Andrea Ignazio Daddi intervista Luca Grecchi nella Puntata #41 di «IntelliGo-Filosofia in movimento». Tema: «La metafisica unanistica» nella temperie degli studi filosofici odierni.



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I suoi libri

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – La «Metafisica umanistica» di Luca Grecchi: … sfregando insieme, non senza fatica, queste realtà – ossia nomi, definizioni, visioni e sensazioni –, le une con le altre, e venendo messe a prova in confronti sereni, e saggiate in discussioni fatte senza invidia … … dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce nell’anima …

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Luca Grecchi – Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere. In Appendice: Dialogo biografico-filosofico con Alessandro Dignös

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (361-370) – Costanzo Preve, Massimo Bontempelli, Maura Del Serra, Luca Grecchi, Giulia Angelini, Diego Lanza, Gherardo Ugolini, Marco Gallo, Vincenzo Brandi, Alberto Giovanni Biuso, Salvatore A. Bravo, Michele Di Febo, Alessandro Dignös, Lorenzo Dorato, Arianna Fermani, Alessandra Filannino Indelicato, Marco Guastavigna, Claudio Lucchini, Fernanda Mazzoli, Giancarlo Paciello, Franco Toscani, Sergio Rinaldelli.

361-370

361
Costanzo Preve, La fine dell’URSS. Dalla transizione mancata alla dissoluzione reale. Seconda Edizione.
ISBN 978-88-7588-300-3, 2020, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [20]. In copertina: Disegno di M. Vulcanescu.

362
Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo. Seconda Edizione.
ISBN 978–88–7588-301-0, 2020, pp. 288, formato 140×225 mm, Euro 25 – Collana “Il giogo” [124]. In copertina: Albrecht Dürer, Civetta, 1525.

363
Maura Del Serra, In voce. 55 poesie lette dall’autrice. Il libro è in vendita con CD allegato.
ISBN 978-88-7588-302-7, 2020, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Foto di Maura Del Serra.

364
Costanzo Preve, Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci. Dialogo sulla progettualità, ovvero su come cambiare il mondo. Introduzione di Giulia Angelini. Seconda Edizione riveduta e ampliata.
ISBN 978–88–7588-299-0, 2020, pp. 320, formato 140×210 mm, Euro 27 – Collana “Il giogo” [125]. In copertina: Rilevo votivo di Atena pensosa, 460 a.C., marmo pario. Atene, Museo dell’Acropoli.

365
Diego Lanza, Il tiranno e il suo pubblico. Introduzione di Gherardo Ugolini: La tirannide come “ideologia” secondo Diego Lanza. ISBN 978–88–7588-303-4, 2020, pp. 400, formato 140×210 mm, Euro 30 – Collana “Il giogo” [126]. In copertina: Frammento di vaso attico a figure nere di Sophilos, VI sec. a.C., Museo Archeologico Nazionale di Atene.

366
Marco Gallo, Santiago Express. Appunti di viaggio. A cura di Ilaria Rabatti.
ISBN 978–88–7588-304-1, 2020, pp. 120, formato 130×200 mm, Euro 10. In copertina: Verso Santiago.

367
Costanzo Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente. Seconda Edizione ISBN 978-88-7588-265-5, 2020, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Divergenze” [70]. In copertina: Paul Klee, Maske der Furcht [Maschera di paura] (1932).

368
Vincenzo Brandi, Conoscenza, scienza e filosofia. Profili di scienziati e filosofi della scienzada Talete alla fisica contemporaneaISBN 978-88-7588-269-3, 2020, pp. 512, formato 170×240 mm., Euro 30 – Collana “Divergenze” [71]. In copertina: Costruttori di una cattedrale per l’uomo, metafora del lavoro di ricerca scientifica, rilievo in pietra (XII secolo) Santa Maria, Girona (Spagna).

369
Giulia Angelini, Alberto Giovanni Biuso, Salvatore A. Bravo, Michele Di Febo, Alessandro Dignös, Lorenzo Dorato, Arianna Fermani, Alessandra Filannino Indelicato, Marco Guastavigna, Claudio Lucchini, Fernanda Mazzoli, Giancarlo Paciello, Franco Toscani, Tempi covid moderni. A cura di Alessandro Dignös.
ISBN 978–88–7588-273-0, 2020, pp. 256, formato 170×240 mm, Euro 25 – Collana “Il giogo” [127]. In copertina: René Magritte, Golgonde, olio su tela, 1953, The Menil Collection, Houston.

370
Sergio Rinaldelli, Solo l’irraggiungibile. Frammenti di cronaca interiore.
ISBN 978-88-7588-277-8, 2021, pp. 208, formato 130×200 mm., Euro 15. In copertina: Sergio Rinaldelli, I fiori del silenzio, 2006, olio su tavola, 97,5 x 67,5.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Koiné – «Tempi covid moderni». Siamo chiamati a defatalizzare quanto, nel filtro del pensiero “mainstream”, appare “normale”, “destinale”, “irreversibile”. Occorre riaprire lo spazio ad una critica trasformatrice che ponga le basi per una nuova progettualità umana.

Tempi covid moderni

Giulia Angelini, Alberto Giovanni Biuso, Salvatore A. Bravo,  Michele Di Febo, Alessandro Dignös, Lorenzo Dorato,

Arianna Fermani, Alessandra Filannino Indelicato, Marco Guastavigna, Claudio Lucchini, Fernanda Mazzoli,

Giancarlo Paciello, Franco Toscani

Tempi covid moderni

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La pandemia ha mutato le modalità di relazione, di insegnamento, di lavoro, di consumo. Si offre in queste pagine una riflessione critica a più voci con i contributi di: Alessandro Dignös, Introduzione / Fernanda Mazzoli , La scuola ai tempi del Covid: prove generali di colonizzazione digitale / Arianna Fermani, Esperienze di didattica universitaria, tra luoghi non-luoghi, alla ricerca di una “virtuosità del virtuale” / Claudio Lucchini, La didattica della merce e le esigenze della libera individualità / Michele Di Febo, Università e lezioni a distanza: minaccia o opportunità? / Alberto Giovanni Biuso, Epidemie barbariche / Salvatore A. Bravo, Didatticismo e Covid-19. La pandemia ha soltanto accelerato un processo già in atto da anni / Alessandra Filannino Indelicato, Ermeneutica della distanza. Contributi di filosofia del tragico sull’ospitalità inquietante / Giulia Angelini, L’isola di Filottete / Franco Toscani, Un pianeta malato. Umanità e socialità nel tempo della pandemia / Marco Guastavigna, A distanza, ma dal pensiero e dalle pratiche mainstream / Lorenzo Dorato, Le lezioni economiche della pandemia Fernanda Mazzoli Giancarlo Paciello, La trappola della rete: una lettura dell’indagine di Renato Curcio sulla realtà virtuale, o meglio, sulla specificità del capitalismo attuale.


Il sistema dominante non ha creato il virus, né ha favorito la sua diffusione: esso si è “limitato” a trarre cinicamente profitto da un’epidemia di cui nessuno può dirsi artefice, proponendo come rimedio ciò che, per sua natura, è funzionale al proprio “benessere” anziché a quello dell’uomo e della comunità. Le diverse misure poste in essere nel 2020 non fanno che accelerare processi e tendenze in atto dagli ultimi decenni del Novecento, ragione per cui molti tra coloro che studiano la società e le sue strutture vedono nelle nuove modalità e nelle nuove pratiche di vita «fenomeni» tutt’altro che imprevedibili.
Il presente numero di Koinè vuole costituire un invito a ripensare il nostro tempo, ponendosi come un vero e proprio esercizio di defatalizzazione di quanto, nel filtro del pensiero mainstream, appare “normale”, “destinale”, “irreversibile”. Solo distinguendo ciò che è ontologicamente “inevitabile” da ciò che, invece, si presenta come tale, è possibile riaprire lo spazio ad una critica trasformatrice che ponga le basi per una nuova progettualità umana. In tal senso, il presente invito a ripensare l’attuale è, al contempo, un’esortazione a ripensare ciò che trascende la semplice presenza: l’uomo. È solo a partire dalla comprensione della sua essenza che è infatti possibile individuare dei nuovi modi di vivere che siano veramente conformi ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni, mostrando, in tal modo, quale sia il modello di società a cui tendere affinché costui possa autenticamente “fiorire” e realizzarsi.

A. Dignös






M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandro Dignös – Il saggio di Arianna Fermani «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». Un’indagine sul carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza» a partire dallo studio del pensiero etico di Platone e di Aristotele

Arianna Fermani, speranza Dignoes
Arianna Fermani

«Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.

