«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre. Così, la storia delle diverse letture di un libro può costituire la storia della sua ricchezza. Ogni nuova lettura ne mette in luce qualche inatteso aspetto, ne riconquista qualche elemento insospettato ancora, e lo fa vivere accanto a ciò per cui già il libro viveva; quando, addirittura, non mette in ombra le sue stesse precedenti ragioni di vita.
Dino Formaggio, “Giudizio storico e teoria dell’arte (a proposito di una ristampa italiana dello Schlosser)”, in Id., L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, p. 351
«La questione filosofica essenziale è dunque la totalità, che deve essere osservata da tutti i punti di vista. Così l’intuizione di Nietzsche è solo l’inizio di una ricognizione approfondita … il filosofo deve essere sorretto da un grande amore per l’ essere umano, la vita e la conoscenza: con un atteggiamento critico, non erudito, pluralistico o “panteistico” potrà cogliere l’individualità più profonda e la totalità, che è superiore alle singole parti, e potrà superare la frammentazione, le parti separate e la discontinuità del mondo».
Pierpaolo De Giorgi, Pizzica e armonia. Dallo sguardo di Dioniso al tarantismo. Una nuova filosofia e via terapeutica, Editori Congedo, Lecce 2018, p. 168.
Sergio Quinzio e la critica alla società del benessere, lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità. L’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione. Chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla.
Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo.
La vera minaccia sta nel fatto che il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà.
Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore.
La parola felicità, che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione.
La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica.
La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità.
Oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto.
Consumare-finire Sergio Quinzio, filosofo e teologo di difficile collocazione, pur in una prospettiva altra rispetto alle sinistre marxiane e marxiste, analizza lo stato presente nella sua apocalittica e misera problematicità. La chiesa ha spesso cavalcato lo spirito del mondo: l’altare, associato al trono, è stato parte del processo di sussunzione e dominio. Quinzio analizza le metamorfosi delle forme di sussunzione. Nei suoi testi la religione ed i valori cristiani sono paradigmi con cui denunciare il capitalismo assoluto: la disumanità come sistema. La responsabilità umana ed il male sono parte integrante della visione cristiana di Quinzio. La responsabilità umana è l’altro volto della kenosi[1], dello svuotamento dell’onnipotenza di Dio, che permette la libertà degli esseri umani e con essa la possibilità del male. Il giudizio sul capitalismo assoluto non conosce appello: esso è il ribaltamento del bene, imita e perverte la pienezza del bene con il feticismo delle merci. Il consumo onnivoro divora anche il vero eden-bene, lo cancella, lo assimila col fremito immaginifico dell’abbondanza delle merci. Consumare non è un atto neutro: consumare significa annichilire l’essere, fagocitarlo. Consumare significa derealizzare il mondo e la realtà fino alla realizzazione minacciosa ed integrale del nulla. L’onnipotenza del consumo divora la categoria della possibilità, della vita, al suo posto vi è l’unidirezionalità meccanica del gesto esiziale che preannuncia la sua fine:
«Avere tutto, potere tutto, essere tutto. Soddisfare ogni possibile desiderio prima ancora che nasca, e inventarne di nuovi per il gusto di soddisfarli. Non conoscere limiti; vivere nel benessere e nella libertà edenici. È ancora l’idea del regno dei cieli, in un adattamento e in una trasposizione dove ogni aspetto trova il suo corrispondente. Anche il consumare. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù, prima di cadere nella morte, pronuncia le sue ultime parole: consummatum est. Dagli altri vangeli queste parole non sono state tramandate: le riporta solo l’ultimo degli evangelisti, quello al quale è attribuita la rivelazione della fine dei tempi e del giorno del Signore contenuta nell’Apocalisse. Consumare come finire, dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo».[2]
Disincanto Colui che è nella trappola del consumo, dipende dalle cose, è trainato con violenza da agenti esterni, è il triste complice dell’apocalisse di un intero pianeta. L’accumulo non garantisce la felicità, anzi il consumo è inversamente proporzionale alla felicità: il consumo smodato delude sempre. Il consumatore assoluto, figura antropologica del turbocapitalismo, vive in un clima di perenne conflitto, l’atmosfera relazionale è appestata dalla sfiducia e dalla violenza dei concorrenti. Il consumatore assoluto è sul mercato della violenza, ne è parte, ma non la percepisce, consuma, ma è consumato dal disincanto che il feticismo delle merci gli comunica:
«L’americano Vance Packard proclama allarmato che la continua dilatazione dei consumi, favorita allo scopo di far crescere di pari passo la produzione, non può durare all’infinito, perché si giungerà prima o poi al limite di saturazione, e cioè a una condizione finale di blocco. Questa morte per affogamento nel proprio grasso è la previsione avanzata da insigni cultori della scienza economica e appassionatamente negata, in nome della stessa scienza, da altri esperti non meno illustri, come Walter Heller. Sia come sia, l’apocalisse è molto meno scientifica e molto più radicale. È probabile che esistano infiniti universi di beni da inventare e da produrre – dal momento che la loro utilità non è affatto in gioco – e che abbia quindi ragione la scienza ottimista e torto quella pessimista (sempre che l’ottimismo non sia destinato a ricevere qualche grosso contraccolpo dall’esterno del sistema). Ma la vera minaccia sta nel fatto che la soddisfazione, o magari la felicità, ricavata dalla fruizione dei singoli beni economici diminuisce con l’aumentare globale dei consumi, e che quindi il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà».[3]
La merce come sostanza prima La società del consumo ha la sua sostanza prima e perversa: la merce. Ogni ente è posto sulla linea della merce da consumare. La merce è il mitico modello di fondazione a cui tutto eguagliare: gli esseri umani non sono che merce tra le merci, il pianeta è merce da consumare, il globo terrestre è solo un ampio mercato senza significato, tutto procede fatalmente; avendo il sistema fatalmente disperso ogni teleologia e logos, si autoriproduce secondo un perverso movimento:
«Come conseguenza dell’identificazione degli oggetti fra loro – privati di significato e ridotti tutti al minimo denominatore comune dell’essere oggetti – c’è il sussistere di istituti, concetti, prassi, tradizioni, formule che hanno esaurito da molto tempo il loro senso e il loro valore: in quanto liberati dalla necessità di adempiere ad altra funzione che non sia tutta nell’essere oggetti, continuano a vivere, o piuttosto a restare, dal momento che gli oggetti non vivono. Questa insperata salvezza nella comune dannazione è sopraggiunta, per esempio, sulla chiesa cattolica, e i luoghi di culto cristiani – proprio quando il culto è solo per gli oggetti – sono tornati a riempirsi. Perché dove la realtà è consumata non esiste più una possibilità di offrire oggetti senza che vengano automaticamente consumati. Tra queste sopravvivenze, o piuttosto permanenze, di cose svuotate di valore ci sono i princìpi sui quali si regge la società civile, gli ordinamenti e le leggi: poiché la diffusione del benessere e l’avvento della società opulenta discendono in modo quasi esclusivo dall’incremento della produttività determinato dallo sviluppo delle scienze e delle tecniche, e cioè dalla messianica possibilità di far tendere la produzione all’infinito e contemporaneamente i costi a zero, princìpi, ordinamenti e leggi sono in realtà impotenti a dirigerne o a mutarne o a modificarne il corso, scongiurandone la minaccia finale». [4]
Assimilazione regressiva La felicità promessa vive nell’illusione di un tempo a venire, nella ripetizione di un ciclo cosmico e pagano, in cui l’attimo presente è pregno della frustrazione di domani, della speranza irriflessa nella magia della merce. Il consumismo integrale con la sua circolarità temporale è una forma di paganesimo, la vita degli esseri umani diviene organica al tempo circolare, diviene parte dei cicli naturali. Il progetto esistenziale e collettivo è sostituito dall’assimilazione regressiva ai cicli temporali. Il consumo produce solo altro consumo, in un circuito di dipendenza senza scampo: i dannati degli ipermercati sono infecondi, perché la felicità è osmosi con il mondo, è relazione biunivoca, mentre la felicità delle merci è sterile, è ripetizione di un atto servile, è impotenza generalizzata venata di violenza acquisitiva:
«È strano che, in una società dinamica come la nostra, l’ideale inseguito sia statico: il benessere, lo star bene, la sazietà soddisfatta e conclusa. Mentre le antiche civiltà statiche proponevano l’ideale aperto della felicità, parola che con femina, fenus, fecundus, fetus deriva da felare (poppare, succhiare), con significato di fecondo, fertile. Ma che rapporto c’è fra il benessere e la felicità? Sembra che gli uomini del benessere subiscano l’imposizione di una identificazione obbligatoria: in qualche oscuro modo la felicità la vogliono, e tutto quello che viene offerto è invece il benessere, che non è una macchina più o meno adatta a produrre la felicità, ma una macchina che sta al posto della felicità, in sua vece. Un uomo che credesse ancora davvero nella possibilità di essere felice non riuscirebbe a concepire neanche l’idea del benessere, la parola stessa non avrebbe per lui nessun senso. Benessere è lo scopo inventato per coloro che non sperano più nella felicità, come nevrosi è la condizione di coloro che non osano più sapere che esiste il dolore». [5]
Le parole e l’ordine del discorso sono un perenne luogo di battaglia. Per avanzare il capitale assoluto deve ridistribuire le parole, modificarne il significato, sottrarre significati per impedire che le parole possano essere veicolo di alternative. La storia e la filosofia sono anch’esse ridimensionate e disposte nell’ottica del trionfo del liberalismo e della fine della storia: oltre il presente non vi è nulla, la gabbia d’acciaio è totalità sostanziale. La religione è tollerata solo come servizio di assistenza. La parola felicità (dal latino “femina”), che nel suo significato etimologico indica l’attività feconda del soggetto, è sostituita con il benessere materiale senza immaginazione, con la tracotanza dell’avere che costruisce barriere, atomizza, isola e rende il capitalismo assoluto fonte di verità e di affermazione indiscussa. Il postulato del consumare non è mai messo in discussione, è il dogma a cui ci si inchina a prescindere dalla posizione che si occupa nel modo di produzione. Si è così avvinti da forze che non lasciano scampo e che esigono il continuo olocausto di sé (holòkaustos, “bruciato interamente”), del mondo, in un bruciare che non è sono metaforico:
