«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Chi, durante uno spettacolo, non “recita”, non forza ma agisce veramente in modo produttivo, coerente e senza interruzioni; chi riesce in scena a stabilire dei contatti solo col suo compagno e non con il pubblico; chi non evade mai dalla parte e dalla commedia e si mantiene in una costante atmosfera di vita, di verità, di convinzione, di “io sono”, costui vive sulla scena il “vero”».
Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, trad. it. Laterza, Roma-Bari 19682, p. 176.
Come illuminare il nostro sguardo e la nostra mente di quella conoscenza che saprà riscattarci dalla confusione e dall’errore? Come liberarci dalle catene della dipendenza, dell’egoismo, della malvagità e aprirci a un comportamento sereno e giusto, compassionevole e rispettoso di noi stessi e di ogni altra creatura?
Che cosa rende il nostro tempo degno di essere vissuto? Il denaro, il successo, il potere? Sono tutte cose che lasciano il tempo che trovano, e non colmano la nostra insoddisfazione. Ciò per cui ha senso vivere è una conoscenza, un sapere che non possono, quando ci siano noti, non imporsi per noi come irrinunciabili e indispensabili. Viviamo quotidianamente un’esistenza dimentica di sé stessa, in mezzo a ombre che non fanno giustizia al nostro destino; ma se qualcuno sapesse dirigere il nostro sguardo verso verità e giustizia non potremmo non esserne sedotti; non potremmo non voler essere partecipi di una forma di vita che ne sia guidata; non potremmo non volerci adoperare per realizzarla. Come un corpo amato ci attira con la sua bellezza, che non è geometria di forme ma rispondenza di intenti, di progetti e di valori, così la bellezza di questa visione saprà attrarci a una condizione che rispecchi finalmente il nostro essere.
Sergio Maifredi Nel 1989 si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano e nel 1991 si laurea in Lettere Moderne con una tesi su Aristodemo di Carlo de’ Dottori all’Università di Genova. È direttore artistico del Teatro Pubblico Ligure, direttore artistico del Teatro Placido Mandanici di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) e direttore artistico del Festival Grock dedicato al più grande clown del ‘900: Charles Adrien Wettach, in arte Grock. È stato dal 2010 al 2016 direttore organizzativo del Teatro Vittoria di Roma, e dal 2010 fino al 2014 consigliere di amministrazione della Fondazione Carlo Felice di Genova. Dal 2005 è regista residente al Teatr Nowy di Poznań in Polonia. È stato membro della Commissione Nazionale Unesco fino al 2014. Dal 1997 al 2007 è stato vicedirettore del Teatro della Tosse e dal 2009 al 2013 direttore artistico del Teatro Curci di Barletta
Ermanno Bencivenga è professore ordinario di scienze umane e filosofia all’Università di California, Irvine. Ha anche insegnato in numerose università italiane, fra cui Milano, Padova, Trento e Siena. È autore di oltre cinquanta libri in tre lingue: saggi e trattati ma anche dialoghi filosofici, raccolte di poesie e di racconti, opere teatrali e un romanzo. Per il pubblico italiano ha scritto, fra l’altro, Filosofia in gioco (Laterza 2013), Il bene e il bello (Il Saggiatore 2015), Prendiamola con filosofia (Giunti 2017), La scomparsa del pensiero (Feltrinelli 2017) e La filosofia in ottantadue favole (Mondadori 2017). Ha fondato e diretto per trent’anni (fino al 2011) la rivista internazionale di filosofia Topoi. Collabora al quotidiano Il Sole-24 Ore.
In questo volume, complementare del precedente (Teatro, 2015) la dimensione del sacro, propria di Maura Del Serra […] ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore di una «pietas civile e culturale». Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini […] che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare, sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta […]. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni» […] per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.
Dalla Introduzione di Marco Beck
Indice
Introduzione di Marco Beck
Tecnostar
Zelda pazza di gloria
Baci scritti per Milena
Voci dei Nessuno da foto segnaletiche di prigionieri ignoti
Torquato Tasso Libretto d’opera liberamente ispirato all’omonimo dramma in versi di J. W. Goethe
I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00. I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.
Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento. I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale. In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.
Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.