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Alessandro Dignös
Il saggio di Arianna Fermani Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato.
Un’indagine sul carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza»
a partire dallo studio del pensiero etico di Platone e di Aristotele

Il presente studio di Arianna Fermani, dal titolo eracliteo Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato, si propone di fare luce sull’essenza di quella particolare “realtà” che è costituita dalla «speranza», a partire dal riconoscimento che la nozione di «speranza» che domina il senso comune appare incapace di cogliere la complessità dei significati che tale termine racchiude. Se, infatti, si riflette sul modo in cui la «speranza» è generalmente descritta, è possibile osservare come essa venga quasi sempre identificata con un «sogno ad occhi aperti» (p. 7), ossia con qualcosa che intrattiene un nesso indissolubile con la dimensione desiderativa. Questa visione di tale realtà non è falsa ma, rimarca la studiosa, è vera soltanto in parte, giacché si fonda sul presupposto che essa rappresenti una sorta di “sottoinsieme” dell’“elemento” «desiderio», da cui soltanto può essere compresa e spiegata. L’obiettivo del presente saggio è quello di chiarire come la «speranza» non abbia solamente a che fare con la sfera “sentimentale”, poiché è caratterizzata da un altro aspetto essenziale, in virtù del quale essa viene ad assumere un significato diverso da quello il senso comune è solito attribuirle.

L’analisi di Fermani sulla «speranza» è condotta attraverso un vero e proprio “dialogo” con Platone ed Aristotele, grazie ai quali, secondo l’autrice, è possibile cercare di dare risposta alla domanda «che cos’è la speranza?» (Ibidem). Il punto di partenza e il filo conduttore di questo studio è, in ogni caso, costituito dalla ricostruzione e dall’analisi del significato etimologico delle parole connesse alla «speranza» – un’operazione che, per la studiosa, non è sterile o semplicemente erudita, poiché «ogni lavoro sulla parole implica una immersione in profondità e un cambio di prospettiva» (Ibidem). Ciò che si deve fare, al fine di fare luce sull’essenza di tale realtà, è quindi esaminare i diversi termini cui essa è legata, interrogando coloro che, per primi, hanno colto il carattere “areteico”, “paideutico” e “pratico” della «speranza», mostrando come essa rappresenti l’anima di ogni autentica progettualità.

Fermani evidenzia come il termine ἐλπίς, con cui i Greci indicano la «speranza», si connetta al verbo greco ἐλπίζω, «la cui radice elp corrisponde alla radice latina vel, da cui “volere”» (p. 8). Come rivela l’analisi etimologica, l’elemento del «desiderio» non è solo accostabile alla «speranza», ma coincide con uno dei suoi tratti costitutivi. La «speranza» si caratterizza come un’autentica «aspirazione» o «tensione» verso qualcosa o, più precisamente, verso «qualcosa che non c’è o che non c’è ancora» (p. 10), configurandosi in questo modo come quel «desiderio» «che ci fa muovere» e «ci spinge e ci apre al futuro» (Ibidem). Alla luce di ciò, è evidente che in questo πάθος non vi è alcunché di “passivo”: al contrario, si tratta di un sentimento che ci sottrae al dominio di ciò che è semplicemente presente, impedendoci di assumere i tratti di una «semplice-presenza». In questo senso, la «speranza» è un desiderio che, mirando a portarci “oltre” ciò che appare assolutamente necessario e determinato, fa appello non tanto alla ragione quanto all’immaginazione (φαντασία): come rivela Aristotele, ciò che muove e orienta gli uomini all’azione, e dunque in direzione del futuro, è il desiderio, non il λόγος.

Facendo leva sulla nostra capacità immaginativa, la «speranza» ci induce a vedere la realtà non più in termini di “necessità”, bensì di “possibilità”, mostrando come il futuro sia costitutivamente aperto a scenari radicalmente diversi da quello che domina il nostro presente. È questa la ragione per cui genera piacere: essa «rappresenta una spinta verso il meglio» che «ci porta via da una situazione spiacevole, ci allontana da un vuoto, da una mancanza» (p. 12), trasportandoci, sia pur solo momentaneamente e attraverso l’immaginazione, in un “altrove” migliore. La «speranza», dunque, ha a che fare sia con il dolore sia con il piacere: infatti, «da un lato essa è connessa al dolore per la mancanza e, dall’altra, è connessa al piacere in virtù della sua spinta verso il meglio» (Ibidem).

Ad ogni modo, il fatto di configurarsi come il desiderio di ciò che è ora assente rende la «speranza» anche qualcosa di pericoloso: se, infatti, essa viene riposta in cose che, in realtà, sono prive di fondamento, va da sé che essa non assume l’aspetto di qualcosa che ci dà sollievo e serenità, bensì di un’illusione o autoinganno che ci induce in errore e procura sofferenza. In altri termini, se la «speranza» è infondata, essa «può farci perdere il contatto con la realtà o […] può farcela percepire in modo scorretto» (p. 14), rendendoci passivi e schiavi di un’idea che ci impedisce di gettare «un ponte verso un futuro migliore» (Ibidem). In questo caso, «in ragione di una sua scorretta gestione» (p. 15), la «speranza» si connette al vizio, poiché è causa di infelicità. Tutto ciò, rileva Fermani, è ben spiegato sia da Platone – che, nel Filebo, associa le “speranze insensate” a vizio e a scarsa intelligenza – sia da Aristotele – il quale, nella Retorica, sostiene che nessuno delibera su “cose senza speranza”.

In senso proprio, la «speranza» coincide con una tensione o aspirazione che, chiamando in causa la nostra immaginazione e fondandosi su ciò che è autenticamente possibile, ci conduce a dare un (nuovo) senso all’esistenza. Essa, se bene intesa, non è causa di sofferenza e passività giacché, come emerge dalle opere di Platone ed Aristotele, ha l’aspetto di una buona disposizione interiore, in virtù della quale l’uomo è spinto non solo ad agire ma, più precisamente, ad agire virtuosamente. «In questo caso», osserva la studiosa, «il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto» (p. 18). La «speranza» si caratterizza così come una virtù che rende possibile e accompagna altre virtù, prima tra tutte il «coraggio». Si tratta pertanto di un’autentica “passione attiva” o “attività” che mobilita il nostro λόγος in direzione di ciò che è bene, dandoci «lo slancio per affrontare le numerose sfide che la vita ci pone di fronte. E ogni sfida», ricorda Fermani, «implica inevitabilmente il rischio» (p. 19).

Proprio la sua intima relazione con il rischio mostra che la «speranza» è «intimamente collegata anche alla consapevolezza del limite» (p. 20), ossia alla consapevolezza del fatto che tutti noi, in quanto uomini, siamo enti essenzialmente «finiti». In questo senso, la «speranza» rivela anche la propria funzione positiva e “paideutica”: essa ci insegna e ci rammenta che la nostra essenza risiede nel «limite», e dunque che, se vogliamo essere felici, ciò che dobbiamo fare è “seguire la via della «misura»” e «non desiderare cose impossibili» (Chilone di Sparta). Alla luce di ciò, per Fermani si può dire che «il soggetto agente spera solo se assume il suo limite, solo se abita con consapevolezza il suo essere costitutivamente esposto e manchevole». La «speranza», lungi dall’essere un invito alla rinuncia, è invece un’«apertura» che «si contrappone alla chiusura prodotta dalla paura» (p. 21) e alla «presunzione», cioè al disconoscimento della “limitatezza” della realtà umana. Essa rappresenta «il fondamento della nostra felicità, della felicità “umana”, ovvero di quel “capolavoro” che a noi progettare, fondendo ogni volta ragione e desiderio, con impegno, con costanza e tenacia» (p. 22).

Preziose indicazioni, in questa direzione, sono offerte ancora una volta dall’analisi etimologica. Se consideriamo la radice latina del termine «speranza», spes, possiamo osservare che essa «raccoglie entrambe le matrici della speranza, ovvero […] la speranza come desiderio e la speranza come virtù» (p. 27). Si tratta, infatti, di un termine la cui radice «può essere […] rintracciata nel verbo greco σπεύδω e nel sostantivo σπουδή», che significano rispettivamente «“affrettare”, “sollecitare”, […] “aspirare a”, “affaccendarsi”, “adoperarsi”, “ingegnarsi”», e «“sollecitudine”, “diligenza”, “cura”, “fatica”, “sforzo”, ma anche “aspirazione”» (Ibidem). Le origini della parola «speranza» rivelano in tal modo come essa non implichi soltanto l’atto di “desiderare” ed “aspirare a” qualcosa, ma anche quello di “attivarsi” ed “impegnarsi” concretamente, affinché ciò che desideriamo possa realizzarsi.

In questa prospettiva, «sperare» non equivale dunque a dissociarsi dalla realtà e ad illudersi ma, al contrario, a protendersi verso l’avvenire, accettando i limiti che ci definiscono, da un lato, e, d’altro lato, i rischi cui, per la stessa condizione umana, siamo perennemente esposti. Solo assumendo tali rischi è possibile immaginare un futuro migliore e «costruire nuovi scenari» (p. 23). La «speranza» si fonda sull’idea che lo scenario in cui agiamo non sia il solo possibile e, dunque, sull’idea che ciò con cui entriamo in relazione possa essere cambiato e migliorato. Senza «speranza» non può esservi alcuna progettualità: ogni vera progettualità, come ogni forma di παιδεία o Bildung, si fonda infatti sul riconoscimento che il “regno delle cose umane” non sia un orizzonte stabile e immutabile, bensì qualcosa che può essere trasformato dalla prassi umana. Nessun uomo sarebbe indotto a ri-pensare la realtà e a modificare lo stato di cose presenti, se non fosse animato dalla «speranza» che le cose possano essere migliori. La «speranza» è propriamente ciò «che ci permette di volere un mondo diverso e che ci dà la forza di cambiarlo» (p. 27). «L’invito a coltivare la speranza rappresenta, in conclusione, l’invito a non smettere mai di guardare oltre e di “volare alto”» (p. 28).