«La società del benessere non ha niente in comune con una società che si proponga di migliorare le condizioni materiali di vita degli uomini, è tutt’altra cosa. Nasce dal postulato che non esista altra realtà al di fuori della produzione e del consumo, che non esista altro significato al di fuori del disporre di moltissimi oggetti. Importanti sono gli oggetti in sé e per sé, in quanto feticci: gli stessi bisogni cadono quindi nell’ombra e non si sa neppure più cosa siano. Al benessere non si può sovrapporre la moralità, perché le idee non sono comunque sovrapponibili e reciprocamente penetrabili. La società del benessere è un’idea che nasce dalla tecnica produttivistica, e che ubbidisce quindi alla sua logica interna deducendone automaticamente una sua morale, l’unica che non la contraddica: la morale dell’efficienza e del suo successo messa in luce da Max Weber. Non si può fondere il bisogno di felicità naturale dei secoli pagani, la morale cristiana, il moderno stato di diritto, le tecniche produttivistiche contemporanee, e risolvere così un problema di scelta scegliendo tutto insieme. Di veramente caratteristico, nell’attuale società, c’è infatti il rifiuto delle scelte, che è stato battezzato civiltà pluralistica o del dialogo o, precisamente, del benessere. Questo tipo di società sceglie, di fatto, il benessere; ma è una strana scelta, perché il benessere implica l’accettazione indifferenziata di tutte le cose e di tutte le idee. Il presupposto implicito è che, non valendo nessun criterio di preferenza, il risultato auspicabile e necessario può aversi solo mediante l’incremento quantitativo». [6]
Produttivismo indifferenziato La critica di Sergio Quinzio si fa rilevante, coglie nelle alternative apparse nella storia del Novecento lo stesso male: la produzione senza misura. La storia non è stata maestra di vita, ha riprodotto lo stesso schema in contesti diversi: il produttivismo, il saccheggio, la sussunzione dei dominatori che in gioco di cambi di maschere ideologiche sono la riproposizione dello stesso tragico problema, ovvero il tentativo programmatico di negare il limite, la misura per l’onnipotenza della produzione. L’economicismo è dunque la cifra della modernità, l’alternativa non può che iniziare dal mettere il discussione la sacralità dell’economia. Marx, con il Capitale, ha teorizzato l’uscita dal paradigma dell’economia; il Vangelo ha parole lapalissiane verso la proprietà privata e la cattiva distribuzione dei beni, al punto che la Chiesa è stata l’istituzione che ne ha impedito la lettura rivoluzionaria:
«Ma il tragico è che non si vede che cosa si debba o si possa scegliere al di fuori del benessere che occupa tutto l’orizzonte, che sembra assorbire tutta la realtà. Il benessere, per esempio, ha deglutito tutto il movimento operaio, declassandolo da fatto capovolgente a fatto correttivo. Il guasto più profondo sta nell’incapacità di concepire scelte veramente alternative. Dal vangelo alla rivoluzione francese, dal socialismo alla società opulenta, dai testi eruditi ai fumetti c’è ormai un unico schieramento che incarna per definizione la civiltà e il progresso, la cui compattezza, essendo fondata sul benessere, è garantita dalla rinuncia a qualsiasi verità e insidiata soltanto dai conflitti di interessi istituzionalizzati. Di quanto si è allargata spazialmente la libertà formale, di tanto è diventata pesante e paralizzante l’illibertà sostanziale, coincidente con la preclusione di qualunque alternativa e speranza. L’accettazione del sistema è obbligata, e diventa perciò inutile qualunque riserva, qualunque protesta, qualunque accusa». [7]
La poietica (dal gr. poiētikós, der. di póiēsis “produzione”) è il nuovo fascismo della quantità: l’io desiderante è solo l’epifenomeno del mercato, che attraverso il condizionamento dei mezzi mediatici sostituisce l’io con una finzione dello stesso, con l’io minimo organico al mercato. Individualismo astratto che idolatra i consumi personali per astrarsi ed estraniarsi dalla cura del mondo.
Verità e tolleranza Consumare significa finire: il fine è sostituire la verità con l’indifferenza e rappresentare quest’ultima per tolleranza ed inclusione. Senza verità, il soggetto non ha più bisogni profondi, non parla con se stesso, è straniero a se stesso, il nulla avanza e rende l’io disabitato:
«Un altro infine, che funzionava spaventosamente bene ancora ieri, è già quasi del tutto seccato: convogliava l’intransigenza e l’intolleranza, il poco e il corrotto, cioè, che era rimasto della fede nella verità assoluta. L’indifferenza per la verità ha prodotto la tolleranza. Resta ancora qualche sedimento d’intolleranza, defluito dal piano delle fedi e poi delle idee a quello degli interessi personali contingenti, ma stiamo per diventare tutti opulenti e presto non avremo più né bisogni né interessi. Allora, nel nulla, non ci saranno attriti». [8]
Conclusione L’analisi di Sergio Quinzio è un appello all’agire e alla responsabilità umana che devono emanciparsi dal male, dall’eccedenza della sofferenza. L’essere umano non si salva da solo, ma è vocato alla responsabilità storica nel suo tendere verso la fine dei tempi. Il cristianesimo di Quinzio è una forma di umanesimo, poiché la fede non deresponsabilizza, e dinanzi allo svuotamento di Dio, al male che irrompe nella storia con l’inquietante consumo dell’essere e dell’esserci, l’umanità deve testimoniare che un altro modo di vivere è possibile.
La morte di dio coincide con la morte della verità, per cui chiunque lotti contro la desimbolizzazione della vita è un punto ottico di energia creativa che lievita e resiste al nulla, all’olocausto della verità. La comune critica da posizioni diverse contribuisce a chiarire la condizione storica presente. La fatica del concetto vive nella relazione tra identità, differenze. La critica è il lievito della prassi, la prepara, ne affina la consapevolezza. La complessità della globalizzazione necessita di più voci per essere compresa e per rispondere alle contraddizioni che la attraversano fatalmente. Il capitalismo contemporaneo si struttura e consolida nell’esproprio non solo dei beni comuni, ma, specialmente, nel rendere – mediante la pratica del consumo – gli esseri umani infantili, persone che non pongono il problema del senso e del limite. Pertanto oggi è necessario unire le forze critiche, ascoltare la multifocalità delle prospettive altre, per formare la comune consapevolezza del male che avanza. Il male è l’infantilismo di massa indotto con cui sussumere fasce sempre più vaste di popolazione cristallizata in un’eterna adolescenza senza identità e progetto, per poterle dominare:
«Più semplicemente: il capitale oggi non mira tanto ad alienare/estraniare cercando di imporre uno specifico modo, una determinata forma di vita, ma impedendo ogni cristallizzazione di un modo, ogni strutturazione di una forma di vita. Mira a lasciarci infanti, a non farci mai crescere, non vuole narrare una storia o impedirne la narrazione ma gettarci in un’apocalisse permanente. Non serve più distruggere un mondo, una storia, una cultura, una tradizione, se riesci a far sì che non possa mai costruirsene una, che il tempo non riesca mai a solidificarsi, che la tendenza non riesca mai a istituirsi, mettendo le mani sulla capacità di costruire, sulla facoltà di solidificare, sulla potenzialità di istituire. A che serve intaccare una qualche realizzazione e configurazione di “famiglia”, “stato”, “nazione”, “comunità”, “personalità”, “felicità”, se riesci a impedire che possa mai emergere un qualsiasi coagulo? A che serve radere al suolo tutto ciò che è stato edificato se riesci a impedire che possa più edificarsi qualcosa andando a distruggere giorno per giorno il cantiere aperto per riaprirne uno subito dopo? A che serve cucirti addosso una nicchia o una gabbia (fosse anche dorata), quando basta renderti un migrante senza fissa dimora? A che serve impedirti di fare questo o costringerti a fare quest’altro quando basta bombardarti di stimoli, di possibilità e di informazioni impedendoti così di strutturare qualsiasi atto, di articolare qualsiasi risposta, di tradurli in una qualche azione? Per tenerti fermo è più facile sollecitarti in infiniti modi che non impedirti un qualche movimento o richiedertene qualche altro». [9]
Dinanzi alla tragedia del presente è necessario l’ascolto di tutte le voci dissenzienti per rimettere in cammino le comunità.
Salvatore Bravo
***
[1] Kenosi parola greca da κένωσις, kénōsis, in italiano “kenosi” o “chenosi”, che deriva dall’aggettivo κενός, kenós, che significa “vuoto”. [2] Sergio Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi eBook, 2014. [3]Ibidem, p. 12. [4]Ibidem, p. 13. [5]Ibidem, p. 14. [6]Ibidem, pp. 15-16. [7]Ibidem, p. 16. [8]Ibidem, p. 24. [9] Giacomo Pezzano, Tractatus Philosophico-Anthropologicus. Natura umana e capitale, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 87.
«Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?».
María Zambrano, «Il freudismo, testimone dell’uomo contemporaneo», in: Id., Verso un sapere dell’anima, trad. it. di E. Nobili, a cura di R. Prezzo, Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 123.
José Antonio Viera-Gallo sottosegretario alla Giustizia nel governo di Salvador Allende
«Una politica di bassi consumi di energia permette un’ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste» (p. 8).
«La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale» (p. 10).
«La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta» (p. 20).
«La liberazione dal monopolio radicale dell’industria del trasporto è possibile solo istituendo un processo politico che demistifichi e detronizzi la velocità» (p. 69).
Ivan Illich,Elogio della bicicletta, a cura di Franco la Cecla, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
Descrizione
Una apologia della bicicletta: della sua bellezza e saggezza, della sua alternativa energetica alla crescente carenza di energia e al soffocante inquinamento. Illich nota che la bicicletta e il veicolo a motore sono stati inventati dalla stessa generazione. Ma sono i simboli di due opposti modi di usare il progresso moderno. La bicicletta permette a ognuno di controllare la propria energia metabolica (il trasporto di ogni grammo del proprio corpo su un chilometro percorso in dieci minuti costa all’uomo 0,75 calorie). Il veicolo a motore entra invece in concorrenza con tale energia.
Il tema di quest’opera è la nozione del pane come mixis, ovvero come mescolanza di elementi, o di “proprietà”, dissimili. Tale nozione verrà qui indagata in alcune delle sue più rilevanti implicazioni simboliche, in una prospettiva di storia delle idee e di filosofia della cultura: più specificamente, di filosofia dell’alimentazione. Con quest’ultima espressione intendiamo uno studio filosofico dell’alimentazione umana, considerata quale momento essenziale dell’attività di conferimento di senso con cui l’uomo, animal symbolicum per eccellenza, investe tutti gli aspetti e le componenti del proprio ambiente vitale.
Nella presente indagine, ci concentreremo sull’Antichità e, più in particolare, sul mondo mediterraneo, senza peraltro alcuna pretesa di fornire un quadro esauriente di tutte le formulazioni del concetto in esame storicamente emerse in tale contesto. Una ricerca di tal genere richiederebbe, infatti, spazi ben più ampi di quelli qui disponibili.
In relazione ai singoli momenti della storia del pensiero, oppure agli episodi storici (veri o presunti), che verranno presi in considerazione, inoltre, il nostro intento non sarà quello di vagliare con rigore filologico le testimonianze pertinenti, e neppure di ricostruire meticolosamente i relativi quadri storici.
