tecnostar

Zelda pazza di gloria

Baci scritti per Milena

Voci dei Nessuno
da foto segnaletiche di prigionieri ignoti

Torquato Tasso
Libretto d’opera liberamente ispirato all’omonimo dramma in versi di J. W. Goethe


 

Vedi pagine di Maura del Serra

Vedi i suoi libri ed altro

Vedi Maura Del Serra in Wikipedia

Vedi pubblicazioni di Maura Del Serra


 

Maura Del Serra.
Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.



 
Maura Del Serra

Teatro

Introduzione di Antonio Calenda

ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, Euro 35. Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice  (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.


 

Indice

Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata

La fonte ardente. Due atti per Simone Weil
L’albero delle parole
La Fenice
La Minima
Andrej Rubljòv
Il figlio
Lo Spettro della Rosa
Specchio doppio. Favola drammatica
Agnodice. Commedia drammatica
Guerra di sogni. Mito futuribile
Stanze. Versi per la danza
Trasparenze. Versi per la danza
Sensi. Versi per la danza
Kass
Dialogo di Natura e Anima
Trasumanar. L’atto di Pasolini
Isole. Poema scenico
Eraclito
Scintilla d’Africa
Specchi. Cellula drammatica
La vita accanto
Isadora
La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri

Appendice

Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente
Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente
Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole
Mario Luzi: Introduzione a La Fenice
Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima
Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv
Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice
Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni
Misha Van Hoecke: Nota a Stanze
Ugo Ronfani: Introduzione a Isole
Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito
Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa
Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto



 

Galleria di copertine

e … passeggiando tra i suoi libri …

Ladder of Oaths

Ladder of Oaths

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Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

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Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

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Voce di voci

Voce di voci

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Canti e pietre

Canti e pietre

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Scintille

Scintille

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Infinito presente

Infinito presente

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Infinite Present

Infinite Present

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L'opera del vento

L’opera del vento

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Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

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Congiunzioni

Congiunzioni

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L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

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Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

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Aforismi

Aforismi

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Elementi

Elementi

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Dietro-il-sole-e-la-notte_b

Dietro il sole e la notte

 

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Corale

Corale

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Sostanze

Sostanze

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senza niente

senza niente

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Concordanze

Concordanze

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Meridiana

Meridiana

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La gloria oscura

La gloria oscura

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L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

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La vita accanto

La vita accanto

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Guerra di sogni

Guerra di sogni

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La fonte ardente

La fonte ardente

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Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

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Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

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Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

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Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

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Agnodice

Agnodice

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Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

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Rosens ande

Rosens ande

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Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

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La fenice

La fenice

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La Minima

La Minima

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L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

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Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

***

Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

***

Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

***

Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

***

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

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Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

***

L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

***

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

***

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

***

Ungaretti

Ungaretti

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Dino Campana

Campana

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L'immagine aperta

L’immagine aperta

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Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

R. Ughetto, Poesie

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

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Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

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Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

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K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

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Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

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D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

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Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

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Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

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F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

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Orlando n

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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tutti-i-racconti-10_4349_

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

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Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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Molto rumor per nulla

W. Shakespeare, Molto rumor per nulla

 

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Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

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E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

***

Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

***

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

***

G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

***

E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

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M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

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Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

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Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

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G. Boine, La città

G. Boine, La città

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Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

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P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Jean-Luc Nancy – Nella musica la tenuta dell’istante.

Jean-Luc Nancy 01
Stampa fotografica siglata D.E.H. tratta da «Musica e cartoline», Edicart.

Jean-Luc Nancy

Nella musica la tenuta dell’istante

 

