«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
la ferma convinzione della necessità e della possibilità
del completo declino dell’attuale ordine di questa vita
per avere la forza di rappresentarla poeticamente e teoreticamente».
***
Nikolaj Aleksandrovič Dobroljubov, Stichotvorenija Ivana Nikitina, Sobr. soc. v devjati tomach, Goslitizdat, Leningrad 1963, tomo, VI, p. 167.
Nikolaj Aleksandrovič Dobroljubov
critico letterario russo (Nižnij Novgorod 1836-Pietroburgo 1861). Teorico radicale, assertore convinto degli ideali democratici, si formò come critico su Belinskij e su Herzen acquistando una buona conoscenza di Feuerbach e della sinistra hegeliana. La sua amicizia con Černyševskij lo introdusse al Contemporaneo a cui collaborò dal 1856. La sua attività critica fu breve ma assai intensa. Il suo nome è rimasto legato agli articoli su Ostrovskij (Il regno tenebroso, 1859), su Turgenev (Quando verrà il vero giorno?, 1860) e soprattutto al saggio Che cos’è l’oblomovismo? (1859), in cui la sua analisi sul famoso protagonista del romanzo di Gončarov si allarga a una critica della borghesia russa del tempo. Sono da ricordare, infine, le sue acute Lettere da Torino su Cavour e l’Italia.
Alla luce delle epoche passate, siamo troppo spesso obbligati a “credere sulla parola ad ogni epoca”, cioè a credere ai suoi ideologi ufficiali – in, misura più o meno grande – poiché non sentiamo la voce del popolo, non sappiamo trovare né decifrare la sua espressione pura e schietta […].
Questo vecchio potere e questa vecchia verità avanzano pretese di assolutismo, di valore extratemporale […] Il potere e la verità dominanti, non accorgendosi della propria origine, dei propri limiti, della propria fine, del proprio volto vecchio e ridicolo, e del carattere comico delle loro pretese di eternità ed immutabilità, non riescono a vedersi nello specchio del tempo. E i rappresentanti del vecchio potere e della vecchia verità recitano la loro parte con l’aspetto più serio e con i toni più seri […]. C’è sempre in questa serietà un elemento di paura e di intimidazione … Nella cultura di classe la serietà era ufficiale, autoritaria, si associava alla violenza, ai divieti, alle restrizioni […]. Il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso. Il riso non impone divieti né restrizioni […]. La vittoria sulla paura, […] percepita non soltanto come vittoria sulla paura mistica (“paura divina”), ma sulla paura davanti alle forze della natura, soprattutto come vittoria sulla paura morale, che incatena, opprime e offusca la coscienza dell’uomo: la paura di tutto ciò che è sacro e vietato (“tabu” e “mana”), del potere divino e umano, dei comandi e dei divieti autoritari […].
Vincendo la paura, il riso ha rischiarato la coscienza dell’uomo e gli ha rivelato un mondo nuovo […]. Il popolo non si esclude da tutto il mondo in divenire. È anch’esso incompiuto; anch’esso, morendo, nasce e si rinnova […]. Il riso ambivalente del popolo esprime […] l’opinione del mondo intero in divenire, in cui si trova anche colui che ride […]. Il riso autentico, ambivalente e universale, non esclude la serietà, ma la purifica e la completa. La purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo e dalla perentorietà, dagli elementi di paura o di intimidazione, dalla didatticità, dall’ingenuità e dall’illusione, dalla fissazione nefasta e unilaterale […]. Il riso è una forma interiore, non esteriore […]. Esso ha liberato non soltanto dalla censura esteriore, ma soprattutto dal grande censore interiore, dalla paura del sacro, delle proibizioni autoritarie, dal passato, dal potere: paure ancorate nello spirito umano da migliaia di anni […]. Ha aperto gli occhi sul nuovo e sul futuro […].
Il riso ha rivelato un mondo nuovo soprattutto nel suo aspetto gioioso e lucido […]. E non si è mai riusciti a renderlo del tutto ufficiale. È rimasto sempre l’arma della libertà nelle mani del popolo. In contrapposizione al riso, la serietà […] era interiormente pervasa da elementi di paura, debolezza, docilità, rassegnazione, menzogna, ipocrisia o, al contrario, da elementi di violenza, intimidazione, minacce, divieti. Sulla bocca del potere la serietà intimidiva, esigeva e vietava; in quella di coloro che erano sottomessi, al contrario, tremava, si sottometteva, adulava, lodava […].
La serietà opprimeva, terrorizzava, incatenava; mentiva ed era ipocrita […]. Era chiaro che dietro al riso non era mai nascosta la violenza, che il riso non esigeva alcun rogo, che l’ipocrisia e l’inganno non ridono mai, ma hanno addosso una maschera seria, che il riso non ha dogmi e non può essere autoritario, che non è segno di paura, ma è coscienza di forza, che è legato all’atto sessuale, alla nascita, al rinnovamento, alla fecondità, all’abbondanza, al mangiare e al bere, all’immortalità del popolo, ed è legato all’avvenire, al nuovo, al futuro, e gli sgombera il cammino. È per questo motivo che del tutto spontaneamente non si credeva alla serietà mentre si confidava molto nel riso dei giorni di festa […]. La nozione della festa con la cultura borghese non ha fatto altro che diminuire e snaturarsi […].
La festa è la categoria principale e indistruttibile della cultura umana […]. Le feste (qualunque esse siano) sono una forma primaria molto importante della cultura umana. Non si deve considerarle né spiegarle come un prodotto delle condizioni e degli scopi pratici del lavoro collettivo o, interpretazione ancora più volgare del bisogno biologico (fisiologico) di riposo periodico. Le festività hanno sempre avuto il contenuto essenziale e il senso profondo di una concezione del mondo. Mai alcun “esercizio” di organizzazione e di perfezionamento del processo di lavoro collettivo, alcun “giocare a lavorare”, alcun riposo o tregua nel lavoro sono potuti diventare delle feste in sé. Perché divenissero feste c’era bisogno di un qualche altro elemento attinto da una diversa sfera della vita comune, da quella spirituale-ideologica. Dovevano essere sanzionate non dal mondo dei mezzi e delle condizioni indispensabili, ma da quello degli scopi superiori dell’esistenza umana […]. Senza tutto ciò non poteva esistere alcun clima di festa.
Le festività hanno sempre un rapporto essenziale con il tempo. Alla loro base sta sempre una concezione determinata e concreta del tempo naturale (cosmico), biologico e storico. Inoltre esse, in tutte le fasi di evoluzione storica, sono state legate a periodi di crisi, di svolta, nella vita della natura, della società e dell’uomo. Il morire, il rinascere, l’avvicendarsi e il rinnovarsi sono sempre stati elementi dominanti nella percezione festosa del mondo […]. Le forme della festa popolare sono rivolte al futuro e rappresentano la vittoria di questo futuro […] sul passato […]. L’immortalità del popolo garantisce il trionfo del futuro. La nascita di qualcosa di nuovo, di più grande e di migliore è indispensabile come la morte di ciò che è vecchio. L’uno si trasforma nell’altro, il migliore mette in ridicolo e distrugge il peggiore. Nell’insieme del mondo e del popolo non c’è posto per la paura; la paura può penetrare soltanto in quella parte che si è staccata dal tutto, in quella parte che sta morendo, presa separatamente da tutto ciò che sta venendo alla luce. L’insieme del popolo e del mondo trionfa allegramente e impavidamente […].