Indice
Introduzione di Antonio Calenda Nota cronologica ragionata
La fonte ardente. Due atti per Simone Weil L’albero delle parole La Fenice La Minima Andrej Rubljòv Il figlio Lo Spettro della Rosa Specchio doppio. Favola drammatica Agnodice. Commedia drammatica Guerra di sogni. Mito futuribile Stanze. Versi per la danza Trasparenze. Versi per la danza Sensi. Versi per la danza Kass Dialogo di Natura e Anima Trasumanar. L’atto di Pasolini Isole. Poema scenico Eraclito Scintilla d’Africa Specchi. Cellula drammatica La vita accanto Isadora La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri
Appendice
Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole Mario Luzi: Introduzione a La Fenice Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni Misha Van Hoecke: Nota a Stanze Ugo Ronfani: Introduzione a Isole Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto
Galleria di copertine
e … passeggiando tra i suoi libri …
Ladder of Oaths
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Scala dei giuramenti
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Tentativi di certezza
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Voce di voci
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Canti e pietre
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Scintille
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Infinito presente
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Infinite Present
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L’opera del vento
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Adagio con fuoco
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Congiunzioni
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L’età che non dà ombra
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Za solecem i nociju vosled
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Aforismi
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Elementi
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Dietro il sole e la notte
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Corale
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Sostanze
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senza niente
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Concordanze
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Meridiana
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La gloria oscura
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L’arco
Teatro
Teatro
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La vita accanto
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Guerra di sogni
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La fonte ardente
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Andrej Rubliòv
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Eraclito. Due risvegli
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Isole. Poema scenico
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Scintilla d’Africa
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Agnodice
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Dialogo Natura e Anima
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Rosens ande
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Lo spettro della rosa
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La fenice
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La Minima
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L’albero delle parole
Critica
Una rara pietà
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Simone Weil: l’intelligenza della santità
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Di poesia e d’altro, III
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Di poesia e d’altro, II
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Di poesia e d’altro, I
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Crescita e costruzione. Immagini del giardino
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Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci
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L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier
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Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco
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Giovanni Pascoli
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Ungaretti
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Campana
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L’immagine aperta
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Mostra bio-bibliografica su Dino Campana
Traduzioni
R. Ughetto, Poesie
R. Tagore – V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore
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Tagore, Ricordi di vita
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Cicerone, Manualetto elettorale
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K. Mansfield, Poesie e prose liriche
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K. Mansfield, Tutti i racconti
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D. Barnes, Disincanto
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Victor Segalen, Odi
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Le poesie di Simone Weil
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F. Thompson, Il Segugio del Cielo
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V. Woolf, Orlando
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V. Woolf, Orlando
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V. Woolf, Orlando
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K. Mansfield, Tutti i racconti
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K. Mansfield, Tutti i racconti
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K. Mansfield. Tutti i racconti
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V. Woolf, Una stanza tutta per sé
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V. Woolf, Una stanza tutta per sé
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V. Woolf, Una stanza tutta per sé
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W. Shakespeare, Molto rumor per nulla
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W. Shakespeare, Molto rumore per nulla
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W. Shakespeare, Molto rumore per nulla
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M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo
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E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro
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Vi. Woolf, Le onde
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M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto
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G. Herbert, Corona di lode
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E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie
«[Intendo] mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis» (p. 17).
«[…] il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis» (p. 158).
«[…] laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro – il modello dell’atto mimetico – è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche – il mondo empirico come il dialogo filosofico – sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica» (p. 279).
Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,
«[…] ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento» (p. 199).
«[…] lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore – vive come in un sogno – e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica» (pp. 208-209).
Lidia Palumbo, Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo, Napoli 2008.
Il non essere e l’apparenza: sul Sofista di Platone, Loffredo, 1994.
Eros, Phobos, Epithymia. Sulla natura dell’emozione in alcuni dialoghi di Platone, Loffredo 2001.
Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo 2008.
*** *
Alessandro Stavru*
* Es profesor de Filosofía antigua en la Universitá degli Studi di Napoli “L’Oriéntale”; se interesa por la estética antigua y moderna, así como por las relaciones entre mito y filosofía.