Il saggio di Arianna Fermani ha il merito di indurci a ripensare radicalmente l’idea di «speranza», mostrando come la concezione ordinaria della «speranza» sia non solo limitata ma, proprio per ciò, foriera di fraintendimenti. Dal “dialogo” tra la studiosa e Platone ed Aristotele – cui si uniscono, qua e là, le “voci” di Chilone, Agostino, Tommaso, Leopardi e naturalmente, in sottofondo, quella di Eraclito – emerge come la speranza si configuri sia come un «desiderio» che ci spinge all’azione, sia come una «virtù» da cui ha origine la buona azione. La «speranza» non è dunque un sentimento che riguarda un particolare ambito della vita, né una forza irrazionale che, legandoci al presente, ci rende passivi e sofferenti: al contrario, si tratta di una qualità inscritta nell’essenza stessa dell’uomo come «essere progettuale». Appartiene alla natura umana il fatto di desiderare (πάθος) ciò che è buono e pensare (λόγος) al modo in cui esso può essere realizzato. Ogni progetto umano presuppone l’idea che un avvenire migliore sia possibile. La «speranza» rappresenta il disvelamento di tale possibilità.

Alessandro Dignös

 


Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.
Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»
Alessandro Dignös – Uno Spinoza diverso. L’«Ethica» di Spinoza e dei suoi amici, di Piero Di Vona.
Alessandro Dignös – Il saggio «L’ultimo uomo» di Salvatore A. Bravo. Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo».

Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Alessandro Dignös – Il saggio «L’ultimo uomo» di Salvatore A. Bravo. Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo».

Ultimo uomo, Nietzsche

L’ultimo uomo

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Alessandro Dignös

Il saggio L’ultimo uomo di Salvatore Antonio Bravo

Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale
alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo»

 