L’atteggiamento valutativo verso se stessi è [...] del tutto improduttivo,
per me stesso io sono irreale [...].
La forza organizzatrice
è data dalla categoria di valore dell’altro, del rapporto con l’altro,
rapporto arricchito da una eccedenza di valore
che ha la mia visione dell’altro [...].
Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire
nel libero atto dell’autocoscienza e della parola,
che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.
[...] La vera vita della persona
è accessibile soltanto a una penetrazionedialogica
alla quale essa si apre liberamente in risposta.
M. Bachtin
«C’è l’idea molto tenace ma unilaterale e quindi falsa, che per meglio comprendere un’altrui cultura ci si deve, per così dire, trasferire in essa e, dimenticata la propria, guardare il mondo con gli occhi di questa cultura altrui. Questa idea, come ho detto, è unilaterale. Certo, una certa immedesimazione nella cultura altrui, la possibilità di guardare il mondo coi suoi occhi è un momento necessario del processo della sua comprensione; ma se la comprensione si esaurisse in questo solo momento, essa sarebbe una semplice duplicazione e non porterebbe in sé nulla di nuovo e di arricchente.
La comprensione creativa non rinuncia a sé, al proprio posto nel tempo, alla propria cultura e non dimentica nulla.
Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere, il suo trovarsi fuori nel tempo, nello spazio, nella cultura rispetto a ciò che egli vuole creativamente comprendere. L’uomo non può veramente vedere e interpretare nel suo complesso neppure il proprio aspetto esteriore e non c’è specchio e fotografia che lo possa aiutare; il suo vero aspetto esteriore lo possono vedere e capire soltanto gli altri, grazie alla loro extralocalità spaziale e grazie al fatto di essere altri.
Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Una cultura altrui, soltanto agli occhi di un’altra cultura si svela in modo più completo e profondo (ma non in tutta la sua pienezza, poiché verranno ancora altre culture che vedranno e capiranno ancora di più).
Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo, che supera la chiusura e l’unilateralità di questi sensi, di queste culture. Noi poniamo a un’altrui cultura nuove domande che essa non si poneva e cerchiamo in essa risposta a queste nostre domande e l’altrui cultura ci risponde, svelandoci suoi nuovi aspetti, sue nuove profondità di senso. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche). Quando si ha questo incontro dialogico di due culture, esse non si fondono e non si confondono, e ognuna conserva la propria unità e la propria aperta totalità, ma entrambe si arricchiscono reciprocamente».
Michail Bachtin
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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
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«Non è possibile comprendere l’interiorità dell’uomo se se ne fa un oggetto di analisi indifferente e neutrale; non lo si può nemmeno se ci si fonde con lui, se si penetra in lui col sentimento. No, a lui ci si può accostare e lo si può scoprire – o, meglio, indurlo a rivelarsi – solo comunicando con lui, dialogicamente. […]
Raffigurare l’uomo interiore […] si può soltanto raffigurando il rapporto comunicativo di lui con l’altro. Soltanto nella relazione comunicativa reciproca, nella interazione dell’uomo con l’uomo si rivela “l’uomo nell’uomo” sia per gli altri, sia per se stesso. […]
È ben chiaro che al centro […] deve trovarsi il dialogo, e il dialogo non come mezzo, ma come fine autonomo.
Il dialogo non è la soglia dell’azione, ma l’azione stessa.
Esso non è neppure un mezzo per scoprire, per manifestare il carattere già pronto dell’uomo; no, l’uomo non solo si manifesta all’esterno, ma diviene per la prima volta ciò che è […] non solo per gli altri, ma anche per se stesso. […] Essere significa comunicare dialogicamente.
Quando il dialogo finisce, tutto finisce.
Perciò il dialogo in realtà non può e non deve finire […] il dialogo è il fine.
Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere».
Michail Bachtin
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Se io ti bacio non è solo la tua bocca il tuo ombelico il tuo grembo che io bacio Io bacio anche le tue domande e i tuoi deisideri io bacio il tuo meditare i tuoi dubbi e il tuo animo
e il tuo amore per me e la tua libertà da me il tuo piede che è venuto fin qui e poi riparte ti bacio come tu sei e come sarai domani e poi e quando il mio tempo sarà finito
Erich Fried
Dal titolo di una poesia di Paul Fleming 1609-1640, per Elizabeth.
«Bisogna difendere nei limiti delle proprie forze coloro che patiscono ingiustizia, e non lasciar correre: giacché un tale atteggiamento è giusto e coraggioso, l’atteggiamento contrario è ingiusto e vile» (Democrito, B261).
L’anima umana come fondamento della verità (2002) delinea, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati molti suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema costituisce la base per una analisi critica della totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze razionali e morali della natura umana. [ indice – presentazione – sintesi]
Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dall’autore compiuti negli anni Novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale. [ indice – presentazione – sintesi]
Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx (2003) costituisce una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi comparata, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, l’autore propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico (in senso hegeliano). Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007. [indice – presentazione]
La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004), con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana. [indice – presentazione]
Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005), con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano. [indice – presentazione]
Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche nella valutazione di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura razionale e morale dell’uomo. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista. [indice – presentazione]
Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore. [indice – presentazione]
Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimenti imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro “una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo” in esame. [indice – presentazione]
Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla attuale totalità sociale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità degli uomini. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa sia la felicità. Il testo è caratterizzato da una analisi delle strutture della personalità oggi più diffuse, per l’autore “prodotte” dai processi di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Scrive Vegetti, nella introduzione, che Grecchi è “pensatore a suo modo classico”, per il suo “andar diritto verso il cuore dei problemi”. [indice – presentazione]
Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale. [indice – presentazione ]
Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e
Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un
saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti
temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita
ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel
genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo
“politico” della sua opera, la quale “risulta essere innanzitutto un documento
significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un
momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa”.
Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci,
per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero
filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le
vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, sul
piano politico, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti,
a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha
offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore
totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita
dell’uomo
La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del
più grande tragediografo greco (2007)
costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica,
dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “scorporare”
Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come
si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero
filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente
svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988),
ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte
circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.
Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico. [indice – presentazione ]
Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. [indice – presentazionesintesi ]
L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è il primo libro in cui Grecchi effettua la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi centrali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione razionale e morale. [indice – presentazione ]
L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone. Ponendo in essere una analisi delle principali interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la rilevanza della posizione anti-crematistica. [indice – presentazione ]
L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la rilevanza della posizione anti-crematistica. [indice – presentazione ]
Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in
due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i
principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi
spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia,
dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in
questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due
contenuti imprescindibili: a) l’essere ricerca, il più possibile fondata ed argomentata,
della verità dell’intero; b) l’assumere come riferimento, insieme descrittivo e
valutativo (la filosofia si occupa non solo della verità, ma anche del bene),
l’Uomo. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su
“chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del
contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato
risulta per vari motivi essere Socrate.
Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore
Guida, di un discorso da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione
della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della
collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui
Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme
umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione
risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario
Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.
Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2008), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in c ui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore. [indice – presentazione ]
Occidente: radici, essenza, futuro (2009),
con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il
concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base
al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche,
ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto
storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata
ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un
futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui
introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.
L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che la cultura orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese. [indice – presentazione ]
L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che la cultura orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano. [indice – presentazione ]
L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che la filosofia orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico. [indice – presentazione ]
A partire dai filosofi antichi (2009),
con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei
maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa
l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non
soltanto dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e
contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché
su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica.
Scrive Vigna, nella introduzione, che “questo testo è tra le cose più
interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia
italiana”.
L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore cerca di colmare la distanza storico-culturale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico e postellenistico. Il testo si divide in due parti. Nella prima, considerando che ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso “produce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello ellenistico, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica/postellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino. [indice – presentazione ]
La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita di pressoché tutte le discipline filosofiche, ad eccezione della filosofia della storia, tuttora ritenuta di genesi moderna. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa. [indice – presentazione ]
Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata. [indice – presentazione ]
Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di “una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa”. [indice – presentazione ]
Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali, mostra come, sin dall’epoca omerica, gli antichi Greci furono aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”. Esso possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”. [indice – presentazione]
Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare. [indice – presentazione ]
Confucio. Sulla buona vita, sul buon governo e su me stesso (2011) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore
Guida, di alcuni discorsi tenuti dall’antico pensatore cinese. Si tratta, come
è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e
spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria
interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero di
Confucio, già delineata ne L’umanesimo
della antica filosofia cinese.
L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza la sua opera. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si caratterizza anche per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità. [indice – presentazione]
L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori esclusivamente come “naturalisti”, che li separano in maniera eccessiva sia dalla poesia epica precedente, sia dalla filosofia classica successiva. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure anticipatrici di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora. [indice – presentazione]
Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica e di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, elaborata oramai, in maniera teoreticamente originale, solo da un numero limitato di studiosi. [indice – presentazione]
Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi descrive il pensiero dell’autore quasi sempre concordando con lui, tranne che nella opposizione – su cui si sofferma anche Berti nella postfazione – fra metafisica classica e metafisica umanistica. [indice – presentazione]
Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti largamente insufficiente. Assumendo come base di riferimento il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori ancora definiscono – per mancanza di validi termini alternativi, ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”. [indice – presentazione]
Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico. [indice – presentazione]
La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. [indice – presentazione]
Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. [indice – presentazione]
Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”. [indice – presentazione]
Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul bene tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del bene. [indice – presentazione]
Discorsi sulla morte (2016) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo. [indice – presentazione]
L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento della tradizione cristiana, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo solitamente poco considerati, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’Aristotelismo che ebbero il loro momento culminante nel 1277.
L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che pone in essere una critica costruttiva della tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale in esso la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.
Compendio di metafisica umanistica (2017) è un libro che espone in sintesi la struttura onto-assiologica della verità dell’essere per come in vari luoghi delineata dall’autore col nome di “metafisica umanistica”. Il testo fornisce alcuni capisaldi del futuro Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere (cui l’autore sta lavorando dal 2003), distinguendo le nozioni di Cominciamento, Principio e Fondamento, nonché elaborando la tematica dell’essere e della sua sistematicità. Il volume si sofferma anche sulla tematica del trascendente, e sul nesso descrittivo-normativo necessario alla progettualità sociale. [indice – presentazione]
Natura (2018) è un libro che si colloca nella collana Questioni di filosofia antica della casa
editrice Unicopli. Il testo analizza in maniera specialistica oltre dieci
secoli di riflessioni del pensiero antico sulla natura, da Omero a Plotino.
Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti sono di tipo sia filosofico,
sia scientifico, sia letterario. Il tema riveste particolare importanza in
quanto gli antichi, per primi, compresero che ogni mancanza di rispetto e di
cura nei confronti della natura – attività che solo l’uomo, fra gli enti
naturali, è in grado di porre in essere – costituisce una mancanza di rispetto
e di cura nei confronti della vita tutta
Scritti brevi su politica, scuola e società (2019) costituisce una raccolta di articoli pubblicati dall’autore negli anni 2015 e 2016 su vari quotidiani, settimanali e riviste su tematiche di particolare attualità. Il filo conduttore di questi scritti è costituito da una critica progettuale al nostro tempo alla luce del pensiero greco classico, soprattutto di Aristotele. Per l’importanza delle tematiche trattate, e per l’approccio classico utilizzato, si tratta di riflessioni che forniscono un orientamento in grado di trascendere l’orizzonte del momento storico in cui sono state effettuate. [indice – presentazione]
Uomo (2019) è un libro che si colloca nella collana Questioni di filosofia antica della casa editrice Unicopli. Il testo analizza in maniera specialistica oltre dieci secoli di riflessioni del pensiero antico sull’uomo, da Omero a Plotino. Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti sono di tipo sia filosofico, sia scientifico, sia letterario. Il tema riveste particolare importanza in quanto gli antichi, per primi, compresero la centralità dell’uomo nella natura, ovvero il suo essere il solo ente in grado di fornire un senso ed un valore alla realtà, nonché di avere rispetto e cura della realtà stessa .
L’umanesimo greco classico di Spinoza (2019) costituisce una analisi della filosofia di Spinoza alla luce del pensiero greco classico. Nonostante il filosofo olandese citi pochissimo Platone ed Aristotele, Grecchi mostra come forti siano i legami coi due più grandi pensatori antichi. Le tematiche esaminate sono alcune fra le principali del pensiero filosofico, quali la verità, il bene, la conoscenza, la sistematicità, la religione, la libertà, la crematistica, la politica. Frequenti sono anche i riferimenti ed i paralleli con il nostro tempo.
Curatele
È veramente noiosa la storia della filosofia antica? (2008, con Diego Fusaro), con scritti di E. Berti, G. Casertano, D. Fusaro, G. Girgenti, L. Grecchi, C. Preve e M. Vegetti .
Sistema e sistematicità in Aristotele (2016), con scritti di C. Baracchi, E. Berti, B. Botter, M. Cosci, S. Fazzo, A. Fermani, G.R. Giardina, L. Grecchi, C. Vigna, M. Zanatta. [indice – presentazione – sintesi].
Immanenza e trascendenza in Aristotele (2017), con scritti di G. Abbate, C. Baracchi, E. Berti, B. Botter, M. Cosci, A. D’Atri, A. Falcon, A. Fermani, L. Grecchi, A. Jori, D. Quarantotto, M. Ugaglia, C. Vigna, M. Zanatta. [indice – presentazione – sintesi ]
Teoria e prassi in Aristotele (2018), con scritti di C. Baracchi, E. Berti, A. Fermani, S. Gastaldi, L. Grecchi, S. Gullino, A. Jori, G. Lucchetta, L. Palpacelli, L. Ruggiu, M. Vegetti, C. Vigna, M. Zanatta. [indice – presentazione – sintesi ]
Il pensiero filosofico dev’essere radicale, ovvero deve cogliere il fondamento del movimento fenomenico: solo con tale lavoro concettuale la filosofia raggiunge con lo scandaglio della filosofia la verità immanente della storia. La filosofia per sua disposizione cognitiva è amica della verità: verità eterna nella storia, e verità nella contingenza, nella congiuntura storica in cui gli esseri umani sono situati. La filosofia relativista è una contraddizione epistemologica, perché essa cerca la verità nelle sue espressioni polimorfe, nelle sue forme storiche, la insegue per un orientamento gestaltico di cui l’umanità ha sempre bisogno. La filosofia vive con gli esseri umani, è eterna come la verità. Gli esseri umani cercano la verità. L’umanità vive in tensione con la verità, dunque dove vi è filosofia, vi è umanità e verità.
