Thomas Mann (1875-1955) – Sì, oggi vengon su gli istituti industriali e gli istituti tecnici e le scuole di commercio; il ginnasio e l’educazione classica sono improvvisamente ‘bétises’ e tutti pensano a niente altro se non a miniere … a industrie … e a far soldi … bravi! Ma anche un poco stupido, no?

Thomas Mann 026
Thomas Mann, Buddenbrooks. Verfall einer Familie .
Copertine dell’edizione originale del 1901. Prima ed. it. :1930.

«Ideali pratici … sì, certo … », il vecchio Buddenbrook, in una pausa concessa alle sue mascelle, giocherellava con la tabacchiera d’oro, «Ideali prarici … no, non sono nulla favorevole!».
Per il dispetto scivolò nella parlata dialettale:
«Sì, oggi vengon su gli istituti industriali e gli istituti tecnici e le scuole di commercio; il ginnasio e l’educazione classica sono improvvisamente bétises e tutti pensano a niente altro se non a miniere … a industrie … e a far soldi … bravi!
È tutto, molto bravi!
Ma d’altra parte, con l’andar del tempo, un poco stupide, no?».

Thomas Mann, Buddenbrooks. Decadenza di una famiglia, Introduzione di Cesare Cases, Traduzione di Anita Rho, 2 voll., vol.  I, Einaudi, Torino 2014.

*
***
*

Thomas Mann – La conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana hanno un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea. Il vero studio dell’umanità è l’uomo

Thomas Mann (1875 – 1955) – L’arte è come se ricominciasse ogni volta da capo. Essa non minaccia la vita poiché è creata per dare alla vita la vita dello spirito. È alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà. Nata dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento.

Thomas Mann (1875-1955) – L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio di conoscere se stesso. Ma anche la Somma Saggezza poteva non bastare del tutto a prevenire errori.


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word

***********************************************

ss

Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.

Attila József

La statua di Attila Jozsef a Budapest

La statua di Attila Jozsef a Budapest.

 

330px-Homonnai_József_Attila

***
 Attila József

Con libera mente non recito la parte
sciocca e volgare del servo

a cura di Fernanda Mazzoli


Il testo completo di 12 pagine scaricabile in PDF

Attila József

 


 

Nel 1937, poco prima di mettere fine alla sua breve vita, gettandosi sotto un treno, Attila József allegò alla domanda in cui sollecitava un impiego nella speranza di allontanare, almeno per un poco, lo spettro della povertà che lo accompagnava dalla nascita, un curriculum vitae che, in mano sua, si trasformò nel racconto poetico della sua travagliata esistenza.

 

Attila+J

Il poeta ungherese ricorda la sua infanzia difficile: nato nel 1905 a Budapest, a tre anni la Protezione per l’Infanzia lo inviò a Öcsöd, presso genitori adottivi, dopo che il padre aveva abbandonato la famiglia per emigrare. Là visse alcuni anni, lavorando in campagna a badare i maiali come tutti i bambini poveri. Al compimento del settimo anno, la madre lo riportò a Budapest e lo iscrisse alla seconda elementare. Lei faceva la lavandaia e le pulizie per mantenere Attila e le sorelle. A lei dedicò tanti suoi versi, operando quella perfetta e mai banale saldatura tra vissuto personale e dimensione sociale che conferisce alla sua lirica un carattere unico. La poesia che segue fu salutata da Benedetto Croce, critico esigente, come «grande, infinita e sublime». Correva l’anno 1942 e il poeta ungherese era, in Europa, pressoché sconosciuto.

thumbnail-by-url

MIA MADRE
Una domenica sera mia madre è tornata
fra le mani recando due pentolini:
sorrideva in silenzio e s’è fermata
un po’ nella penombra.
Nelle pentole c’erano gli avanzi
della cena dei nostri padroni;
anche a letto, dopo, io pensavo
che quelli ne mangiano pentole piene.
Mia madre, esile, scarna, è morta giovane:
le lavandaie muoiono presto.
Le gambe non reggono ai carichi,
la testa duole dallo stirare.
Ed è il bucato la loro montagna!
Per allietanti giochi di nuvole,
il denso vapore, e per cambiare aria
le lavandaie hanno, su, la soffitta.
La vedo: sta con il ferro da stiro.
Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo;
si fece sempre più striminzita
– pensateci, proletari.
Si aggobbì per lavare:
ed io non sapevo che era ancora giovane.
Sognava di avere un grembiule pulito
e allora il postino la salutava.
(trad. di Folco Tempesti)

 

 