Tra i meriti più significativi del recente libro di Lidia Palumbo vi è sicuramente quello di proporre un’interpretazione unitaria della mimesis in Platone. In tal senso, esso si inserisce a pieno diritto in un dibattito scaturito in seguito alla recente pubblicazione di alcune cospicue monografie. Nei primi mesi del 2009 è infatti apparso il penetrante studio di Jean-Francois Pradeau, seguito a breve distanza dalla traduzione italiana del testo di Stephen Halliwell (ed. inglese del 2002), considerato ormai unanimemente un “classico” sull’argomento.1
Sin dalle pagine introduttive l’autrice dichiara che lo scopo della sua indagine è di
mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis.2
Di qui la proposta, formulata esplicitamente dall’autrice, di tradurre unitariamente il termine mimesis con “rappresentazione”. La monografia sviluppa con coerenza questa tesi, arrivando ad enucleare un denominatore comune alle molteplici accezioni di mimesis presenti nel corpus Platonicum. Ciò permette da un lato di far luce sulla concezione originaria di tale nozione, dall’altro di mostrare come le sue pur evidenti sfaccettature semantiche si fondino su un comune retroterra speculativo. È dunque soltanto a partire dall’idea di rappresentazione che è possibile cogliere l’intrinseca polivalenza semantica della mimesis e, a partire da essa, mettere in luce i limiti insiti nella sua riduzione a semplice “imitazione”.
La studiosa si propone di fare i conti soprattutto con quest’ultimo modo di intendere la mimesis, particolarmente radicato tra gli studiosi moderni.3 Infatti, mentre l’imitazione definisce solo un aspetto della mimesis, la rappresentazione ricomprende al proprio interno l’imitazione senza esaurirsi in essa. Ciò risulta in maniera particolarmente evidente non appena si riporta la mimesis al suo contesto originario, quello della cultura poetico-teatrale. Qui essa vuol dire essenzialmente rappresentazione nel senso di uno “spettacolo” che implica da un lato la dimensione produttiva della “messa in scena”, dall’altro la dimensione ermeneutico-interpretativa di una fruizione che è al tempo stesso contemplativa e partecipativa (tale cioè da determinare un’identificazione dell’uditore con la rappresentazione stessa):
La mimesis non è dunque l’imitazione, ma è la rappresentazione di un mondo e di una possibilità di vita. Tale rappresentazione è mimetica in quanto è in grado di coinvolgere lo spettatore inducendo immedesimazione. La nozione di emulazione non esprime allora la mimesis in quanto tale, ma i suoi effetti: la mimesis non è imitazione, ma può generare imitazione in chi la osserva, in chi osserva la rappresentazione e ne è coinvolto. In quanto arte figurativa o poetica, la rappresentazione mimetica non è imitativa ma può essere imitata. Si tratta di una differenza sottile ma cruciale. È confondendo il movimento produttivo della rappresentazione creativa che si è potuta ridurre l’intera sfera della mimesis ad un’imitazione. La mimesis (rappresentazione) non è imitativa del mondo, è piuttosto il mondo che, rappresentato in un certo modo dalla mimesis, può trasformarsi e somigliare alla sua immagine: può diventare come è stato rappresentato. Le opere d’arte non copiano affatto la realtà, ma la rappresentano, e per effetto di tale rappresentazione la realtà può avviare una propria trasformazione in direzione di quella possibilità formale che la mimesis ha suggerito, ha evocato, ha creato.4
Tale nesso tra la rappresentazione e l’identificazione dello spettatore viene esaminato da Lidia Palumbo nel secondo capitolo,5 il quale è dedicato ad un approfondimento del contesto in cui la mimesis platonica matura e prende forma. È infatti soltanto a partire dalla cultura teatrale dell’Atene del quinto e del quarto secolo che tale nozione ottiene un fondamentale chiarimento:
il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis.6
La similitudine del procedimento mimetico con quello teatrale ha dunque una giustificazione che è in primo luogo di carattere metafisico: entrambi sono una presentificazione di ciò che è costitutivamente oltre quel che viene rappresentato.