È possibile che chi ascolta la musica senza conoscerla – come si dice di quelli che non dispongono di alcun tipo di cultura musicale – e dunque senza essere capace di interpretarla, l’ascolti effettivamente e non sia piuttosto ridotto soltanto a sentirla? Oppure, se il termine «sentire» non dovesse significare altro che una percezione sonora priva di forma, dal momento che non verrebbe più percepito alcun segnale della vita corrente, è possibile che un tale tipo di ascolto superi il livello di un’apprensione immediata delle pulsioni, dei movimenti e delle risonanze affettive che confusamente dipendono da abitudini acquisite in materia di ritmo e di tonalità (velocità o lentezza, modi maggiori e minori …)?
Senza alcun dubbio l’ascolto competente permette di legare l’apprensione sensibile all’analisi della composizione e dell’esecuzione, come pure di giustificare per suo tramite tutte le inflessioni della sensibilità che vanno dalla comprensione globale di un’opera fino al dettaglio dei suoi momenti o dei suoi registri. Senza alcun dubbio un ascolto musicale degno di questo nome non può consistere che nella giusta combinazione dei due atteggiamenti o delle due disposizioni, quella compositiva e quella sensibile.
Resta il fatto che determinare la giusta misura in questione non è cosa che dipenda da alcuna criteriologia, sia essa musicologica o estetica. Così, l’insieme dei problemi che qui vengono posti non cessa di dare luogo a ricerche molto dotte e complesse, che tuttavia lasciano intatto un nucleo d’oscurità infinitamente fragile ma resistente: come si dividono o come si mescolano il musicista e il musicale? È sufficiente d’altra parte porre la domanda in questi termini per comprendere che essa non riguarda solo il problema dell’ascolto, ma anche quello della composizione e dell’esecuzione. La scienza o la tecnica del musicista non comportano di per sé la musicalità più profonda, più originale o più convincente. Certo non ci sono esempi – o ce ne sono molto pochi – di musicisti naïf nel senso in cui lo è Rousseau il Doganiere (per quanto questo essere naïf non sia affatto sprovvisto di tecnicità e di abilità), ma ce ne sono molti, invece, di tecnici dotati, la cui facoltà musicale si avvizzisce in composizioni scolastiche.
Potrebbe anche essere che questo problema della divisione fra il musicista e il musicale non sia diverso da quello della divisione fra un’apprensione tecnica e un’apprensione sensibile che ritroviamo in tutti i campi dell’arte: nella pittura, nella danza, nell’architettura o nel cinema. In realtà, si tratta ogni volta – con delle modalità molto diverse – dello scarto fra ciò che riconduce un’opera ai suoi mezzi, alle sue condizioni, ai suoi contesti regolati, e ciò che la fa esistere come tale, nella sua unità indivisibile (che del resto non è altro dall’unità indivisibile di un insieme e delle unità discrete, altrettanto indivisibili, delle sue parti, momenti, componenti, aspetti …)
Ciò che fa l’opera non è nient’altro: ciò che la fa nella sua totalità e che la rende un «tutto» non è presente in nessun altro luogo che non siano le sue parti o i suoi elementi. La sensibilità per l’opera, allo stesso modo, si distribuisce, restando indivisa, in ogni parte, in ogni modalità e in ogni regione dell’opera. Quel che chiamiamo «opera» è assai meno una produzione compiuta che non questo movimento, il quale non «produce» ma apre l’opera e non smette di tenerla aperta – o più precisamente di mantenere l’opera in questa condizione di apertura che la costituisce in modo essenziale, e di farlo fino alla sua conclusione, persino se prende forma da quello che la musica chiama risoluzione.