In terza elementare scoprì delle storie interessanti su Attila, il leggendario re degli Unni, che gli piacquero non solo perché portavano entrambi lo stesso nome, ma perché i genitori adottivi avevano deciso che il nome Attila non esisteva e, quindi, lo avevano chiamato Pista (diminutivo di István) e, in questo modo, era come se avessero messo in dubbio la sua stessa esistenza. József attribuì alla scoperta dei racconti su re Attila un influsso decisivo sul suo orientamento, fino a vedervi la probabile origine sia della sua passione per la letteratura, sia della sua abitudine a riflettere, ad ascoltare l’opinione degli altri, passandola, però, al vaglio dell’esperienza personale: «un individuo che risponde se lo chiamano Pista fino a quando non ha potuto accertare quello che pensa nel profondo di se stesso,vale a dire che il suo nome è Attila».
Gli anni della prima guerra mondiale lo vedono mobilitato in una lotta per la sopravvivenza che lo porta, ancora bambino, a fare mille mestieri per aiutare la madre: venditore di acqua al cinema Világ e di giochi di carta colorata, portatore di ceste al mercato, ladro di legna e carbone alla stazione ferroviaria di Ferencváros. Gli capitava di fare la coda alle nove di sera davanti ad una drogheria e, arrivato il suo turno dieci ore dopo, di sentirsi dire che lo strutto era finito… La fine della guerra non gli portò un tempo migliore: la madre si era ammalata di un tumore, soldi non ce n’erano e lui vendeva giornali e pane e trafficava in francobolli. Il giorno di Natale del 1919 sua madre morì e l’Associazione orfani nominò come suo tutore il cognato. Malgrado avesse trascorso mesi a lavorare a bordo dei rimorchiatori della Compagnia Atlantica e non avesse potuto seguire i corsi scolastici, superò l’esame di quarta ginnasio e il cognato-tutore lo inviò a studiare in collegio dove si distinse per il profitto, nonostante i ripetuti tentativi di suicidio. «Non avevo in quel periodo, come del resto prima, nessuna persona accanto a me che mi facesse da amico e guida». La prestigiosa rivista Nyugat (Occidente) aveva già pubblicato alcune sue liriche: «Mi consideravano un bambino prodigio, ero invece soltanto un orfano». Un orfano in un mondo di orfani, affamati e senza speranza di placare la propria fame, espropriati di se stessi – senza più pelle, né vista, o parola – e persino del cielo, dove risplende ormai un tallero d’oro.

 

Gridiamo a Dio

Gridiamo a Dio

GRIDIAMO A DIO

A te, Dio,
noi gridiamo: sii la nostra
calda, sensibile pelle,
ché ci hanno scorticato: dal dolore
ciechi, ormai,invano,
invano a tentoni avanziamo, senza
più sentire delle cose altro
che questo:orribilmente fanno male.

Se siamo ciechi è inutile sapere
che in noi s’infiammano i germogli a primavera, che
il nostro braccio vale più della stanchezza, che il cervello
è più esplosivo d’ogni dinamite. La parola
nostra non avvolge e non riscalda
più nessuno, come lana bruciacchiata
lentamente si consuma in fumo
amaro che il vento trascina. Da ciascuno di noi
trabocca l’anima come da vasi
forati dalla ruggine il latte che cagliamo con l’amore
perché ne resti almeno per i figli. Ora puoi veramente
tu stesso strapparti dalle stelle: è più efficace in terra
e duratura la luce dei quattrini.
Nessuno che ci accolga alla sua tavola- mastichiamo
radici di grotte montane- in cielo, non il sole
ma un tallero d ‘oro risplende, sui prati
nemmeno l’euforbia matura.

Oh, sii tu dunque la nostra pelle sensibile e calda,
che il dolore scivoli su di noi
come l’acqua sulle piume delle oche. Che una volta infine noi possiamo
scolpire la statua di marmo e intagliare nel legno
il giaciglio: che non resti lavoro domani –
già sulle acque le nubi sono a picco,
le ombre si moltiplicano, e noi
con l’opera incompiuta rincasiamo, a passare la notte sotto gli occhi
tuoi che si chiudono.

(traduzione di S. Badiali)

 

Abbandonò la scuola dopo il primo anno di liceo, spinto dall’irrequietezza e da un oscuro senso di colpa («mi sentivo come uno scioperato: non studiavo perché subito dopo la spiegazione degli insegnanti sapevo già la lezione») e riprese i suoi vagabondaggi, passando da un mestiere all’altro. Su consiglio di due insegnanti che gli si erano affezionati, si preparò all’esame di maturità, recuperando in tre mesi i due anni perduti. In ungherese prese appena la sufficienza: la sua poesia Lázadó Kristus (Cristo ribelle) pubblicata nel 1923 – e che gli valse un’accusa di bestemmia (da cui, poi, venne assolto) – gli aveva alienato le simpatie del professore.
A vent’anni affida ai versi di Tiszta szívvel (Con cuore puro) un autoritratto all’insegna di un sentimento esacerbato di mancanza che, lungi dal rispondere ad un facile cliché di poeta maledetto, sgorga direttamente da un’autentica esperienza esistenziale segnata, sin dai primissimi anni, da miseria e abbandono e da un sentimento di istintiva rivolta di fronte all’indifferenza del mondo.