Il mercato come religione dello spavento
L’attuale congiuntura storica caratterizzata dal capitalismo assoluto vorrebbe sostituire la verità e l’esercizio della ragione con il mercato, sostituire la ricerca della verità con la ricerca del mercato e per il mercato significa rompere gli ormeggi con la tradizione, per consegnarsi alla tempesta di un’impossibile navigazione. A tal fine il mercato dev’essere velato dal velo di Maya dell’ignoranza. Si deve essere servi, e per servire il padrone è necessario renderlo incomprensibile, ipostasi, altare su cui sacrificare il logos e la verità in nome del PIL. L’imperativo categorico del mercato impone di vivere da stranieri-migranti, da creature marginali, servi che adulano il mostro che potrebbe divorarli. Il mercato, per velarsi, si pone come religione cosmica e pagana: tempo ciclico in cui il futuro è assente, ma l’attimo ritorna eternamente nella forma della quantità come qualità sottratta, e timore reverenziale verso il dio sconosciuto che tutto può ed a cui tutto si deve. La religione dello spavento è la condizione del mercato a briglia sciolta, la deregulation è il ricatto a cui i popoli sono sottoposti.
Georg Simmel e la Filosofia del denaro
Georg Simmel (1858-1918) è un autore oggi quasi sconosciuto, poiché il mercato silenzia chi sa guardare oltre il velo di Maya, che fanno un passo innanzi verso la verità. Ha analizzato i processi di trasformazione messi in atto dal denaro.
La pecunia non è l’elemento neutro che il mercato rappresenta, ma pone in essere processi di trasformazione delle personalità. La filosofia è radicale, quando raggiunge la verità che spiega i processi empirici: essa è dunque meta-fenomenica. Il denaro, la verità del denaro, è lo strutturarsi di personalità affette da patologia indotta. L’uso del denaro, elemento astratto avulso da ogni contesto e limite, favorisce un senso di onnipotenza, e rende stabile solo l’asimmetria dei soggetti in lotta, poiché la ricchezza concreta ha in se stessa il limite, mentre il denaro in quanto astratto può comprare tutto ed usare se stesso per acquisire ricchezze che a loro volta sono un mezzo per altro. Col denaro si può tutto, la finanza converte ogni bene materiale in denaro, non ponendo limite all’accumulo come alla trasgressione di ogni legge. La borghesia del denaro … si diceva … – ma oggi è rimasto solo il denaro – … è rivoluzionaria, perché il denaro consente di trascendere i limiti nell’uso di ogni bene materiale, si converte nella volontà di potenza dell’astratto, cambia, così, la percezione che il soggetto ha di sé. Da essere limitato si auto-percepisce come il signore ed il padrone del creato:
«Al proprietario terriero garantisce che nessuno al di fuori di lui può raccogliere frutti dal suo campo, che egli soltanto può farlo coltivare o tenerlo a maggese, al proprietario di boschi il diritto di tagliare gli alberi e di cacciare la selvaggina. Ma se si tratta di denaro, il proprietario può acquistare grano, legna, selvaggina, ecc. Il denaro permette così il massimo potenziamento del concetto generale di proprietà: un potenziamento tale che già nella costituzione giuridica viene dissolto il carattere specifico di ogni altro possesso materiale e l’individuo che possiede denaro viene posto davanti ad un’infinità di oggetti, il cui godimento gli è parimenti garantito dall’ordine pubblico: il denaro dunque non pone confini alla propria utilizzazione e al proprio sfruttamento, come avviene invece nel caso di oggetti specificamente determinati. Per il possesso di denaro non vale in modo assoluto ciò che è stato detto degli Stati: che essi possono venir mantenuti soltanto con gli stessi mezzi con cui sono stati fondati. Questo vale invece per moltissime altre proprietà, soprattutto per quelle spirituali, ma anche per il possesso di numerose cose diverse ottenuto con il denaro, possesso che può essere mantenuto esclusivamente se rimane vivo il medesimo interesse che ha portato alla loro acquisizione. La completa indipendenza del denaro dalla sua genesi, il suo carattere eminentemente astorico, si rispecchia nell’assoluta indeterminatezza del suo impiego».[1]
Denaro e pensiero magico
Il denaro è indipendente da ogni misura, trasforma ogni limite materiale in una possibilità trascesa, si rafforza il senso di onnipotenza dell’io, fino ad indurlo a vivere in uno stato magico, per cui ritiene che ogni desiderio, in presenza del denaro, sia possibile: chi lo utilizza, entra nel regno della superstizione magica. L’illimitatezza è il mito del denaro. La rincorsa verso il mercato, la sudditanza religiosa verso di esso trae la sua ragion d’essere tra le pieghe della razionalità della finanza, tra le piaghe di cui è portatrice vi è il sogno dell’onnipotenza che coincide con il sonno della ragione:
«Nel complesso la volontà si adatta a tal punto alle nostre condizioni di vita da non pretendere dalle cose ciò che non possono dare, per cui la limitazione della nostra libertà dovuta alle leggi proprie del possesso non raggiunge una percezione positiva. Si potrebbe tuttavia costruire una scala di oggetti in base alla misura in cui la volontà può impadronirsi di essi, chiedendoci a partire da quale punto essi le divengono impenetrabili e in quale misura dunque possono veramente essere “posseduti”. Il denaro rappresenterebbe il gradino estremo di tale scala. In esso quel lato inattingibile, che gli oggetti riservano per così dire a se stessi e che non si piega nemmeno al possesso senza limiti, è completamente sparito. Manca completamente al denaro quella struttura propria in base alla quale gli altri oggetti, qualificati in modo determinato, si negano alla nostra volontà anche se li possediamo in senso giuridico. Obbedisce facilmente e indifferentemente a qualsiasi forma e a qualsiasi fine che la volontà voglia imprimergli; solo le cose che gli stanno dietro possono erigere degli ostacoli; in sé stesso il denaro si piega ad ogni direttiva, sempre indifferente a qualunque oggetto, a qualunque misura di distribuzione, a qualsiasi tempo del dare e del conservare. Esso concede così all’Io il modo più deciso e più completo di dispiegarsi in un oggetto, almeno nei limiti fissati dal fatto che è privo di caratteri qualitativi. Si tratta tuttavia di limiti puramente negativi, che non traggono origine, come per tutti gli altri oggetti, dalla sua natura positiva». [2]