Cercheremo invece, di volta in volta, di utilizzare quei dati che parranno maggiormente significativi per decifrare il significato delle utilizzazioni – filosofiche, teologiche, liturgiche – della nozione del pane nei vari contesti storico-culturali, in funzione del progetto ispiratore della presente indagine.
Nel contempo, ci studieremo sia di accertare un’eventuale permanenza nel tempo, ossia una relativa invarianza, di talune strutture concettuale-metaforiche associate alla nozione del pane come mixis, sia di verificare il “tasso di commensurabilità” esistente fra le diverse produzioni ideative, correlate appunto a questo alimento, attraverso il cui filtro differenti popoli e culture del mondo mediterraneo hanno dato espressione, in distinte fasi storiche, ai loro problemi strutturali e alle relative proposte di soluzione (a volte non del tutto dissimili fra loro).
Se fino a pochi decenni fa una ricerca come quella qui intrapresa si sarebbe inevitabilmente scontrata in aspre critiche, innanzitutto di carattere metodologico, avanzate dai più arcigni difensori dei vari settori disciplinari coinvolti, da loro considerati come dotati di confini sacri e invalicabili, oggi il quadro è cambiato, fortunatamente, in modo sostanziale: si è fatto assai più aperto alla ricezione e alla valorizzazione dei contributi scaturenti da esplorazioni interdisciplinari di questo tipo, non più condannate a priori quali meri “vagabondaggi” intellettuali. Nelle teorie di filosofia della cultura e di storia delle idee che nel frattempo si sono diffuse e sono anzi divenute classiche – si pensi, tra gli altri, a Geoffrey E.R. Lloyd, a Yehuda Elkana, a Paul U. Unschuld e, in Italia, a Mario Vegetti – si è infatti imparato a “leggere” l’agire simbolico dell’uomo anche nella forma del permanere e del mutare, secondo regole precise, di specifiche produzioni concettuali, da decodificare sullo sfondo dei dilemmi-chiave, di natura insieme teorica e funzionale, che si pongono alle singole società umane.
Che il pane abbia acquisito un ruolo simbolico di prim’ordine in ambiti del mondo mediterraneo pur fortemente differenziati sotto il profilo sociale, economico, religioso, giuridico, etc., non deve sorprendere. In tale vastissima area esso infatti costituisce sin da tempi remoti l’emblema e la sintesi di quel che è indispensabile all’uomo per vivere («dacci il nostro pane quotidiano», recita il Padre nostro), e rappresenta nel contempo il paradigma delle risorse che l’uomo stesso si è dovuto approntare, attraverso una sapiente manipolazione e ricomposizione dei fattori naturali, per soddisfare le proprie esigenze. Il pane, dunque, come modello di risposta culturale a bisogni scaturenti dalla natura umana.
Per tale motivo, e in siffatta prospettiva, esso è stato (ed è tuttora) una sorta di “universale” e ha potuto fornire la materia, il sostrato, a un’architettura pressoché inesauribile di elaborazioni concettuali e strutture ideative, in cui le più varie compagini istituzionali si sono di volta in volta storicamente contemplate nella propria realtà e hanno espresso, nel contempo, le proprie aspirazioni e finalità. E proprio considerando il pane in tale sua eminente funzionalità a tradurre iconicamente forme differenziate – ma non prive di parallelismi – di autocoscienza associativo-istituzionale, è possibile, a nostro avviso, tracciare un suggestivo itinerario di storia delle idee, utilizzabile anche in riferimento ad altre nozioni e ad altri contesti.
Il presente studio si articola in due parti. Nella prima, dopo un sintetico quadro di carattere storico-descrittivo, analizzeremo la nozione e il simbolismo del pane come mixis partendo dall’ antica Grecia. Nel mondo greco, il concetto in questione viene tematizzato per la prima volta, per quel che ne sappiamo, nella riflessione di Anassagora. Esso viene in seguito approfondito, caricandosi di una sorprendente ricchezza di spunti e associazioni, all’interno del Corpus Hippocraticum, ossia nel quadro del pensiero medico. In tale contesto, pur esibendo una valenza prioritariamente naturalistico-terapeutica, giunge a dispiegare suggestive correlazioni con un universo concettuale – la sfera della riflessione e della prassi politiche – apparentemente assai lontano dall’ambito cui sembrerebbe fare riferimento in termini più immediati.
Anche in virtù di tale suo referente politico, sotterraneo, ma non per questo meno incisivo, il tema del pane come mixis finisce col delineare un piano di tangenza tra la prospettiva ippocratica e quella, assai più tarda, di san Cipriano. In effetti, il Padre cartaginese, nella sua riflessione sul pane eucaristico quale realtà posta sotto il segno di un’assoluta unità, propone preoccupazioni e tensioni ideologiche non del tutto dissimili da quelle che erano sottese, in tutt’altro contesto storico, agli scritti ippocratici. Nel contempo, peraltro, egli – da uomo di fede – opera un significativo mutamento di visuale, con un correlativo spostamento della costellazione simbolica.
Prima, però, di soffermarci su san Cipriano e sulla sua nozione del pane eucaristico, faremo una tappa nell’antico Israele: in tale occasione, analizzeremo le complesse valenze simboliche e rituali associate a un pane di tipo particolare, il “pane della proposizione”, con riferimento, soprattutto, a un singolare episodio raccontato nel I Libro di Samuele.
Nella seconda parte del presente studio approfondiremo due aspetti di notevole rilievo emersi nella prima, e che sono sembrati meritevoli di un’analisi più puntuale. Nel primo capitolo di questa parte riprenderemo in esame, così, quello che ci si è rivelato come uno dei momenti centrali e, anzi, fondanti della concettualizzazione della realtà nel mondo antico, ossia il pensiero ippocratico. In tale quadro, indagheremo il tema dell’alimentazione e in particolare della consumazione del pane come aspetto dell’autopoiesi umana, quale affiora nel trattato L’antica medicina. Nel capitolo successivo proporremo invece un’indagine di taglio diacronico su due componenti tradizionalmente considerate quasi indisgiungibili dell’alimentazione mediterranea: il pane e il vino.
Infine, vengono le Appendici. Nella prima, si troverà la trattazione che il grande medico Claudio Galeno ha riservato ai cereali e ai prodotti da essi derivati (tra cui la farina e il pane) nel suo ampio trattato Le proprietà degli alimenti, vera e propria summa del sapere filosofico e scientifico dell’Antichità non solo sui cibi e le bevande, ma anche sulle loro relazioni con l’organismo umano. Nella seconda Appendice illustreremo invece in modo sintetico, anche con l’ausilio di alcune immagini, le tecniche e gli strumenti utilizzati nell’Antichità – dalle civiltà più antiche alla fase tarda dell’Impero Romano – per il trattamento dei cereali e la cottura del pane.
Il nostro auspicio – in conclusione – è di aver posto con questo volume la prima pietra di un’indagine comparativa delle concettualizzazioni del cibo che possa essere proseguita e approfondita in futuro, anche in relazione a epoche a noi più vicine.
Sia consentito a chi scrive di ringraziare di cuore in primo luogo il dottor Claudio Mazza, della Casa Editrice Nuova Ipsa, per l’entusiasmo con cui ha accolto la proposta di pubblicare questo saggio di filosofia della cultura e per la pazienza con cui ne ha atteso la stesura definitiva.
Profonda gratitudine provo pure per Monsignor Roberto Brunelli, sempre prodigo di suggerimenti di valore impagabile.
Un ringraziamento sentito va anche ai cari amici dottor Maurizio Poltronieri, dottor Raffaele Ghirardi e dottor Vittorio Robiati Bendaud, nonché ai colleghi, ai dottorandi e agli studenti delle università di Tübingen, Bonn e Ferrara, per le acute osservazioni e i preziosi consigli con cui hanno contribuito allo sviluppo e al completamento dell’opera.
Alberto Jori,Il pane tra sacro e profano. Metafore dell’alimentazione nel mondo mediterraneo, Saggio di filosofia della cultura, Nuova IPSA Editore, Palermo 2016, pp. 7-9.
Descrizione L’opera si accosta con un approccio originalissimo di ermeneutica semantica all’alimentazione mediterranea, e in particolare a uno dei suoi cardini: il pane. L’autore esplora innanzitutto i significati che in vari contesti del mondo antico sono stati attribuiti al pane, allo scopo di individuarne non solo le differenze, ma anche gli eventuali punti di tangenza reciproci. In questo esperimento ermeneutico, condotto con l’ausilio dei più raffinati strumenti interpretativi, emerge, pur nel variare dei quadri culturali indagati, un valore simbolico unitario. Il pane si configura – sia all’interno di discorsi ‘laici’, come quelli svolti dai filosofi presocratici e dagli autori della Collezione Ippocratica – sia in discorsi ispirati invece da preoccupazioni eminentemente religiose e teologiche – come emblema e archetipo dell’unità, intesa quale feconda armonizzazione di una preesistente molteplicità conflittuale. Questa valenza simbolica costituisce a sua volta la spia di un dominante interesse di carattere politico. Su tale base, nella seconda parte dell’opera viene ricostruita la filosofia della cultura di uno dei pensatori più arditi e profondi della Grecia antica: si tratta dell’autore del trattato ippocratico Sull’antica medicina. L’esame di questo trattato permette di riscoprire una proposta speculativa di sorprendente modernità, alla luce della quale la pratica gastronomica, vista come una forma di proto-medicina, si configura quale processo storico di autopoiesi dell’uomo. In tal modo, l’antico trattato può offrire stimoli preziosi anche alla riflessione attuale sui rapporti tra uomo e ambiente e tra uomo e alimentazione.
Sommario
PRIMA PARTE
CAPITOLO PRIMO
Il pane nei dibattiti filosofici e scientifici della Grecia del V sec. a.C.