Il saggio L’ultimo uomo di Salvatore Antonio Bravo intende esaminare e «riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia» (p. 5): quella dell’«ultimo uomo» (der letzte Mensch) nietzscheano. Si tratta, com’è noto, di un tema cardine del pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche; nondimeno, come rileva lo studioso, nonostante gli innumerevoli studi dedicati al suo pensiero, «titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressoché assenti» (Ibidem). Questo fatto appare paradossale: l’analisi del concetto di «ultimo uomo» è infatti di vitale importanza per la decodificazione della filosofia nietzscheana, al punto che non si può realmente pervenire alla sua comprensione se si prescinde dalla considerazione di tale figura. Nella misura in cui l’«ultimo uomo» rappresenta l’incarnazione del «nichilismo», che Nietzsche identifica con la cifra della nostra civiltà e del nostro tempo, va da sé come la sua analisi sia del tutto imprescindibile per intendere la diagnosi nietzscheana della contemporaneità. Alla luce di ciò, la nozione di «ultimo uomo» appare, per alcuni aspetti, più importante di quella di «superuomo»: infatti, se è vero che questa coincide, in un certo senso, con la “causa finale” della costruzione filosofica di Nietzsche, è altresì vero che è l’«ultimo uomo» che costui ha in mente nella sua radicale critica dell’evo presente. Sulla scia della lettura della filosofia nietzscheana data da Costanzo Preve, che ha il merito di aver «spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo» (Ibidem), Bravo si propone di indagare tale concetto «al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità» (Ibidem). Se dunque, da un lato, egli mira a far luce su alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, dall’altro la sua ricerca appare rivolta alla comprensione del nostro tempo proprio a partire dall’analisi nietzscheana.
Come emerge dalle opere di Nietzsche, l’«ultimo uomo» non è che un semplice replicante: «uguale a tutti, si confonde con ognuno» (p. 7). Non solo appare incapace di distinguersi dalla massa, ma addirittura vede con sospetto ogni tentativo di differenziarsi rispetto ad essa. Costui rappresenta il venir meno dell’uomo, poiché la sua identità consiste nell’assenza di identità. Nel mondo in cui egli domina «non vi sono idee, non vi sono modi di sentire e di esserci differenti: lo scorrere del tempo è un «eterno ritorno dell’eguale» consistente in una «replicazione ad infinitum di parole, frasi, gesti, comportamenti eguali, orientati verso una riconciliazione massificata che respinge ogni tensione creativa» (Ibidem). In un mondo siffatto, nota Bravo, «scompare ogni maieutica ed ogni dialettica» (Ibidem).
È il suo «integralismo nichilista» a renderlo «il più inquietante» tra gli uomini. La sua visione del mondo è unicamente orientata al «trionfo della sicurezza: precondizione per il successo dei suoi piccoli raggiri da mercato» (p. 8). Lo strumento della sua affermazione è la «tecnica» (Gestell), mentre il suo habitat è la “società di mercato”, l’orizzonte nel quale «si rende manifesta la morte di Dio e con essa la morte dell’uomo» (Ibidem). Questo “mondo storico” segna il tramonto di ogni umanesimo, poiché il regno della cieca manipolazione tecnico-utilitaristica ripudia e respinge qualsiasi forma di resistenza al suo imporsi, qual è quella costituita da realtà e concetti come “essere”, “natura umana” o “verità”. Alla ricerca dialogica della verità come fondamento della comunità, l’impero del mercato sostituisce l’«esattezza» delle scienze, intesa come strumento di gestione e manipolazione della vita umana. Di un fondamento veritativo irriducibile a tale «esattezza» non è più nulla. Con l’evento della morte di Dio, muore così anche la filosofia; non resta che l’egemonia del nulla o «nichilismo».
Per la sua capacità di prevedere alcuni esiti prodotti dalla tecnica e dal mercato, Nietzsche, secondo Bravo, può essere considerato il “profeta” «dell’ultimo integralismo: quello economico, il più insidioso, il più pervasivo, poiché risponde ad una logica semplice: “comprare – vendere”; e, mediante tali attività, trasforma in verità ontologica, in paradigma, il mercato» (p. 9). La società mercatista, per Nietzsche, rappresenta «la realizzazione assoluta della “décadence”», che «partorisce gli uomini che meritano il grande disprezzo» (p. 13). L’«ultimo uomo», in questo senso, non figura che come il “prodotto” di un complesso lavoro di ingegneria “sociale” che ha nel totalitarismo del “mercato” – l’unico vero Dio della postmodernità – il proprio “ingegnere” – o, meglio, il proprio Demiurgo. Il sentimento che più lo caratterizza è l’assenza di sentimento, ovvero l’indifferenza: nulla in lui desta reale gioia o stupore, così come nulla in lui crea sgomento o angoscia: «ripiegato su se stesso e sui suoi piccoli affari, ha quale obiettivo quello di rassicurarsi e gratificarsi nei giochi minuscoli di potere e piacere. Vive nella sua caverna, giudicandola l’unica possibile; […] non immagina un mondo altro possibile» (p. 10). «Schiavo della sua indifferenza, sa solo agire e reagire, è veloce nel contare, nella tattica della piccola politica, ma ogni grande pensiero, ogni sospensione della prassi per una comprensione completa e feconda gli è estranea» (p. 12). L’«ultimo uomo» parla sempre del proprio “io”, senza però intendere che esso non è che un fantasma: «in realtà, in sua vece, parla il sistema tecnocratico» (p. 11). Ogni pensiero profondo è in lui e da lui rimosso: per l’«ultimo uomo», il solo “essere” possibile è il “visibile”, il “corporeo”, ciò che si presta a ridursi ad oggetto di scambio, mercanteggiamento, chiacchiera, contraffazione e consumo. «La consapevolezza è espulsa dal percorso vitale perché dona profondità e diventa elemento di interruzione di un flusso finanziario» (p. 7); e «chi sente diversamente» in questo mondo, preconizza Nietzsche, «se ne va da sé al manicomio» (Così parlò Zarathustra, Proemio, § 5).
Il giudizio nietzscheano sul «totalitarismo del mercato», afferma Bravo, «è accostabile a quello di Marx» (p. 16): ciò che Nietzsche scrive a proposito della condizione di “alienazione” che caratterizza gli uomini nell’età del «nichilismo» ricorda i rilievi marxiani sulla massificazione e sull’alienazione degli individui che il capitalismo inevitabilmente genera. Secondo lo studioso, «Nietzsche come Marx secondo prospettive diverse ravvisa i movimenti che avrebbero portato al gelo dell’ultimo uomo ed al depauperamento progressivo della creatività e della progettualità singolare e comunitaria» (p. 59). Entrambi, insieme a Hegel, «hanno colto lo stesso pericolo: l’uomo ad una dimensione, l’uomo mediocre, l’animo piccolo borghese anonimo porta con sé una forza titanica distruttiva. Si avvale della tecnica e delle tecnologie, e le utilizza per il salto finale, ovvero conquistare ogni parte del pianeta al capitale, mentre avanza l’ultima ideologia, ogni coscienza è a sua volta terra di conquista» (p. 19). La società (post-)moderna è una «gabbia d’acciaio» in cui «l’ultimo uomo può diventare il cannibale della propria comunità o di altre comunità» (p. 23). Come rileva Bauman, ognuno, in questo palcoscenico, è in pericolo: il processo di razionalizzazione che esso inscena partorisce individui autolatrici, cinici e inconsapevoli che non pongono alcun freno alle proprie azioni e appaiono disposti a tutto pur di realizzare il proprio utile.
Ma chi sono questi individui? Bravo mette in luce come non esista, nella prospettiva di Nietzsche, un solo “modello ideale” di «ultimo uomo», poiché, dal momento che egli rappresenta l’assenza di qualsivoglia identità, molteplici sono le “maschere di carattere” che egli è in grado di indossare. Tra queste vi sono «lo storico, lo scienziato positivista, il razionalista socratico, il demagogo, il razzista, il nazionalista, il religioso» (p. 12), così come i «ricchi borghesi» e i «socialisti rivoluzionari». Questi ultimi, secondo Nietzsche, non personificano un tipo umano differenziato, una sorta di homo novus; all’opposto, la loro ragion d’essere è nei borghesi stessi, dei quali incarnano i sentimenti dell’invidia, del rancore e del risentimento. «Nell’esposizione-confronto tra chi ostenta e chi possiede e chi invidia», evidenzia lo studioso, vi è per il pensatore «la genealogia, l’origo delle ideologie socialiste», poiché «il mercato […] invita all’invidia, e dunque diventa causa delle stesse ideologie degli egoismi e dei rancori. […] I ricchi borghesi ostentano la loro muscolatura mediante i beni in loro possesso» e «offrono con essi l’ostentazione del loro potere; dall’altra parte», invece, vi è «la penuria e dunque l’invidia: i proletari vorrebbero essere al posto dei ricchi borghesi, e dunque fomentano la rivoluzione, la distruzione di ogni gerarchia e valore» (p. 15), ossia, in una parola, il «nichilismo».
A questo punto, si tratta di capire quando si sia realizzata, per Bravo, la profezia di Nietzsche. La risposta che egli offre stupirebbe di certo la maggioranza degli studiosi del pensiero nietzscheano. Secondo costui, la sua compiuta realizzazione non ha luogo nella prima metà del Novecento, ma a partire dal Sessantotto. È con il Sessantotto, la «fuga da ogni regola», che si aprono le porte alla «possibilità totale della mercificazione» grazie al «trionfo del capitale senza borghesia e senza etica. Il capitale liberato da ogni vincolo può dunque dimorare ovunque; così l’Occidente diviene la casa del capitale» (p. 29). Grazie al Sessantotto, «ogni trasgressione è innalzata sugli altari», non perché costituisca una forma di “liberazione”, ma «poiché produce beni di consumo» (Ibidem). “Liberati” da ogni resistenza al dominio della merce, agli individui non resta che accettare e promuovere con nichilistica esaltazione la precarizzazione dell’esistenza, la disgregazione sociale, l’omologazione culturale, la deificazione del progresso e, infine, la tecnicizzazione della vita, dei rapporti umani e della politica. Si approda così all’idea che il presente incarni la gloriosa «fine della storia» e che questo mondo, nonostante suoi difetti, rappresenti «il solo» e «il migliore dei mondi possibili». E così sia.
Il “mondo storico” previsto e descritto da Nietzsche si presenta oggi come un orizzonte ineluttabile, una realtà di cui si è parte e con cui si è costretti a fare i conti in ogni istante della vita quotidiana. La sua prospettiva, tuttavia, è tutt’altro che fatalista: da questo mondo, egli avverte, il «possibile» non è né può essere espunto. È vero che «il deserto avanza», ma è altrettanto vero che esso, per il filosofo, «incontra e si scontra con anime immense che rompono la massificazione» (p. 49). Esse, spiega Bravo, sono coloro che «conservano il contatto con il dionisiaco», «la riserva delle energie psichiche della creatività vissuta nella carne e pensata con la carne, ciò che racchiude «potenzialità del pensiero che la ragione non conosce» (Ibidem). Sono «gli ispirati di Dioniso», dunque, che, per Nietzsche, «possono cambiare la storia, rovesciano il regno della necessità, divenendo i portatori di pensieri inauditi» (p. 49). Ciò che consente di liberare il «dionisiaco» nell’uomo e trasformarlo è descritto dal filosofo con l’espressione «eterno ritorno dell’eguale». Esso rappresenta «la palingenesi per poter creare», poiché determina l’arresto di quel «tempo meccanico, deterministico e positivistico» che è «il tempo ciclico del capitale», il cui infinito ripetersi segna «l’annichilimento della categoria del possibile» e «di ogni trasformazione individuale e collettiva» (p. 21). «L’eterno ritorno trasforma il tempo in ente voluto» (Ibidem) dando origine all’«oltreuomo», a colui che «sospende il tempo del fare, della ripetizione, per scegliere l’agire, nella rinuncia alle fantasie di onnipotenze la condizione per la creatività, per il dominio e la conoscenza di sé» (pp. 21-22), rivelando il «possibile» là dove, per l’«ultimo uomo», non vi sono che «necessità» e «normalità».
Ad ogni modo, l’emersione del «possibile», ossia della possibilità di uscire dalla «gabbia d’acciaio» tecno-capitalistica, non si manifesta, per Nietzsche, solo in senso “individuale”, con l’«oltreuomo». Come evidenzia Bravo, pur non essendovi opere «nelle quali egli ha trattato in modo sistematico un modello alternativo al sistema», «sono presenti tracce per un ipotetico programma sociale» (p. 45). Se si legge ciò che il filosofo scrive in alcuni suoi scritti, si può constatare che «le tragedie della sua epoca sono lette attraverso la cattiva distribuzione delle ricchezze»: «la polarizzazione dei capitali» e «l’assenza della politica», per costui, generano «estremismi pericolosi, la radicalizzazione dello scontro» (Ibidem). La critica di Nietzsche si rivolge così a un’«economia senza politica» che «frammenta e distrugge ogni tessuto sociale e diviene precondizione per nuovi e fatali sconvolgimenti in una deriva conflittuale della dismisura» (Ibidem). Quale sia il rimedio da porre a tale situazione è indicato da Nietzsche nell’aforisma 285 del secondo volume di Umano, troppo umano, nel quale esorta a togliere «dalle mani dei privati e delle società private tutti i rami del trasporto e del commercio, che sono favorevoli all’accumulazione dei grandi patrimoni, ossia in particolare il commercio del denaro», e a considerare «tanto i grandi possidenti quanto i nullatenenti come esseri pericolosi per la comunità»; è solo tenendo «aperte tutte le vie del lavoro alla piccola proprietà», contrastando sia la povertà sia «l’arricchimento senza sforzo ed improvviso», che si può rendere la proprietà «più morale» e preservare la comunità (Umano, troppo umano II, aforisma 285). Sulla base di ciò, è lecito sostenere che anche in Nietzsche si delinea, per certi aspetti, una “via sociale” al superamento del «nichilismo» – una “via” che rivela all’uomo nuove «possibilità» rispetto all’ordine dominante.
Il saggio di Bravo ha il merito di mostrare un “ritratto” di Nietzsche sconosciuto anche a molti interpreti del suo pensiero. Dalla presente analisi, il “filosofo del martello”, lungi dall’impersonare il mero “profeta dei fascismi” – come pretende una delle interpretazioni che da decenni domina il dibattito mediatico-culturale –, appare piuttosto come il “profeta” di quell’«ultimo uomo» che, dal Sessantotto in poi, ha conquistato ed egemonizzato la scena del mondo. La sua diagnosi, tuttavia, non ha affatto un esito depressivo, poiché mira ad individuare nuovi percorsi in grado di condurre oltre il «nichilismo» che anima la società (post-)moderna. Il confronto con il pensiero nietzscheano permette di cogliere che, dietro l’idea che questo sia «il migliore» o «il solo» mondo possibile, si cela l’ennesimo mito da sfatare. «Il futuro non è fatalità, ma sistema aperto che attende tutti» (p. 68): è questo, per Bravo, il grande insegnamento di Nietzsche. Egli chiarisce come il compito della filosofia, lungi dal risolversi nella decostruzione fine a se stessa o nell’accettazione fatalistica dello status quo, consista nel farci «assumere la consapevolezza delle macerie» (p. 67) e «prepararci al possibile» (p. 52) per «ridare dinamicità alla storia» (p. 68) e «ridisegnare la condizioni per nuove coscienze, per una coscienza liberata dal giogo dell’asservimento» (p. 54). Si tratta di un atto che si rivolge contro il mondo esterno, ma che è anzitutto rivolto contro se stessi: l’«ultimo uomo», infatti, non è mai solo l’altro da sé, ma vive «in ognuno di noi», poiché «ciascuno di noi vive all’interno del dispositivo di potere […] e porta con sé l’ospite inquietante» (p. 51). Solo accettando questa tremenda verità diventa possibile «restituire una forma alla storia» (p. 68). La via che conduce alla trasformazione della realtà passa dunque attraverso la radicale trasformazione di sé. È questo il senso della lezione di Nietzsche – una lezione che è dedicata all’«ultimo uomo» che tutti noi siamo.