 

Non ho padre, né madre,
né dio, né patria,
né culla, né sepolcro,
né bacio, né amata.
Da tre giorni non mangio,
né molto, né poco.
Vent’anni la mia forza,
i miei vent’anni li vendo.
Se non servono a nessuno,
allora che il diavolo se li prenda.
Con cuore puro rubo,
se occorre ucciderò.
Che mi catturino e impicchino,
mi ricoprano di terra benedetta
e nascerà dal superbo mio cuore
un’erba mortale.

Rappresentante di libri a Budapest, contabile in una banca privata, collaboratore di diverse riviste, decise che avrebbe fatto lo scrittore, «cercando di trovare un’occupazione borghese in stretto rapporto con la letteratura». Si iscrisse dunque alla facoltà di Lettere e Filosofia di Szeged, mantenendosi precariamente agli studi con gli onorari delle sue poesie. Superò brillantemente gli esami, finché non si imbatté nel professore di linguistica ungherese Antonio Horger che, alla presenza di due testimoni, dichiarò che , finché lui fosse vissuto, József non sarebbe mai divenuto professore di scuola media. Mostrandogli il giornale Szeged, gli disse che «a un individuo che scrive versi simili non si può affidare l’educazione delle generazioni future». Si trattava proprio di Tiszta szívvel, una poesia che – ricorderà ironicamente il poeta – sarebbe divenuta piuttosto famosa, considerata da noti critici letterari come «il documento di tutta la generazione postbellica» e «l’emblema della nuova poesia».

26

L’anno seguente lasciò il suo paese per Vienna; qui prese alloggio in «un orribile stamberga, dove per quattro mesi non ebbi neanche un lenzuolo»); si iscrisse all’università e, per mantenersi, vendette giornali e fece le pulizie nell’Accademia Ungherese della capitale austriaca, finché il direttore, venuto a conoscenza delle sue condizioni economiche disperate, non gli procurò un posto come precettore in una ricca famiglia. Raggranellato un po’ di denaro, il poeta partì per Parigi, dove si iscrisse alla Sorbona e poi rientrò a Pest, studente della locale Università. Rinunciò a sostenere l’esame di laurea, convinto – dopo l’esperienza a Szeged – che per lui non ci sarebbe stata, comunque, la possibilità di insegnare. La sua buona padronanza del francese gli valse, finalmente, un posto di corrispondente franco-ungherese presso il neonato Istituto per il Commercio estero, ma ben presto dovette lasciare l’impiego per uno stato di profonda prostrazione psico-fisica che lo condusse in sanatorio. Redattore della rivista Szép Szó (da lui fondata nel marzo del 1936 insieme a due importanti critici letterari, contava sulla collaborazione di scrittori di diverso orientamento politico, accomunati da un forte sentimento antifascista ), da allora visse dei proventi delle sue pubblicazioni.
Da sempre lo seguiva come un’ombra che gli consumava le energie vitali il senso irrimediabile di una sofferenza universale che non risparmiava alcuna creatura vivente, incalzata da una fame insaziabile, condannata alla solitudine, mentre Dio si è nascosto e «urla invano il poeta, sciacallo / che alle stelle vomita grida».

 

 

IL CANE

Così arruffato e fradicio,
era il suo pelo di fiamma gialla
magro di fame
scarnito dalle voglie
ed al suo fianco
triste sventolava
il fresco della notte.
Correva,gemeva;
gli occhi suoi, cattedrali
gremite di sospiri;
croste di pane
e rifiuti cercava.

Ebbi pietà di lui
da me stesso quasi scaturito
povero cane vivo.
Ed ogni cosa al mondo
vidi corrosa dai vermi.

E bisogna dormire,
la sera ci costringe
e la stanchezza
da ultimo ci culla.
Ma prima di dormire
come la città giacendo
sotto la fresca e silenziosa volta
della stanchezza così pura,
balza ad un tratto
dal suo diurno nascondiglio
in noi stessi
così arruffato e fradicio
affamato quel cane
che di Dio
brani e rifiuti
va cercando.

