«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Ma la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso».
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 108, aprile 1820, in Id., Zibaldone, ed. critica a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti, Milano 1991, 3 voll.
La compassione: una passione condivisa. Ma anche un patire in comune, un patire insieme. Una prossimità all’altro, alla sua ferita. La compassione è tuttavia un sentimento raro. Perché rara è l’esperienza in cui il dolore dell’altro diventa davvero il proprio dolore. La parola «compassione» spesso copre, come un confortevole velo, un sentire in cui l’attenzione all’altro, alla sua pena, si accompagna a un certo compiacimento del soggetto compassionevole, a una silenziosa conferma della sua bontà d’animo. Accade che il gesto visibile del soccorso possa ferire il pudore col quale l’altro ha nascosto la propria sofferenza, sottraendola con fatica all’altrui indiscrezione. Accade che la compassione possa invadere il doloroso silenzio di chi ha deciso di portare su di sé, con dignità, e forse fierezza, il fardello della propria pena […]. E succede anche che dalla propria quieta soglia si guardi all’affanno dell’altro come si osserva dalla sponda il dibattersi del naufrago nelle onde: il sottile, inconfessato piacere di trovarsi al sicuro può sovrastare e rendere fievole l’ansia per il pericolo in cui si trova l’altro. La compassione, ha ancora scritto qualcuno, è spesso soltanto una pacificazione di sé. […] Da qui la storica diffidenza dei filosofi – di quasi tutti i filosofi – per la compassione. Esclusa dall’albo delle forti virtù e del forte sentire. Non sempre catalogata tra le passioni. Osservata piuttosto come un sentimento proprio dei deboli. O risospinta nella terra nebbiosa delle religioni. Rinviata alle indecifrabili increspature di una sensibilità incline alla commozione o, femminilmente, al pianto (c ‘è sempre qualcuno che associa la lacrima alla donna). Oppure – e qui, bisogna ammettere, non mancano le ragioni – considerata come elusione, non sempre innocente, della domanda di giustizia e di eguaglianza. Come elusione di un compito che dovrebbe essere anzitutto politico: in effetti, la giustizia, non la compassione, può, o potrebbe, mettere ciascuno nella condizione di sopportare da se stesso gli oltraggi dell’esistenza. Ma anche questa posizione, che oppone giustizia sociale a compassione, si arresta dinanzi alle ferite che non hanno un’origine per dir così materiale, che non appartengono all’ordine dei bisogni e dei diritti: il dolore, del resto, ha un tale ventaglio di forme, visibili e nascoste, che ogni suo regesto appare provvisorio, parzialissimo. […] La filosofia – quando non ha assunto il sentire della compassione a fondamento stesso di una morale, come è avvenuto con Rousseau e con Schopenhauer – ha mostrato di volta in volta gli aspetti ambigui, autoconsolatori, dolciastri, della compassione. Scrittori e artisti hanno invece rappresentato, della compassione, i gradi e le forme del suo manifestarsi, la lingua, i gesti, la tensione conoscitiva. Hanno mostrato la grande scena in cui la compassione prende forma: la comunità dei viventi, la finitudine che unisce nello stesso cerchio tutti i viventi, uomini e animali. Con la singolarità dei loro corpi, e desideri, e ferite. La rappresentazione letteraria, artistica e teatrale della compassione è l’ininterrotto racconto di una presenza, quella dell’altro, del suo volto, delle sue insondabili profondità. Una presenza che corrobora la stessa identità di colui che è soggetto dello sguardo. E smuove un sentire, che dal soggetto torna verso il sentire dell’altro. Diventa, infine, riconoscimento del legame che trascorre tra tuttigli esseri. Nell’orizzonte di questa comune appartenenza il dolore dell’altro non chiama l’indifferenza ma la prossimità. Questo libro vuole mostrare, come per allineati tableaux di un’immaginaria esposizione, alcune figure di una storia della compassione, così come la scrittura e l’arte ce l’hanno consegnate. Ho detto «storia», ma è davvero un azzardo che si possa fare storia dei sentimenti, o storia delle passioni. Perché sentimenti e passioni hanno tante modulazioni e vibrazioni quanti sono gli individui viventi. E così è della loro rappresentazione, variegatissima. Ci si può soltanto affacciare sulla lingua del sentire, sulla lingua del patire, sui segni del loro apparire, sulle stazioni e le forme del loro svolgimento. […]