Denaro e distanza
Simmel elabora «la psicologia del denaro»: il denaro non solo favorisce un astratto ed impossibile delirio di onnipotenza del denaro, ma specialmente diseduca alla vicinanza. L’uomo di borsa, il capitalista come l’aspirante alla scalata finanziaria imparano attraverso il denaro a mettere distanza tra sé ed il mondo, tra sé e gli effetti delle azioni finanziarie. La genealogia dell’indifferenza si fa spazio in modo spontaneo, giorno dopo giorno le relazioni mediate unicamente dal denaro costruiscono barriere emotive e razionali, fanno apparire come normali relazioni finalizzate all’interesse personale. L’essere umano diventa così “il legno storto” della definizione di Kant. La filosofia scongela con la razionalità le ipostasi per consentire altre visuali, introduce i processi genetici dove regnava l’ingenuità dell’astratto:
«Se analizziamo il ruolo del denaro in questo processo di differenziazione, ci colpisce in primo luogo il fatto che quest’ultimo si colleghi alla distanza spaziale tra il soggetto e la sua proprietà. L’azionista, che non ha assolutamente niente a che fare con la direzione degli affari della società, il creditore dello stato che non ha mai messo piede nel paese che è in debito con lui, il grande proprietario terriero che ha dato in affitto le sue terre, cedono la loro proprietà ad un’impresa puramente tecnica, di cui raccolgono i frutti, ma con la quale in sé e per sé non hanno assolutamente niente a che fare. Ciò è possibile esclusivamente mediante il denaro. Solo quando il guadagno dell’impresa assume una forma di assoluta trasferibilità, esso consente ad entrambi, con il distanziarsi della proprietà dal proprietario, quell’alta misura di indipendenza e, per così dire, di movimento proprio. Alla prima fornisce la possibilità di venir amministrata esclusivamente in base ad esigenze interne all’attività stessa, al secondo quella di dirigere la propria vita senza tener conto delle esigenze specifiche della proprietà. L’effetto a distanza del denaro permette alla proprietà e al proprietario di separarsi a un punto tale che ognuno può seguire le proprie leggi in maniera completamente diversa rispetto a quando la proprietà si trovava in rapporto di interazione immediata con la persona, ogni impegno economico era contemporaneamente un impegno personale, ogni mutamento nelle direttive o nella posizione personale significava contemporaneamente un mutamento negli interessi economici».[3]
Il grande livellatore
Il denaro è il grande livellatore, come la morte, riduce ogni qualità a quantità secondo le regole del mercato. Il denaro desacralizza, svuota il mondo, la natura, gli esseri umani di ogni fine metafisico. La perversione metafisica del denaro è nel trasformare ogni fine in mezzo, fino ad eguagliare il mezzo ed il fine in nome dell’interesse privato. Secoli di metafisica sono così abbattuti nel segno del denaro omologante. Per poter livellare, il denaro deve sottrarre al mondo ogni limite ed etica. Assiologia e finanza sono evidentemente incompatibili. La misura e la metafisica pongono limiti, il denaro per poter vivere il sogno dell’impossibile delirio di onnipotenza deve rompere ogni limite etico, deve desacralizzare, ridurre la qualità a quantità quando è possibile, oppure mettere in campo la dissacrazione del limite e di ciò che si oppone al dominio della quantità. Libertà è la parola che maggiormente è usata contro gli oppositori del livellamento, il denaro è rappresentato in relazione biunivoca con la libertà: l’una è possibile in presenza dell’altra, per cui più denaro significa più libertà. In questa vi è una sottintesa verità: la libertà di alcuni nel sistema denaro è la morte di altri, ma la verità difficilmente si coniuga con il denaro:
«Il livellamento degli oggetti da parte del denaro riduce l’interesse soggettivo per il loro rango particolare e per la loro qualità ed ha l’ulteriore conseguenza di peggiorare anche questa; la produzione di merci di scarto a buon mercato è, per così dire, la vendetta degli oggetti per il fatto di essere stati rimossi dal punto focale dell’interesse per opera di un puro mezzo indifferente. Da tutto questo risulta in modo sufficientemente chiaro quanto sia radicale il contrasto tra l’essenza del denaro, con le sue conseguenze, e i valori della distinzione che ho tratteggiato nelle pagine precedenti. L’essenza del denaro distrugge nel modo più radicale quel fondarsi su sé stessa che caratterizza la personalità distinta e che investe determinati oggetti e la loro valutazione; impone alle cose un’unità di misura esterna ad esse (ed è proprio questo che la distinzione rifiuta); ponendo le cose in una serie in cui valgono soltanto le differenze quantitative, il denaro le deruba sia della differenza e distanza assoluta tra l’una e l’altra, sia del diritto di respingere ogni rapporto, ogni qualificazione comparativa, per quanto offensiva, con le altre. Toglie loro quindi entrambe le determinazioni dalla cui combinazione nasce l’ideale vero e proprio della distinzione. Il potenziamento dei valori personali, che caratterizza questo ideale, viene dunque eliminato persino nella sua proiezione nelle cose nella misura in cui dominano gli effetti del denaro, che rende «comuni» le cose in ogni senso della parola e le pone così, anche in termini di linguaggio, in assoluto contrasto con la distinzione». [4]
Simmel muore nel 1918, e la sua analisi del denaro, della società ridotta ad uno sterminato campo d’azione per la circolazione del denaro, del calcolo, del solo mezzo è già profetica degli stermini, i quali rivelano la verità di Simmel. Un mondo senza metafisica, regno del solo mezzo, prepara la fine della libertà che il denaro aveva promesso.
Salvatore Bravo
[1] G. Simmel, La filosofia del denaro, Utet, Novara 2013, pag. 435.
Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Il dibattito sviluppatosi negli ultimi mesi intorno alla richiesta di autonomia differenziata inoltrata da diverse regioni italiane tocca nodi culturali ed etici che vanno ben al di là della questione in oggetto, già di per sé piuttosto rilevante.[1] Uno di questi è rappresentato da una delle obiezioni più ricorrenti da parte di chi si oppone a questo processo di progressiva messa in discussione dell’unità nazionale: anche qualora venga garantita la tenuta di un quadro unitario di massima, attraverso i LEP (Livelli Essenziali di Prestazione), si corre, comunque, il rischio di un Paese a due velocità, corrispondenti grossomodo ai due poli, prima ancora che geografici, sociali ed economici Nord/Sud. Il trattenimento in loco di una quota maggiore del gettito fiscale prodotto da ogni regione riduce la fiscalità generale e, quindi, la possibilità di una ridistribuzione che riequilibri le differenze fra regioni con capacità produttive diverse, soprattutto in merito all’erogazione di tutta una serie di servizi legati alla cittadinanza. Il divario tra Nord e Sud, tra territori ricchi e territori poveri si troverà, così, ad essere accentuato, in dispregio al dettato costituzionale. Tutto vero e tutto giusto ed è, questa, una delle ragioni – ce ne sono, infatti, molte alter – di ripulsa di questa sciagurata proposta, resa possibile dalla riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal governo Amato nel 2001. Chi scrive non riesce, tuttavia, a liberarsi dalla fastidiosa idea che la questione, così posta, resti all’interno del paradigma economicistico che impronta il progetto che si vuole combattere. Ovvero: non si pone in modo critico il problema della direzione in cui sta andando il Nord, ricco e produttivo, anzi si avalla l’idea che sia la direzione migliore che le altre regioni faticano a seguire, in una rincorsa affannosa che l’assottigliamento delle risorse a disposizione destinerà al fallimento. Questo è particolarmente evidente nel caso dell’istruzione che, se si addivenisse ad un’intesa definitiva Stato-Regioni, passerebbe sotto la gestione di queste ultime. Quasi tutte le 15 regioni che, sulla scia di Lombardia, Veneto ed Emilia, hanno fatto richiesta di autonomia differenziata chiedono, infatti, l’attribuzione delle competenze in materia di istruzione, università e ricerca. Ora, l’insistenza sulla disparità di risorse tutta a vantaggio delle scuole del Nord rispetto a quelle collocate nel resto del Paese (in quel che resterà del Paese…) e sulla conseguente differenza di prestazioni dei due sistemi tradisce una visione dell’educazione subordinata a parametri quantitativi. Sembra suggerire che la validità di un percorso formativo sia legata alla fruizione da parte del discente di tutta una serie di strumentazioni (a partire dalle tecnologie informatiche) o di progetti extradisciplinari che richiedono risorse notevoli, piuttosto che alla possibilità di accedere in modo approfondito e consapevole al patrimonio culturale dell’umanità in una tensione dialogica fra passato e presente, capace di educare i ragazzi alla comprensione razionale del mondo in cui vivono. La qualità della scuola non si declina necessariamente sul metro della disponibilità più o meno elevata di computer o di LIM (Lavagne Interattive Multimediali) e nemmeno su quello della presenza di palestre particolarmente attrezzate o di edifici scolastici riscaldati con i pannelli solari. Essa ha a che vedere, piuttosto, con la capacità degli insegnanti di trasmettere, con rigore metodologico e sollecitudine per lo sviluppo della personalità umana degli studenti, i contenuti culturali. Una scuola buona e vera – per riprendere il significativo titolo dell’ultimo numero della rivista Koiné dedicato all’educazione – una scuola che educhi, cioè, ad una comprensione critica della realtà e ad un sentimento alto della vita, non richiede risorse economiche particolari; al contrario, richiede innanzitutto il rifiuto delle logiche economicistiche che stanno trasformando la scuola in un’azienda, l’istruzione in una merce, gli studenti in clienti e i docenti in propinatori di un prodotto pronto all’uso. Senza sottovalutare l’impatto delle questioni attinenti alla sfera economica (finanziamenti, stipendi del personale , messa in sicurezza degli edifici) in materia di politiche scolastiche, ritengo che, attualmente, il punto cruciale sia un altro: è la rivendicazione della priorità nel processo educativo della dimensione culturale, delle conoscenze trasmesse e rielaborate attraverso lo studio delle materie. La condizione perché tale priorità abbia qualche possibilità di affermarsi risiede, in primis, nell’assunzione da parte degli insegnanti di questa istanza di autonomia culturale rispetto ai modelli sociali dominanti e di responsabilità etica di fronte alla necessità di dare alle nuove generazioni un orizzonte di senso che non coincida con l’adattabilità sociale. Per percorrere questa strada, le risorse finanziarie non sono il problema all’ordine del giorno; occorre, invece, che i docenti riscoprano e facciano valere la loro passione intellettuale, nella consapevolezza che ogni trasmissione di sapere è rielaborazione, ricerca. Non è, insomma, di penuria di fondi che la scuola agonizza (di denaro se ne spreca anche troppo, per supportare attività di scarso valore didattico, ma funzionali ad attrarre clienti da strappare agli Istituti concorrenti, nella piena accettazione di una logica di competitività aziendale), ma di perdita progressiva della sua dimensione culturale e di svilimento del suo compito di pensare il nesso con la società in modo critico, non supino alle sollecitazioni provenienti dalla società di mercato. Ecco perché il vero problema posto dalla regionalizzazione non è dato dal crescente divario tra una scuola all’avanguardia che le regioni ricche potranno garantire ai loro territori ed una scuola che resta al palo al di fuori di queste aree privilegiate, ma dalla ridefinizione del ruolo stesso della scuola e dalla precisa declinazione che in essa assume quella “qualità” da tutti invocata. Siamo proprio sicuri che la scuola migliore sia quella che promette l’inserimento immediato nel mercato del lavoro, grazie ai maggiori agganci amministrativi ed economici nel territorio, come si legge in filigrana dietro la richiesta di autonomia in materia d’istruzione avanzata dalle Regioni? Certo è che lo smantellamento del sistema nazionale dell’istruzione, fra le tante significative ricadute che avrà su tutto il tessuto sociale, la cui disamina esula dai limiti di questo intervento, contribuirà in modo decisivo a spalancare le porte degli istituti scolastici e delle università alle pressioni e alle richieste, appena nobilitate con il ricorso al termine di sinergia, degli attori economici locali e ad orientare massicciamente l’insegnamento verso la didattica per competenze. Al Nord, come al Sud, con diseguale successo probabilmente, ma simile impatto distruttivo, nella sua finalità di assicurare il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano.
In Ibsen, mio padre dovette ritrovare la celebrazione poetica dell'orgoglio tenace, della fedeltà alle proprie decisioni, dell'energia necessaria a una silenziosa coerenza, soprattutto del disprezzo per il mormorio del senso comune. Orgoglio, fedeltà, silenzio e disprezzo che gli costarono non poco dolore.
«Tra i libri in mezzo ai quali ero cresciuto, e le cui copertine mi risultavano familiari quando ancora sarebbe stato assurdo li avessi aperti, sapevo riconoscere i volumetti della “Cultura dell’Anima” dell’editore Carabba di Lanciano. Ricordo in particolare che destava la mia curiosità un titolo: In vino veritas. Scoprii poi che quella di Kierkegaard era stata una delle prime letture da adulto di mio padre. E, accanto a Kierkegaard, ancora più determinante perché vero e proprio modello del suo tirocinio teatrale, Ibsen, in cui dovette ritrovare la celebrazione poetica dell’orgoglio tenace, della fedeltà alle proprie decisioni, dell’energia necessaria a una silenziosa coerenza, soprattutto del disprezzo per il mormorio del senso comune. Orgoglio, fedeltà, silenzio e disprezzo che gli costarono non poco dolore» (p. 24).
«Mio padre tornò a casa ai primi di gennaio del 1948.[…] Ma in due mesi era invecchiato di dieci anni: si stancava in fretta, era spesso soggetto ad accessi di mal di capo […]. La sua non fu dunque una normale convalescenza […]. L’unica cosa di cui mio padre si lamentava era l’umidità delle Prealpi lombarde. Ma anche in questo caso era certo un ricordo a fargliela avvertire particolarmente molesta, il ricordo della nostra ultima villeggiatura di guerra. Al perenne bagnaticcio dei boschi di Selvino, con ingenuità in parte consapevole, egli soleva attribuire il precipitare se non l’origine della malattia di mia madre. Selvino non poté quasi più esser nominato in casa nostra. Mai mi accennò a quel luogo infausto se non per deprecarne la scelta, né ne rimane alcuna traccia tra i ricordi cui indulgeva ogni tanto negli appunti della sua vecchiaia. Il male di mia madre è invece evocato in un altro ricordo di anni dopo, che mi riporta alla Milano della mia prima infanzia: “Stamattina, nello stordimento e quasi dormiveglia causati dai calmanti per il mal di capo di ieri sera e della notte, l’improvviso ricordo del mio incontro con Ania in galleria qualche mese prima della sua morte. La vidi di lontano che camminava un po’ incurvata, quasi a fatica; e man mano che mi avvicinavo a lei notavo la sua espressione e ne avevo pena e oppressione: lo sguardo opaco e come smarrito, le guance rilassate, un volto disperato. A un tratto mi vide e in un attimo si trasfigurò: gli occhi luminosi e ridenti, il volto della felicità. Dopo tanti anni, nel ricordo, ho riavuto la commozione di allora per quella fulminea prova d’amore”.