(traduzione di Sandro Badiali)

 

Ciò di cui il poeta non poteva parlare nel suo curriculum era la militanza politica. Negli anni universitari aveva preso contatto con il partito comunista clandestino, dichiarato illegale dopo la violenta repressione che aveva travolto nel 1919 la repubblica Sovietica d’Ungheria, guidata da Béla Kun. Una scelta che scaturiva con naturalezza dalla sua stessa condizione di vita e dal rifiuto istintivo dell’ingiustizia e dell’ ipocrisia della società borghese, così come di una funzione consolatoria dell’arte. Nella poesia Ars poetica (1937), rivendica di non cercare «il latte della favole» e di dissetarsi, piuttosto, «al mondo reale, con spuma / di cielo all’orlo». Lascia agli altri poeti l’esibizione di una finta ebbrezza; lui ha deciso di andare oltre «questa moderna osteria, / fino alla ragione e più in là; / con libera mente non recito la parte / sciocca e volgare del servo».
Dunque, la sete inesausta che tormenta il suo spirito irrequieto si immerge nella profondità del mondo e da essa attinge una forza nuova che si nutre di amore e ragione e della piena consapevolezza del suo destino di uomo e di poeta. E la consapevolezza matura necessariamente attraverso la condivisione del dolore con tutti gli altri uomini, vilipesi, umiliati e respinti, quegli uomini di cui József coglie, con un’immagine superba per evidenza e intensità, l’essenza di una condizione di espropriazione sociale che diventa alienazione esistenziale: non la loro parte di gioia ricevono , ma solo un salario. La cifra peculiare dell’opera di József consiste proprio nell’incontro tra sofferenza personale e rivolta collettiva e nella loro assunzione ad una dimensione universale, mai astratta , ma sempre radicata nell’autenticità e nella concretezza della vita offesa nella sua aspirazione alla verità e al bene da un ordine sociale profondamente inumano, dove «tutti quanti / han barattato speranza contro denaro».
È in questo radicamento che si rielaborano e sublimano le diverse implicazioni letterarie cui il poeta fu sensibile, dal simbolismo, all’espressionismo al surrealismo, per non parlare di François Villon, suo frère humain in infelicità e incapacità a vivere.
Il mondo da cui József attinge la materia e quasi il ritmo palpitante della sua poesia è fatto di povere periferie urbane, di davanzali grigi, di denso fumo di ciminiere, di treni che fischiano nella notte triste e pesante dei poveri, dove «tessono / cupe le macchine gli sfatti / sogni delle tessitrici», di prati sterili ed erbe strappate, ma anche di zolle bruciate, di vecchie montagne «nodose / come mani di antico, pesante lavoro», di fattorie dove rincasano contadini spezzati dalle fatiche dei campi. Un mondo reale, certo, ma «con spuma di cielo all’orlo»: non solo per l’irrompere improvviso, fra tante brutture, dell’irriducibile, pura, fragile bellezza delle cicogne sui camini, dei pini profumati, dell’«eterna impassibile pioggia», o del «muschio che dolce respira», ma per il bagliore di sapore vagamente messianico di una palingenesi radicale che proietterà sulla «fabbrica oscura» «la rossa stella dell’Uomo».
È, insomma, un mondo inscritto nella storia – l’Ungheria fra le due guerre – e nella geografia, quella «dei paesi della miseria» – le zone d’ombra della metropoli –, ma anche la sterminata pianura attraversata dal «grande, torbido e saggio» Danubio e che da tali determinazioni trae la sua valenza universale. Come osservò György Lukács, nella sua lirica le immagini di paesaggio possono comunicare sentimenti rivoluzionari.

 

 

BALLATA DEL SALARIATO

Portiamo ceste scricchiolanti, zappiamo
la tenera tremante insalata. Per farne
case impastiamo l’argilla, il vestito
per la signora alla moda cuciamo, stacchiamo
il lardo dai fianchi del porco,
sciogliamo lo strutto, ingozziamo le oche:
se la sera diffonde il suo regno fluttuante, non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

Muri invano alziamo, a costruire
la caserma del nostro destino: nostro figlio
per strada, dalla vetrina guarderà
il suo gioco delle costruzioni, e a nostra figlia, se chiede
a noi che tessiamo
il vestito per la bambola, il desiderio resterà
sulle labbra serrate. Non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

Davanti ai nostri occhi solo cinghie che scorrono,
facciamo vagoni e rotaie,
in terra, sopra e sotto la terra piantiamo
l’albero del mondo, ecco
raccolto il grano dei campi e non possiamo
nemmeno esserne fieri -lo bruciano,
lo scagliano in acqua. Non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

Crescono sì le patate, se le zappiamo!
E’ giusto per noi lavorare, ma non è questo
che ci tormenta. Non la nostra
parte di gioia ci è data, ma solo un salario.