Alessandro Dignös

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandro Dignös – Uno Spinoza diverso. L’«Ethica» di Spinoza e dei suoi amici, di Piero Di Vona.

Spinoza- Di Vona Pietro-Alessandro Dignös
Alessandro Dignös

Uno Spinoza diverso. L’Ethica di Spinoza e dei suoi amici

di Piero Di Vona

Un possibile nuovo punto di partenza
per una reinterpretazione della filosofia di Spinoza

***

Lo scopo principale del presente studio di Piero Di Vona (1928-2018), insigne conoscitore e interprete della filosofia di Spinoza, è quello di «sollevare qualche dubbio sul modo in cui l’Ethica», il capolavoro del pensatore olandese, «si è formata» (p. 5). Tali dubbi non comportano il rifiuto del testo dell’opera in nostro possesso, giacché, come osserva lo studioso, esso appartiene alla storia del pensiero e, come tale, deve essere accettato. L’obiettivo del saggio di Di Vona è invece quello di chiarire se, e in che misura, «l’Ethica che possediamo uscì per intero dalla penna di Spinoza» (p. 9).
Secondo lo studioso, l’opera a noi giunta non riflette interamente il pensiero dell’autore, poiché «fu corretta dagli amici cristiani di Spinoza» (p. 10), cioè da quegli amici che, alla morte del filosofo, lavorarono all’edizione degli Opera Posthuma, di cui l’Ethica è parte integrante. Essi, per Di Vona, non si limitarono a correggere il latino dell’autore, ma intervennero sull’Ethica e sull’Epistolario, «stabilendo quali lettere si potessero pubblicare e quali no» (Ibidem). Dati gli interventi degli editori sul testo dell’opera, più che di Ethica di Spinoza, sarebbe corretto parlare di Ethica “di Spinoza e dei suoi amici”. Il presente lavoro di Di Vona è volto a fare luce sulle ragioni a supporto di questa tesi.

Ora, per capire quale sia l’intento degli amici di Spinoza, è opportuno rivolgersi al sottotitolo che compare nella traduzione nederlandese (dal latino) del Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità. In tale sottotitolo, scritto non da Spinoza ma dal traduttore, un suo amico, si sostiene che il trattato è stato tradotto «a beneficio degli amanti della verità e della virtù, […] affinché i malati nell’intelletto siano guariti con lo spirito di mitezza e tolleranza, secondo l’esempio di Cristo, nostro miglior maestro» (Sottotitolo). In verità, nell’opera di Spinoza non si fa riferimento a Cristo; l’accostamento tra la dottrina del filosofo e la morale cristiana si deve unicamente al traduttore. Da qui, sottolinea Di Vona, risulta evidente «il tentativo di fare di Spinoza un cristiano, o di presentarlo come un cristiano» agli occhi della comunità intellettuale – un intento che «è dunque antico tra gli amici di Spinoza e risale alla sua giovinezza» (p. 10), vale a dire al tempo dei suoi esordi filosofici.

L’obiettivo degli amici-editori degli Opera Posthuma di Spinoza è anzitutto quello di «difendere la filosofia di Spinoza dalle principali obiezioni filosofiche che circolavano su di essa già a quei tempi» e «assolvono questo compito cercando di dimostrare che non c’è nessuna discrepanza tra le idee di Spinoza e la dottrina di Cristo e degli apostoli» (p. 11). Che l’intento degli amici di Spinoza fosse proprio questo, rileva lo studioso, emerge con chiarezza nella Prefazione a tali scritti. Costoro, tuttavia, non riconducono a sé l’idea che si dia una concordanza tra la filosofia spinoziana e gli insegnamenti di Cristo, ma asseriscono che tutto ciò appare evidente nella parte IV dell’Ethica.

Ed è qui che, per Di Vona, vi sarebbero alcune “anomalie” che portano a pensare ad un intervento sul testo spinoziano. In particolare, nello scolio della proposizione 68, si fa riferimento alla vicenda di Adamo ed Eva e si sostiene che l’uomo cessò di essere libero allorché cominciò ad agire come gli animali, ritenendo che fossero suoi simili; subito dopo, si afferma che la sua libertà fu recuperata dai Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio, dalla quale sola dipende che l’uomo sia libero e che desideri per gli altri uomini il bene che desidera per sé» (Prop. 68, Scolio).

Questo passo dell’Ethica di Spinoza risulta problematico per diverse ragioni. Innanzitutto, si deve osservare come esso sia il solo luogo del capolavoro spinoziano in cui si fa riferimento a Cristo – un fatto che «deve renderci molto vigili nel giudicarne il valore conoscitivo e l’attribuzione a Spinoza stesso» (p. 20). In secondo luogo, l’idea che lo Spirito di Cristo si sia, in un certo senso, manifestato ai Patriarchi contrasta con ciò che Spinoza afferma in altri luoghi della sua opera, nonché con ciò che scrive nel Tractatus Theologico-Politicus – un’opera pubblicata mentre costui era vivo, dunque impossibile da “correggere” per gli editori cristiani. Come mette in luce Di Vona, Spinoza, quando si riferisce a Cristo, allude sempre a «come visse e si manifestò in un dato tempo e in una certa regione della terra e non asserisce mai, né suppone mai, che prima che Abramo fosse Egli era (Giovanni, VIII, 58) […]. Cristo non parla, né si manifesta mai a uomini di un tempo passato, né Spinoza fa mai la supposizione ch’egli si fosse mai manifestato ad uomini del passato» (p. 36). Stando così le cose, «sembra evidente che», nella prospettiva spinoziana, «non si potesse avere lo Spirito di Cristo prima che Gesù Cristo fosse» (p. 37). L’identificazione dello «Spirito di Cristo» con l’«idea di Dio» presuppone la dottrina trinitaria cristiana, che fa coincidere Cristo col Verbo di Dio, e dunque con Dio stesso; in questa prospettiva, lo Spirito di Cristo è chiaramente precedente l’esistenza dell’uomo Gesù. Tuttavia, si tratta di un’idea inconciliabile con la concezione spinoziana del Dio-Natura, la quale, rigettando l’idea che Dio possa «diventare una res finita come Gesù» (p. 39), implica ovviamente la ferma negazione dei dogmi cristiani dell’incarnazione e dell’eucaristia.

La seconda ragione per cui il passo in questione appare estremamente dubbio emerge, secondo Di Vona, se lo si confronta con ciò che Spinoza scrive nel Tractatus Theologico-Politicus a proposito di Adamo e dei Patriarchi. Qui il filosofo «rigetta interamente la caduta di Lucifero, la caduta di Adamo e la sua conseguente riduzione allo stato di natura lapsa» (p. 43), ossia di natura decaduta; in generale, se è vero che il nome di Adamo compare in più luoghi dell’opera, è altresì vero che non si dice mai che in seguito alla sua caduta gli uomini si snaturarono e divennero animali. Per Spinoza «non c’è mai stata una natura lapsa, e tanto meno una riduzione di Adamo e dei suoi discendenti allo stato animale»: infatti, «l’intelletto di Adamo e dei suoi discendenti è rimasto integro e capace di condurre l’uomo alla libertà della mente ed a riconoscere l’eternità della mente, sebbene come noi fosse soggetto agli affetti e alle passioni» (p. 47). Per quanto concerne i Patriarchi, lo studioso osserva come dalla lettura del Tractatus risulti evidente che «per Spinoza […] ebbero, come tutti gli altri Ebrei, una conoscenza del Dio delle narrazioni sacre, non la conoscenza chiara e distinta dovuta al lume naturale» (p. 42). Essi non compresero dunque l’«idea di Dio» grazie allo Spiritus Christi, ma ebbero una concezione antropomorfica del divino identica a quella di ogni altro Ebreo.

Dato quanto emerge, secondo Di Vona è lecito concludere che la parte dell’Ethica in cui si allude alla caduta di Adamo e alla restituzione della libertà da parte dei Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio», sia «una aggiunta estranea di cristiani troppo zelanti nel vano intento di difendere Spinoza dall’accusa di empietà e di ateismo» (p. 47). Questo obiettivo è perseguito dai suoi amici per mostrare che le sue idee sono in linea con i racconti delle Sacre Scritture e per suggerire che la libertà umana, per costui, coincide con la libertà cristiana. Si spiega in questo modo la totale discordanza tra ciò che si afferma in quel luogo dell’Ethica e ciò che Spinoza sostiene nel Tractatus Theologico-Politicus. Poiché, come emerge in quest’opera, «non c’è mai stata una natura lapsa» a causa di Adamo, «non c’era nessun bisogno per il nostro filosofo che i Patriarchi, ignoranti e capaci solo di avere un’idea antropomorfica di Dio, grazie allo Spirito di Cristo identico alla “idea di Dio”, non si sa come ottenuti, venissero a restituire non si sa come la libertà della mente a uomini ridotti allo stato animale» (Ibidem). In conclusione, lungi dall’essere dovuta ad “errori” o “sviste” dello stesso Spinoza, questa discrepanza è dovuta ad un vero e proprio intervento esterno da parte degli editori.