Ancor più importante è però un ulteriore parallelismo con il teatro. Come nella rappresentazione scenica la storia risale ad un narratore che non appare al pubblico, così la mimesis si riferisce a qualcosa che non si mostra, ma che viene rappresentato sulla “scena del mondo”. Qualcosa che rimane celato dietro la sua immagine mimetica, ma che diventa visibile grazie a quella medesima immagine: “nel preciso senso di mimeisthai, rappresentare significa simulare l’effettiva presenza di un assente”.7 Questa relazione tra il visibile e l’invisibile caratterizza in particolar modo la mimesis che connette le idee trascendenti alla realtà empirica:
laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro —il modello dell’atto mimetico— è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche —il mondo empirico come il dialogo filosofico— sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica.8
Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,
ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento.9
E tuttavia il teatro greco ci insegna che la rappresentazione mimetica, lungi dall’essere solo inganno, possiede una forza persuasiva senza eguali:
lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore — vive come in un sogno — e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica.10
Di qui l’affinità — prima ancora che la differenza — tra la mimesi cosiddetta “cattiva”, quella dei poeti e dei tragediografi da cui Platone prende polemicamente le distanze nella Repubblica (libri II, III e X) e la mimesi cosiddetta “positiva”, caratteristica precipua dell’insegnamento filosofico nelle Leggi:
Noi stessi siamo autori di una tragedia che, per quanto possibile, è la più bella e la migliore; infatti tutta la nostra costituzione è stata ordinata come mimesis della più bella e della migliore vita, che noi affermiamo essere davvero la tragedia più vera. Poeti siete voi, e poeti delle stesse cose siamo anche noi, vostri rivali nell’arte e avversari nel dramma più bello, che il solo vero nomos per natura realizza (817B).11
Il teatro è, insieme alla poesia, la forma più potente di persuasione educativa di cui disponga l’Atene di età classica. Ed è proprio a questa capacità persuasiva che Platone attinge nella sua scrittura filosofica, la quale viene così a distinguersi nettamente dalla asettica trattatistica peri physeos in voga nel mondo presocratico.
Note
1 S. Halliwell, L’Estetica della Mimesis: testi antichi e problemi moderni, tr. it. di D. Guastini e L. Maimone Ansaldo Patti, a cura di G. Lombardo, Palermo, Aesthetica, 2009 (ed. orig. The Aesthetics of Mimesis. Ancient Texts and Modern Problems, Princeton NJ-Oxford, Princeton University Press, 2002); J.-F. Pradeau, Platon, l’imitation de la philosophie, Paris, Aubier, 2009.
2 L. Palumbo, Mimesis, cit., p. 17.
3 In epoca moderna fu Johann Joachim Winckelmann a individuare nella nozione di Nachahmung la quintessenza della mimesis degli antichi. In un piccolo volumetto del 1755, destinato a diventare nel giro di pochi anni il manifesto del Klassizismus, egli si soffermò sulle implicazioni estetico-artistiche alla base di tale nozione. Le sue riflessioni influenzarono un’intera generazione di celebri poeti e scrittori (per citare solo i più illustri: Johann Gottfried Herder, Gotthold Ephraim Lessing, Moses Mendelssohn, Friedrich Schiller e Johann Wolfgang Goethe).
4 L. Palumbo, Mimesis, cit., pp. 235-236, n. 249.
5 Ivi, pp. 154-236.
6 Ivi, pp. 158.
7 Ivi, pp. 155.
8 Ivi, pp. 279.
9 Ivi, pp. 199.
8 Ivi, pp. 208-209.
11 Trad. F. Ferrari e S. Poli, con modifiche.
Verba manent. Su Platone e il linguaggio, Iniziative Editoriali, 2014.
Trentadue ore di filosofia, Iniziative Editoriali, 2015.
Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane
Populism: from today to the original, comic and black scene of Aristophanes
Starting with the debatable and discussed term of populism, the essay deepens the contemporary political drift in which people, rather than a political subject, become an object, a commodity of exchange. The illusion of direct democracy, as it is represented and unmasked in the Knights, is re-proposed to the attention of an audience not always willing to look and understand what is happening on stage. For Aristophanes and for us, paying too much attention people seems to coincide with the extreme degradation of politics that has betrayed its tasks and has taken ugly folds, like the “dirty and somewhat loose shoes” of Giorgio Gaber.
Vorrei ripartire da un Gaber indimenticabile, ma non per mettermi nel coro di chi lamenta o canta la fine della destra e della sinistra.