(trad. di S. Badiali)

 

 

Grande e commovente era la fiducia di József nella «catena di montaggio della storia» dove «gli operai /nella lotta di classe vestiti di ferro» preparano il nuovo mondo, lottando contro i miasmi esalati dalla «gialla bocca del capitale».
Eppure, tanta fede non valse a risparmiargli l’accusa di “deviazionismo” e la conseguente espulsione dal Partito comunista nel 1934. Troppo disperato e troppo attento alle proprie voci interiori, probabilmente, per un partito che si stava allineando alla “normalizzazione” staliniana imposta al movimento comunista internazionale proprio in quegli anni. È doveroso, qui, ricordare che in pieno stalinismo, Lukács affermò, proprio riferendosi a lui, che il vero poeta, anche di partito, deve potere esprimere la propria disperazione, poiché della libertà poetica è parte anche la libertà della disperazione del singolo.

jozsef_attila_es_thomas_mann

Thomas Mann e Attila József.

 

L’allontanamento dal partito non poté che accentuare la solitudine del poeta, ma non ne esaurì certamente l’ispirazione rivoluzionaria, né la militanza antifascista o la collaborazione alla stampa di orientamento socialista. Il 13 gennaio 1937 fu tra gli organizzatori della conferenza di Thomas Mann a Budapest e per tale occasione scrisse una poesia (Saluto a Thomas Mann), la cui lettura fu vietata dalla polizia, nella quale il grande scrittore tedesco «solo europeo fra uomini bianchi» assurgeva a simbolo della libertà e dell’umanità calpestati «dall’orrore di sogni mostruosi».
Sul finire dell’anno, il poeta, sempre più disperato, solo, dopo il fallimento di diverse relazioni sentimentali e malato (gli era persino stata diagnosticata una forma di schizofrenia, né gli aveva giovato il trattamento psicanalitico cui si era sottoposto), trovò la morte sui binari della stazione di Balatonszárszó.
Suicidio – versione dai più accreditata, visto l’aggravamento delle sue condizioni psichiche – o incidente, come sostennero alcuni, resta comunque sconcertante la premonizione che una quindicina di anni prima, ragazzo già segnato precocemente dalla durezza del vivere, aveva messo in versi.

 

UBRIACO SUI BINARI

Un ubriaco giace sui binari, stringe
nella sinistra la bottiglia e russa
dormendo fresco come l’alba.
Trotta lontano la notte sulla strada.

Di steli ha ornato i suoi capelli
a poco a poco il vento della notte. Il cielo
pietoso copre di rugiada.
Non si muove, solo il petto è vivo.

Ha duro il pugno come trave di binari. E dorme
come nel seno della vecchia madre;
a brandelli il vestito; ancor giovane, ragazzo.

Sorge il sole, il cielo rompe in colori di cenere:
un ubriaco giace sui binari, da lontano
trema la terra lentamente.

(trad. di S. Badiali)

 

Chissà se Attila József ha trovato nel piccolo paese sul lago Balaton in cui un treno mise fine ai suoi difficili giorni quella terra accogliente dove il suo nome “senza errori scriverà/chi mi vorrà seppellire”, riappropriandosi nella morte della sua tormentata identità.
Malgrado che la letteratura di ispirazione civile non goda oggi dei favori del pubblico e della critica, il potere continua a mantenere un certo fiuto e sa individuare nella sua poesia un corpo estraneo, non assimilabile e non smette di accanirsi ottusamente su di lui, riconoscendone paradossalmente la vitalità: nel luglio del 2013, il governo autoritario guidato da Orbán ha deciso di rimuovere da una piazza centrale di Budapest la statua di Attila József. In migliaia sono accorsi per impedire questo scempio, facendo del poeta, ancora una volta, un simbolo di libertà e resistenza.

Poesie

Poesie

 

BIBLIOGRAFIA:
Attila József, Gridiamo a Dio. Poesie, a cura di Sandro Badiali e Gilberto Finzi, Guanda, Parma 1963.
F. Tempesti, Le più belle pagine della letteratura ungherese, Nuova accademia, Milano 1957.
József Attila, Poesie scelte, ed. Lithos, Milano 2005.


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 16-03-2018)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Thomas Mann (1875-1955) – L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio di conoscere se stesso. Ma anche la Somma Saggezza poteva non bastare del tutto a prevenire errori.