A questo punto, è forse possibile chiedersi se vi fosse una “ragione profonda” dietro tale tentativo di “cristianizzazione” della filosofia di Spinoza compiuto dai suoi amici. Di Vona mette in luce come quest’implicita “apologia di Spinoza” non fosse soltanto volta a scagionarlo dalle accuse succitate, poiché mirava a dimostrare che «Spinoza aveva insegnato che gli ignoranti che avessero creduto e praticato l’insegnamento degli articoli della fede universale del capitolo XIV del Tractatus Theologico-Politicus, e li avessero seguiti nella loro vita, in morte per le promesse, il perdono e la grazia di Gesù Cristo avrebbero conseguito anch’essi l’eternità della mente» (Ibidem). Sembra dunque questa la “ragione profonda” alla base dell’interpretazione cristianeggiante degli amici: dimostrare che, secondo Spinoza, tutti gli uomini possono conseguire l’eternità della mente attraverso la fede.

L’idea che, per Spinoza, l’eternità della mente sia conseguibile da ogni uomo per mezzo della fede sembra, in effetti, sostenersi su ciò che si legge in alcuni luoghi della parte V dell’Ethica. Di Vona ricorda che al termine dello scolio della proposizione 20 il filosofo afferma di aver concluso la trattazione di ciò che ha a che fare con la vita presente, e che è giunto il momento di trattare ciò che riguarda la durata della mente, senza relazione con il corpo, mentre nello scolio alla proposizione 40 sostiene di aver esposto ciò che intendeva mostrare sulla mente «senza relazione all’esistenza del Corpo». Anche Spinoza, dunque, come i cristiani, pare ammettere l’idea di una durata della mente indipendente dal corpo. Non solo: nella proposizione 30 si afferma che la mente conosce «il Corpo sotto la specie dell’eternità», cioè il corpo come un elemento eterno. Si tratta di un’idea che sembra conciliarsi con quella della «resurrezione della carne» affermata dal Cristianesimo. Ma Spinoza – è giusto chiedersi – ha davvero sostenuto idee così affini a quelle su cui si fonda la religione cristiana?

Secondo Di Vona, anche in questo caso ci sono buoni motivi per pensare a delle aggiunte apocrife nel testo dell’opera. Se, ad esempio, si considera la proposizione 39, si può notare come Spinoza, in contrasto con quanto si legge negli scoli delle proposizioni 20 e 40, dichiari che il conseguimento dell’eternità della mente è possibile solo con un «Corpo atto a moltissime cose» (Prop. 39, Scolio). Non solo dunque non si parla di “durata della mente senza relazione con il corpo”, ma addirittura si sostiene che soltanto il possesso del corpo consente di conseguire l’eternità della mente. Inoltre, se è vero che nella proposizione 30 si parla di «Corpo sotto la specie dell’eternità», è altrettanto vero che in alcune proposizioni precedenti si parla invece di «idea che esprime l’essenza di questo e di quel Corpo umano sotto la specie dell’eternità» (Prop. 22), di «idea che esprime l’essenza del Corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 23, Scolio) o di «essenza del corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 29). Si passa così, in maniera graduale, dall’idea che la mente conosca “l’idea dell’essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” a quella secondo cui la mente conosce l’“essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” e, infine, all’idea che la mente conosca il “corpo” stesso come eterno.

Dinanzi a tali incongruenze, per lo studioso non è illecito supporre che gli editori fossero intervenuti su questi punti dell’Ethica proprio allo scopo di «difendere, per quanto era possibile e in accordo con la Prefazione delle Opere Postume, le idee cristiane dell’immortalità dell’anima e della resurrezione della carne» (p. 52). In questo modo, essi «misero il lettore di Spinoza nella necessità di ritenere che, se per avere l’idea di corpo nella durata occorre un corpo esistente in atto nella durata, come afferma Spinoza nel corollario della proposizione 8 della parte II dell’Ethica e nello scolio della proposizione 23 della parte V, allora per avere una idea di noi stessi nella eternità, occorre avere un corpo sub specie aeternitatis, e perciò lo premisero nella proposizione 30 alla proposizione 31 della parte V che afferma che la mente stessa è eterna» (Ibidem). Non fu dunque Spinoza a sostenere e insegnare tesi e idee che richiamano alcuni dogmi del Cristianesimo ma, al contrario, furono i suoi amici cristiani a “modificare” il suo capolavoro e ad “adattare”, per quanto possibile, il suo pensiero filosofico alla concezione cristiana del mondo. Intervenendo sull’Ethica e “avvicinando” Spinoza a tali dogmi, gli editori delle Opere Postume cercarono di attribuirgli l’idea che tutti gli uomini, compresi gli ignoranti, possono conseguire l’eternità della mente se aderiscono alla fede cristiana. Per effetto del loro intervento, Spinoza non appare solo come un autore cristiano, ma addirittura come un filosofo che chiarisce e insegna come il Cristianesimo rappresenti il “grande veicolo” in virtù del quale ciascun uomo viene condotto al conseguimento dell’eternità della mente.

Alla luce di quanto è emerso, è possibile comprendere che cosa abbia veramente detto Spinoza? Se l’idea che la religione cristiana costituisca il medium per conseguire l’eternità della mente non può essere ascritta a costui, com’è possibile che ciò avvenga? Chi, per Spinoza, può conoscere l’eternità della mente? Nel Tractatus Theologico-Politicus, com’è noto, egli sostiene che agli ignoranti che rispettano le regole e i dogmi della fede si aprono le porte della salvezza; tuttavia, ben altra cosa è il conseguimento dell’eternità della mente, come si evince da alcuni passi fondamentali dell’Ethica. Ciò è possibile soltanto a quei «pochissimi» che dispongono della «conoscenza intuitiva» (scientia intuitiva), cioè ai «sapienti», «cui Spinoza ha rivolto la dottrina della parte V dell’Ethica» (p. 105). Ad essi si contrappone la stragrande maggioranza del «volgo», cui appartiene chiunque sia schiavo dell’immaginazione, delle memoria e delle passioni. Stando così le cose, come potrebbero i cristiani conoscere l’eternità della mente? Essi compongono il «volgo» al pari di tutti coloro che ignorano la verità dell’essere – siano essi reggitori, nobili, dotti, filosofi o uomini comuni. Di Vona suggerisce, in conclusione, che la “difficilissima” conoscenza dell’eternità della mente abbia, nella prospettiva spinoziana, un carattere “esoterico”: essa, infatti, «intendere non la può chi non la trova. […] Spinoza ha potuto parlarne da filosofo, ma non può comunicarcela ed essa non è comunicabile. La consapevolezza dell’eternità non s’insegna e non si partecipa: “può tuttavia essere trovata”. Questo è tutto» (Ibidem).

L’analisi di Di Vona, condotta sulla base di una profonda conoscenza del pensiero di Spinoza, ha il merito di sollevare alcuni dubbi sulla formazione del suo capolavoro filosofico, arrivando a mettere in discussione l’autenticità di alcuni suoi punti e le interpretazioni della filosofia spinoziana che su di esso si reggono. In ogni caso, l’obiettivo del presente saggio non è quello di negare l’importanza storica della lettura data dagli amici del filosofo: «con la Prefazione» agli Opera Posthuma, infatti, «comincia lo Spinozismo e l’interpretazione cristiana di Spinoza, destinata a un lungo avvenire» (p. 14); né – è bene ripeterlo – è quello di «infirmare il testo che ci è pervenuto» (p. 5): come ammette lo stesso studioso, «bisogna saper distinguere il testo definitivo che ci è pervenuto, dalla sua formazione, perché esso appartiene ormai da secoli alla storia della cultura filosofica moderna» (p. 48). Nondimeno, l’immagine di Spinoza che emerge dalla sua analisi è diversa da quella tramandata da una lunga tradizione di studi, ed è per questa ragione che non sembra scorretto considerare il presente studio un possibile nuovo punto di partenza per una reinterpretazione della sua filosofia.