Sottrarsi alla morte incombente, fingere una vitalità ormai perduta può essere atto d’amore perché fa parte della doverosa commedia della vita che siamo quotidianamente chiamati a recitare: essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza che solo a pochi non riesce difficile. Tuttavia è possibile, anche quando si sia intrapreso il cammino della morte, almeno finché sia solo la nostra mente a percepirlo; quando invece l’incombere della fine conquista anche l’anima del nostro corpo, allora significa che la morte è già iniziata, e il morente non può donare ai suoi cari che la serenità della rassegnazione. Anche dell’angoscia che precede e che rende impotenti trovo un’immagine efficace negli appunti di mio padre. L’occasione è un momento di malore vissuto come estremo, ma che estremo non era, anzi, neppure grave: “Mi son sentito veramente come quel gatto che mi colpì tanti anni fa in piazza Wagner: un vecchio gatto, tutto tarlato, con gli occhi appannati, che nei dieci minuti che mi fermai a osservarlo non riuscì ad avanzare più di un metro sul marciapiede, vicino alla chiesa. Alzava la zampa lentamente, la teneva sospesa in aria come se non sapesse che farne, poi l’abbassava a toccare terra quasi esitando, quasi non potendo immaginare di trovare lì terra. Poi riprendeva con l’altra zampa. Non ricordo che ostacolo gli si parò davanti, se il piede di un passante o un sasso o un oggetto. Ricordo che restò a lungo con la zampa alzata, poi l’abbassò lentissimamente, e rimase fermo. Così l’altro ieri io avevo l’impressione di restare lì, sulla strada”.
L’incontro con il gatto morente risale a venti anni prima: “Stamattina in piazza Wagner: il gatto ammalato che pareva stare per morire sulla strada. Gli occhi chiusi, il respiro stentato e lento. Quella zampa che si alzava e stentava, o meglio esitava, a posarsi a terra. Poi si mise a camminare, ma una donna lo fermò col piede, per fargli prendere un’altra strada, e lui restò fermo”.
Il racconto più recente è assai più ampio e particolareggiato della breve registrazione di un tempo. L’immagine aveva lavorato nella sua memoria fino a farsi eloquente parabola. Parabola del terrore condiviso di un’incombente, progressiva impotenza e della percezione della morte che ci sovrasta» pp. 153-157).
Diego Lanza, Il gatto di piazza Wagner. Ricordi di ricordi, L’orma editore, Roma 2019
Sommario
Silenzi Il paese dei cigni Via dalla città 1944 Cene in latteria Dopo il diluvio In casa della zia Bela Lo zio d’America lole e Nino Risi e bisi Tra la Fiera e Chinatown Il baule di Lipsia Il gatto di piazza Wagner
Ci sono libri che si compongono alla fine di una vita e raccontano la dignità e l’intelligenza di un individuo, forse di un Paese intero. Il gatto di piazza Wagner, unica prova narrativa di un autore altrimenti noto per i suoi fondamentali contributi alla comprensione della cultura classica, è uno di questi libri. Un’infanzia milanese nell’arco temporale che va dal Fascismo alla fine degli anni Sessanta, con al centro la figura del padre – lo scrittore, giornalista e drammaturgo Giuseppe Lanza – rimasto vedovo troppo presto, teneramente orgoglioso dei suoi magri tentativi culinari, che emerge con tutta la sua preziosa serietà e decenza. Scomponendo i meccanismi di una memoria famigliare che tende a fondersi con quella individuale («Di chi sono i ricordi?» è il programmatico incipit del testo), Il gatto di piazza Wagner descrive una città vibrante – tra appassionate discussioni nelle latterie di quartiere e palpitanti prime teatrali – e indaga con ragionata esattezza azioni e moventi di protagonisti e comprimari, dallo zio Ramy agli amici letterati, da Solmi a Montale, da Lodovici a Bazlen. Una lettura che ci rimanda, come un monito e come un modello, alla migliore tradizione intellettuale ed etica del nostro Novecento.
L’uccisione della parola nella politica. L’inesausta sceneggiata «Di Maio/Salvini» dileggia, e rinnova, la tragedia di Aldo Moro
Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci. I tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, e tanto più signoreggiano i dominati quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica. Il fondamento, la casa della politica come della comunità, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme (cfr. l’inesausta sceneggiata tragicomica Di Maio-Salvini pre- e post- elettorale). In realtà non si tratta di manifestazioni politiche, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni pseudo-politiche segnate dai processi liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio corrente. Al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario al fine di anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.
La parola della politica, della comunità, parola che nessuno osa proferire, è giustizia. La filosofia politica dell’Occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci: si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea, libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti. Gesù raccoglie gli avanzi della moltiplicazione, perché lo spreco è un lusso che offende con la sua ingiustizia chi vive nella penuria. Il miracolo è la giustizia. La parola giustizia è così scomparsa, perché se fosse posta al centro tale parola, inevitabilmente si denuncerebbe lo stato attuale per l’ingiustizia che regna sovrana. L’operazione di manipolazione-annichilimento si spinge oltre. La parola comunità è legata alla giustizia ed ai diritti sociali, per cui si ipostatizza l’individuo, si pone l’accento sui soli diritti individuali, per occultare la giustizia, fino ad arrivare ad affermare che la società non esiste (Margaret Thatcher), ma esiste solo l’individuo astratto. Pertanto la giustizia è possibile solo alla maniera di Trasimaco (Platone, Repubblica, libro I) come legge del più forte: l’individuo determina la “sua giustizia” a sua misura.
Giustizia e comunità internazionale La giustizia non è flatus vocis. È sufficiente sporgersi oltre di pochi decenni per rendersi conto che era linguaggio comune della politica. La giustizia implica la comunità, se ne discuteva in relazione al progetto di comunità che si aveva. Aldo Moro ne è un esempio, rileggendo i suoi scritti ricorre, e non certo come inciampo, la parola giustizia, non solo per la comunità nazionale, ma anche internazionale. I conflitti sono l’effetto dell’assenza di giustizia, sono causati dalla violenza della legge del più forte:
«Viene in evidenza un altro, più importante e più durevole, motivo di crisi. È la volontà dei paesi in via di sviluppo, possessori di un così prezioso fattore condizionante dell’economia e, del resto, ricchi in generale di materie prime, di far pesare di più, per realizzare il proprio progresso, quello che è il loro peculiare apporto alla produzione dei beni dei quali il mondo ha bisogno crescente. Solo in questa luce si coglie la vera dimensione del fenomeno dinnanzi al quale ci troviamo e che rappresenta una svolta assai significativa nel confronto tra paesi ricchi e paesi poveri e, per essere realistici, nel confronto tra paesi ricchi, ma potenzialmente poveri, e paesi poveri, ma potenzialmente ricchi. Noi dobbiamo quindi essere consapevoli della nostra fragilità […]. Di fronte a queste cose bisogna collocarsi in una posizione di realismo e ragionevolezza. […] Si capisce che un più alto livello di giustizia internazionale costerà di più ai paesi industrializzati e condurrà a rallentare il loro progresso per consentire il progresso degli altri. Ma questo è un prezzo che si deve pagare, uscendo dalla fase retorica e passando alla fase politica dei rapporti con i paesi in via di sviluppo» (Relazione alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, 24 aprile 1974).