Thomas Mann 025

Giuseppe il nutritore

Giuseppe il nutritore

Nelle sfere e nelle gerarchie celesti regnava […] una soddisfazione lievemente ironica […]. E ciò a causa di una idea bizzarra […] di Colui che tale idea aveva concepito e attuato. E l’idea era questa: «Gli angeli sono creati a nostra immagine, ma non sono fecondi. Gli animali invece, guarda, sono fecondi, ma non sono a immagine nostra. Vogliamo creare l’uomo: a immagine degli angeli, ma fecondo».
Un’idea assurda. Più che superflua, aberrante, capricciosa, e gravida di pentimento e di amarezza. Noi non eravamo “fecondi”, certamente no. Camerlenghi della luce, taciti cortigiani eravamo noi […]
Questa onnipotenza, questa facoltà assoluta di immaginare e suscitar nuove forme, di dare esistenza con un semplice “fiat” aveva naturalmente i suoi pericoli … Anche la Somma Saggezza poteva non essere pienamente in grado di superarli, poteva non bastare del tutto a prevenire errori e passi inopportuni nell’esercizio di queste sue facoltà assolute. Per puro istinto di agire, puro bisogno di attuazione, ardente desiderio del “dopo questo anche quest’altro”, “dopo gli angeli e gli animali anche l’animale angelico”, la Somma Saggezza si avventurò in impresa non saggia, creò un essere palesemente precario e imbarazzante […].
Ma Iddio, era Egli stato tratto da sé, di propria iniziativa, a questa creazione spiacevole? Nelle gerarchie e negli ordini celesti correvano supposizioni che, confidenzialmente e segretamente, negavano questa indipendenza; supposizioni indimostrabili ma con un fondamento di verosimiglianza, secondo le quali tutto era dovuto a un suggerimento del grande Semael, che, prima della folgorante caduta, era stato molto vicino al Trono. Il suggerimento rispecchiava proprio la sua natura e le sue intenzioni […]. Affinché il Male venisse nel mondo era esattamente necessaria quella creatura che, secondo ogni supposizione, Semael aveva proposto di creare: un essere a somiglianza di Dio, eppur fecondo: l’uomo. […]
La malizia di Semael consisteva in questo: se gli animali, dotati di fecondità, non furono creati a somiglianza di Dio nemmeno noi, cortigiane immagini di Dio, a giudicar rigorosamente, lo fummo, perché noi, grazie, al cielo, venne pulitamente negata la fecondità. Le qualità ripartite tra gli animali e noi, divinità e fecondltà, originariamente erano unite nello stesso Creatore, e a immagine sua sarebbe stato creato soltanto l’essere proposto da Semael, e in cui appunto si effettuò questa unione. Ma con questo essere, con l’uomo, venne il Male nel mondo.
Non era un caso ironico da suscitare un risolino di scherno? Proprio la creatura che, se si vuole, era la più somigliante al Creatore, portò con sé il Male. Per consiglio di Semael, Iddio si creò in essa uno specchio, non certo lusinghevole, anzi tutto l’opposto, e che Egli in seguito era stato più volte sul punto di annientare per collera e per imbarazzo, senza tuttavia giungere mai all’estremo; o perché non gli bastasse l’animo di far ricadere nel nulla l’essere da lui stesso chiamato in vita; o che amasse di più quest’opera mancata che quelle ben riuscite; o che non volesse riconoscere come definitivamente sbagliata una creatura tanto simile a lui; o infine perché uno specchio è un mezzo per conoscer se stessi […].
L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio di conoscere se stesso: curiosità accortamente prevista da Semael e da lui sfruttata con l’astuto consiglio. […]
Il “peccato originale” consisté solo in questo: l’anima, mossa da una specie di malinconica sensualità, che in uno dei principi primi del mondo superiore ci turba e sorprende, si lasciò, per suscitar forme da cui trarre piaceri corporei, vincere dal desiderio di penetrare con amore la materia ancora informe e tenacemente risoluta a rimaner tale. E chi se non Dio stesso le venne in aiuto in quella sua lotta d’amore troppo superiore alle sue forze; chi creò per lei l’avventuroso mondo dell’accadere, il mondo delle forme e della morte? Egli lo fece per compassione delle angustie in cui si dibatteva la sua traviata compagna, per una comprensione che lascia arguire una certa affinità costituzionale e sentimentale tra i due. Ma là dove si può si deve anche trarre una conclusione, anche se paia ardita e perfino sacrilega, poiché nello stesso istante si parla di traviamento.
[…] Semael contava sull’errore universalmente diffuso per cui si crede che, se due persone hanno lo stesso pensiero, quel pensiero dev’essere buono.
È inutile far misteri e usar parole timidamente allusive. Quello che il grande Semael, una mano al mento, l’altra tesa perorante verso il Trono, propose, fu l’incarnazione del Sommo in una stirpe eletta ancora inesistente ma da crearsi, l’assumere corpo secondo il modello delle altre divinità etniche e razziali della terra, ricche di magica potenza e carnalmente piene di vita. Non a caso adopriamo l’espressione “piene di vita”, perché come una volta con la proposta di crear l’uomo anche ora, ma in un senso più drastico anzi carnale, l’argomento primo del Maligno era l’accrescimento di vitalità che, seguendo quel consiglio, il Dio spirituale, estraneo e superiore al mondo, avrebbe ottenuto.[…]
La sfera affettiva, a cui quegli argomenti si volgevano, era l’ambizione; un’ambizione necessariamente rivolta verso il basso perché nell’Essere Supremo ogni ambizione verso l’alto è impensabile, ambizione verso il basso, uguagliarsi agli altri, “volere-anche-essere-come-gli-altri”, rinunciare a ogni qualità eccezionale e straordinaria. Facile fu per il Maligno appellarsi al sentimento di sé troppo vergognosamente generico e astratto, troppo incolore e insapore, che Dio, confrontando la sua ultramondana spiritualità con la sensualità magica degli dèi etnici e razziali, doveva inevitabilmente provare. Da tali confronti nasceva appunto quell’ambizione di abbassarsi, di fortemente limitarsi, di dare alla propria forma di vita più sensuale sapore e colore.
Cedere la sublimità un po’ pallida di una spirituale universalità per la sanguigna e carnale esistenza di un Dio fattosi corpo vivo di una gente, essere come gli altri dèi: questa l’aspirazione più segreta, il pensiero ancora latente del Sommo. E a questo pensiero Semael venne incontro con il suo insidioso consiglio. […]