Quadro storico: il pane degli antichi Greci
1.1. Il pane di frumento
1.2. Forni e tecniche di cottura
1.3. Un alimento ” interclassista”?
2. Il pane anassagoreo e le omeomerie
3. Pane e eguaglianza degli uomini in Antifonte
CAPITOLO SECONDO
Il pane nel trattato ippocratico L‘antica medicina
Le esigenze alimentari dell’uomo
2. La scoperta del regime
3. Dal grano al pane
4. Tecniche di temperamento delle dynameis
Il pane come obiezione alla medicina dei “postulati”
6. L’alimentazione come strategia terapeutica
CAPITOLO TERZO
Il pane dei medici
Grano e pane nel trattato Sul regime
2. li pane nel Corpus Hippocraticum
2.1. Dalla “natura” alle “nature”
2.2. Echi e approfondimenti platonici: la relazionalità dell’essere
Il pane come alimento appropriato all’uomo
L’influenza di Alcmeone e il paradigma politico
Metafora di una concordia discors
CAPITOLO QUARTO
Il mondo ebraico: il “pane della proposizione” nell‘amico Israele
1. Significato del pane azzimo nella cultura ebraica
2. Prescrizioni e proibizioni rituali
3. Il “pane della proposizione”
3.1. La tesi anfizionica: elementi a favore
3.2. Critiche
Un pane dalla funzione unificante
5. Un episodio singolare
Aspetti di rilievo dell’episodio
Significato della sosta di Davide a Nob
CAPITOLO QUINTO
Dal pane dei Romani al pane eucaristico di san Cipriano
Dalla polta alla focaccia e al pane
1.1. Farro e frumento
1.2. I diversi tipi di pane
1.3. Una categoria rispettata: i pistores
2. Dal pane di Pésach al pane dei Cristiani
2.1. Il pane sacramentale
2.2. Il nuovo ruolo delle comunità cristiane
Cipriano e il problema dell’unità della Chiesa
La Lettera LXIII
5. Ex pluribus unum: un messaggio di unità
Conclusioni
SECONDA PARTE
CAPITOLO PRIMO
Pane, alimentazione e antropogenesi nel trattato Sull‘antica medicina
Il modello essenzialista
Il modello “costruttivo”
2.1. Il tempo in Mb
2.2. Ritornare alle origini?
2.3. Autopoiesi e coscienza
Una scienza in divenire
4. Natura e cultura: dal frumento al pane
5. Techne e società politica
Dal sapere ontologico alla scienza funzionale
CAPITOLO SECONDO
Pane e vino: un binomio indissolubile
Il pane quotidiano
1.1. Un primato millenario
1.2. Dalla focaccia al pane lievitato
1.3. I primi veri maestri della panificazione: i Greci
1.4. I Romani si aprono all’influenza ellenica
1.5. Un capitolo a sé: i dolci
I vini nel mondo antico
2.1. Origini della viticoltura
2.2. Nel segno di Dioniso: il vino nel mondo greco
2.3. I Romani e la nascita della degustazione privata del vino
2.4. Il vino come base per manipolazioni e sperimentazioni
APPENDICI
APPENDICE I
Galeno di Pergamo
Le proprietà degli alimenti
Introduzione
Testo
APPENDICE II
Tecniche di frantumazione dei cereali e di cottura del pane nell’Antichità
L’Egitto, la Mesopotamia e la Palestina
1.1. La tipologia dei forni
1.2. Pestelli e mortai
1.3. Le tecniche della stacciatura
1.4. Metodi per la fermentazione: dal pane alla birra
Un Aristotele nuovo e inatteso, attualissimo per capire le nostre vite e il nostro mondo. Il libro mostra come quella aristotelica sia tutt’altro che un’etica pacificata e come l’essere umano sperimenti e compia il male in molti modi. Il confronto serrato con la riflessione di Aristotele sul male morale – estremamente articolata e affascinante nelle Etiche, nella Retorica e nella Metafisica – mette a nudo sofferenze, vizi e debolezze degli esseri umani. Quasi che per Aristotele l’esistenza umana oscillasse tra desiderio di una vita felice e problematicità della sua realizzazione.
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Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.
Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita». Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.
«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità». Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.
Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ἀεί [possesso pe sempre]». Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.
«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia]. Platone, Repubblica, 496 c.
«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice». Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.
Note sul testo Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del biosteleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come euprattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
Indice Prefazione di Salvatore Natoli
Introduzione
Parte prima. Semantica della felicità
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria 1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità 1.2.1. Felicità: una questione terminologica 1.2.2. Felicità e forme di vita
Capitolo secondo. Felicità e dolore 2.1. L’esperienza del dolore 2.1.1. Il dolore come accadimento 2.1.2. Le forme del dolore 2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé 2.2.1. Approcci al dolore 2.2.2. Cura del dolore e cura di sé 2.2.3. L’assunzione del dolore 2.3. Concludendo
Capitolo terzo. Felicità e piacere 3.1. L’esperienza del piacere 3.2. Fenomenologia del piacere 3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità 3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere 3.2.5. Piaceri e criteri di scelta 3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé 4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero 4.1.1. Virtù come eccellenza 4.1.2. Virtù come forza 4.1.3. Virtù come disposizione 4.1.4. Virtù come giusto mezzo 4.2. La virtù come architettonica della felicità 4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica 4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura 4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori 5.1. Primi approcci al problema 5.2. Felicità e fortuna 5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna 5.2.2. Fortuna e virtù 5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive 5.3. Felicità e amministrazione dei beni 5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Parte seconda. Prassi di felicità
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse 1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti 1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis 1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale 1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon 1.2.1. Felicità come consapevolezza 1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità 1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza 2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita 2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia 2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista 2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana 2.4. Riflessioni conclusive
Conclusioni 1. Per concludere 2. Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia 1. Dizionari e lessici 2. Testi antichi 3. Testi moderni e contemporanei 4. Letteratura critica e studi generali
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
«La finalità si sveglia, e di fatto, quando arriva così, è un tipico risveglio: da uno stato di abulia o dal lasciarsi vivere, ci svegliamo quando una circostanza ci giunge in questa forma, facendoci sentire che dobbiamo agire. Questo, però, può avvenire in due modi: o nella coscienza, perché vediamo che è conveniente o moralmente imposto; oppure perché sentiamo che è qualcosa che ci viene rivolto, che è lì unicamente per noi, che è una chiamata di ciò che si dice “destino”».
María Zambrano, Chiari del bosco, trad. it. di C. Ferrucci, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 21.
Il lavoro dell’uomo non deve produrre nulla che non sia degno di essere fatto, o che debba essere prodotto per mezzo di un lavoro degradante per chi lo fa.
W. Morris
William Morris
Lavoro utile e inutile fatica
Ci sono due generi di lavoro, uno buono e uno cattivo. Nell’uno è insita la speranza, nell’altro no. È degno dell’uomo fare il primo genere di lavoro, e degno dell’uomo è rifiutare il secondo. +++
È una triplice speranza: la speranza del riposo, la speranza del prodotto, e quella del piacere derivante dal lavoro medesimo. ***
Un lavoro degno significa quindi speranza del piacere del riposo, speranza del piacere di usare il prodotto, speranza infine del piacere che trarremo dall’uso quotidiano delle nostre facoltà creative. ***
Ogni altro lavoro è privo d’ogni valore; è lavoro da schiavi, significa faticare per vivere e vivere per faticare. ***
Ricchezza è quello che la natura ci dà e che un uomo ragionevole può trarre dai doni della natura per il proprio ragionevole uso. La luce del sole, l’aria fresca, il volto intatto della terra […] l’accumulazione di conoscenze; la libera comunicazione tra uomo e uomo; le opere d’arte, la bellezza che l’uomo crea quando maggiormente è uomo, quando nutre le più alte aspirazioni e pensieri: tutte cose che possono procurare piacere a gente libera, degna e incorrotta. Questa è ricchezza. ***
Una vera educazione si propone di individuare le inclinazioni delle diverse persone, di aiutarle a compiere il cammino che sono portate a percorrere. ***
Qualunque possa essere la natura della nostra lotta, se sapremo tendere con costanza e con unità d’intenti a quest’unico scopo, nella speranza, vivremo da uomini: né il presente può darci ricompensa maggiore.
Questo titolo potrà sembrare strano ad alcuni miei lettori. La maggior parte della gente al giorno d’oggi è convinta che ogni lavoro sia utile e la maggior parte della gente agiata ritiene ogni lavoro desiderabile. La maggior parte della gente, agiata o meno, pensa che, anche quando fa un lavoro apparentemente inutile, un uomo si guadagna da vivere, è «occupato» come suol dirsi, e la maggior parte della gente agiata si congratula con il fortunato lavoratore e lo loda, se soltanto è abbastanza industrioso e si priva di qualsivoglia piacere e riposo in nome della sacra causa del lavoro. In breve è diventato un articolo di fede dell’etica moderna che ogni lavoro è buono in sé, un principio che conviene molto a quelli che vivono del lavoro degli altri. Ma per quanto riguarda coloro alle cui spalle essi vivono, debbo avvertirli di non dare la cosa per scontata, ma di riflettere un poco più attentamente all’intera questione. Supponiamo in primo luogo che l’uomo non abbia altra scelta che fra la fatica o la morte. La natura non ci concede gratuitamente i mezzi di sussistenza, dobbiamo guadagnarceli con una fatica di un certo genere e grado. Vediamo allora se per caso non ci conceda qualche compenso in cambio di questa costrizione alla fatica, visto che per ogni altro rispetto è sua cura rendere gli atti necessari alla perpetuazione della vita, dell’individuo come della specie, non solo sopportabili ma addirittura piacevoli. Non v’è dubbio che lo faccia, e che sia naturale per l’uomo che non sia malato trarre piacere dal lavoro, in determinate condizioni. E tuttavia, a smentita dell’ipocrita lode, cui mi riferivo prima, del lavoro quale che sia, bisogna dire che ci sono lavori così lontani dall’essere una benedizione da configurarsi come il suo opposto, una maledizione; e che sarebbe meglio per la comunità e per il lavoratore se quest’ultimo incrociasse le braccia e rifiutasse di lavorare a costo di dover scegliere tra lasciarsi morire o farsi portare all’ospizio o in prigione, come preferite.
Ci sono, vedete, due generi di lavoro, uno buono e uno cattivo; uno, molto simile a una benedizione, sollievo della vita; l’altro, simile invece a una maledizione, della vita pesante fardello. Ebbene, che differenza c’è tra i due? Questa: che nell’uno è insita la speranza, nell’altro no. È degno dell’uomo fare il primo genere di lavoro, e degno dell’uomo è rifiutare il secondo.
Qual è la natura della speranza che, se è presente nel lavoro, lo rende degno di essere compiuto?
È una triplice speranza, io credo: la speranza del riposo, la speranza del prodotto, e quella del piacere derivante dal lavoro medesimo, in quantità e qualità apprezzabili: riposo sufficiente e piacevole quanto basta perché valga veramente la pena di goderne; un prodotto desiderabile per chiunque non sia uno sciocco o un asceta; un piacere tale da esserne coscienti mentre siamo all’opera, non una mera abitudine, la cui perdita potremmo avvertire quanto l’uomo nervoso avverte la perdita del pezzetto di spago con cui sta giocherellando.
Ho messo al primo posto la speranza del riposo perché è la forma piu naturale ed elementare della nostra speranza. Qualunque sia il piacere che alcuni lavori possono darci, essi comportano sempre una parte di sofferenza, la sofferenza animale che è nel mettere in moto le nostre sopite energie; la paura animale di un cambiamento quando le cose ci vanno bene, insieme con la compensazione di questa sofferenza animale nel riposo animale. Dobbiamo sentire mentre stiamo lavorando che verrà il momento in cui non dovremo lavorare. E il riposo stesso, quando giunge, deve essere abbastanza lungo da paterne godere, più lungo dello stretto necessario al recupero delle forze spese nel lavoro, e deve essere riposo animale anche nel senso che non dev’essere turbato da ansia, ché altrimenti non saremmo in grado di goderne. Se avremo questa quantità e qualità di riposo, non staremo, perciò stesso, peggio delle bestie.