Le scarpette da ginnastica o da tennis hanno ancora un gusto un po’ di destra ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate è da scemi più che di sinistra. Ma cos’è la destra cos’è la sinistra…
Come le scarpe sporche e un po’ slacciate… il populismo – i comportamenti e i linguaggi che oggi definiamo populisti – è da manipolati spesso inconsapevoli e da manipolatori sempre consapevoli, più che di sinistra o di destra. E non perché la sinistra e la destra abbiano finito il loro tempo come alcuni si affannano ad argomentare – del resto dopo il 1989 si era decretata anche la fine della storia conclusa con la fine della guerra fredda – ma perché, come le scarpe di Gaber, hanno preso una brutta piega. Si sono sformate nelle varianti del populismo che, tutte, prendono le parole chiave da una parte e dall’altra e le associano in un quadro che ne richiama altri già visti e sperimentati in varie epoche e in vari luoghi: i diritti del popolo affidati all’abbraccio dell’uomo forte che saprà garantirli. Il populismo non è un’ideologia né un partito né una linea politica. Ma non è neppure un’invenzione nominalistica, considerata la greve concretezza degli uomini che lo interpretano. Il populismo è una modalità, accuratamente e scientemente sgangherata di fare politica a sinistra come a destra in un’ignobile ed efficacissima gara di degradazione dei linguaggi e degli ideali. Troppo si è detto anche sulla legittimità e non legittimità del termine “populismo”. Marc Bloch ci ha insegnato che la storia è irreversibile e che non si ripete neppure quando eventi o atmosfere contemporanee sembrano riecheggiare o addirittura ripresentare fatti e situazioni del passato più o meno recente: altro senso e altro impatto hanno eventi e comportamenti simili in contesti socioculturali del tutto mutati. E davvero poco o nulla ha a che fare, almeno nella coscienza e nella competenza storica dei più, il cosiddetto populismo di questo primo XXI secolo con il populismo russo, narodničestvo, propriamente detto delle sperimentazioni sociopolitiche nella Russia zarista di metà Ottocento, in tempi e luoghi di produzione asiatica. Certo è che il termine italiano “populismo”, con quel suffisso –ismo che nella nostra lingua indica l’astrazione, ma spesso alludendo alla maniera e all’eccesso – si pensi a virtuosismo vs virtù, a paternalismo vs paternità, a trionfalismo vs trionfo e, per restare nella stessa costellazione del populismo, a sovranismo vs sovranità e a protezionismo vs protezione — peggiora la nozione di “popolo” e di “popolare” da cui origina. E non c’è demagogia che tenga per dare un nome più antico, o più “classico” e nobile, ai populismi di oggi, se intendiamo la parola greca etimologicamente come capacità di un oratore di persuadere e trascinare dalla propria parte, una parte ben definita, l’antica assemblea popolare. Non può la demagogia, intesa come suprema padronanza delle tecniche del discorso al servizio di un’ideologia o di una battaglia, ricoprire le implicazioni salienti che il termine populismo si porta dentro. E in italiano, forse più che in altre lingue, il nome suona perfetto per indicare quella frequentazione insistita, quel troppo di attenzione, quasi una compulsione, che deteriora l’oggetto dell’interesse, il popolo, trasformandolo da soggetto politico in oggetto, si potrebbe dire merce, di scambio. In tal senso “populismo” è anche nome del tutto coerente con le politiche attuali, italiane e non solo italiane, dei sussidi e delle elargizioni una tantum prevalenti sulle politiche strutturali a lungo termine del lavoro. Con quelle politiche bipartisan del “dono” che alimentano e non sconfiggono le nuove povertà e che, provvedimento dopo provvedimento, trasformano il popolo sovrano in plebe clientelare da vendere e comprare secondo i flussi del consenso. Non c’è dubbio che all’origine del populismo contemporaneo nelle sue varianti, per altro meno evidenti e meno percepibili delle analogie, ci siano gli scadimenti della politica tradizionale da gioco dell’intelligenza astuta a gioco truccato, quando non sporcato da troppo frequenti episodi di inadeguatezza o di collusione e financo di corruzione. Sono le élites che hanno smarrito anche gli ultimi retaggi della cultura della vergogna ad aver legittimato le intemperanze, anche le sfrontatezze, dei populismi. Ma i populismi, all’estremo delle derive politiche, non sono più politica e non promettono rinascite politiche. È difficile immaginare che possano produrre nuove aggregazioni o nuove comunità, movimenti e discorsi che, per un verso, insistono su un popolo astratto e unanime, del tutto fittizio, e per l’altro seminano paure e divisioni, facendo leva sui pericoli dell’altro, inteso prima come straniero migrante e ravvisabile poi nel competitor della porta accanto. È più facile prevedere che questi movimenti e questi discorsi, con la straordinaria insistenza sul popolo cui vogliono dare voce e che si impegnano a proteggere, invece che a una linea di pensiero condiviso approdino a soluzioni autoritarie incentrate sì su una voce sola, quella dell’uomo solo al comando. A meno che il popolo, non quello astratto e unanime della finzione populista, ma quello reale e plurale della storia, non si risvegli, stuzzicato dagli eccessi di accudimento di qualcuno dei suoi sedicenti interpreti o servi, e li giochi uno contro l’altro riprendendosi la scena e la parola. Così accadeva nei Cavalieri di Aristofane, la commedia che aveva drammatizzato e smascherato, dandone spettacolo, l’irrefrenabile e stucchevole corsa al popolo di due rivali pronti a tutto e capaci di tutto, panourgoi paradigmatici.