 

Thomas Mann, Giuseppe il nutritore, Mondadori, 1982, pp. 19-27.

 

Thomas Mann – La conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana hanno un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea. Il vero studio dell’umanità è l’uomo.
Thomas Mann (1875 – 1955) – L’arte è come se ricominciasse ogni volta da capo. Essa non minaccia la vita poiché è creata per dare alla vita la vita dello spirito. È alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà. Nata dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento.

Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 05-07-2017)


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Thomas Mann (1875-1955) – Ezra Pound, un interessante esempio di quella profonda scissione dello spirito dinanzi al problema sociale.

Mann versus Pound

Nobiltà dello spirito

«Ai giorni nostri  [1953] osserviamo il caso affascinante per cui una critica della società di segno conservatore o, se si preferisce, reazionario, viene esercitata con gli strumenti della più raffinata perfezione artistica: è il caso dello scrittore Knut Hamsun, da poco scomparso, un aposrata del liberalismo formtosi su Nietzsche e Dostoevskij, pieno d’odio per la civiltà, la vita cittadina, l’industrialismo, l’intellettualismo e via dicendo, appassionatamente anti-inglese e a tal punto germanofilo che, all’avvento di Hitler, si votò al nazionalsocialismo con un attivismo e un entusiasmo che lo portarono a tradire la propria patria. Nessun vero conoscitore della sua opera – che è l’opera di un grande poeta – dovette stupirsi troppo di questo itinerario spirituale e di questo personale destino. Bastava solo ricordare con quanto spirito, con quanta mordace arguzia, già nei suoi primissimi libri egli avesse schernito alcuni grandi del liberalismo come Victor Hugo o Gladstone. Ma ciò che nel 1895 era stata un’interessante posizione estetica all’insegna del paradosso e della bella letteratura, nel 1933 divenne una passione politica acuta, che oscurò pesantemente e dolorosamente una fama poetica mondiale.
Affine al caso di Hamsun è quello di Ezra Pound, un altro interessante esempio di quella profonda scissione dello spirito dinanzi al problema sociale. Un artista ardimentoso,
un avanguardista della lirica, anch’egli si gettò nelle braccia del fascismo, contribul a diffonderlo durante la Seconda guerra mondiale in veste di attivista politico e perse la partita grazie alla vittoria militare della democrazia. Pur essendo stato condannato e imprigionato come traditore, una giuria di eminenti scrittori angloamericani gli assegnò un importante riconoscilmento letterario, il Premio Bollinger, testimoniando in tal modo un elevato grado di indipendenza del giudizio estetico dalla politica. Ma siamo poi tanto sicuri che la politica sia rimasta estranea a quel giudizio, come parve aliora? Certo non sono l’unico che ambirebbe sapere se l’eminente giuria avrebbe assegnato il Premio Bollinger a Ezra Pound anche nel caso in cui, per avventura, anziché fascista fosse stato comunista»

 

Thomas Mann, L’artista e la società (Der Künstler und die Gesellschaft), in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, 2015, pp. 1623-1624. Pubblicaro per la prima volta nel 1953 dall ‘editore Frick di Vienna nella collana delle pubblicazioni dell’UNESCO. Accolto, in forma abbreviata, in AuN, poi in GWA 11, GW X, E 6. Traduzione di A. Landolfi.

Poco più di tre mesi dopo aver concluso questo saggio Mann lascerà definitivamente gli Stati Uniti, in aperta polemica con la politica persecutoria scatenatasi in quel periodo contro i sospetti di «comunismo».


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 02-06-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Thomas Mann (1875 – 1955) – L’arte è come se ricominciasse ogni volta da capo. Essa non minaccia la vita poiché è creata per dare alla vita la vita dello spirito. È alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà. Nata dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento.