C’è poi la speranza del prodotto. Dicevo che la natura ci costringe a lavorare in vista di questo. A noi spetta poi di riuscire a produrre davvero qualcosa piuttosto che nulla, o per lo meno nulla di ciò che desideriamo o possiamo usare. Se questo sarà il nostro scopo e impegneremo in esso la nostra volontà, saremo, perciò stesso, migliori delle macchine.
La speranza del piacere nel lavoro in sé: quanto deve sembrare strana questa speranza ad alcuni dei miei lettori, anzi alla maggior parte! E tuttavia ritengo che tutte le creature viventi traggano un qualche piacere dall’esercizio delle proprie energie e che perfino le bestie godano di essere agili e veloci e forti. Ma un uomo che lavora, che fa una cosa sapendo che essa esisterà perché lui la sta producendo e la vuole, esercita le energie della mente e dell’animo oltre a quelle del corpo. La memoria e l’immaginazione lo aiutano nel lavoro. Non solo i suoi pensieri, ma anche i pensieri degli uomini delle trascorse età guidano le sue mani, egli crea in quanto parte del genere umano. Se lavoreremo in questo modo saremo uomini e le nostre giornate saranno felici e ricche di eventi.
Un lavoro degno significa quindi speranza del piacere del riposo, speranza del piacere di usare il prodotto, speranza infine del piacere che trarremo dall’uso quotidiano delle nostre facoltà creative.
Ogni altro lavoro è privo d’ogni valore; è lavoro da schiavi, significa faticare per vivere e vivere per faticare.
Perciò, visto che abbiamo, per così dire, due misure con cui valutare il lavoro che si fa attualmente al mondo, usiamole. Esaminiamo il lavoro che facciamo dopo tante migliaia d’anni di fatica, dopo tante differite promesse di speranza, dopo l’illimitato esultare per il progresso della civiltà e la conquista della libertà. Ora la prima, più immediata osservazione da fare sul lavoro nelle società civilizzate, è che esso è distribuito in maniera molto ineguale tra le diverse classi sociali. In primo luogo c’è gente, e non poca, che non lavora e non fa nemmeno finta di lavorare. Poi c’è la gente, e molta, che lavora abbastanza duramente, anche se con molti vantaggi e periodi di riposo, richiesti e concessi; e infine la gente che lavora in modo talmente duro che si può dire che non faccia altro, e viene di conseguenza chiamata «classe dei lavoratori», per distinguerla dalla borghesia e dai ricchi, o aristocrazia, di cui parlavo sopra. È evidente che questa disuguaglianza grava pesantemente sulla classe dei «lavoratori» e tende, secondo ogni evidenza, a distruggere per lo meno ogni loro speranza di riposo, facendoli stare, per questo rispetto, peggio degli animali dei campi; ma la nostra follia di voler trasformare il lavoro utile in fatica inutile non finisce qui, anzi questo è solo il principio. In primo luogo consideriamo i ricchi che non fanno alcun lavoro: sappiamo tutti che consumano moltissimo senza produrre nulla. Ne consegue che debbono evidentemente essere mantenuti a spese di coloro che lavorano […]. La borghesia, che nella nostra società comprende i commercianti, gli industriali e i professionisti, di regola sembra lavorare parecchio e potrebbe quindi a prima vista apparire di aiuto e non di peso alla comunità. Ma la stragrande maggioranza di queste persone, per quanto lavori, non produce, e se producono – come nel caso di coloro che si occupano (e davvero senza alcuna utilità) della distribuzione delle merci, o i dottori, o i (veri) artisti e letterati – consuma in maniera sproporzionata rispetto a quello che gli spetterebbe. Gli industriali e i commercianti, la parte piu potente della borghesia, spendono tutte le loro energie e l’intera vita a lottare tra loro per impadronirsi delle rispettive porzioni di quella ricchezza che costringono i veri lavoratori a fornirgli; gli altri membri della borghesia ne sono quasi tutti clienti, non lavorano per la comunità ma per una classe privilegiata; sono i parassiti della proprietà, talvolta scopertamente, come nel caso degli avvocati; talaltra, come nel caso dei dottori e degli altri che abbiamo nominato sopra, con la pretesa di essere utili, anche se troppo spesso sono utili solo al sistema di follia, frode e tirannide di cui fanno parte. E tutti quanti, non dobbiamo dimenticarlo, hanno di regola un solo scopo, che non è la produzione di beni, ma la conquista di una sinecura, per sé o per i loro figli, che gli consenta di non lavorare affatto. L’ambizione e lo scopo di tutta la loro vita è di conquistare, se non per sé almeno per i figli, la nobile condizione di parassiti dichiarati della comunità. Quanto al loro lavoro, malgrado l’apparenza di dignità di cui lo circondano, non gliene importa niente, fatta eccezione per alcuni entusiasti, uomini di scienza, arti o lettere, che, se non sono il sale della terra, sono almeno (purtroppo) il sale del miserabile sistema cui sono asserviti e che continuamente li ostacola e intralcia e talvolta addirittura li corrompe. C’è poi un’altra classe, questa volta molto numerosa e onnipotente, che produce pochissimo e consuma in maniera enorme, e quindi – come i mendicanti – è in gran parte mantenuta dai reali produttori della ricchezza. La classe che ci rimane da prendere in esame produce tutto quanto viene prodotto e mantiene se stessa e le altre classi, nonostante sia posta in posizione di inferiorità rispetto a quelle; attenzione, inferiorità reale, un’inferiorità che comporta degradazione dell’animo e del corpo. Ma necessaria conseguenza di questa tirannide e follia è che, di nuovo, molti di questi lavoratori non sono produttori. Vasta parte di costoro sono una volta di più puri parassiti della proprietà, alcuni apertamente, come i soldati di terra e di mare che vengono mantenuti al fine di perpetuare le rivalità e inimicizie tra paesi diversi e garantire la porzione nazionale del prodotto di un lavoro non retribuito. Oltre a questo ovvio fardello che grava sulle spalle dei lavoratori e a quello quasi altrettanto ovvio della categoria dei domestici, c’è in primo luogo l’esercito degli impiegati, commessi e così via che lavorano al servizio della guerra privata per impadronirsi della ricchezza; guerra che, come dicevo sopra, è la vera occupazione della borghesia agiata. È un corpo di lavoratori più vasto di quanto non si pensi, perché comprende, tra gli altri, tutti coloro che sono impegnati in quello che chiamerei vendita concorrenziale, o, per usare un termine meno nobile, sbandieramento delle merci, un settore che ha assunto proporzioni tali che oggi in molti casi costa più vendere che produrre. C’è poi tutta la massa delle persone impiegate a produrre articoli lussuosi e stravaganti la cui domanda è legata all’esistenza delle classi ricche e improduttive, oggetti che chi conduce una vita degna e non corrotta non si sognerebbe neppure di volere. Sono cose che, mi contraddica chi vuole, mi rifiuterò sempre di chiamare ricchezza, non sono ricchezza, ma spreco.
Ricchezza è quello che la natura ci dà e che un uomo ragionevole può trarre dai doni della natura per il proprio ragionevole uso. La luce del sole, l’aria fresca, il volto intatto della terra, cibo, abiti e alloggio conformi a necessità e decenza; l’accumulazione di conoscenze e il potere di diffonderle; i mezzi atti a garantire la libera comunicazione tra uomo e uomo; le opere d’arte, e cioè la bellezza che l’uomo crea quando maggiormente è uomo, quando nutre le più alte aspirazioni e pensieri: tutte cose che possono procurare piacere a gente libera, degna e incorrotta. Questa è ricchezza.
Non riesco a immaginare nulla che meriti di essere posseduto, che non rientri nell’una o nell’altra di queste categorie. Ma pensate, vi prego, alla produzione dell’Inghilterra, l’«officina del mondo»[1] e rimarrete, come me, sbalorditi al pensiero della massa di cose che nessun uomo sano di mente potrebbe desiderare e che la nostra inutile fatica produce: produce e vende. C’è poi un’industria ancora più trista, cui sono costretti molti, moltissimi dei nostri lavoratori: la produzione delle merci necessarie a loro e alla loro prole, in quanto classe inferiore. Infatti, dato che molti uomini vivono senza produrre, anzi conducono vite così vuote e stolte da forzare una gran parte dei lavoratori a produrre merci di cui nessuno, neppure il ricco, ha bisogno, ne consegue che la maggior parte degli uomini è costretta alla miseria. Inoltre vivendo, come vivono, dei salari che ricevono da coloro che essi stessi mantengono, non possono procurarsi i beni che ogni uomo naturalmente desidera, ma debbono contentarsi dei miserabili surrogati espressamente destinati a loro: rozzo cibo che non nutre, stracci che non vestono, case talmente abiette da indurre l’abitante d’una città civile a rimpiangere la tenda della tribù nomade o la caverna del selvaggio preistorico. Ma non basta, i lavoratori debbono perfino contribuire a quella grandiosa invenzione dell’industria contemporanea che è l’adulterazione e per suo mezzo produrre per il proprio uso pretenziose e ridicole imitazioni del lusso dei ricchi; e questo accade perché i salariati debbono vivere come vuole il padrone, e finanche le abitudini di vita sono loro imposte da questo. Ma è una perdita di tempo cercare di esprimere a parole tutto il disprezzo che meritano i tanto lodati bassi costi di produzione della nostra epoca. Basti dire che essi son parte integrante del sistema di sfruttamento su cui è fondata la moderna industria manifatturiera. In altre parole la nostra società comprende una grande massa di schiavi che debbono essere nutriti, vestiti, alloggiati e divertiti da schiavi e cui il bisogno impone di produrre i beni da schiavi il cui uso perpetua la loro schiavitù. Per riassumere questo discorso sul lavoro nelle nazioni civilizzate, diremo che esse sono composte di tre classi: una classe che non fa nemmeno finta di lavorare, una classe che ostenta di lavorare ma non produce nulla, una classe che lavora ma è costretta dalle altre due a fare un lavoro spesso improduttivo. Di conseguenza la civiltà spreca le sue stesse risorse e lo farà fintanto che durerà questo sistema. Ma le parole non bastano a descrivere la tirannide che ci opprime: proviamo dunque a vedere cosa significano nei fatti. Al mondo c’è una certa quantità di materie prime e di energie naturali e una certa quantità di forza-lavoro negli uomini che lo abitano. Gli uomini, spinti dalle loro necessità e desideri, hanno lavorato per alcune migliaia di anni per domare le forze della natura e ridurre al proprio uso le materie prime. Questa lotta con la natura appare ai nostri occhi, che non possono vedere il futuro, prossima alla sua conclusione e la vittoria della razza umana sembra quasi completa. Se volgiamo gli occhi indietro ai tempi in cui la storia ha avuto inizio, vediamo che il ritmo di quella conquista s’è accelerato in modo sorprendente negli ultimi duecento anni. Ed allora noi che apparteniamo ai tempi moderni dovremmo stare sotto ogni rispetto molto meglio di tutti coloro che ci hanno preceduto. Tutti e ognuno di noi dovremmo essere agiati, ben forniti delle buone cose che abbiamo conquistato grazie alla nostra vittoria sulla natura. Ma qual è la realtà? Chi oserà negare che la grande maggioranza degli uomini civili è povera? Tanto povera che è addirittura puerile mettersi a discutere se per caso in qualche modo non stia un pochino meglio delle precedenti generazioni. Gli uomini civili sono poveri, e la loro povertà non può essere commisurata a quella di un selvaggio privo di risorse, perché questo non conosce nulla di diverso: avere freddo, fame, essere senza casa, sporco, ignorante, è per lui naturale come avere il corpo rivestito di pelle. Ma la civiltà ha alimentato in noi, nella maggior parte di noi, desideri che poi ci proibisce di soddisfare, per cui essa non è soltanto avara con noi, ma anche crudele. È così che siamo stati derubati del frutto della nostra vittoria sulla natura e il naturale impulso a lavorare nella speranza del riposo, del guadagno e del piacere s’è mutato in costrizione, impostaci da altri uomini, a lavorare nella speranza di che cosa? di vivere per lavorare.
