«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«La tenerezza è reciprocità, paritarietà, assenza di sottomissione, cancellazione della figura del dominio, del padrone e del suddito, scoperta e creazione di rapporti che rinunciano al catartico teatro delle figure dell’inimicus (il nemico privato) e dell’hostis (il nemico pubblico); che rinunciano all’opposizione tra centro e periferia: dove il centro è ogni “io”, e la periferia sono “gli altri”».
Maria Cristina Bartolomei, «Il discorso della notte», in: A. Levi, M.C. Bartolomei, D.M. Turoldo, Dialogo sulla tenerezza, Servitium Editrice, Milano 19952, p. 97.
«[…] Soltanto l’atto responsabile supera ogni ipoteticità, perché esso è […] la realizzazione di una decisione; l’atto è il risultato finale, una complessiva conclusione definitiva; concentra, correla e risolve in un contesto unico e singolare e ormai finale il senso e il fatto, l’universale e l’individuale, il reale e l’ideale, dal momento che tutto viene a far parte della sua motivazione responsabile; l’atto costituisce lo sbocco dalla mera possibilità nella singolarità della scelta una volta e per sempre. Non si deve affatto temere che una filosofia dell’atto ricada nello psicologismo e nel soggettivismo. […] Dall’interno dell’atto stesso, assunto nella sua integrità, non c’è niente di soggettivo e di psicologico; nella sua responsabilità, l’atto si pone il compito della sua propria verità come verità che unisce entrambi i suoi aspetti, così come unisce l’aspetto dell’universale (la validità universale) e dell’individuale (il reale). Questa verità unitaria e singolare dell’atto va posta come compito in quanto verità di sintesi. Non meno infondato è il timore che questa verità sintetica unitaria e singolare dell’atto sia irrazionale. L’atto nella sua integrità è più che razionale – è responsabile. […]
[…] Un evento può essere descritto solo in modo partecipe […]: quando ho esperienza diretta di un oggetto, vuol dire che con ciò stesso sto facendo qualcosa in rapporto ad esso, esso rientra nel rapporto con qualcosa che mi pongo come compito, acquista spessore nella mia relazione con esso. Non si può vivere l’esperienza di una datità pura. Nel momento in cui realmente vivo l’esperienza di un oggetto – anche se lo penso soltanto – esso diventa un momento dinamico di quell’evento in corso che è il mio pensarlo-esperirlo; esso acquista, cioè, il carattere di qualcosa che si sta compiendo, o, più precisamente, esso mi è dato nell’ambito dell’evento nella sua unità, di cui sono momenti inscindibili ciò che è dato e ciò che è da compiersi, ciò che è e ciò che deve essere, il fatto e il valore. Tutte queste categorie astratte risultano qui come i momenti di un’unità viva, concretamente tangibile, singolare: l’evento. Analogamente, anche la parola viva, la parola piena, non ha che fare con l’oggetto interamente dato: per il semplice fatto che ho iniziato a parlare di esso, sono entrato con esso in un rapporto che non è indifferente ma interessato-affettivo, e per questo la parola non solo denota un oggetto come in qualche modo presente, ma con la sua intonazione […] esprime anche il mio atteggiamento valutativo riguardo all’oggetto – ciò che in esso vi è di desiderabile e di non desiderabile – e, con ciò stesso, gli conferisce un movimento verso ciò che si deve fare di esso, lo rende momento di un evento vivo. Tutto ciò che rientra nella viva esperienza viene esperito come qualcosa che riguarda insieme il dato e il da farsi, riceve un’intonazione, possiede un tono emotivo-volitivo, entra in un rapporto affettivo con me nell’unità dell’evento che ci abbraccia […]. Il tono emotivo-volitivo è un momento imprescindibile dell’atto, perfino del pensiero più astratto in quanto mio pensiero realmente pensato, cioè in quanto esso realmente viene ad esistere, si incorpora nell’evento. Tutto ciò con cui io ho a che fare mi è dato in un certo tono emotivo-volitivo, giacché tutto mi è dato come momento dell’evento del quale io sono partecipe. In quanto ho pensato un oggetto, sono entrato con esso in un rapporto evenziale. Nella sua correlazione con me, l’oggetto è inscindibile dalla sua funzione nell’evento. Ma questa funzione dell’oggetto nell’unità dell’evento reale che ci abbraccia è il suo valore reale, affermato, vale a dire il suo tono emotivo-volitivo.