La commedia, composta nel 424 dal drammaturgo come allegoria esplicita, costruisce un quadro ancora interessante, oltre che esilarante, di un impegno supremo a servire il popolo con lo scopo malcelato di asservirlo. Due servi, quello in carica e quello che cerca di scalzarlo, si affrontano sulla pubblica piazza per garantirsi il posto di primo servo presso un vecchietto apparentemente rimbambito di nome Demos, Popolo. Nella finzione comica, il servo in carica si chiama Paflagone, un nome che è un programma comico e allude a un’origine straniera e schiavile dalla Paflagonia in Asia Minore, ma è anche onomatopeico del roboante gorgogliare di una pentola straripante. Si è arricchito con l’attività di conciapelli, mentre l’altro, che arriva chiamato dai Cavalieri del coro, è un salsicciaio, un conciabudella dunque. I due si combattono a forza di manicaretti, torte e doni di vestiario offerti a Demos che attende a bocca aperta di essere ingozzato e imbonito. Si insultano e si minacciano con un linguaggio estremamente violento, rivendicando però, ciascuno per sé, la più infima bassezza, la furfanteria più spregiudicata, il primato nel servilismo totale. La violenza delle invettive è calata in una rete di metafore ossessivamente giocate sul cibo, sul mangiare o essere mangiati, sul far mangiare e sul farsi mangiare, sul rubare e sul corrompere, sul concedere briciole per sottrarre di nascosto le focacce.
I fondamentali dei populismi, anche di quelli attuali, sono tutti in gioco nei Cavalieri*. Il linguaggio semplificato e forte, letteralmente triviale perché appreso nei trivi della città, dei due rivali e i loro scontri senza mediazione possono essere intesi come pratiche estreme e caricaturali della democrazia greca e diretta che esprime la voce del popolo e parla al popolo. Ma Aristofane è perfido: nel corso della commedia, i due che si battono per contendersi il favore di Popolo, alias del popolo, si rivelano per quello che sono, gli strumenti o i burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.
Il coro dei Cavalieri che dà il titolo alla commedia, tenendosi apparentemente ai margini della vicenda e dissimulando la propria tenacia oligarchica con il parlare di poetica e di storia del teatro comico, scatena il Salsicciaio contro il Conciapelli e lo sostiene. Finge di appoggiare la promessa di democrazia ancora più radicale del nuovo arrivato e persegue l’intento di far implodere il sistema, affossandolo nelle sue proprie crepe. La grande illusione della democrazia diretta non poteva trovare una rappresentazione più efficace, grottesca e straniante. La storia non si ripete, ma la risata nera di Aristofane ci morde ancora. O dovrebbe morderci.
*I cavalieri (Ἱππεῖς, Hippeîs) è una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta ad Atene, in occasione delle Lenee del 424 a.C., nelle quali l’opera vinse il primo premio.
Anna Beltrametti, un sabato di marzo 2019, articolo già pubblicato in «Stratagemmi. Prospettive teatrali», 038 – 039 [ 2/2018 – 1/2019 ], pp. 113-116, Direttore Maddalena Giovannelli, Rivista fondata nel 2007 da Francesca Gambarini, Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti e Gioia Zenoni. Un progetto di Associazione Culturale Prospettive Teatrali.www.stratagemmi.it – Info: redazione@stratagemmi.it – Via Fogazzaro 8, 20135 Milano
Maura Del Serra, poetessa di rilievo internazionale, è anche la nostra massima rappresentante di un teatro di poesia di grande qualità lirica e insiema drammaturgica. In questo volume ha raccolto tutta la sua produzione, ventitré testi, frutto di trant’anni di attività per il palcoscenico.