Cosa possiamo fare allora? Possiamo trovare una soluzione? Ebbene, ricordatevi una volta di più che non sono stati i nostri remoti progenitori a conseguire la vittoria sulla natura, ma i nostri padri, anzi noi stessi. Sarebbe davvero una strana follia se ce ne restassimo inerti e senza speranza: siate certi che possiamo metterci riparo. Qual è allora la prima cosa da fare? Abbiamo visto che la società moderna è divisa in due classi, una delle quali ha il privilegio di farsi mantenere dal lavoro dell’altra. In altre parole costringe l’altra a lavorare a proprio beneficio e prende dalla classe inferiore tutto quello che può, usando la ricchezza cosi ottenuta per mantenere i propri membri in una posizione superiore, per farne i membri di un rango più elevato di gente che vive più a lungo, è più bella, più onorata, più raffinata degli altri. Io non dico che questa classe si preoccupi a che i suoi membri siano in assoluto più longevi, belli o raffinati, ma fa sì che tali siano in relazione alla classe inferiore. Alla stessa maniera, non potendo adeguatamente usare la forza-lavoro della classe inferiore per produrre ricchezza reale, ne spreca il potenziale nella produzione di cenciume. È questo furto e spreco esercitato da una minoranza che costringe la maggioranza alla povertà; se si potesse dimostrare che la società per la propria sopravvivenza deve sopportare tutto questo, non ci sarebbe molto da aggiungere, se non che la disperazione della maggioranza oppressa finirebbe prima o poi per distruggere la società stessa. Ma è stato al contrario dimostrato, sia pure in forme incomplete di sperimentazione, come, per esempio la (cosiddetta) cooperazione, che l’esistenza di una classe privilegiata non è in alcun modo necessaria per la produzione della ricchezza, ma lo è per il «governo» dei produttori delle ricchezze, o, in altre parole, per la conservazione del privilegio. Il primo passo da compiere è quindi quello di abolire una classe di uomini che gode del privilegio di sottrarsi ai propri umani doveri, costringendo così gli altri a fare il lavoro che essi si rifiutano di fare. Tutti debbono lavorare secondo le proprie capacità e produrre così quello che consumano, e cioè ogni uomo dovrebbe lavorare meglio che può per produrre il necessario al proprio fabbisogno, e quest’ultimo dovrebbe in cambio essergli garantito, dovrebbero cioè essergli garantiti tutti i vantaggi che la società può produrre per tutti e per ognuno dei suoi membri. Così prenderebbe finalmente vita una società vera, fondata sull’uguaglianza delle condizioni. Nessuno potrebbe essere torturato a beneficio di un altro, nessuno potrebbe essere torturato a beneficio della società. Né a buon diritto può chiamarsi società quella che non è intesa al beneficio di ognuno dei suoi membri. Ma se gli uomini vivono, per quanto male, adesso che tanta gente non produce affatto e tanto lavoro va sprecato, è evidente che, se tutti fossero tenuti a produrre e non ci fossero sprechi, non soltanto tutti lavorerebbero nella certezza di guadagnarsi con il lavoro la parte di ricchezza che gli è dovuta, ma anche la debita parte del riposo. Questi sono due aspetti della triplice speranza che indicavamo prima come qualità intrinseca d’un lavoro degno garantito al lavoratore. Quando il furto di classe sarà abolito, ognuno coglierà i frutti del proprio lavoro, ognuno avrà il dovuto riposo, e cioè l’agiatezza. Alcuni socialisti potrebbero dire che tanto basta: basta che il lavoratore ottenga il pieno frutto del suo lavoro e che possa riposarsi quanto vuole. Certo, la costrizione della tirannide umana sarebbe in tal modo abolita; ma persisto nel chiedere un indennizzo per la costrizione esercitata su di noi dalle necessità naturali. Fintanto che il lavoro sarà ripugnante, sarà un fardello di cui dovremo caricarci ogni giorno, e la nostra vita ne sarà comunque amareggiata, anche con un limitato orario di lavoro. Quello che vogliamo è l’accrescimento della nostra ricchezza senza diminuzione del nostro piacere. La natura non sarà definitivamente vinta fintanto che il nostro lavoro non diventerà parte del piacere di vivere. Questo primo passo, la liberazione dell’uomo dalla costrizione alla fatica inutile, ci consentirà se non altro di imboccare la strada del nostro lieto fine, perché avremo allora tempo e modo perché esso si avveri. Stando come stanno attualmente le cose, divise tra lo spreco di forza-lavoro nel puro ozio e il suo spreco nel lavoro improduttivo, è evidente che il mondo civile va avanti solo grazie a una piccola parte della sua popolazione; se tutti lavorassero in maniera utile in vista di ciò la parte di lavoro che ognuno dovrebbe fare sarebbe piccola, anche nel caso che il nostro livello di vita fosse all’incirca quello che gli agiati e i raffinati considerano desiderabile. Avremmo forza-lavoro d’avanzo e in breve saremmo ricchi quanto vogliamo. Facile sarebbe la vita. Se, nell’attuale sistema, ci dovessimo svegliare una di queste mattine e scoprire la «vita facile», il sistema ci costringerebbe a metterci subito al lavoro per rendere la vita difficile; lo chiameremmo «sviluppo delle nostre risorse» o gli daremmo qualche altro bel nome. La moltiplicazione del lavoro è diventata per noi una necessità e, fintanto che le cose vanno così, non ci sarà ingegnosa invenzione di macchine che possa esserci di reale vantaggio. Ogni nuova macchina porterà un po’ più di miseria tra i lavoratori nel cui particolare settore creerà problemi: molti saranno declassati a operai non specializzati, poi le cose rientreranno gradualmente nei loro naturali binari e tutti lavoreranno in maniera apparentemente normale; e, se non fosse che tutto questo sta preparando la rivoluzione, per la maggior parte degli uomini le cose resterebbero tali e quali erano prima della meravigliosa nuova invenzione. Ma, quando la rivoluzione avrà fatto «la vita facile», quando tutti lavoreranno armoniosamente insieme e non ci sarà più nessuno a rubare al lavoratore il suo tempo, cioè la sua vita, in quei giorni che verranno non saremo più costretti a continuare a produrre cose che non vogliamo o a faticare per nulla; saremo in grado di riflettere con calma e attenta considerazione che cosa fare della nostra ricchezza di forza-lavoro. Per parte mia ritengo che il primo uso che dovremmo fare di quella ricchezza, di quella libertà, dovrebbe essere di rendere tutto il nostro lavoro, anche il più comune e il più necessario, piacevole per chiunque perché riflettendo attentamente alla questione, mi rendo conto che l’unico modo di rendere la vita sicuramente felice, ad onta di tutti gli incidenti e guai che possano capitare, è un gioioso interesse a tutti i dettagli della vita stessa. E, a che ciò non vi sembri un’asserzione troppo scontata perché valga la pena di ripeterla, consentitemi di ricordarvi come la civiltà moderna renda la cosa completamente impossibile; di quali particolari sordidi e perfino terribili essa circondi la vita del povero; che vita meccanica e vuota imponga al ricco, e quanto sia raro per tutti un giorno di festa in cui ci sia dato sentirei parte della natura, in cui possiamo senza fretta, ma in raccoglimento e felicemente seguire il corso delle nostre vite nel quadro di tutti i piccoli legami degli accadimenti che le saldano alla vita degli altri e costituiscono la grande sfera dell’umanità. Eppure tutta la nostra vita potrebbe essere una simile festa, se fossimo decisi a rendere il nostro lavoro ragionevole e piacevole. Ma dobbiamo essere molto decisi, perché le mezze misure non ci potranno essere d’aiuto. Abbiamo già detto che il nostro lavoro privo di gioia, la nostra vita assillata da paure ed ansie come quella d’un animale braccato, ci son imposte dall’attuale sistema di produzione subordinata al profitto delle classi privilegiate. Cerchiamo di capire che cosa questo significa. Con l’attuale sistema di lavoro salariato e capitale l’industriale «manifatturiero» (dizione assurda quant’altre mai, visto che manifatturiero significa una persona che lavora con le mani), il quale possieda il monopolio dei mezzi atti a utilizzare ai fini della produzione la forza-lavoro insita nel corpo di ogni uomo, è padrone di coloro che non godono di questo privilegio; lui e lui soltanto può usare questa forza-lavoro, che d’altra parte è la sola merce che può rendere produttivo il suo «capitale», e cioè il prodotto accumulato di opera precedentemente prestata. Egli quindi compra la forza-lavoro di coloro che sono privi di capitale e che sono costretti a vendergliela per poter vivere; il suo fine in questa transazione è di accrescere il suo capitale, farlo fruttare. È evidente che, se pagasse a coloro con cui conclude il suo affare l’intero valore del loro lavoro, e cioè tutto quello che essi producono, non potrebbe raggiungere questo scopo. Ma, poiché egli detiene il monopolio dei mezzi di produzione, può costringerli a un affare più vantaggioso per lui e svantaggioso per loro: che cioè, una volta che i prestatori d’opera si sono guadagnati i mezzi di sussistenza, calcolati in una quantità sufficiente ad assicurare la loro pacifica sottomissione all’autorità del padrone, il resto (che è di gran lunga la maggior parte) di quanto producono apparterrà a quest’ultimo, sarà sua proprietà di cui potrà fare quello che vuole, usarne e abusarne a suo piacere; e questa proprietà è, come tutti sappiamo, gelosamente protetta da esercito e marina, polizia e prigioni, in breve, da quel grande spiegamento di forza fisica che la superstizione, l’abitudine, la paura della morte per fame, l’ignoranza, insomma, delle masse prive di proprietà consente alla classe padronale di usare per l’assoggettamento di quelli che sono già i suoi schiavi. Non mancherebbe materia per indicare altri mali generati dal sistema, ma quello che voglio sottolineare adesso è come sia impossibile per noi, finché esso vige, conquistarci un lavoro che ci possa piacere; così come voglio ripetere che è questa frode (non c’è altra parola per definirla) a sprecare la forza-lavoro disponibile nel mondo civile, costringendo molti uomini a non fare nulla e molti, moltissimi di più, a non fare nulla di utile, mentre coloro che fanno un lavoro veramente utile sono costretti a farlo in condizioni di schiacciante fatica. Ma sia chiaro una volta per tutte che l’industriale «manifatturiero» mira