Ascoltare, così come guardare o contemplare, è toccare l’opera in ogni parte – oppure essere toccati da lei, il che è lo stesso. Indubbiamente non c’è una gran differenza fra la coppia formata dal musicista e dal musicale e la coppia dell’iconologico e del pitturale – se è lecito servirsi così di questi termini –, o la coppia del poesiologico e del poetico (identica osservazione), e questo vale per tutte le altre coppie che possiamo definire in qualsiasi campo estetico. Ogni volta non può che trattarsi di una stretta combinazione dell’analisi e del tatto, dove ciascuno dei due acutizza e fortifica l’altro. Un’intima e delicata alleanza fra la sensazione (o il sentimento, è tutt’uno) e la composizione del sensibile.
Quel che distingue la musica, tuttavia, è che la composizione come tale e le sue procedure di assemblaggio non cessano mai di essere in anticipo sul loro proprio sviluppo e di far attendere in qualche modo la risultante – se non il risultato – delle loro sistemazioni, dei loro calcoli, delle loro (musico)logiche. Che sia o non sia musicista, colui che ascolta, nel momento preciso in cui una sonorità, una cadenza, una frase lo tocca (qualcosa che, se è musicista, può determinare in termini di valore, di misura e così via ), viene condotto in un’attesa, spinto verso un presentimento.
Là dove la pittura, la danza o il cinema trattengono sempre in un certo presente – sia pure evanescente – il movimento e l’apertura che costituiscono la loro anima (il loro senso, la loro verità), la musica invece non smette di esporre il presente all’imminenza di una presenza differita, più «a venire» di qualsiasi «avvenire». Presenza non futura, ma solamente promessa, presente solo per via del suo annuncio, della sua profezia nell’istante. Profezia nell’istante e dell’istante: annuncio in questo istante della sua destinazione fuori del tempo, in una eternità. Ad ogni momento la musica non promette uno sviluppo se non per meglio tenere e aprire l’istante – la nota, il levare, il battere – fuori dallo sviluppo, in una coincidenza molto singolare del movimento e della sospensione.
Si tratta di una speranza: non di una previsione che si promette dei futuri possibili, ma di quest’attesa che senza attendere nulla lascia venire e ritornare un tocco di eternità. Questo deve tutto e non deve niente alla successione, all’incorporazione del movimento già passato e all’anticipazione del suo proseguimento. Piuttosto, essa riprende ogni volta il suo stesso cominciamento: l’ouverture, l’ attacco del suono, quell’idea secondo cui il suono modulato già si precede e si succede senza che sia mai possibile fissare un punto zero. È ciò in cui il suono risuona; esso pone in questione se stesso per essere ciò che è: sonoro.
Musica è l’arte della speranza della risonanza: un senso che non produce senso se non in ragione del suo ripercuotersi in se stesso. Si chiama e si ricorda, ricordando in sé e a se stesso, ogni volta, la nascita della musica, vale a dire l’apertura di un mondo in risonanza; un mondo sottratto alle disposizioni degli oggetti e dei soggetti, ricondotto alla propria ampiezza e che non produce senso, o meglio non ha la sua verità, se non nell’affermazione che modula questa ampiezza.
Non è dunque un uditore che ascolta, e al limite poco importa che sia o no musicista. L’ascolto è musicale quando è la musica ad ascoltare se stessa. La musica se ne torna, si ricorda, si risente come la risonanza stessa: un rapporto a sé deprivato, spogliato di ogni egoità e di ogni ipseità. Né «se stesso» né l’altro; né l’identità, né la differenza, ma l’alterazione e la variazione, la modulazione del presente che lo cambia in attesa della propria eternità, sempre imminente e sempre differita; poiché essa non risiede in alcun tempo. Musica è l’arte di far ritornare in ogni tempo il di fuori dal tempo, in ogni momento il cominciamento che si ascolta cominciare e ricominciare. Nella risonanza si esegue – e dunque si ascolta – l’inesauribile ritorno dell’eternità. Questo ritorno, questa revenance, non è inesauribile se non per il fatto che il cominciamento, quando comincia, si perde. Il tremito che lo rende possibile e apre la sospensione, la tenuta dell’istante, è anche l’inadempimento che lo esaurisce e lo destina all’oblio. Il cominciamento ritorna con l’oblio del cominciamento e con l’imminenza di una sparizione sempre rinnovata.
Ascoltandosi, la musica arriva ad ascoltare la singolarissima risonanza della fine nella nascita e della pena nella gioia, l’una e l’altra che si alterano senza confondersi né snaturarsi. Non si verifica qui nessuna unione dei contrari, perché non ci sono contrari, nessuna opposizione. C’è solo contrapposizione, contrappunto del canto e del discanto che si inseguono giro dopo giro in ciò che si vorrebbe, senza tuttavia osarlo, chiamare un incantamento.

 

Jean-Luc Nancy, Nella musica la tenuta dell’istante, il manifesto, 28 settembre 2006, p. 13.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ludwig Feuerbach (1804-1872) – Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita. Solo il fine tiene distante il Nulla. Ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità. In quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza. In quanto ente che pensa, sei nello Spirito.