Il regista Antonio Calenda, il più colto della nostra scena, ha scritto nella finissima introduzione che il teatro della Del Serra “è una sorta di lavacro lustrale nei confronti di tanta drammaturgia contemporanea e della pratica del fare teatro”, aggiugendo che “il suo teatro è il sublime tentativo di rappresentare il mistero, incognito e forse inconoscibile, della vita e della morte, grazie anche all’uso di una parola che diviene senso e si fa azione”.
Teatro poetico, quindi, ma teatro teatrale che vive sul palcoscenico e nel corpo dell’interprete. Questa concezione è già tutta ne La fonte ardente. Due atti per Simone weil, scritta nel 1985 e andata in scena per la prima volta a Firenze nel 1992. Un testodi grande respiro che affronta non solo la straordinaria figura della Weil, ma anche un’intera epoca culturale, politica e sociale, i cui protagonisti sono Trotskij, Alain, Simone De Beauvoir, Georges Bataille, René Daumal, ma anche Monsignor Roncalli, poi Papa Giovanni XIII. Personaggi reali, ma, come sottolinea la stessa autrice, “intesi, in primo e ultimo luogo, in senso esemplare, cioè poetico e simbolico”, come è proprio del grande teatro.
Di assoluto rilievo è La Fenice (1990) la cui protagonista è la suora messicana Juana Inés de la Cruz, ritratto interiorizzato di questa straordinaria scrittrice barocca che incarna tutti itemi della sua epoca: la contrastata dignità della donna e anche come ha scritto Mario Luzi, “la tormentosa dialettica di scienza e fede, di sapere e obbedienza”. Andreij Rublijòv, scritto fra il 1989 e il 1990, capolavoro della nostra drammaturgia, è un affresco del grande artista russo, morto intorno al 1430, “che disegna il rapporto – sottolinea la Del Serra – fra artista e società, cultura egemone e istanze di liberazione, tradizione e rinnovamento”. Lo Spettro della Rosa (1992) coglie il rapporto fra genialità e follia attraverso la parabola tragica del grande danzatore russo Vaslav Nijnskij. Agnodice (1995) è l’invenzione di un personaggio femminile semistorico, e “doppio”, donna medico brillante, nell’Atene ellenistica del III secolo a.C., che ha il potere di scoprire i segni nelle cose, con la sete di sapere, di collegare i fenomeni, scontrandosi con il potere costituito. Guerra di sogni, vincitore del Premio “Ugo Betti” nel 1999, rappresenta in chiave mitico-visionaria il tema della violenza totalitaria nella lotta fra la dittatura supermediatica degli Extra e la ribellione dionisiaca degli Intra. Isole (2002) è un’ivestigazione poetica, degna di Marguerite Yourcenar, sulle donne di un Ulisse ibernato, la madre Anticlea, la maga Circe, la fanciulla Nausicaa e la moglie Penelope.
Il volume è concluso dalle due opere più recenti di Maura Del Serra, Isadora (2014) e La torre di Iperione (2015). La prima è il ritratto di Isadora Duncan, la grande e innovativa danzatrice che vive per l’arte e la bellezza. La seconda ha per protagonista il grande poeta Hölderlin che dialoga con “spiriti” eterogenei a lui idealmente affini per la caduta nella follia, come Kant, Nietzsche, Dino Campana e Virginia Woolf.
È un teatro, questo di Maura Del Serra, che ogni vero appassionato deve avere nella sua biblioteca.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
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Se il compito di ogni scrittore degno di questo nome è quello, costante e inesauribile, di restituire la voce intima delle potenze della natura, dell’arte e del pensiero al mondo e al profano «tempo della privazione stigmatizzato da Hölderlin nel celebre interrogativo Warum Dichter im durftiges Zeit?», è certo che il grande scrittore ungherese Miklós Szentkuthy (1908-1988) ha assolto questa missione con un furor enciclopedico e con un estro metodico eccezionalmente «scientifici» e singolari nell’ambito del panorama letterario europeo del secolo scorso, tanto da indurre la critica più attenta alla sua voce, in patria e fuori (soprattutto in area francese, ma anche spagnola, portoghese, rumena e slovacca) a definirlo con topica approssimazione il Proust, il Joyce o il Musil ungherese: paragone trinitario che l’autore, pur prodigo nel riconoscere le sue multivarie fonti, ha sempre schivato con ironica deferenza. Questo principe neobarocco del Modernismo, che ha molto influenzato la generazione letteraria seguente – Krasnahorkai, Nádas, Esterhazy, il Nobel Kertész – è ancora pressoché sconosciuto ai lettori italiani per mancanza di attenzione ad una lingua e a una civiltà letteraria considerate minoritarie da parte di una Weltliteratur appiattita sul «regno della quantità», e per la conseguente assenza di traduzioni da parte dei nostri slavisti (con la logica eccezione della musica ungherese: Bartók, Kodály e Ligeti).