in primo luogo a produrre, per mezzo del lavoro rubato, non beni ma profitti, e cioè quella «ricchezza» che è spremuta dalla vita dei suoi operai e dal consumo e usura delle sue macchine. A lui non importa se quella «ricchezza» è vera o falsa. Finché gli consente di vendere e gli garantisce un profitto a lui sta bene. Ho detto che, a causa dell’esistenza di ricchi che hanno più denaro di quanto possano ragionevolmente spenderne e che di conseguenza comprano cianfrusaglie, abbiamo un ampio margine di spreco; e anche che, a causa dell’esistenza di poveri che non possono sostenere la spesa necessaria a comperare cose che valga la pena di fare, c’è, anche su questo fronte, spreco. Per questo la «domanda» cui il capitalista «risponde», è una falsa domanda. Il mercato è «truccato» dalle miserabili disuguaglianze prodotte dalla frode del sistema capitale-salario. È di questo sistema, dunque, che dobbiamo essere fermamente decisi a liberarci, se vogliamo raggiungere l’obiettivo di un lavoro felice e utile per tutti. Il primo passo per rendere il lavoro attraente è quello di impadronirci dei mezzi che possono renderlo fruttuoso: il capitale, compresa la terra, le macchine, le fabbriche, ecc., debbono passare nelle mani della comunità, per essere usate a beneficio di tutti nella stessa misura; potremo cosi lavorare tutti per « rispondere» alle reali « domande» di ognuno e di tutti: e cioè lavorare per vivere, invece di lavorare per rispondere al tipo di domanda del mercato del profitto, invece di lavorare per il profitto, che significa potere di costringere gli altri a lavorare contro la loro volontà. […] Ripeto che, a mio avviso, la prima cosa che dovremo considerare talmente necessaria da meritare che le dedichiamo un po’ del nostro tempo libero sarà il problema di rendere il lavoro piacevole. Non dovremo affrontare gravi sacrifici per raggiungere quest’obiettivo, ma alcuni dovremo farne. […] Dovremo cominciare a ricostruire ciò che rende bella la vita – i suoi piaceri, fisici e mentali, scientifici e artistici, sociali e individuali – sulla base di un lavoro fatto volentieri e con gioia, nella consapevolezza di produrre per esso il nostro beneficio e quello dei nostri simili. Il lavoro assolutamente necessario che ancora ci toccherà fare, in primo luogo non prenderà che una piccola parte della nostra giornata, e quindi non sarà pesante; ma, come compito quotidianamente ricorrente, ci rovinerebbe il piacere della giornata, a meno che non lo si rendesse a dir poco sopportabile nelle ore che bisognerà dedicargli. In altre parole ogni lavoro, anche il più comune, dovrà essere reso attraente. Come farlo? […] Da tutto quello che abbiamo detto risulta evidente che il lavoro, per essere piacevole, deve essere diretto a un fine ovviamente utile […]. La varietà del lavoro è il secondo punto, e un punto molto importante. Costringere un uomo ad eseguire giorno dopo giorno lo stesso compito, senza speranza di scampo o mutamento, equivale a trasformare la sua vita in una condanna al carcere. Solo lo schiacciante dominio del profitto impone una cosa del genere. […] Una delle cose che renderanno possibile questa varietà d’impiego sarà l’assetto educativo che una comunità socialmente ordinata saprà darsi. Attualmente l’educazione è tutta diretta al fine di condizionare la gente ad assumere il proprio posto nella gerarchia del profitto, alcuni come padroni, altri come lavoratori. L’educazione dei dirigenti è più raffinata di quella dei lavoratori, ma rimane a carattere commerciale e anche nelle vecchie università il sapere è tenuto in scarsa considerazione, a meno che non possa rendere in prospettiva.
Una vera educazione è qualcosa di radicalmente opposto, essa si propone di individuare le inclinazioni delle diverse persone, di aiutarle a compiere il cammino che sono portate a percorrere. In una società debitamente ordinata, perciò, parte dell’educazione dei giovani, della disciplina sia del loro corpo sia della loro mente, sarebbe l’apprendimento di quelle arti per le quali si sentono portati, e anche agli adulti verrebbe data la possibilità di studiare nelle stesse scuole, perché scopo primario dell’educazione sarebbe lo sviluppo delle capacità individuali, invece che, come attualmente accade, la subordinazione di tutte le capacità al supremo fine di «far soldi» per sé, oppure per il proprio padrone. La quantità di talento e perfino di genio, che l’attuale sistema schiaccia e che un sistema diverso invece valorizzerebbe, renderebbe il nostro lavoro quotidiano facile e divertente. […] Oltre alla breve durata del lavoro, la coscienza della sua utilità e la varietà che dovrebbero esserne altrettante caratteristiche, c’è un’altra cosa necessaria a renderlo attraente e cioè l’agio offerto dall’ambiente. […] Ché tutte le nostre affollate città e strabilianti fabbriche sono solo il risultato del sistema fondato sul profitto. L’industria capitalistica, il latifondo capitalistico, lo scambio capitalistico costringono l’uomo a vivere nelle grandi città per manipolarlo nell’interesse del capitale; la stessa tirannide contrae talmente lo spazio di una fabbrica da far diventare, per esempio, l’interno di un capannone tessile meschino quanto è orrendo. Non c’è alcuna necessità che ci costringa a questo, se non quella di spremere profitto dalle vite umane e di produrre merci scadenti per l’uso (e l’assoggettamento) degli schiavi così spremuti. […] Per quanto riguarda il lavoro che comporta l’impiego di manodopera su vasta scala, proprio l’attuale sistema delle fabbriche, nel quadro di un ragionevole ordine sociale e malgrado gli svantaggi che a mio avviso tuttavia ancora sussisterebbero, offrirebbe se non altro occasioni di una piena e vivace vita comunitaria allietata da molti piaceri. Le fabbriche potrebbero essere anche centri di attività intellettuale, e il lavoro vi potrebbe essere molto variato: stare alle macchine occuperebbe solo una breve parte della giornata lavorativa di ogni individuo. Il resto del lavoro varierebbe dalla coltura della campagna circostante per il cibo necessario, allo studio ed esercizio dell’arte e della scienza. È ovvio che uomini così impiegati e padroni della propria vita non si lascerebbero costringere da fretta e imprevidenza a tollerare il sudiciume, il disordine, o la mancanza di spazio. La scienza debitamente applicata li metterebbe in grado di liberarsi dei rifiuti, di ridurre al minimo, se non di far completamente scomparire, tutti gli inconvenienti che oggi comporta l’uso di macchine sofisticate, come il fumo, il puzzo e il rumore; né essi sopporterebbero che gli edifici nei quali dovessero lavorare o vivere fossero brutte macchie sul bel volto della terra. Cominciando con il rendere le loro fabbriche, edifici e rimesse, decenti e dignitosi come le loro abitazioni, essi tenderebbero inevitabilmente a farne qualcosa di buono non solo da un punto di vista negativo, a farli cioè non brutti, ma addirittura positivamente belli, onde la gloriosa arte dell’architettura, da tempo uccisa dall’avidità commerciale, tornerebbe in vita e fiorirebbe. Ecco, vedete: io sostengo che il lavoro in una comunità debitamente ordinata dovrebbe esser reso attraente dalla consapevolezza della sua utilità, dall’esser fatto con intelligente interesse, dalla varietà, e dall’amenità degli ambienti in cui si svolge. Ma ho anche detto, e su questo tutti sono d’accordo, che la giornata lavorativa non dovrebbe essere di lunghezza estenuante. […] Intanto e comunque la capacità di lavorare in modo accurato, con riflessione e ponderazione, dovrà certo essere compensata, ma non con l’obbligo di lavorare lunghe ore. La nostra epoca ha inventato macchine che sarebbero apparse folli sogni agli uomini delle passate età, e di queste macchine noi non abbiamo ancora fatto alcun uso. Di esse si dice che «risparmiano lavoro», un’espressione corrente che indica quello che ci si aspetta da loro ma che esse non ci dànno. Quello che in realtà queste macchine fanno è di ridurre il lavoratore qualificato al rango di non qualificato, di accrescere l’«esercito di riserva del lavoro», accrescere in altre parole la precarietà della vita dei lavoratori e insieme intensificare il lavoro di coloro che servono le macchine (come gli schiavi servono i loro padroni). Questo fanno le macchine, mentre intanto accumulano profitti per i datori di lavoro, o costringono questi ultimi a spendere i profitti stessi nell’aspra reciproca guerra commerciale. In una società degna di questo nome siffatti miracoli dell’ingegno sarebbero in primo luogo usati per ridurre al minimo il tempo speso in un lavoro privo di attrattive, che per loro mezzo potrebbe essere ridotto fino a diventare un assai lieve fardello per ogni individuo. Inoltre quelle macchine verrebbero certamente molto perfezionate, quando il problema non fosse più quello della convenienza individuale ma dell’utilità sociale. […] Inoltre, man mano che la gente […] scoprirà che cosa effettivamente desidera, non essendo più incalzata che dai propri bisogni, rifiuterà di produrre quelle cose assolutamente futili che oggi vengono chiamati oggetti di lusso, o il veleno e il cenciume attualmente detti merci a buon mercato. […] È quindi di pace che abbiamo bisogno per poter vivere e lavorare nella speranza e con gioia. Quella pace tanto desiderata, se si potesse credere alle parole degli uomini, ma che nei fatti è stata continuamente e sistematicamente rifiutata. Quanto a noi, volgiamo ad essa i nostri cuori e conquistiamola a qualunque costo. Chi può dire quale dovrà essere questo costo? Sarà possibile conquistare la pace in maniera pacifica? Ahimè, come? Siamo a tal punto circondati dal torto e dalla follia che, in un modo o nell’altro, dovremo sempre lottare contro di essi: le nostre stesse vite possono non bastare a vedere la fine della lotta, forse neppure una chiara speranza di fine. […] Ma in ogni caso e qualunque possa essere la natura della nostra lotta per la pace, se sapremo tendere con costanza e con unità d’intenti a quest’unico scopo e mantenerlo sempre vivo davanti a noi, un riflesso di quella futura pace illuminerà il tumulto e tormento delle nostre vite, sia che quel tormento possa sembrare di scarso momento o che sia apertamente drammatico; e, almeno nella speranza, vivremo da uomini: né il presente può darci ricompensa maggiore.