Feuerbach Ludwig 01

Senza differenza non v’è alcun fine; il fine esclude l’eguale.
Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita.
Solo il fine tiene distante e trattiene qualcosa dal Nulla.
Tutto ciò che è non è senza una fine e senza dei limiti.
Solo il Nulla è privo di limite

Una cosa indifferente è una cosa priva di contenuto o priva di determinazione.
Sii Qualcosa, ed allora sarai Tutto.
La vita stessa, in sé e per sé, in quanto Essere pieno di significato
e ricco di contenuto, assolutamente determinato ed effettuale, è vita eterna, immortale
.

Ogni istante della vita è Essere realizzato.
Ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità.

Un Essere indifferente non è nient’altro che un semplice Essere temporale.
È il contenuto, non il tempo, che differenzia il tempo.
Ogni istante pieno, in quanto pieno, è eternità ed infinità.

 

Eternità è forza, energia, azione attiva, vittoria vincente.
È azione attiva solo se nel tempo è oltre il tempo.
Vincente è solo colui che si eleva oltre l’infelicità, non colui che sonnecchia.

In quanto ente che ama, tu sei nell’amore.
In quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza.

In quanto ente che pensa, sei nello Spirito.
In quanto ente che vive, sei nella vita infinita stessa.

«[…] se due oppure alcuni si eguagliano nel fatto di contenere la stessa vita, allora sempre soltanto uno di essi sarà necessario e non sarà invano, poiché di due cose che sono perfettamente eguali una è priva di fine. Se io sapessi che già una volta sono esistito sulla Terra, che vi è stato un secondo ente del tutto identico a me, subito mi precipiterei nell’abisso del Nulla, nella persuasione di essere un ente privo di fine; non potrei sopportare questo orrendo scherno e questo ghigno satanico verso me stesso. Infatti, senza differenza non v’è alcun fine; il fine esclude l’eguale, il semplicemente plurale, la ripetizione duplice [Zweimal], il doppio; soltanto nella mia particolarità, nella mia determinatezza, nel mio differenziarmi risiede il fondamento, il fine, la ragione del mio Esserci.
Una cosa ha bisogno di esistere solo una volta; se esiste una seconda volta in maniera del tutto identica, allora è priva di fine.
Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita; è esclusivamente attraverso questo condimento che l’Esserci e la vita acquistano sapore; ma l’Esserci e la vita hanno condimento e sapore soltanto se sono una volta sola.
Se la Terra avesse tra le stelle un fratello tanto eguale, un tale alter ego, piena di collera per questo suo Esserci privo di sapore e di gusto si precipiterebbe, senza dubbio, nel baratro del Nulla; infatti solo il fine tiene distante e trattiene qualcosa dal Nulla. […] È certamente indubitabile che si possano rappresentare, cioè che si possano immaginare, enti superiori, poiché l’immaginazione è, appunto, priva di confini e perciò priva di ragione; ma se questi enti immaginati esistano in altro luogo che non nell’immaginazione, e se questi immaginati enti superiori siano effettivamente superiori, è una questione alla quale senza dubbio si deve rispondere negativamente, ove si seguano i limiti e le leggi che la realtà effettiva, la ragione e la verità prescrivono. Infatti quella immaginazione non è appunto nient’altro che una immaginazione e perciò, tanto nelle sue conseguenze quanto nel suo fondamento, priva di ragione. Se, infatti, si oltrepassa l’uomo, se si oltrepassa l’effettivo confine dell’ente vivente individuale, allora ogni confine che viene posto è un confine assunto solo arbitrariamente, un confine solo immaginato» (pp. 91-92).

«Tutto ciò che è non è senza una fine e senza dei limiti […]. Essere, determinatezza, limite sono posti contemporaneamente, l’un con l’altro; solo il Nulla è privo di limite. […] V’è soltanto un’arma contro il Nulla, e questa arma è il confine; esso è l’unico punto d’arresto di una cosa, la trincea del suo Essere. Il limite, infatti, non è un qualcosa di esterno […]». (p. 101)