In quanto separiamo astrattamente il contenuto dell’esperienza diretta dal suo reale esperire, il contenuto ci si presenta come assolutamente indifferente rispetto al valore in quanto valore reale e affermato; perfino un pensiero sul valore può essere separato da una valutazione reale […].
Nessun contenuto sarebbe realizzato, nessun pensiero sarebbe realmente pensato, se non si stabilisse il legame essenziale tra il contenuto e il suo tono emotivo-volitivo, cioè il suo valore realmente affermato per colui che pensa. Vivere un’esperienza, pensare un pensiero, vuol dire non essere nei suoi confronti assolutamente indifferente, vuol dire affermarlo in modo emotivo-volitivo. Il reale pensiero che agisce è pensiero emotivo-volitivo, è pensiero che intona, e tale intonazione penetra in maniera essenziale in tutti i momenti contenutistici del pensiero. Il tono emotivo-volitivo avvolge l’intero contenuto di senso del pensiero nell’azione e lo riferisce all’esistere-evento singolare. […] In rapporto a tutta l’unità reale, emerge il mio dovere singolare a partire dal mio posto singolare nell’esistere. Io, come unico io, non posso nemmeno per un momento non essere partecipe della vita reale inevitabilmente e necessariamente singolare; io devo avere un mio dovere; in relazione al tutto, di qualsiasi cosa si tratti e in qualsiasi condizione mi sia data, io devo agire a partire dal mio posto unico, anche se si tratta di un agire solo interiormente.
[…]
Certo, si può ignorare l’attività e vivere della sola passività, si può cercare di dimostrare il proprio alibi nell’esistere, si può essere impostori. Si può abdicare alla propria singolarità imperativa (alla singolarità del proprio dovere). L’atto responsabile è appunto l’atto sulla base del riconoscimento di questa singolarità imperativa. Tale affermazione del mio non-alibi nell’esistere è la base del reale e necessitante esser dato e da compiere della vita. Solo il non-alibi nell’esistere trasforma la vuota possibilità in atto responsabile reale […] . È il fatto vivo di un atto ad essere all’inizio dell’atto responsabile e a crearlo […]; è esso la base della vita come atto, poiché essere realmente nella vita significa agire, essere non indifferenti al tutto nella sua singolarità.
Ogni pensiero che non sia correlato con me come qualcosa di imperativamente unico è solo una possibilità passiva; esso potrebbe benissimo anche non esistere, potrebbe essere diverso, il fatto che sia nella mia coscienza non presenta nessuna obbligatorietà, insostituibilità; non incarnato nella responsabilità, anche il tono emotivo-volitivo di tale pensiero è fortuito; è solo il rapporto all’unico e singolare contesto dell’esistere-evento tramite l’effettivo riconoscimento della mia reale partecipazione ad esso, che fa di esso un atto responsabile. E tutto in me – ogni movimento, ogni gesto, ogni esperienza vissuta, ogni pensiero, ogni sentimento – dev’essere un tale atto; è solo a questa condizione che io realmente vivo, non mi sradico dalle radici ontologiche dell’esistere reale. Io esisto nel mondo della realtà ineluttabile, non in quello della possibilità fortuita. […]
La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta».
Michail M. Bachtin, Per una filosofia dell’atto responsabile, a cura di Augusto Ponzio, Edizioni Pensa Multimedia s.r.l., Lecce 2009, pp. 48-119.
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