L’opera di Szentkuthy, parzialmente pubblicata dagli anni ’60 agli anni ’80 del Novecento, in traduzioni tedesche, serbo-croate, polacche e slovacche, e negli anni Novanta in versioni francesi è ora in corso di ampia e selettiva edizione (escluso l’oceanico diario intimo di 100.000/200.000 (?) pagine, ancora manoscritto) presso le edizioni superbamente raffinate della Contra Mundum Press (New York/Paris), fondate e dirette dal poliedrico, appassionato saggista e romanziere Rainer J. Hanshe: sono già apparsi, a cura dell’ottimo
traduttore Tim Wilkinson, i premiati Marginalia on Casanova (2011) e Towards the One and Only Metaphor (2013), oggetto semispecifico di questo scritto. [Leggi tutto il saggio aprendo il PDF qui sotto]
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Petite Plaisance è lieta di annunciare l’uscita del volume
«TEATRO»
di Maura Del Serra
Mercoledì 25 novembre 2015
I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.
Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.
Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.
Indice
Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata
La fonte ardente. Due atti per Simone Weil L’albero delle parole La Fenice La Minima Andrej Rubljòv Il figlio Lo Spettro della Rosa Specchio doppio. Favola drammatica Agnodice. Commedia drammatica Guerra di sogni. Mito futuribile Stanze. Versi per la danza Trasparenze. Versi per la danza Sensi. Versi per la danza Kass Dialogo di Natura e Anima Trasumanar. L’atto di Pasolini Isole. Poema scenico Eraclito Scintilla d’Africa Specchi. Cellula drammatica La vita accanto Isadora La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri
Appendice
Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole Mario Luzi: Introduzione a La Fenice Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni Misha Van Hoecke: Nota a Stanze Ugo Ronfani: Introduzione a Isole Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto
«La mia produzione poetica è il risultato dei miei stati d’animo e delle mie crisi morali. Non ho mai scritto perché avessi trovato, come suoi dirsi, un buon argomento […]». (Lettera di H. Ibsen a B. Biorson del 12 gennaio 1868)
«Noi viviamo delle briciole cadute dalla tavola della rivoluzione del secolo scorso. Questo cibo è stato masticato e rimasticato per troppo tempo. Le idee hanno bisogno di nutrimenti e stimoli nuovi. “Libertà uguaglianza fratellanza” non sono più ciò che erano al tempo della ghigliottina. Gli uomini politici si ostinano a non comprendere; per questo io li odio. Vogliono delle rivoluzioni particolari, tutte in superficie, d’ordine soltanto politico. Sono tutte sciocchezze! Quella che importa è la rivolta dello spirito umano […]». (Lettera di H. Ibsen a G. Brandes del 20 dicembre 1870)
«Per quanto riguarda il problema della libertà, esso per me si riduce ad una questione di parole. Non acconsentirò mai ad identificare la libertà con un certo numero di libertà politiche. In ciò che voi chiamate libertà io vedo solamente “delle” libertà. E quella che io chiamo lotta per la libertà non è che la continua e concreta conquista dell’idea di libertà. Colui che non vede la libertà come un bene ardentemente desiderato e crede di possederla, in verità possiede una cosa senza vita, senz’anima; perché la nozione di libertà ha questo di particolare, che essa si allarga costantemente. Se dunque uno durante la lotta si ferma e proclama di averla conquistata, nello stesso atto avrà dimostrato esattamente di averla perduta […]». (Lettera di H. Ibsen a G. Brandes del 17 febbraio 1871)
«La paura della lotta è il male del nostro paese. Si cede a poco a poco, si abbandona il terreno passo passo. Ecco perché oggi siamo nei guai. E bisognerebbe – mi pare – possedere un gusto sovrumano della rinuncia per non impadronirsi di una simile materia adatta agli epigrammi ed alla commedia satirica». (Lettera di H. Ibsen a J. H. Thoresen del 27 agosto 1872)
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