«[…] l’indifferenza o la non-indifferenza d’una cosa dipende esclusivamente dalla sua mancanza di contenuto o dal suo contenuto. Una cosa indifferente è una cosa priva di contenuto o priva di determinazione. […] Essere immortale vuol dire, in verità, Essere-qualcosa, poiché con il Qualcosa è superata la mancanza di significato, con il superamento della mancanza di significato è superata l’indifferenza e la casualità, e con il superamento di queste è superata la mortalità. Soltanto la peculiarità ha significato; la fine o l’assenza di fine sono senza interesse, sono privi di senso e privi di significato per la peculiarità. Sii Qualcosa, ed allora sarai Tutto. La fine è una negazione priva di Spirito e di intelletto, la mancanza della fine è una affermazione priva di Spirito e di intelletto. Ma la vita stessa, in sé e per sé, […], in quanto Essere pieno di significato e ricco di contenuto, assolutamente determinato ed effettuale, è vita eterna, immortale. Immortale è ciò che è fine a se stesso. Il fine di una cosa è il suo significato, il suo significato è ciò che la costituisce ed il suo valore, ciò che la costituisce e il suo contenuto, il suo contenuto sono le sue determinazioni; ma la vita è l’Essere che in sé e per sé, già in quanto Essere, ha in sé il suo valore, il suo dato costitutivo [Gehalt] ed il suo significato, che in questa sua unità con il suo significato è, dunque, fine a se stessa, e, conseguentemente, immortale.
Ogni istante della vita è Essere realizzato, di significato infinito, posto di per se stesso attraverso se stesso, soddisfatto in se stesso, pienezza conchiusa e appagata della effettualità, affermazione illimitata di se stesso; ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità, un calice che, come il calice miracoloso di Oberon, sempre si riempie ogni volta da solo. La vita è musica celeste che il sublime artista dell’universo fa magicamente apparire dallo strumento della natura. Gli stolti dicono che la vita sia un semplice e vuoto suono, che essa passi come il fiato, che si disperda come il vento.
Ma la vita è musica ed ogni istante è una melodia oppure un suono pieno, colmo di anima e ricco di Spirito. Il vento sibila nelle mie orecchie, ma è senza contenuto e significato; la sua essenza è caducità priva di essenza e di contenuto, un soffiare ed un disperdersi senza interesse, indifferente. Il suono, invece, è musica, è pienezza, è Essere pieno, fondamento di se stesso, fine, contenuto che sussiste in se stesso. Anche i suoni della musica passano, ma ciascun suono è pieno di Essere, ha significato in quanto suono; di fronte e questo significato intimo, di fronte all’anima del suono, svanisce, come un Nulla e come un qualcosa di insignificante, la caducità. Il vuoto suono è compreso solo nel flusso del passare; infatti il momento presente, nel suono, non si distingue dal momento passato e da quello futuro, ed a causa di questa uniformità priva di distinzioni, a causa di questa ripetizione dell’uno e medesimo, il suono stesso è caducità indifferente e finitudine. Al contrario, il suono in quanto istante pieno, colmo di contenuto, è un momento temporale determinato, differenziato; questa pienezza, questo contenuto, è il suo fine ed il suo significato; con questa sua differenza, con questa sua peculiarità e con questo suo contenuto svanisce l’indifferenza del suo Esserci, e con lo svanire della sua indifferenza svanisce la sua semplice temporalità, poiché l’indifferenza dell’Essere è la semplice temporalità del medesimo: un Essere indifferente non è, in verità, nient’altro che un semplice Essere temporale. Un Essere solo temporale è un Essere nel quale l’esser-presente, l’esser-futuro e l’esser-passato non si distinguono l’un dall’altro, poiché nel tempo in quanto tale non v’è alcuna differenza; il momento temporale presente, in quanto semplice momento temporale, non è né distinto né separato dal momento temporale passato. È il contenuto, non il tempo, che differenzia il tempo. Esclusivamente attraverso la sua peculiarità il momento presente è un momento determinato, in quanto è un momento differenziato.
Ogni Qualcosa, ogni contenuto è perciò intemporale ed oltretemporale, ogni confine nel tempo è un confine, una negazione, del tempo stesso, ogni istante pieno, in quanto pieno, è eternità ed infinità.
L’eternità non è nient’altro che la pienezza, la peculiarità e la determinazione del tempo, in quanto è la negazione attiva, effettuale, del tempo nel tempo; è appunto pienezza, determinazione del tempo. Eternità è forza, energia, azione attiva, vittoria vincente.
Ma essa è azione attiva solo se nel tempo è oltre il tempo, solo se nel tempo nega il tempo.
Vincente è solo colui che si eleva oltre l’infelicità, solo colui che nell’infelicità nega e sconfigge l’infelicità, ma non colui che sonnecchia, aldilà dell’infelicità, nel molle grembo della Fortuna.
Il suono è suono solo per il fatto che nel passare è la negazione del passare, per il fatto che è un suono non semplicemente temporale, bensì, nella sua temporalità, un suono determinato, pieno di contenuto, negatore della temporalità medesima.
Certo, il suono è breve oppure lungo; ma non è nient’altro che breve o lungo? Certo, passa anche questa sonata stessa, in essa questi singoli suoni sono ora brevi ora lunghi; essa non viene suonata in eterno. Ma io ti domando, come chiameresti colui che, mentre la sonata viene eseguita, non ascoltasse bensì si limitasse a calcolare la durata dei suoni separatamente dal loro contenuto, e che, in questa separazione, facesse della temporalità suo proprio oggetto e, allorché la sonata fosse terminata, facesse del quarto d’ora della sua durata il predicato del suo giudizio sulla sonata medesima e, mentre gli altri, incantati dalla meraviglia del suo contenuto cercassero di designarne il significato con parole appropriate, la caratterizzasse come una sonata d’un quarto d’ora? Senza alcun dubbio troveresti il predicato “folle” ancor troppo demente per designare un individuo simile.