La giustizia nel cammino dei popoli Nelle parole di Moro, a confronto delle quali il semplicismo dell’attuale pseudo-politica non è che primitivismo populistico, vi è la consapevolezza che la giustizia è complessità e storicità. Giustizia è sintesi degli interessi della comunità, è un’operazione di ascolto e mediazione, essa si incarna nella storia. La giustizia è in cammino con i popoli, vive nei popoli che gradualmente si risvegliano dai dogmatismi e dalle violenze ideologiche dei dominanti, per cui è necessario accompagnare tale risveglio aurorale con la politica, al fine di convogliare le energie migliori di tutti verso il logos. Essa esige la partecipazione dal basso, o il suo posto non può che essere preso dal dispotismo, dagli interessi di pochi che usano le parole come ceppi, come catene per soffocare il grido dei popoli:
«Vi sono certo dati sconcertanti di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza talvolta, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo scarsamente efficace di certe impostazioni sono sì un dato reale e anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto, benché grave, di superficie. Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia. E, insieme con tutto questo ed anzi proprio per questo, si affaccia sulla scena del mondo l’idea che, al di là del cinismo opportunistico, ma, che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida e tardiva, ma intensamente umana» (Discorso al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, 21 novembre 1968).
Giustizia e libertà Non vi è libertà senza giustizia. La giustizia è accompagnamento giuridico alla prassi dell’emancipazione, per cui se non si hanno mezzi materiali per porre in atto ciò che la legge in potenza consente è solo fictio iuris, una finzione ideologica per addomesticare i dominati. La giustizia è così libertà solo se si integrano il piano formale e sostanziale, prevede un ordito di provvedimenti dalla formazione, al lavoro, alla sanità che rendono prassi la libertà e la giustizia. La libertà è giustizia se la persona, il lavoratore è posto al centro della comunità come persona, non ha solo braccia ed intelletto per la produzione, ma è persona nella sua complessità dinamica che esige che l’economia sia per la persona:
«Il regime di libertà, per dispiegarsi in tutta la sua ricchezza e fecondità, ha bisogno di una autorità democratica, di strumenti efficaci realizzatori di giustizia. È giusto dunque temere per lo Stato democratico, dubitare che esso non riesca ad essere uno strumento aperto, flessibile, ma istituzionalmente capace di dare alla libertà tutto il suo spazio. L’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo è fra i più grandi, se non il più grande problema della nostra epoca. […] Queste cose nuove certo emergono non senza contrasti, non senza difficoltà, non senza eccessi, non senza momentanei squilibri. Ma è questo il compito della nostra epoca. Il tema dei diritti è centrale nella nostra dialettica politica. Di fronte a questa fioritura la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà, che le toglie la rigidezza della ragione di Stato, per darle il respiro della ragione dell’uomo» (Discorso al XIII Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 20 marzo 1976).
Giustizia e storia Giustizia non è rendere ipostasi il presente, chiudere la storia in un sepolcro di sole merci, per scoraggiare ogni iniziativa al suono delle parole “Non c’è alternativa”(Angela Dorothea Merkel). Se non c’è alternativa, se il presente è tutto, allora la politica non ha senso, è solo finzione, l’epifenomeno dell’economia liberista. La giustizia, invece, è dialettica, pensiero che apre nuovi scenari per allargare la sfera e l’orizzonte di consapevolezza. La giustizia è dunque trasformazione che, mentre si attua nella storia, ha la chiarezza del proprio fondamento. È in cammino, e nel suo concretizzarsi storico incontra nuove variabili per confrontarsi con esse, non rimuove la storia nel suo farsi, ma si impegna in un continuo confronto con il presente:
«Siamo dunque impegnati, sotto la pressione di una società trasformata nel profondo, in continua evoluzione ed estremamente esigente, ad una grande opera di liberazione dell’uomo e di giustizia. Un’opera difficile, perché gli obiettivi vengono spostati più innanzi, rendendo qualche volta disagevole il moto di progresso che si va, mano a mano, realizzando. Ma il contenuto rinnovatore di questa politica, secondo un preciso ed indeclinabile intento, è fuori discussione. Corrispondere alle esigenze della società con più giusti ordinamenti, dimostrare che le istituzioni sono capaci di ricevere ed incanalare le aspirazioni popolari, effettuare il raccordo, in termini di comune consapevolezza e di comune responsabilità, tra il vertice e la base del potere, stabilire costantemente un equilibrio politico non statico, ma dinamico, significa assicurare la stabilità del regime democratico» (Discorso a un Convegno della Democrazia Cristiana, Milano, 3 giugno 1969).
La giustizia è per le cose che nascono. È facile, dinanzi al nuovo che ci minaccia, patteggiare per il passato che con i suoi confini netti ci rassicura. Giustizia vi è soltanto in una comunità in cui dinanzi alla paura del nuovo non si reagisce con la paura, ma si affronta il tutto con la parola, con il logos, con la partecipazione dal basso:
«Se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime» (Discorso all’XI Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 29 giugno 1969)
Avvenire e giustizia Non giudico l’operato di Moro, o la sua coerenza, ma le sue parole. Lo spessore dei suoi interventi, ci dovrebbe indurre a pensare l’abisso relativistico in cui siamo e l’anonimato individualistico che sa utilizzare tutto per fini privati decretando la morte di ogni avvenire. L’urgenza è l’avvenire, senza giustizia non vi è che un futuro di conflitti, che nega l’umanesimo comunitario in nome di un astratto individualismo che ha sostituito la giustizia con l’integralismo economico funzionale a conservare i privilegi di pochi contro la maggioranza sempre più confusa ed afflitta dalla violenza ideologica dei nostri giorni. Vorrei concludere con le parole di Moro che unisce giustizia, libertà e responsabilità verso il futuro, in un trittico valoriale permanente, oggi da ricostruire prendendo le mosse dalla consapevolezza della sua assenza nel nostro contesto sociale:
«Ebbene, siamo qui provenienti da una lunga ed utile esperienza democratica […], siamo qui ancor oggi, non per fare delle piccole cose, non per puntellare condizioni logorate, non per provvedere all’amministrazione del passato, ma, nella salvaguardia dei valori permanenti ed essenziali della nostra tradizione e della nostra civiltà, per lavorare con tutte le nostre forze per un nuovo, più giusto, più umano assetto della nostra società. Siamo qui insomma per l’avvenire» (Discorso al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, 29 luglio 1963)
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