William Morris, Lavoro utile e inutile fatica, in Id., Come potremmo vivere, Introduzione di Lia Formigiari, Editori Riuniti, Roma, 1979, pp. 97-120.
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[1] La definizione dell’Inghilterra come workshop of the world fu creata a quanto pare dall’uomo politico conservatore Benjamin Disraeli, ed entrò subito nel lessico corrente, anche del partito whig, di cui anzi esprimeva bene le tesi di indefinito sviluppo dell’egemonia inglese sui mercati mondiali.
*** La libertà come urto qualitativo La libertà come desiderio La libertà come qualità del vivere
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Senza una adeguata formazione assiologica e culturale la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci
L’Occidente si fonda sul mito della libertà trasformatasi in una vera superstizione e dunque in dogma indiscutibile. La libertà è il principio sventolato in nome del quale sono possibili i bombardamenti etici come la competizione economica senza regole: la liberà è invocata, ma mai definita. Si usa la parola libertà, ma non la si conosce. In tal modo diviene un catalizzatore mitico, in cui convogliare forze, risorse e popoli da utilizzare per la conservazione e l’imperialismo economico. La “libertà ideologica” presuppone una linea divisoria nel mondo, lungo la quale scorre il filo spinato che designa il confine tra l’impero del bene ed il male assoluto. Il semplicismo mediaticamente organizzato consente la supina accettazione di ogni azione militare in nome della libertà. La propaganda a tamburo battente demonizza la controparte per impedire che si colgano complicità ed interessi lobbistici.
Vi è davvero politica soltanto se i cittadini definiscono il significato delle parole, le interrogano per verificare la coerenza tra la definizione e la realtà storica. Una società senza il “ti estì” (il che cos’è) è senza filosofia e senza politica. La definizione non solo astrae dall’immediato, ma traccia significati, discerne e dunque definisce e crea concetti. Senza giudizio non vi è pensiero, ma solo collettivismo, e nel nostro caso collettivismo consumistico. La libertà è lo shopping presso gli ipermercati, dove rivivere la tragedia della solitudine programmata.
È la fine della politica come categoria del dialogo tra alterità. Al suo posto regna la tracotanza del pensiero unico, che tollera senza capire e capirsi: è il regno della monade-capitale. Le nuove generazioni sono formate alle “libertà-libertinaggio”: ovvero promiscuità e consumo irrazionale sono le pratiche entro cui si connota la libertà.
La libertà – nel senso autentico del concetto – necessita della mediazione del pensiero; l’azione non dev’essere irriflessa, ma consapevole, responsabile e teleologicamente tesa alla verità. La libertà è il processo dialettico che procede verso la concettualizzazione, è operare l’epochè del mondo per pensarlo, ridefinirlo e significarlo. Il neoliberismo invece, diseduca alla libertà del pensiero per favorire le semplici pulsioni: è il regno animale dello spirito. Si pensi all’ultimo iphone che consente l’acquisto immediato col riflettere il viso nello specchio magico del mezzo: acquisti sempre più veloci, sempre meno pensati. È la logica del frattale del consumo, dall’individuo, alle comunità locali, allo Stato, alle comunità di Stati associati, è il ripetersi di logiche sempre uguali: liberi, ma solo di vendere e consumare. Se la borghesia tradizionale è ormai scomparsa con le sue regole e valori, bisogna, tuttavia, ammettere che tra la borghesia finanziaria anonima ed apolide attuale e l’alta borghesia di tradizione vi è comunque un asse che ancora le unisce, malgrado le faglie, ovvero entrambe credono e praticano il progresso dell’accumulo senza limiti. Marx ed Engels avevano tematizzato il mito dell’illimitato associandolo alla grande borghesia dell’Ottocento, che oggi è massimamente sviluppato nella borghesia della finanza:
«Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato una impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale».[1]
La fase imperiale del capitalismo divora la libertà, la quale è stata il vessillo da utilizzare contro le gerarchie feudali. Si assiste al rovesciamento delle logiche
La libertà come urto qualitativo La libertà è conoscenza di sé, è valore maieutico, poiché nella libertà la persona rinasce e si conosce per progettare la vita, per tracciare percorsi significanti, in cui ritrovarsi. La libertà è un valore vitale che avvolge ritmicamente la vita per emanciparla dalle forme di alienazione in cui cade. La libertà è la categoria della qualità con la quale la quantità è governata e finalizzata ai reali bisogni della vita. Alla qualità si giunge, mediante il processo dialettico. La dialettica di Fichte, con il suo lavoro quotidiano di autosuperamento, è il paradigma della libertà. La libertà è urto concettuale contro il non io, contro le rigidità superstiziosa del mondo, è prassi ed attività del pensiero:
«L’io è in tutto e per tutto attivo e puramente e semplicemente attivo, questo è il presupposto assoluto. Di qui deriva una passività del non io, in quanto esso deve determinare l’io come intelligenza; l’attività contrapposta a questa passività è posta nell’io assoluto, quale attività determinata, esattamente come quell’attività mediante cui il non io viene determinato».[2]
La Rivoluzione permanente in nome dei consumi è nel codice genetico dell’integralismo capitalistico. Ma, mentre in passato si poteva distinguere il borghese dal proletario, il proletario dal bracciante, si assiste all’omologazione totale, per cui tutti sono consumatori. L’integralismo dell’Occidente ha fondato la prima società omologata della storia dell’umanità, la differenza è data dal censo, ma tutti si ritrovano eguali sulla linea eterodiretta della post-democrazia consumistica. La violenza integralista deturpa le coscienze, le aliena al punto che anche dinanzi alla verità lapalissiana dei fatti, si risponde con l’esiziale “Non c’è alternativa”. Pertanto l’integralismo si accompagna con il dogmatismo religioso, con l’asservimento alle merci delle persone, non più esseri umani, ma automi pronti al consumo, all’edonismo di massa. Ogni voce critica è accusata di voler impedire la libertà. Quest’ultima è intesa solo come pratica concorrenziale distruttiva ed autodistruttiva. La libertà senza cultura del dono e curvata all’economicismo è sempre più simile alla lotta per la sopravvivenza, con l’effetto di fondare la libertà sulla devastazione:
«La normalizzazione dell’informale tende a distruggere i legami sociali infranazionali e infrastatali su cui si basa il suo dinamismo. Essa introduce in effetti i fermenti più distruttivi della modernità: l’egoismo, l’individualismo e la concorrenza selvaggia. Per ciò stesso, essa corrode la base sociale della creatività endogena: le reti neoclaniche di solidarietà e di clientela. Risulterebbe così compromessa proprio il successo delle speranze di cui è portatore l’informale di un passaggio alla postmodernità».[3]
Bisogna dialettizzare il presente per ricominciare a pensare che le categorie con cui rielaboriamo i dati non sono enti naturali, ipostasi, ma sono dedotte storicamente e pertanto modificabili.
La libertà come desiderio La libertà è desiderio senza rappresentazione. L’immaginario colonizzato produce desideri indotti, mentre la libertà, in quanto attività desiderante è relazione con cui il soggetto nell’urto conosce se stesso, per scoprire di sé profondità che solo successivamente può rappresentare e concettualizzare. L’attività è relazione, poiché solo la relazione duale è capace di far emergere in modo spontaneo la verità e l’individualità che si conosce nella comunione desiderante:
«Nel nostro mondo, in cui “il deserto sta crescendo” (Nietzsche) e “l’angoscia si diffonde”, specialmente a causa della “pianificazione di una felicità uguale per tutti” (Heidegger), l’esistenza dell’altro apre una breccia in un orizzonte da cui siamo oppressi come un’ombra plumbea o un crepuscolo in cui tutto diventa grigio. Tramite il desiderio risvegliato o rivitalizzato in noi, l’altro ci chiama a un al di là – per vivere e per pensare il “non-ancora”. L’altro ci consente di conservare nella nostra memoria, in tutto il nostro essere, lo spazio di un “non ancora” come speranza di un futuro. Il “non-ancora” non deve essere vissuto come un vuoto da riempire, ma come il mantenimento in noi di una disponibilità ad accogliere la verità, la bellezza, la gioia, si potrebbe dire la grazia. Ciò può salvarci da un’eventuale disperazione o melanconia che derivano dal nulla che possiamo aspettarci, un nulla che possiamo costruire diventare. Il desiderio sconvolge la nostra rappresentazione del mondo in cui sono abolite le differenze e ciò che esse possono mettere in discussione del modello che ci viene imposto. Il desiderio riemerge come la fonte che ha strutturato l’insieme del nostro universo, una fonte di cui esso non sicura e che rimane al di fuori del suo orizzonte. Il desiderio ci ricorda la natura non rappresentabile dell’origine: la nostra, quella dell’altro e del mondo. Ripristina il legame tra il dentro di noi e il fuori di noi. Ci riporta a un essere in presenza estraneo al cerchio della rappresentazione».[4]
La libertà come qualità del vivere L’integralismo dell’Occidente si connota per essere integralismo della passività rappresentata per attività. La trappola da cui congedarsi è l’illusione della libertà. All’integralismo della passività cinetica bisogna opporre l’attività desiderante senza la quale non vi è che il regime delle passioni tristi: il potere ci vuole tristi, estranei a noi stessi per poterci colonizzare. Senza il riconoscimento di tale verità non è possibile l’esodo dall’attivismo nichilistico. La libertà è pratica della qualità, per cui è necessario porre al centro il logos con il quale significare la quantità e porla nell’ordine razionale della comunità, ancora una volta i classici ci vengono incontro e ci donano verità su cui riflette e riprogettare il presente:
«Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili».[5]
La democrazia è il luogo politico dove imparare ad essere liberi. Senza una adeguata formazione assiologica e culturale la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci.
Salvatore Bravo
[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Ousia, pag. 14. [2] J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Bompiani, 2017, pag. 483. [3] S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, 2017, pag. 148. [4] L. Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essereumano, Bollati Boringhieri, 2019, pag. 71. [5] Epicuro, Lettera a Meneceo, Ousia, pag. 4
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