Alessandro Dignös
Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.
Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»

Alessandro Dignös04 Monchietto

Alessandro Monchietto
Per una filosofia della potenzialità ontologica
indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös

Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica

di Alessandro Monchietto

Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale
sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»

Senso comune e filosofia – si sente dire – viaggiano su binari paralleli, che quasi mai, se non per errore, arrivano ad intersecarsi. Che quest’asserzione non raffiguri uno stato di cose, ma una delle tante opinioni correnti, è quanto Alessandro Monchietto, con il suo saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica, si propone di far emergere. In questo breve scritto, il giovane filosofo mette in evidenza come sia il senso comune sia la filosofia degli ultimi decenni si reggano, a ben vedere, sul medesimo principio assurto a dogma, e cioè sull’idea che il mondo attuale, nelle sue strutture portanti – economica, politica, sociale, culturale –, costituisca un orizzonte immodificabile e intrascendibile. È questa la rappresentazione della realtà che generalmente orienta il pensiero e la vita tanto dell’“uomo comune” quanto dell’“uomo di cultura” a partire dagli ultimi anni dello scorso millennio.

Contrariamente a ciò che si è indotti a credere, la condizione dell’uomo di oggi non appare segnata dalla “fine delle ideologie”, bensì dal dominio assoluto di un’unica grande ideologia, secondo cui il mondo attuale rappresenta una sorta di compimento di un processo storico plurimillenario. Secondo questa “narrazione”, mentre le società del passato erano caratterizzate dal dominio di miti, ideologie e modelli di pensiero infondati, destinati dunque a crollare col passare delle epoche, il mondo contemporaneo costituisce un’eccezione, poiché riproduce delle dinamiche e delle strutture che appaiono, per molti aspetti, connaturate nella stessa realtà. In considerazione di ciò, due sono gli atteggiamenti che è possibile assumere di fronte al mondo: accettare di buongrado lo stato di cose presente, interpretato come una meta verso cui l’umanità è da sempre in cammino; denunciarne le contraddizioni e gli orrori, tenendo però a mente l’impossibilità di qualsiasi alternativa ad esso.

 

Monchietto osserva come il ruolo esercitato dalla filosofia nella costruzione di quest’ideologia sia stato decisivo. A partire dagli anni Settanta, la filosofia occidentale, tanto nella sua declinazione “postmoderna” quanto nella sua variante “analitica”, ha progressivamente abbandonato la propria funzione critico-costruttiva per approdare all’idea che il mondo sia essenzialmente intrasformabile, ragione per cui può soltanto essere descritto, interpretato o, tutt’al più, stigmatizzato e rifiutato. La filosofia ha finito così per rinunciare a trovare una risposta ai problemi fondamentali del proprio tempo, rassegnandosi ad accettare la realtà così com’è. È questa la concezione della filosofia che domina il panorama culturale degli ultimi decenni. Tutte le correnti di pensiero dominanti, per quanto possano apparire differenti, si caratterizzano, per Monchietto, come vere e proprie «filosofie dell’impotenza»: esse, infatti, predicano egualmente l’immodificabilità del mondo, legittimando in questo modo la rinuncia alla critica volta alla trasformazione dell’esistente. E come spiegano il fatto che, per molto tempo, il mondo sia stato considerato trasformabile dalla prassi umana? Secondo un gran numero di pensatori attuali, quest’idea non è che una delle molte “illusioni” di cui l’umanità è stata vittima e dalla quale ha saputo affrancarsi solo al prezzo di grandi sofferenze. Chiunque si ostini ad intendere il mondo come qualcosa di trasformabile, persevera dunque nel diffondere vane illusioni, mentendo sulla vera “natura” della realtà. In tal modo, afferma l’autore, la filosofia, da esercizio del dubbio e critica dell’esistente, si riduce alla legittimazione dogmatica del presente, che viene «trasfigurato ideologicamente in condizione “naturale ed eterna” dell’esistenza umana» (p. 35).

Questa Weltanschauung necessitaristica e fatalistica ha come naturali conseguenze il venir meno del pensiero critico, l’atrofizzazione del senso di ingiustizia e l’avvento di un clima dominato da sottomissione e indifferenza. «Ci si adatta all’ingiustizia. Si perde l’abitudine ad indignarsi. E ci si inibisce a priori la possibilità di cambiare lo stato di cose presente. Di fatto, tutti quanti si piegano perché nessuno crede più alla possibilità di un’alternativa; la vita sociale viene oramai condotta esclusivamente nella prospettiva della fatalità» (p. 38). «La disoccupazione, la mortalità infantile, la povertà sono oggi trattate come il risultato di forze impersonali che agiscono ad un livello globale, e contro cui non si può fare nulla; i mali che affliggono la nostra società e il nostro tempo ci sembrano un destino» (pp. 41-42). E così, «di fronte ad eventi percepiti come naturali, inevitabili, fatali, l’inerzia, la rassegnazione e l’apatia divengono gli unici atteggiamenti ragionevoli» (p. 43).

Ora, com’è possibile, per Monchietto, ovviare a tale situazione e scardinare questa rappresentazione della realtà? Che fare affinché la filosofia abbandoni ogni apologetica dell’esistente e si riponga sulla “retta via” del dubbio e della critica trasformatrice? Ciò che si deve fare, segnala il filosofo, è cambiare la propria «immagine del mondo» (Weltbild), ovvero l’idea che ognuno si fa del mondo. «Le immagini del mondo», infatti, «perimetrano un orizzonte di possibilità» (p. 42), rappresentano cioè ciò «che spiega e organizza l’esistente, che seleziona e delimita i confini di ciò che rientra nel nostro raggio d’azione, di ciò che si può modificare e di ciò che, viceversa, assume i tratti della fatalità» (p. 43). Quanto più si crea una rappresentazione del mondo le cui strutture fondamentali sono pensate come elementi su cui non è possibile esercitare alcuna forma di controllo, tanto più si diviene vittime e schiavi di tale autoinganno. Ciò che si deve fare è dunque compiere un lavoro su se stessi al fine di modificare la propria rappresentazione e la propria percezione del mondo. Solo liberandosi dall’illusione che il mondo attuale sia intrasformabile e intrascendibile diviene possibile recuperare la dimensione critico-costruttiva che definisce ogni autentica filosofia e risvegliare negli uomini il desiderio di un mondo migliore. «La “speranza”», rileva il filosofo, «non è un principio bensì un effetto: fino a quando il mondo sembrerà fatale, essa potrà giocare un ruolo esclusivamente marginale» (p. 44), rivelandosi incapace di sollecitare gli uomini ad agire e a cambiare le loro sorti.

Il compito che la filosofia è oggi chiamata a svolgere, per Monchietto, è dunque «defatalizzare il mondo, liberandosi […] di ogni prospettiva fatalistica e necessitaristica» (ivi). Per riuscire in tale impresa, essa non può (più) pensare la storia in senso deterministico e finalistico, come se fosse un movimento che si protende meccanicamente verso un «fine»; si tratta, invece, di elaborare una filosofia della storia che poggi su presupposti affatto diversi: che sia cioè «costruita non per “telos”, non per “compimento” ma […] per “alternative”, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove possibilità. Una Geschichtsphilosophie senza una trazione anteriore, senza un’attrazione del fine, […] dove vi sia spazio per la contingenza e per un orizzonte di possibilità» (p. 45). In breve, una filosofia della storia che rinunci all’illusione (o mito) del «progresso», «senza rinunciare al progetto dell’emancipazione dell’umanità» (ivi).

In generale, ciò che si deve fare è ripensare la realtà e la storia non più sulla base di un’ontologia della «necessità» – qual è quella che domina il senso comune e la cultura di oggi –, bensì di un’ontologia della «possibilità». Sostituendo ad un’ontologia intesa come «presa d’atto di ciò che c’è» un’ontologia intesa come «mobilitazione di ciò che è attuale al fine di ricondurre l’attualità alla possibilità» (p. 46), la realtà attuale non appare più come una «necessità» ineluttabile, bensì come uno dei possibili modi d’essere del mondo, come una delle possibili configurazioni che il reale può assumere. Una concezione siffatta costringe così a pensare in modo radicalmente diverso la società umana, portando l’attenzione non più solo su come essa sia, ma anche su come sarebbe potuta essere e, dunque, su come potrebbe essere e diventare. In conclusione, è solo concependo il mondo come «possibilità» che diviene possibile defatalizzare la realtà e indicare un orizzonte di senso alla prassi umana, consentendole di riaprire le porte a un avvenire che non sia la mera dilatazione del presente.
Il saggio di Monchietto mira a rinvenire alcuni strumenti che consentano alla filosofia di recuperare il proprio ruolo di “bussola” e “guida” nel difficile e spinoso sentiero che ha come meta la radicale trasformazione dell’esistente e l’emancipazione del genere umano. L’autore mette in luce come il raggiungimento di questo obiettivo sia possibile solo dopo aver cambiato la propria immagine del mondo, ovvero solo dopo aver messo in discussione la rappresentazione della realtà che, per effetto dei condizionamenti ideologici vigenti, è incisa nella coscienza della stragrande maggioranza degli individui. Facendo tesoro della riflessione e delle indicazioni di alcuni tra i maggiori pensatori degli ultimi secoli – come Fichte, Hegel, Marx, Sorel e Heidegger –, la proposta filosofica di Monchietto costituisce un’esortazione a ripensare la realtà attuale – e, più in generale, lo statuto del mondo – sul fondamento di una diversa visione dell’«essere», che permetta di scorgere «quelle possibilità che nella storia sono rimaste inesplicate» (p. 46) e che indichi all’uomo la via verso nuovi mondi possibili.