Come si dovrebbero allora chiamare coloro che fanno della caducità un predicato di questa vita, coloro che credono di dire qualcosa, di esprimere un giudizio sulla vita, quando dicono che è temporale, che è transitoria? Col che, nulla si dice, nulla si pensa, nulla si designa; nulla di nulla!
Come si dovrebbero chiamare coloro che fanno di ciò che è Nulla loro oggetto e che, col fare del Nulla loro oggetto, ad esso conseguentemente danno significato e realtà, in modo tale che annientano il Qualcosa, l’effettivamente effettuale, oppure lo perdono di vista?
Essi medesimi chiamano se stessi devoti, razionalisti e persino anche filosofi. Ma lascia che i morti seppelliscano i morti!
Dio è la vita, l’amore, la coscienza, lo Spirito, la natura, il tempo, lo spazio stessi, il Tutto tanto nella sua unità quanto nella sua differenza.
In quanto ente che ama, tu sei nell’amore di Dio; in quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza di Dio; in quanto ente che pensa, sei nello Spirito di Dio; in quanto ente che vive, sei nella vita infinita stessa, nel tempo oltre il tempo, nello spazio al di fuori dello spazio. Dio è immortale, e nell’immortale non vi è che l’immortale. Tu sei in Dio, quindi tu stesso sei immortale; la verità, infatti, vien còlta ed espressa nella verità ed in quanto verità, non nell’ opposizione ed in quanto opposizione.
Dio è la coscienza, la vita, l’essenza, ma è l’amore, in quanto amore infinito ed eterno per coloro che hanno coscienza, amore eterno per gli enti e per coloro medesimi che vivono eternamente. Oggetto dell’ eterno è, infatti, solo ciò che è eterno» (pp. 229-233).

 

Ludwig Feuberbach, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, a cura di Fabio Bazzani, Editori Riuniti, Roma 1997.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Antonio De Curtis – Totò (1898-1967) – I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla sempre al posto di comando.

Totò Antonio de Curtis 01

«L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza.
Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama.
I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla sempre al posto di comando spesso senza averne l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque».

Antonio De Curtis, Uomini o caporali (1955), regia di Camillo Mastrocinque, soggetto di Antonio de Curtis, sceneggiatura di Vittorio Metz, Mario Mangini, Nelli, Camillo Mastrocinque, Antonio de Curtis.

Così nel 1955.
Nel 1963 Totò precisa:

«Quella mia battuta “siamo uomini o caporali” non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido così, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne son tanti, di uomini ce ne sono pochissimi; i caporali sono quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. Cambia il partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature».

Totò spiega la differenza tra uomini e caporali

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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