Se la compassione muove anzitutto dal riconoscimento dell’altro in quanto corpo e linguaggio, pensiero e desiderio, c’è un tempo in cui questo riconoscimento s’incrina o scompare. È il tempo tragico. La guerra è il nero trionfo di questo tempo tragico. E con la guerra, con l’oblio della compassione, l’esercizio sistematico della spietatezza. La tecnica, che ha affinato i modi della distruzione, si mette a servizio di questa morte della pietà. La disumanizzazione – e la violenza sulla natura e sulla stessa storia costruita dall’uomo – coincide con l’astrazione dalla singolarità vivente e senziente di ogni individuo, umano o animale. In questa astrazione la presenza dell’individuo – volto, nome, corpo, pensieri, sentimenti – è svuotata di senso, di palpito, di esistenza stessa. Narrazione e poesia hanno tuttavia mostrato come, nel cuore del tragico, e contro il furore dell’annientamento, si possa levare, proprio a partire dallo sguardo sul dolore altrui, il tu di una ritrovata fraternità. La compassione è lo spazio in cui, dal fumo della distruzione, si leva e disegna il profilo di questo tu.
Antonio Prete, Compassione. Storia di un sentimento, Bollati Borinhieri, Torino 2013, pp. 9-13.
«Marx ha determinato ciò che deve verificarsi nell’economia, il necessario cambiamento economico-istituzionale, ma non ha ancora assegnato l’auspicabile autonomia all’uomo nuovo, allo slancio, alla forza dell’amore e della luce, ossia al momento morale in sé, nell’ordinamento sociale definitivo. […] L’economia è stata eliminata, eppure mancano l’anima e la fede, a cui si doveva far posto; lo sguardo attivo e intelligente ha distrutto ogni cosa, molte volte certo con ragione […]. È stato sconfessato a ragione anche il socialismo troppo arcadico e astrattamente utopico ricomparso dal tempo del Rinascimento come forma secolarizzata del regno millenario […]. Ma di tutto ciò non si è compresa l’implicita tendenza utopica, né si è colta e giudicata la sostanza delle sue immagini prodigiose, né tantomeno si è soppresso l’originario desiderio religioso che in ogni movimento e in ogni meta della trasformazione del mondo voleva creare uno spazio alla vita per essenzializzarsi in modo divino e infine stabilirsi chiliasticamente in bontà, libertà e luce del telos».
Ernst Bloch, Spirito dell’utopia , trad. it. di V. Bertolino, F. Coppellotti, Sansoni, Milano 2004, pp. 323-325.
«Ogni progetto e ogni creazione che siano stati spinti ai limiti della loro perfezione hanno sfiorato l’utopia e […] proprio alle grandi opere culturali, che seguitano sempre ad agire in senso progressivo, hanno dato un’eccedenza al di là della loro mera ideologia di valore locale, e con ciò niente di meno che il sostrato dell’eredità culturale».
Ernst Bloch, Il principio speranza , trad. it. di E. De Angelis, T. Cavallo, Garzanti, Milano 2005, pp. 184-185.
«L’utopia è una forza di anticipazione», ovvero l’elemento più dinamico e attivo della «coscienza anticipante», che per Bloch costituisce l’anima profonda della speranza. «La funzione utopica strappa le questioni della cultura umana alla comoda poltrona di mera contemplazione; in tal modo, su vette effettivamente conquistate, essa apre la vista ideologicamente non deformata sul contenuto umano della speranza» (Ivi, p. 186).
«Tutti gli ideali sono varianti del contenuto fondamentale, il sommo bene» (Ivi, p. 204).
« […] emerge dunque una costruzione di desiderio, una costruzione razionale, priva ormai di qualunque certezza della speranza chiliastica, ma tale da pensarsi in compenso come realizzabile con le proprie forze, senza appoggi o interventi trascendenti. L’Utopia è sempre più progettata nel non-divenuto della terra, nella tendenza umana alla libertà – come un minimum di lavoro e di stato, come un maximum di gioia» (Ivi, p. 599).
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