«L’arte, nelle sue realizzazioni ed espressioni individuali, è come se ricominciasse ogni volta da capo, come se, indossata la maschera dell’ingenuità, inconsapevole di sé, senza conoscersi o, per meglio dire, senza riconoscersi, facesse, ogni volta di nuovo e come per un caso fortuito e irripetibile, il proprio ingresso nella vita. Ogni sua apparizione è un caso unico, specialissimo e di impronta eminentemente personale, e per colui che lo rappresenta risulta assai arduo sussumerlo alla grande idea generale dell’arte; anzi, sulle prime non gli viene neppure in mente di farlo. […]

L’arte non minaccia la vita con gelido pugno demoniaco, poiché essa è creata per dare alla vita la vita dello spirito. Essa è alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà, affine alla saggezza e ancor più vicina all’amore. Volentieri essa induce gli uomini al riso, ma ciò che suscita in loro non è mai una risata di scherno, bensì una letizia in cui l’odio e la stupidità si dissolvono, una letizia che libera e che ricongiunge.
Nata ogni giorno di nuovo dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento. Essa è l’ultima a nutrire illusioni riguardo alla propria influenza sul destino umano. Spregiatrice di ciò che è cattivo, non è mai stata in grado di arrestare la vittoria del male; sempre tesa ad attribuire un senso, non ha mai impedito le più sanguinose insensatezze.
Essa non è una forza, è soltanto una consolazione.
E tuttavia; gioco profondissimamente serio, paradigma di ogni aspirazione al compimento, essa è stata data come compagna all’umanità sin dall’inizio, e mai quest’ultima potrà distogliere del tutto dall’innocenza dell’arte il proprio occhio ottenebrato dalla colpa».

Thomas Mann, L’artista e la società, in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, 2015, pp. 1614, 1626.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 12-05-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Thomas Mann – La conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana hanno un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea. Il vero studio dell’umanità è l’uomo

Mann03

Nobiltò dello spirito

«Ma non è forse vero che la meditazione cosmologica, paragonata al suo opposto, a quella psicologica, ha in sé qualcosa di puerile? Dicendo questo rammento gli occhi tondi e luminosi, da fanciullo, di Albert Einstein.
È inutile: la conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana ha un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea: vorrei affermarlo con il più profondo rispetto.
“Libero ognuno” osservava Goethe “d’occuparsi di ciò che lo attrae, che fa piacere, che gli pare utile; ma il vero studio dell’umanità è l’uomo”».
Thomas Mann, Nobiltà dello spirito, Mondadori, Milano, 1977.

 


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 19-04-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


 

***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.

Lukács01

 

image_book-1

«Adrian Leverkühn [il protagonista del romanzo di Thomas Mann dal titolo titolo Doktor Faustus, iniziato nel 1943 e pubblicato nel 1947] sa con assoluta precisione quale sia la situazione storica della musica (dell’arte, dello spirito in genere) nel suo tempo. Egli non soltanto lo sa precisamente, non solo riflette in costante tensione su tutto ciò, ma tutti i suoi problemi stilistici nascono da questa tensione: l’epoca attuale è per ogni verso sfavorevole all’arte, alla musica – e com’è possibile ciò nonostante, in quest’epoca, creare una musica di livello artistico veramente alto, senza uscirne, senza romperla in modo risoluto e attivo con questo tempo? […] Quello che Thomas Mann ottiene nel configurare il processo creativo di Adrian Leverkühn, nella rappresentazione della genesi, della struttura e della influenza delle sue opere, raggiunge un livello altissimo, unico in tutta la letteratura universale. Fino ad ora le tragedie della vita di artisti erano state rappresentate quasi esclusivamente dal punto di vista del rapporto e del conflitto fra l’artista e la vita, fra l’arte e la realtà; e così pure essenzialmente era stato fatto dal giovane Thomas Mann. Qui tuttavia, dove il problema centrale verte e già trabocca nell’opera, la rappresentazione si deve estendere anche alla genesi e alla struttura di questa stessa opera e deve portare ad espressione artistica e formale l’insolubile, tragica problematica dell’arte moderna attorno a quelle stesse opere. […] [Continua a leggere]

György Lukács, Thomas Mann, Berlin, Aufbau Verlag, 1953; tr. it. Di Giorgio Dolfini, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 76, 77, 78-79).

Logo Adobe Acrobat   G. Lukács,
Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna

 

205px-Thomas_Mann_Doktor_Faustus_1947

Prima edizione europea, 1947.


 

Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate
(ordine alfabetico per autore)
al 29-01-2016

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.

***********************************************

Seguici sul sito web 

cicogna petite