Alessandro Dignös

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Hegel Marx Heidegger

Costanzo Preve,
Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea.
1999, pp. 64, Euro 7 – Collana “Divergenze”

indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös

Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea

di Costanzo Preve

Un contributo ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità

***

Il saggio di Costanzo Preve Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea si propone di analizzare alcuni aspetti fondamentali relativi al pensiero di Hegel, Marx e Heidegger, allo scopo di far luce sul problema della padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità. La decisione di “interrogare” i suddetti pensatori sul problema in questione non è arbitraria, poiché si fonda sull’idea che essi «parlino in fondo della stessa cosa» (p. 6), ovvero delle contraddizioni che definiscono l’universo borghese-capitalistico – cosa che li rende, proprio per ciò, confrontabili.
Analizzando il pensiero di Hegel, Preve evidenzia che esso può essere interpretato come un grande tentativo di comprendere filosoficamente le caratteristiche e le contraddizioni della modernità – un intento implicito nella sua stessa visione della filosofia, intesa come «il proprio tempo appreso col pensiero» (Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione). Esso si esprime con «il recupero positivo dell’esperienza storica del negativo» – al centro della Fenomenologia dello Spirito – da un lato, e, dall’altro, con «la salvaguardia di un orizzonte trascendentale di tipo logico ed ontologico» (p. 13) – tema cardine della Scienza della Logica. Tali elementi, sottolinea l’autore, costituiscono la cifra della filosofia hegeliana e risultano imprescindibili per la sua comprensione. Il primo appare di fondamentale importanza per la padronanza filosofica delle contraddizioni che caratterizzano il mondo moderno, vale a dire il mondo borghese-capitalistico. Il «recupero positivo dell’esperienza storica del negativo», infatti, «legittima integralmente il conflitto sociale, le lotte di classe, i contrasti e le contraddizioni fisiologicamente presenti» (p. 21) nel suo modo di produzione, evitando tanto la riduzione a “errore” o “equivoco” di ciò che è conflittuale e contraddittorio quanto la sua ipostatizzazione; così concepito, il «negativo» non si determina affatto come «il luogo di un rovesciamento mistico o automatico nella positività», giacché «senza mediazione dialettica […] non c’è mai “rovesciamento” del negativo in positivo» (pp. 21-22). Il secondo elemento, invece, è ciò che per l’autore più consente di chiarire come il pensiero di Hegel non sia interpretabile né come una forma di storicismo né come una forma di giustificazionismo storico. Per quanto riguarda la prima, Preve fa notare come «il riconoscimento di un orizzonte trascendentale veritativo di tipo logico ed ontologico» sia radicalmente incompatibile con lo storicismo, «che si basa appunto sulla negazione di questo orizzonte» (p. 14). Per quanto concerne la seconda, egli mette in luce come la difesa di una realtà razionale entro un orizzonte trascendentale logico-ontologico ben indichi come il «reale», per Hegel, non coincida con «l’insieme di “tutto ciò che accade”», bensì con «ciò che corrisponde adeguatamente al proprio concetto razionale costruibile solo in via logica» (p. 20). In definitiva, per lo studioso, nella misura in cui il modello hegeliano di comprensione filosofica della modernità si fonda tanto sulla valorizzazione del «negativo» nella storia quanto sull’assunzione di un orizzonte trascendentale veritativo ad un tempo logico e ontologico, si deve riconoscere che la filosofia di Hegel non è affatto “superata”. Lungi dall’appartenere ad un orizzonte filosofico a noi estraneo, Hegel appare come un pensatore «pienamente ed integralmente contemporaneo» (p. 21).

Il pensiero di Marx, secondo Preve, segna un vero e proprio “progresso scientifico” rispetto a quello di Hegel. In esso si dà infatti una “concretizzazione” dell’esperienza storica del «negativo», che viene identificato col modo di produzione capitalistico. Con «la costruzione categoriale del concetto di modo di produzione capitalistico», spiega l’autore, il «negativo» positivamente recuperato da Hegel «finalmente si determina, si storicizza, prende forma compiuta e coerente, cessa di essere un magma amorfo in cui si fa faticosamente strada la coscienza nel suo cammino verso l’autocoscienza» (p. 26). L’identificazione del «negativo» col capitalismo è all’origine di un’altra identificazione marxiana: quella del «positivo», cioè di ciò che scaturisce dal rovesciamento storico-dialettico del «negativo», col comunismo, che appare non solo come una possibilità, ma anche come una necessità. E tuttavia, allo stesso tempo, la filosofia di Marx, rispetto a quella hegeliana, rappresenta per Preve un “regresso filosofico”, determinato dal rifiuto di salvaguardare quell’orizzonte logico-ontologico che Hegel ha avuto il merito di ri-porre al centro del pensiero. Tale negazione è dovuta principalmente a due ragioni: «sul piano congiunturale, [Marx] ha modellato il proprio progetto anticapitalistico all’interno di una visione antireligiosa, e respingeva dunque la salvaguardia di un orizzonte trascendentale come un aspetto teorico di una visione conservatrice, moderata e clericale della vita» (p. 28); «sul piano strutturale, egli riteneva evidentemente del tutto superfluo e pleonastico qualunque riferimento trascendentale, perché pensava che l’immanenza sociale fosse già integralmente portatrice del rovesciamento della Natura in Spirito e dello Spirito in Natura, cioè del rovesciamento della necessità economica anonima in libertà individuale comunista» (ivi). Un’abolizione siffatta, rileva l’autore, non costituisce una forma di “liberazione” da concetti o dogmi di marca teologica, poiché implica «una diminuzione della padronanza concettuale sul mondo sociale» (ivi), che rinviene il proprio punto di approdo nello storicismo, nel positivismo e nel nichilismo.

Per quanto riguarda Heidegger, Preve afferma che egli può essere ritenuto a buon diritto «il più noto e geniale successore di Hegel nel Novecento» (p. 34) nella misura in cui, da un lato, recupera, sia pur in modo diverso, l’orizzonte trascendentale di tipo logico ed ontologico che domina la filosofia hegeliana e, dall’altro, concepisce la storia della filosofia occidentale come una «storia unitaria delle avventure della metafisica»: una rappresentazione che, sebbene assuma un significato del tutto differente, si configura di fatto come la «prosecuzione tematica e metodologica della concezione hegeliana della storia della filosofia non come disordinata filastrocca di opinioni causali, ma come manifestazione storica di oggettività logiche ed ontologiche» (p. 36). Non mancano neppure legami con Marx: infatti, «sebbene egli non parli mai di “modo di produzione capitalistico”, probabilmente a causa dei suoi pregiudizi politici ed ideologici verso Marx ed il marxismo», con l’elaborazione del concetto di «tecnica», Heidegger «di fatto descrive lo spossessamento integrale dell’uomo sui risultati delle sue azioni che risulta dai meccanismi anonimi ed impersonali di riproduzione dei rapporti economici capitalistici» (p. 35). È in ogni caso indubbio che il suo pensiero manifesta «una diminuzione della padronanza concettuale sul mondo rispetto a quanto avveniva in Hegel ed in Marx» (p. 44). Il recupero dell’orizzonte trascendentale logico-ontologico da parte di Heidegger ha un senso del tutto diverso da quello di Hegel. Infatti, se il pensiero di quest’ultimo avanza in un certo senso l’esigenza di un “ringiovanimento del mondo”, che solo la padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità rende possibile, la filosofia di Heidegger riflette invece l’«impasse tragica dei processi di trasformazione razionale del mondo» in cui sembra trovarsi l’uomo contemporaneo: «una impasse filosoficamente trasfigurata […] nelle analisi della triade metafisica-tecnica-antropologismo» (p. 43).

Il presente studio di Costanzo Preve ha il merito di avviare un confronto con questi giganti della filosofia contemporanea prescindendo sia dagli “-ismi” cui il loro pensiero è solitamente ricondotto, sia da ogni “filtro” ideologico finalizzato a connotarli politicamente. Si tratta di un’operazione che dà luogo ad un autentico mutamento prospettico, in virtù del quale si delinea non solo una diversa rappresentazione della storia del pensiero contemporaneo, ma anche una nuova interpretazione dei singoli autori considerati, la cui grandezza e il cui valore appaiono strettamente connessi al prezioso contributo che essi offrono alla comprensione filosofica delle contraddizioni della modernità. In ogni caso, il percorso tracciato da Preve non è volto solo a delineare una diversa immagine della filosofia degli ultimi due secoli. Questo tentativo di «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea, reso possibile dall’attenzione rivolta alla padronanza concettuale delle contraddizioni del mondo moderno, non è fine a se stesso, ma costituisce per l’autore la premessa necessaria per avviare una «grande rivoluzione filosofica» (p. 51) che permetta di acquisire la padronanza delle contraddizioni del presente, ponendo sul cammino che conduce al loro superamento.

Alessandro Dignös

 

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
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